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di Michele Paris
Il tradizionale supermartedì negli Stati Uniti ha registrato l’altro giorno un’affermazione complessivamente positiva nelle primarie repubblicane per il favorito, Mitt Romney, anche se il suo immediato rivale, Rick Santorum, è stato in grado di conquistare alcune significative vittorie che gli permetteranno di rimanere in corsa nelle prossime settimane. Il miliardario mormone, in particolare, è riuscito a prevalere, sia pure di misura, nello stato più importante tra quelli chiamati a votare martedì - l’Ohio - ribaltando i sondaggi della vigilia che sembravano dare invece un certo vantaggio a Santorum.
Nel supermartedì repubblicano hanno votato gli elettori di dieci stati, dove erano complessivamente in palio più di 400 delegati, vale a dire circa il 20 per cento del totale da assegnare e il 40 per cento di quelli necessari ad ottenere la nomination del partito. Dopo le vittorie messe a segno nell’ultima settimana in Michigan, in Arizona e nello stato di Washington, Romney ha potuto così allungare il passo su Santorum e sugli altri sfidanti interni, ma non evitare il prolungarsi di una competizione che il suo staff sperava di poter archiviare entro i primi di marzo. Addirittura, la netta affermazione martedì di New Gingrich nel suo stato, la Georgia, manterrà per il momento in corsa anche l’ex speaker della Camera, dividendo il voto dell’ala conservatrice del partito a tutto vantaggio di Romney.
Oltre all’Ohio (66 delegati in palio), Romney ha vinto in Virginia (49), dove Santorum e Gingrich non avevano raccolto abbastanza firme per apparire sulle schede, in Massachusetts (41), dove è stato governatore tra il 2003 e il 2007, in Vermont (17) e nei caucus di Alaska (27) e Idaho (32), stato quest’ultimo con una folta presenza di mormoni. Santorum ha prevalso invece in Tennessee (58) e in Oklahoma (43), nei quali ha inciso la componente di elettori evangelici vicini alle posizioni reazionarie dell’ex senatore della Pennsylvania, così come nei caucus del North Dakota (28). Per Gingrich, come già ricordato, è arrivata la sola vittoria della Georgia, lo stato che martedì assegnava il maggior numero di delegati (76).
In Ohio l’esito delle primarie è stato in bilico a lungo, fino a quando all’alba di mercoledì la Associated Press ha assegnato il primo posto a Mitt Romney con un margine di poco più di 12 mila voti e un punto percentuale (38% a 37%) su Rick Santorum.
Questo stato, perennemente in bilico tra democratici e repubblicani (“swing state”), è considerato fondamentale per la conquista della Casa Bianca a novembre e perciò i due candidati repubblicani hanno investito parecchie risorse per cercare di prevalere. Romney è riuscito a rimediare allo svantaggio che i sondaggi gli attribuivano nei confronti di Santorum spendendo ancora una volta massicciamente in messaggi elettorali negativi contro il suo avversario.
Ciononostante, alla fine è arrivata per lui una vittoria stentata che ha confermato i dubbi di molti all’interno del partito nei confronti della sua candidatura, non solo tra l’estrema destra ma anche tra quelle sezioni della working-class bianca che vota repubblicano e che rappresenta una parte relativamente consistente dell’elettorato del Midwest. Questa fetta di elettori era stata corteggiata a lungo nelle ultime settimane dai due candidati e, in Ohio, sembrava orientata verso il messaggio populista di Santorum. Oltre alle minori disponibilità finanziarie rispetto a Romney, in Ohio Santorum ha pagato anche l’assenza del suo nome sulle schede in tre distretti elettorali a causa di problemi burocratici.
Dopo il voto di martedì, Romney ha accumulato un discreto margine di vantaggio in termini di delegati. Secondo le stime parziali di mercoledì della Associated Press, l’ex governatore del Massachusetts avrebbe finora messo assieme 415 delegati contro i 176 di Santorum, i 105 di Gingrich e i 47 di Ron Paul. Per assicurarsi la nomination sono necessari almeno 1.144 delegati.
