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di Michele Paris
Con una mossa a sorpresa, alcuni giorni orsono la Corte Suprema degli Stati Uniti ha deciso di intervenire nella disputa legale relativa alla discussa legge sull’immigrazione approvata l’anno scorso dallo stato dell’Arizona. Il parere del supremo tribunale USA su questa legge profondamente anti-democratica influirà non solo sulla campagna elettorale per le presidenziali del 2012 ma anche e soprattutto sull’interpretazione dei rapporti tra gli stati e il governo federale, con conseguenze potenzialmente rovinose per tutti i cittadini americani.
La famigerata legge adottata dall’assemblea statale dell’Arizona nell’aprile del 2010 (Arizona Senate Bill 1070) conteneva disposizioni gravemente lesive dei diritti civili ed era giunta nel pieno di un’ondata xenofoba alimentata da ambienti di estrema destra come i Tea Party, in quel momento al centro dell’attenzione di quasi tutti i principali media d’oltreoceano.
Tra i punti più controversi della legge c’era la facoltà assegnata alle forze di polizia locali di fermare chiunque fosse sospettato di essere un immigrato illegale per verificare la regolarità dei documenti in suo possesso. L’attenzione delle autorità avrebbe potuto essere rivolta verso qualsiasi individuo che avesse sollevato un “ragionevole dubbio” sul proprio status di immigrato irregolare, dando di fatto il via libera a perquisizioni e arresti arbitrari. Inoltre, la stessa legge trasformava in reato anche solo la ricerca d’impiego da parte di un immigrato senza documenti, così come la fornitura di assistenza e protezione agli irregolari.
La legislazione approvata in Arizona ha successivamente ispirato una serie di iniziative simili in altri stati - tutti amministrati dai repubblicani, come Alabama, Carolina del Sud, Georgia, Indiana e Utah - con le quali si cerca in tutti i modi di discriminare gli immigrati, escludendoli dall’accesso alla casa, al lavoro e all’educazione.
Contro la legge SB 1070 dell’Arizona, nel luglio dello scorso anno l’amministrazione Obama aveva intentato un’azione legale presso il circuito federale. La mossa della Casa Bianca non era dettata in realtà dalla natura anti-democratica del provvedimento, come dimostrano gli 1,2 milioni di lavoratori immigrati deportati in questi ultimi tre anni contro poco più di un milione e mezzo durante gli otto anni dell’amministrazione Bush. A motivare Obama è stato bensì il principio costituzionale per cui la facoltà di regolare le questioni relative all’immigrazione spetta esclusivamente all’autorità federale e non ai singoli stati.
Su queste basi, ad aprile di quest’anno, la Corte d’Appello federale per il Nono Circuito, con sede a San Francisco e giurisdizione sull’Arizona, ha così cancellato alcune delle più odiose disposizioni della legge in questione. Su questa sentenza la Corte Suprema ha però deciso ora di dare la propria opinione che, alla luce della composizione del tribunale e dei precedenti più recenti, con ogni probabilità determinerà il ripristino della legge dell’Arizona nella sua sostanziale integrità.
Significativamente, la decisione di rivedere il verdetto della Corte d’Appello federale è stata presa di propria iniziativa dalla Corte Suprema, contro il parere della stessa amministrazione Obama che chiedeva invece di lasciare inalterata la sentenza che ha bloccato la legge. La sola scelta di intervenire sulla questione sembra perciò prefigurare la posizione della maggioranza all’interno della Corte Suprema. Per questo, le reazioni della destra americana sono state a dir poco euforiche, a cominciare dalla governatrice dell’Arizona, Jan Brewer, che aveva firmato la legge nella primavera del 2010.
A far prevedere un esito favorevole ai sostenitori della legge anti-immigrazione è stata anche la decisione di ricusare se stessa presa da Elena Kagan. Quest’ultima, scelta per far parte della Corte Suprema l’anno scorso da Obama e di orientamento moderatamente progressista, prima della sua nomina aveva infatti lavorato per la Casa Bianca, ora coinvolta nel procedimento legale. Il venir meno del suo voto rende ancora più confortevole il margine del blocco conservatore all’interno della Corte.