Se Romney sembra dunque aver superato, sia pure a fatica, la prova del Midwest con le vittorie di Michigan e Ohio, all’orizzonte c’è ora un altro test complicato con una serie di stati nel sud degli Stati Uniti, teoricamente favorevoli a candidati più conservatori some Santorum o Gingrich. Sabato prossimo sono previsti i caucus del Kansas (40 delegati in palio) e martedì le primarie di Alabama (50) e Mississippi (40).
Se la sfida per la nomination repubblica appare sempre più una questione tra Romney e Santorum, Ron Paul e New Gingrich per il momento non intendono lasciare. Per il deputato libertario del Texas da tempo non esiste alcuna chance di nomination, ma i suoi sostenitori sono tra i più agguerriti ed organizzati. Nel supermartedì, Paul ha come al solito ottenuto buoni risultati negli stati che prevedevano caucus (secondo in Idaho e North Dakota, terzo in Alaska) e il 40% dei consensi in Virginia, dove però l’unico avversario era Romney.
Per Gingrich, invece, quello in Georgia è stato il secondo successo della stagione dopo che aveva prevalso in Carolina del Sud a gennaio. Considerato la prima alternativa a Romney fino a qualche settimana fa, la stella di Gingrich si è tuttavia rapidamente offuscata, lasciando spazio al ritorno di Rick Santorum. La sua permanenza nella competizione dipendeva esclusivamente da una vittoria convincente nel suo stato, grazie alla quale - e ad una nuova infusione di denaro da parte del suo principale finanziatore, il magnate dei casinò Sheldon Adelson - proverà ora a giocarsi le residue carte a disposizione nel sud degli Stati Uniti.
Come già accaduto nei primi due mesi dell’anno, anche nei giorni precedenti il supermartedì la campagna elettorale per le primarie repubblicane è stata caratterizzata dai consueti scambi di critiche e accuse tra i vari candidati. Questi ultimi hanno fatto a gara nel posizionarsi il più a destra possibile sui temi sociali, economici e - a parte Ron Paul - della politica estera. In particolare, Romney, Gingrich e Santorum, in concomitanza con la convention annuale della lobby sionista AIPAC e della visita a Washington del premier israeliano Netanyahu, hanno attaccato il presidente Obama sulla questione del nucleare iraniano, minacciando un intervento militare contro Teheran in caso di elezione alla Casa Bianca.
Romney, inoltre, ha continuato a promuovere la sua immagine di imprenditore vincente grazie alla passata esperienza nel “private equity” che lo renderebbe il candidato più adatto a risollevare l’economia americana.
Santorum, da parte sua, facendo leva sulle sue umili origini da una famiglia cattolica della Pennsylvania, si è presentato soprattutto in Ohio come il difensore dei lavoratori e delle classi più disagiate, nonostante abbia messo assieme una fortuna come lobbista per svariate corporation dopo aver perso la rielezione al Senato nel 2006. Assieme alle vittorie dell’ultima settimana di Romney, in ogni caso, sono giunti segnali inequivocabili da parte dell’establishment repubblicano per serrare i ranghi attorno al favorito.
Nei vertici del partito sono d’altra parte diffusi i timori per il protrarsi di una campagna lacerante e, soprattutto, per un’eventuale nomination di Santorum che con ogni probabilità allontanerebbe una buona parte dell’elettorato in vista di novembre a causa delle sue posizioni troppo estreme sui temi sociali. Un fondamentalismo quello di Santorum che, in Ohio come in Michigan, ha addirittura spinto la maggioranza dei cattolici a preferire il mormone Romney.
Quest’ultimo ha potuto così incassare l’appoggio ufficiale di alcune importanti personalità del Partito Repubblicano, come il leader di maggioranza alla Camera, Eric Cantor, il senatore dall’Oklahoma, Tom Coburn, e l’ex ministro della Giustizia di George W. Bush, John Ashcroft. Il vantaggio principale di Romney rimane però la quantità di denaro - oltre 100 milioni di dollari - tuttora a disposizione della sua campagna elettorale e della SuperPAC che lo sostiene. Il “front-runner” repubblicano, vanta anche una fortuna personale stimata in qualcosa come 250 milioni di dollari alla quale in caso di necessità potrebbe attingere, come fece durante le primarie del 2008.
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di Rosa Ana De Santis
E’ prevista per fine mese la sentenza sulla diatriba legale che da tempo il colosso farmaceutico Novartis porta avanti contro il governo indiano sulla questione dei brevetti e dei farmaci generici equivalenti, venduti a basso costo. Medici Senza Frontiere torna a ricordare che questa formula è l’unica che permette a tantissimi paesi in via di sviluppo di evitare autentici flagelli umanitari e invita la multinazionale ad abbandonare la causa.
Novartis si difende rivendicando il solo riconoscimento della proprietà intellettuale, ma è semplice dedurne una serie di conseguenze per milioni di persone e dei loro paesi ch a questo punto dovranno adempiere a ben altri oneri economici di quelli finora corrisposti all’India, considerata un po’ come la farmacia del Sud del mondo.
La politica che il governo indiano persegue sul tema del brevetto è molto attenta al valore della salute pubblica e, ad esempio, non riconosce la concessione di nuovi brevetti (e quindi nuove occasioni di affari) per semplici cambiamenti di medicinali già presenti sul mercato.
Cancro, tubercolosi, HIV, sono le malattie contro cui si combattono nei paesi in via di sviluppo le battaglie più difficili. Prima della Novartis era stata la Bayer a battersi legalmente per impedire l’introduzione sul mercato della versione generica di un proprio farmaco antitumorale. La richiesta del colosso tedesco non passò e le cure furono assicurate a milioni di pazienti poveri.
La situazione sanitaria dei paesi in via di sviluppo non è soltanto legata all’accesso ai farmaci, ma anche al know - how delle professioni sanitarie, alle infrastrutture cui ci si rivolge, al livello - spesso inesistente - della prevenzione che rimanda anche a specificità culturali e del territorio su cui intervenire non è affatto semplice.
La campagna per l’accesso ai farmaci essenziali impegna da moltissimi anni Medici Senza Frontiere e vede coinvolti numerosi organismi che operano nel settore. I cosiddetti generici nascono da principi attivi mai o non più coperti da brevetto con processo di produzione e prodotto finale copiati da ditte farmaceutiche debitamente attrezzate, mentre i brevetti sono quasi tutti in mano alle aziende farmaceutiche occidentali.
Il braccio di ferro con cui le multinazionali hanno provato a ricattare il Sud del Mondo ha raccolto clamorose sconfitte legali, come nel 2001 al Processo di Pretoria in Sudafrica e con la Dichiarazione di Doha, con la quale è stata ribadita la priorità del diritto di cura sul business. E’ del resto il principio che sovraintende qualsiasi sistema pubblico sanitario in cui le cure essenziali vengono garantite come diritto e non come prestazioni commerciali.
Altrettanto vani tutti i tentativi di intromettersi nella politica dei prezzi dei generici con l’evidente indifferenza a cosa sarebbe accaduto ai milioni di persone ammalate nei paesi poveri. Se infatti i brevetti sono appannaggio di pochi, se le capacità economiche sono tutte dell’Occidente, è evidente che ai paesi in via di sviluppo non rimangono che due possibilità: fare in casa o quasi i farmaci con una politica dei prezzi sostenibili oppure, evidentemente, lasciar morire le persone per mancanza di capacità economica.
Pur con i generici la situazione dei paesi poveri è tutt’altro che risolta. Le pressioni politiche, le difficoltà di approvvigionamento e la corruzione di molti governi in combutta con gli affari del nord del mondo, sono tali per cui la penuria di farmaci taglia comunque fuori interi paesi o aree di essi. Ed è li che solo lo sforzo delle organizzazioni umanitarie riesce, faticosamente, a strappare migliaia di persone dalla condanna a morte.