Sulla questione dell’immigrazione, oltretutto, nel maggio scorso la Corte Suprema aveva già emesso un verdetto favorevole ad un’altra legge dello stato dell’Arizona, secondo la quale possono essere inflitte pesanti sanzioni a quelle aziende che danno impiego agli immigrati irregolari.
La decisione di intervenire sulla legge SB 1070 dell’Arizona conferma ancora una volta il netto spostamento a destra del tribunale costituzionale americano in questi anni e una chiara volontà di condizionare il dibattito politico nel paese promuovendo un’agenda di stampo reazionario. A conferma di ciò, solo nel corso di questo anno giudiziario, sono attese altre importanti decisioni da parte della Corte Suprema, alcune delle quali giungeranno nel vivo della campagna elettorale 2012.
I nove giudici si esprimeranno ad esempio su questioni che potrebbero avere conseguenze sul futuro del sistema sanitario e sull’assegnazione di una manciata di seggi al Congresso. Nel primo caso la Corte dovrà decidere la costituzionalità dell’obbligo di acquisto di una polizza assicurativa da parte di tutti gli americani, come previsto dalla riforma sanitaria di Obama. Nel secondo è da stabilire la legittimità di una mappa imposta da un tribunale federale del Texas che ha ridisegnato i confini di alcuni distretti elettorali in questo stato dopo che il Parlamento locale a maggioranza repubblicana aveva approvato un proprio piano sfavorevole ai candidati democratici.
È la decisione sulla legge dell’Arizona, tuttavia, che sembra avere le implicazioni più profonde, tali addirittura da incidere sull’assetto istituzionale americano. Secondo la costituzione USA, è il Congresso federale ad avere la facoltà esclusiva di “stabilire una legge uniforme sulla naturalizzazione”.
Un dettato questo che ha influito sui precedenti verdetti della Corte Suprema in materia d’immigrazione e che ha dunque tradizionalmente escluso per i singoli stati la possibilità di approvare proprie leggi in questo ambito. La decisione che si attende dalla Corte rischia invece di ribaltare completamente questo punto di vista, facendo sentire i propri effetti ben al di là della legge partorita dai repubblicani in Arizona.
Come hanno fatto notare alcuni commentatori, la disputa fra gli stati e il governo/congresso federale riporta alla mente i tentativi delle assemblee statali di bloccare l’applicazione della legislazione sui diritti civili degli anni Sessanta. Proprio queste e altre leggi progressiste adottate negli USA - riguardanti non solo la discriminazione razziale, ma anche questioni come il lavoro minorile, il salario minimo o, appunto, il rispetto dei diritti degli immigrati - potrebbero essere a rischio se la Corte Suprema dovesse fissare un nuovo principio che assegna maggiore autonomia decisionale ai singoli stati in questi campi.
Un’evoluzione pericolosa quella che si prospetta e che metterebbe ancor più a rischio diritti democratici fondamentali conquistati con grande fatica e di cui beneficiano non solo gli immigrati senza documenti, ma tutti i cittadini degli Stati Uniti d’America.
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di Michele Paris
In una intervista alla CBS il presidente Obama è tornato ad esprimersi con i toni populisti che sempre più stanno caratterizzando le sue più recenti uscite pubbliche. Nel programma “60 Minutes”, l’inquilino democratico della Casa Bianca ha anche riservato alcuni attacchi al Partito Repubblicano, responsabile, a suo dire, della mancata attuazione di politiche efficaci per risolvere la crisi economica in atto.
Da qualche tempo ormai lanciato nella campagna elettorale per la rielezione nel 2012, Obama ha criticato duramente l’intransigenza dei repubblicani, i quali continuano a non volere avviare una “discussione onesta” sulle scelte di politica economica che hanno provocato la recessione. Per Obama, l’atteggiamento ostruzionista del Partito Repubblicano - emerso in questi giorni attorno alla questione del prolungamento dei benefici fiscali per i lavoratori americani in scadenza a fine anno - sarebbe una strategia studiata a tavolino e adottata fin dal 2009 per infliggere il maggior danno possibile allo stesso presidente, costretto così a far fronte ad una situazione economica sempre più deteriorata.
Quando il giornalista della CBS Steve Kroft ha poi chiesto se durante la campagna elettorale del 2008 fossero state fatte troppe promesse, Obama ha sostenuto che il suo è sempre stato un progetto a lunga scadenza per il paese e che per cambiare la mentalità di Washington, dominata dagli “interessi speciali”, sarà necessario più di un mandato e, verosimilmente, anche più di un presidente.