Peraltro, ad inquinare il dibattito internazionale, si aggiunge un problema emergente nei paesi in via di sviluppo: quello dei farmaci contraffatti. La questione viene spesso e ad arte confusa con la questione dei farmaci generici che nulla invece hanno a che vedere con le medicine falsificate, ovvero sotto dosate, che producono fallimenti terapeutici, pericolose resistenze o tossicità vere e proprie.
Il dogma dei brevetti, anche sui famosi test genetici sempre più diffusi in Occidente, sta alimentando sempre di più riflessioni di ordine morale non soltanto sulla politica economica che ne consegue, ma anche sulla correttezza concettuale di ammettere la brevettabilità del genoma umano al pari di un prodotto commerciale o di laboratorio. L’etica, lo vogliano o no i colossi del farmaco, non può prescindere dal mercato dei loro prodotti proprio per la natura degli stessi. Non sono capi d’abbigliamento, non sono scarpe, ma beni fondamentali per la vita.
E nel caso dei paesi poveri bisogna riconoscere, senza falso stupore, che il comportamento delle multinazionali dei farmaci è coerente con quello di tutte le altre imprese occidentali. Dalle coltivazioni transgeniche, allo sfruttamento della manodopera, all’imposizione del latte in polvere la storia di un nuovo colonialismo efferato, apparentemente non violento, è presto documentato. Ma non c’è dubbio che la cura negata ad una persona malata e povera, sia molto di più che il volto cinico degli affari. Piuttosto l’immagine migliore del male.
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di Michele Paris
L’atteso vertice di lunedì alla Casa Bianca tra il presidente Obama e il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, è stato monopolizzato dalla questione iraniana e dalla ricerca di una strategia di aggressione comune nei confronti di Teheran. L’incontro di tre ore, tra cui un faccia a faccia di mezz’ora tra i soli due leader, è giunto il giorno dopo l’apparizione di Obama alla convention annuale dell’AIPAC (America Israel Public Affairs Committee), la principale lobby filo-israeliana negli Stati Uniti, che è stata l’occasione non solo per anticipare i temi del summit con Netanyahu ma anche per ribadire il pressoché totale allineamento di Washington con Tel Aviv.
In un clima cordiale ma caratterizzato dalla consueta freddezza dei rapporti tra i due leader, il presidente americano ha sostanzialmente invitato il premier israeliano ad attendere che la diplomazia e le pesanti sanzioni applicate all’Iran negli ultimi mesi facciano il loro effetto prima di ricorrere all’opzione militare. Da parte sua, Netanyahu ha da un lato confermato la sfiducia nei confronti delle sanzioni e della diplomazia per risolvere la questione del nucleare iraniano e dall’altro ha espresso irritazione per le dichiarazioni fatte nelle ultime settimane dai vertici militari e dell’intelligence USA volte a mettere in guardia dai pericoli di un attacco preventivo contro la Repubblica Islamica.
Alla vigilia del vertice, i giornali americani avevano previsto che Netanyahu avrebbe chiesto a Obama di stabilire una serie di punti fermi che Teheran non dovrebbe oltrepassare per non incorrere in un’aggressione militare. I paletti richiesti sembra invece non siano stati fissati in maniera ufficiale dalla Casa Bianca, così come Netanyahu non ha incassato la promessa americana di intervenire militarmente prima che l’Iran sia in grado di acquisire la capacità di costruire un ordigno nucleare.
Se pure alcune divergenze di natura tattica tra USA e Israele rimangono irrisolte, Obama e Netanyahu hanno riaffermato la sostanziale sintonia tra i loro governi, rafforzata dal coordinamento tra i rispettivi vertici militari e dell’intelligence. Si sono inoltre accordati per cercare di abbassare i toni e le minacce verso l’Iran, così da evitare che ogni uscita pubblica si traduca in una nuova impennata del prezzo del greggio. Netanyahu, tuttavia, ha tenuto a sottolineare come Tel Aviv continui a tenere aperta la strada di un attacco unilaterale anche senza il via libera di Washington, poiché, come ha confermato successivamente all’AIPAC il primo ministro israeliano, sulle questioni che riguardano la propria sicurezza, “Israele ha il diritto di decidere autonomamente”.