A sfidare Barack Obama per la Casa Bianca nel novembre del 2012, a detta dei più recenti sondaggi, sarà uno tra l’ex governatore del Massachusetts Mitt Romney e l’ex speaker della Camera Newt Gingrich, in netta ascesa nel gradimento degli elettori repubblicani nelle ultime settimane. Secondo Obama, la vittoria nella corsa alla nomination repubblicana non cambierà di molto la sua strategia, dal momento che i principi sostenuti da Romney e da Gingrich sono sostanzialmente identici, mentre sarebbe ben diversa la visione proposta da Obama rispetto a entrambi.
A chi lo critica per la performance offerta finora alla guida del paese, inoltre, il presidente risponde con la consolidata tattica democratica del male minore. Di fronte allo sconforto di buona parte della base elettorale democratica per un partito che difende strenuamente gli interessi delle classi privilegiate, Obama esorta classe media e lavoratori a considerare l’alternativa ad un suo secondo mandato. Se dovesse cioè prevalere l’astensionismo o il voto di protesta indirizzato ai repubblicani, quello che attende gli americani sarebbero, ad esempio, ulteriori tagli alle tasse per i più ricchi e lo smantellamento della regolamentazione del settore privato, politiche entrambe che l’amministrazione Obama ha peraltro perseguito o promesso di perseguire in questi tre anni.
Nel corso dell’intervista rilasciata al network americano, Obama ha anche elencato i presunti successi ottenuti durante il suo primo mandato alla Casa Bianca, a cominciare dalle modeste misure di stimolo all’economia che avrebbero contribuito ad evitare una seconda Grande Depressione. I risultati snocciolati da Obama, in realtà, non rappresentano affatto cambiamenti che hanno alleviato le sofferenze degli strati più disagiati della popolazione o che hanno ristabilito il ruolo degli Stati Uniti di paladini della democrazia.
La riforma sanitaria, infatti, si è risolta in un’operazione totalmente a vantaggio del settore privato che porterà al contenimento dei costi e ad un vero e proprio razionamento dei servizi a disposizione per decine di milioni di americani. Allo stesso modo, la riforma del sistema finanziario permetterà sostanzialmente alle banche di Wall Street di operare come hanno fatto negli ultimi tre decenni. L’uccisione di Osama bin Laden, poi, è stata un’azione palesemente illegale dal punto di vista del diritto internazionale ed ha incrinato i rapporti degli USA con il Pakistan, alimentando ancor più le tensioni in Asia centrale. Il ritorno alla crescita economica negli Stati Uniti, infine, ha beneficiato quasi esclusivamente le élite economiche e finanziarie, le quali oltretutto hanno potuto contare anche sulla costante compressione dei livelli retributivi e dei diritti dei lavoratori.
L’intervista alla CBS di domenica è giunta pochi giorni dopo un discorso sullo stato dell’economia dello stesso Obama nella cittadina di Osawatomie, in Kansas, ampiamente apprezzato dalla stampa liberal. In questa apparizione pubblica in un stato solidamente repubblicano, il presidente, strizzando l’occhio al movimento di protesta Occupy Wall Street, si è atteggiato a difensore dell’uguaglianza sociale contro gli eccessi dei colossi dell’industria finanziaria.
l tentativo di Obama è chiaramente quello di canalizzare la rabbia diffusa nel paese verso la campagna per la sua rielezione, anche se appare tutt’altro che certo che la maggior parte degli elettori sia disposta a considerare sincera la nuova attitudine del presidente dopo tre anni di politiche rivolte alla difesa dei grandi interessi.
Le critiche di Obama verso Wall Street e un capitalismo selvaggio che ha prodotto enormi disuguaglianze nel paese e livelli povertà sempre crescenti sono dunque poco credibili. La sua amministrazione in questi tre anni ha fatto di tutto per salvare i profitti delle grandi banche e delle corporation americane colpite dalla crisi a scapito dei lavoratori e di quella classe media di cui ora Obama si fa paladino. Come se non bastasse, mentre il presidente sostiene pubblicamente di condividere le ragione del movimento Occupy Wall Street, la sua amministrazione e i colleghi democratici in tutto il paese hanno da tempo proceduto a reprimere le proteste diffusesi rapidamente da New York alle principali città americane.
Le stesse critiche rivolte ai repubblicani suonano false. Quelle iniziative che Obama minaccia saranno implementate in caso di vittoria repubblicana nel 2012, infatti, difficilmente potranno superare quelle messe in atto da un’amministrazione democratica che in questi anni ha già effettuato tagli devastanti alla spesa pubblica, aumentato le disuguaglianze sociali nel paese e ridotto ulteriormente i diritti democratici dei cittadini in nome della guerra al terrore.
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di Mario Braconi
Il nome della strada di Londra dove ha sede la Bank of Ideas (Banca delle Idee) è di buon auspicio: Sun Street, ovvero strada del sole. A prescindere da quale sia la vera origine di quel nome luminoso, esso fa pensare ad un nuovo inizio: esattamente un grande cambiamento quello in cui sperano gli uomini e le donne che hanno l’hanno fondata e la animano, ovvero le persone del collettivo “Occupy London Stock Exchange”. A metà novembre, gli attivisti del movimento anti-banche hanno occupato una palazzina di uffici nel quartiere londinese di Hackney, al momento non utilizzata.
Una mossa davvero azzeccata anche dal punto di vista della comunicazione: non solo infatti gli occupanti si sono assicurati un loro spazio da usare per dibattiti ed attività di resistenza varia, ma lo hanno fatto a spese di UBS, la banca svizzera proprietaria dell’edificio. Non appena gli attivisti hanno preso possesso dei locali, si sono preoccupati di metterli in sicurezza: infatti, secondo le leggi del Regno Unito (per le quali l’occupazione abusiva è questione da codice civile), se si riesce a dimostrare di aver effettivamente preso possesso dell’edificio occupato, ad esempio sostituendo o riparando eventuali vetri rotti, cambiando le serrature eccetera, risulterà molto più difficile per il proprietario buttare fuori lo (gli) squatter: in pratica, non potrà farlo se non dopo un procedimento in tribunale.
Jack Holburn, un sostenitore del movimento, spiega così le ragioni del contrappasso: “Così come le banche si riprendono le case dalle famiglie [in difficoltà che non riescono a stare dietro alle rate del mutuo, 9.000 solo nell’ultimo trimestre secondo Occupy] gli immobili non utilizzati di proprietà della banca sono stati oggetto di riappropriazione da parte del pubblico”. Non a caso, uno striscione fuori dagli uffici occupati recita “UBS: ci devi dei soldi”.
La domenica successiva all’occupazione gli uffici della banca hanno riaperto al pubblico sotto l’egida della neonata “Banca delle Idee”; nelle intenzioni degli animatori, dovrebbe essere un luogo deputato allo “scambio non monetario di idee al fine di dare un contributo alla risoluzione delle attuali pressanti questioni economiche, sociali ed ambientali.” Chiunque è il benvenuto alla banca delle idee, purché si attenga alla regola di astenersi da transazioni che comportino passaggio di denaro: “lo scambio”, infatti “riguarda idee o capacità, nessuno dovrà tirar fuori un quattrino per prendere parte alla attività della banca.”
Attività, giochi, dibattiti continuano alla Banca delle Idee, che è aperta al pubblico da mezzogiorno alle 11 di sera durante i giorni lavorativi e dalle 10 alle 23 nel fine settimana. Contemporaneamente, va avanti il procedimento legale intentato da UBS agli occupanti del suo edificio: era attesa per oggi una sentenza della corte di Hackney che avrebbe dovuto stabilire se la bella avventura della banca delle idee avrà o meno un futuro. Sembra però che la decisione sia slittata alla settimana prossima.
Nel frattempo, il movimento incassa la rumorosa solidarietà di alcune star più cool della musica “intellettuale” britannica. L’altro ieri sera, in un concerto cui sono state invitate un centinaio di persone oltre alla stampa, al piano terra della sede occupata dalla UBS per due ore in un DJ set condiviso Thom Yorke (voce e leader dei Radiohead, in un look molto radical-chic, capelli lunghi e barba fluente), 3D dei Massive Attack e Tim Goldworthy del collettivo UNKLE.
Gli organizzatori hanno fatto sapere che la performance è un modo con cui gli artisti hanno deciso di ringraziare gli uomini e le donne dell’eterogeneo movimento che si batte contro le ingiustizie e lo strapotere delle banche; la registrazione dell’evento sarà presto resa disponibile per il download digitale a pagamento secondo il principio stabilito anni fa dagli stessi Radiohead del “paga quello che vuoi”. Una forma di finanziamento della compagna di occupazione generale. Yorke aveva già dato la sua disponibilità a cantare per gli attivisti di Occupy Wall Street a New York, ma l’evento era stato cancellato a causa dell’eccessivo afflusso di persone, che rischiava di renderlo pericoloso.
Adam Fitzmaurice, uno degli organizzatori della serata, ha dichiarato alla stampa: “Abbiamo incontrato rappresentanti della Chiesa Anglicana, oggi le rockstar. Il movimento Occupy ha talmente tante culture al suo interno”. La speranza è questa eterogeneità non finisca per essere un limite.
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di Emanuela Pessina
BERLINO. Grande entusiasmo al congresso di partito dei socialdemocratici tedeschi (SPD), tenutosi a Berlino in questi giorni: due anni dopo le politiche del 2009, che avevano visto l’SPD con la percentuale di voti più bassa dal dopoguerra (23%), il partito sembra aver ritrovato sicurezza e identità. Oltre a riconfermare il segretario di partito Sigmar Gabriel e il consiglio direttivo, i socialdemocratici hanno posto le prime basi per le elezioni del 2013. Un unico dubbio rimane ancora da chiarire: l’SPD non ha rivelato chi sarà lo sfidante di Angela Merkel; un’ultima, fondamentale informazione per cui bisognerà aspettare ancora un po’.
A capo del partito è stato riconfermato Sigmar Gabriel, che ha ottenuto il 91.6% dei voti. Una percentuale di certo inferiore a quella con cui era stato eletto nel 2009, ma comunque soddisfacente: il segretario socialdemocratico ha infatti preso le redini dell’SPD dopo i disastrosi risultati delle elezioni del 2009, che hanno segnato una delle crisi più profonde nella storia del partito tedesco.
Proponendosi come “uomo nuovo”, Gabriel ha voluto rompere con la più recente linea politica dell’SPD, che aveva condotto il partito socialdemocratico alla “catastrofe”. Per il neo-segretario, l’SPD stava diventando un partito d’élite: con le sue riforme Gabriel ha tentato di ricostruire la politica dell’SPD “dal basso”, dando più voce ai circoli di partito locali. E ora, nonostante le molte critiche iniziali, arrivano i grassi numeri della riconferma di Gabriel, quasi a testimonianza della fiducia che i militanti hanno riposto in lui.
A essere giudicato positivamente è stato, in particolare, il discorso del segretario, che ha affrontato tutte le problematiche più attuali tra cui l’immancabile crisi economica. A fronte della grave situazione, Gabriel ha proposto un ridimensionamento del liberalismo: perché non si può fare a meno del liberalismo, ha ammesso il leader SPD, ma una sua riorganizzazione è comunque indispensabile. “Sufficientemente di sinistra” per l’ala più rossa del partito, i suoi argomenti sono stati giudicati “pragmatici” dalle correnti interne più conservative: a quanto pare, Gabriel è riuscito nell’incredibile compito di convincere tutti. Anche l’elezione del consiglio direttivo non ha presentato sorprese: riconfermati i membri già eletti due anni fa, nessuno ha ottenuto una percentuale di voti inferiore all’80%.
Ospite speciale del convegno, l'ex-Cancelliere socialdemocratico, il novantadueenne Helmut Schmidt, applaudito per sei minuti al termine del suo discorso: erano tredici anni che non metteva piede a un congresso di partito e il suo intervento potrebbe non essere del tutto casuale. Alla guida della Germania tra il 1974 e il 1982, Schmidt è stato uno dei leader che maggiormente ha contribuito alla costruzione della Comunità europea. La sua presenza ha voluto forse ricordare alla Germania l’importanza del progetto europeo, la “grande linea” della politica, in una sorta di critica intrinseca alla Cancelliera Angela Merkel e alla sua politica, da molti considerata “antieuropea”.
Si può dire, in conclusione, che il congresso di Berlino ha mostrato un SPD armonico e coeso: sicurezza di sé e unità sono forse gli ingredienti principali per la (ri-)costruzione pubblica di un’immagine di partito seria, e i socialdemocratici sembrano averlo capito. La posta in gioco sono le politiche del 2013 e, dopo la “catastrofe” del 2009, i socialdemocratici agiscono cautamente e non danno nulla per scontato, tantomeno i voti dei propri elettori.
Bisognerà tuttavia attendere un po' prima che l’SPD annunci il proprio candidato alla cancelleria: il partito ha deciso di attendere il prossimo gennaio, data delle elezioni regionali in Bassa Sassonia, prima di fare il nome dello sfidante di Frau Merkel. Oltre a Gabriel, da molti considerato il favorito, si parla dell'ex-ministro degli Esteri Frank Walter Steinmeier e dell'ex-ministro delle Finanze Peer Steinbrueck. I risultati delle regionali di quest’anno hanno sì segnalato una profonda crisi della Cancelliera e della sua coalizione, ma è anche vero che la situazione internazionale non è stata delle più favorevoli ai governi e altrove ha provocato cambiamenti molto più drastici, come in Italia o in Grecia. E i cittadini lo sanno: allo sfidante cancelliere non basteranno le belle parole, il carico è ingombrante e forse proprio per questa ragione l’SPD ha evitato di pronunciarsi chiaramente in merito.
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di Michele Paris
Un articolo pubblicato domenica scorsa dal New York Times ha rivelato come da qualche anno gli agenti dell’antidroga statunitense sotto copertura stiano partecipando attivamente alle operazioni di riciclaggio di decine di milioni di dollari provenienti dai traffici dei cartelli messicani. Gli agenti infiltrati della DEA (Drug Enforcement Administration) conducono cioè operazioni speciali in Messico, nelle quali gestiscono in prima persona il trasporto di enormi somme di denaro destinate ad essere ripulite nelle banche americane. L’indagine, firmata dalla reporter Ginger Thompson, si basa sulle dichiarazioni rilasciate in forma anonima da alcuni ex agenti, ed altri tuttora impiegati sul campo, dell’agenzia federale antidroga creata nel 1973 dal presidente Nixon.
Secondo il giornale newyorchese, questi agenti sotto copertura prendono in consegna in territorio messicano due o tre carichi di denaro a settimana. A volte, sono gli agenti messicani infiltrati a ricevere il denaro dai narcos. Quelli americani, poi, lo trasportano negli Stati Uniti su velivoli governativi, per poi depositarlo su conti corrente aperti dai cartelli o dagli stessi agenti. Da qui, i proventi del narcotraffico vengono successivamente trasferiti a società che forniscono beni e servizi ai cartelli. In altre occasioni, invece, gli agenti della DEA si fingono riciclatori ed entrano in contatto diretto con i rappresentanti dei cartelli, dai quali ricevono il denaro che viene allo stesso modo depositato nelle banche americane e in seguito trasferito nuovamente in Messico.
Alla domanda di quanto denaro sia stato finora trasportato in questo modo dal Messico agli Stati Uniti, un agente intervistato dal Times ha risposto soltanto “parecchio”. Solitamente, continua la fonte anonima, la DEA cerca di sequestrare gli stessi importi riciclati, in parte facendo pagare commissioni ai cartelli per i servizi forniti dai finti riciclatori e in parte arrestando i narcotrafficanti al momento degli scambi di denaro. In teoria, la DEA dovrebbe richiedere una speciale autorizzazione al Dipartimento di Giustizia, da cui dipende, prima di organizzare singole operazioni che prevedano importi da riciclare superiori ai dieci milioni di dollari, ma in pratica ciò avviene molto raramente.
Attualmente, sono in corso circa 50 operazioni di questo genere in tutto il mondo, autorizzate personalmente dal Ministro della Giustizia (Attorney General), Eric Holder. In Messico, esse erano state bandite fino a pochi anni fa, dopo le polemiche scoppiate a causa di un’operazione condotta oltre confine dagli agenti americani della dogana nel 1998 senza aver informato le autorità locali. Il ritorno a queste operazioni speciali è avvenuto in concomitanza con il maggiore coinvolgimento degli Stati Uniti nella guerra al narcotraffico nel vicino meridionale seguito all’elezione del presidente Felipe Calderón nel dicembre 2006.
Secondo la versione ufficiale, le operazioni di riciclaggio della DEA sarebbero indispensabili per comprendere le modalità con cui i cartelli trasferiscono negli USA i proventi del narcotraffico per essere riciclati, ma anche per individuare dove essi collocano il loro denaro e per risalire ai vertici dei cartelli stessi. Senza queste rischiose operazioni, inoltre, sarebbe molto difficile trovare le prove che collegano il denaro riciclato ai cartelli, i quali hanno da tempo creato reti finanziarie complesse che sarebbe impensabile poter penetrate con i tradizionali strumenti di indagine.
Queste operazioni, tuttavia, sollevano quanto meno molte perplessità, dal momento che, oltre a compromettere la sovranità messicana, di fatto facilitano i traffici illegali delle già potenti organizzazioni criminali. Oltretutto, i risultati ottenuti dai governi di Washington e di Città del Messico appaiono trascurabili e sembrano non incidere minimamente sulla situazione generale.
Come ha commentato un altro ex agente DEA al Times, se si contribuisce “a riciclare denaro, è opportuno mostrare dei risultati. Altrimenti, la DEA finisce per diventare il maggiore riciclatore nel business della droga e il denaro va a finanziare violenze e assassini”. I risultati, al contrario, sono tutt’altro che convincenti. Nel 2010 la DEA ha confiscato circa un miliardo di dollari - 26 milioni il governo messicano - vale a dire una frazione minima del flusso di denaro che si muove tra Stati Uniti e Messico, stimato annualmente tra i 18 e i 39 miliardi di dollari. Questi stessi dubbi cominciano ad averli ora anche i parlamentari americani, tanto che già lunedì alcuni membri repubblicani del Congresso hanno manifestato l’intenzione di aprire un’indagine su queste operazioni sotto copertura.
Le polemiche sollevate dai repubblicani hanno in ogni caso una connotazione politica e intendono colpire l’amministrazione democratica del presidente Obama. Tanto più che il reportage del Times si aggiunge ad un altro scandalo dai contorni simili e che riguarda il traffico di armi. Una commissione della Camera dei Rappresentanti sta infatti indagando sulla cosiddetta operazione “Fast and Furious”, condotta tra il 2009 e il 2010 dagli agenti dell’ATF (Bureau of Alcohol, Tabacco, Firearms and Explosives), i quali hanno facilitato l’acquisto e il contrabbando di armi dagli USA al Messico nel tentativo di seguirne le tracce e giungere ai piani alti dei cartelli del narcotraffico. L’operazione è però decisamente sfuggita di mano ai federali, come dimostra il recente ritrovamento di centinaia di queste stesse armi sulle scene di crimini efferati commessi da entrambe le parti del confine e in uno dei quali è rimasto ucciso un agente di frontiera americano.
Rivelazioni come quella di domenica scorsa del New York Times, assieme all’esplosione dello scandalo “Fast and Furious”, ripropongono in maniera inquietante la questione dell’ambiguità del governo americano nella lotta al narcotraffico.
Non solo l’attività dei cartelli della droga contribuisce a far lievitare i profitti dei fabbricanti di armi in America - la cui profonda influenza sulla politica di Washington è inutile ricordare - e delle grandi istituzioni finanziarie, che notoriamente riciclano il denaro dei narcos, anche al di fuori delle operazioni sotto copertura delle agenzie federali. La minaccia perenne dei narcotrafficanti serve anche e soprattutto a giustificare la militarizzazione di molti paesi latinoamericani, così da garantire la continua presenza degli Stati Uniti sull’intero continente. Una necessità, quest’ultima, diventata ancora più pressante negli ultimi anni, alla luce delle minacce all’egemonia americana provenienti da governi come quelli di Hugo Chavez in Venezuela o di Evo Morales in Bolivia.
Una politica quella degli Stati Uniti che continua ad imporre un prezzo carissimo alle popolazioni locali, come dimostrano gli effetti di cinque anni di guerra al narcotraffico in Messico. L’impiego dei militari deciso da Calderón per combattere lo strapotere dei cartelli ha infatti portato ben pochi benefici ad un paese che dal 2006 ad oggi conta qualcosa come 50 mila morti ed una serie infinita di abusi commessi dalle proprie forze di sicurezza.