Le dichiarazioni relativamente blande seguite al meeting della Casa Bianca contrastano in maniera evidente con quelle a tratti ben più accese fatte da una serie di politici americani - tra cui Obama - di fronte alla stessa convention dell’AIPAC. Al raduno dell’influente lobby, che detta praticamente la politica del Congresso statunitense sulle questioni mediorientali, si è assistito ad un avvilente spettacolo nel quale i vari ospiti, a pochi mesi dalle elezioni, hanno fatto a gara nel mostrare tutto il loro servilismo verso Israele.
Ai membri dell’AIPAC, domenica scorsa Obama ha così annunciato la ferma intenzione del suo governo di impedire all’Iran di diventare una potenza nucleare e, per raggiungere questo scopo, “ogni opzione rimane sul tavolo”, compresa quella militare, se necessaria. Martedì, poi, il Segretario alla Difesa, Leon Panetta, ha dichiarato che gli USA continueranno ad assicurare, “con qualsiasi supporto necessario”, la superiorità militare di Israele sui suoi avversari. Il leader dei repubblicani al Senato, Mitch McConnell, ha invece criticato la posizione di Obama sull’Iran, a suo dire troppo poco incisiva, mentre l’ex candidato alla vice-presidenza con Al Gore nel 2000, il senatore Joe Lieberman, ha ancora una volta confermato come il Congresso USA sia pronto ad assecondare completamente le richieste del governo israeliano.
Una delle differenze nell’approccio all’Iran tra USA e Israele era emersa dalle dichiarazioni di Netanyahu prima del summit con Obama durante una visita in Canada. Il premier conservatore ha affermato che la comunità internazionale dovrebbe porre delle chiare condizioni prima di iniziare qualsiasi negoziato con Teheran, tra cui lo smantellamento dell’installazione nucleare sotterranea di Fordow e lo stop all’arricchimento dell’uranio. Simili condizioni verrebbero poste precisamente per ottenere un rifiuto dall’Iran, come riconosce anche la Casa Bianca, e giustificare quindi un’aggressione militare.
Inoltre, come ha sostenuto Obama in un’intervista rilasciata settimana scorsa al magazine The Atlantic, gli Stati Uniti sono per il momento più cauti circa un intervento militare in quanto ritengono non solo che l’Iran non disponga ancora di armi nucleari, ma che la leadership di Teheran, in base ai risultati delle valutazioni dell’intelligence americana del 2007 e del 2010, non abbia nemmeno preso alcuna decisione in questo senso. A ciò va aggiunto, anche se ufficialmente ignorato dal governo americano, il discorso della settimana scorsa della guida suprema della Repubblica Islamica, l’ayatollah Seyyed Ali Khamenei, il quale ha nuovamente escluso categoricamente che il suo paese sia interessato a sviluppare un programma nucleare a scopi militari.
Le parole di Netanyahu e svariate altre dichiarazioni provenienti negli ultimi giorni dagli ambienti filo-israeliani intendono in ogni caso fare pressioni sull’amministrazione Obama per dare l’OK ad un intervento militare preventivo contro la Repubblica Islamica nei prossimi mesi. Israele, in particolare, al di là della retorica, non sembra avere le capacità per infliggere danni permanenti al programma nucleare iraniano e deve perciò contare sull’appoggio militare statunitense.
L’intenzione di Israele è d’altra parte quella di colpire l’Iran per prevenire anche solo la possibilità che Teheran possa giungere a disporre del know-how per costruire un’arma nucleare, così da conservare la propria supremazia militare nella regione. Un’eventuale aggressione preventiva e non provocata per fermare un programma nucleare per il quale non è stata finora presentata una sola prova concreta che sia a scopi militari, va ricordato, avverrebbe ad opera di un paese che, al contrario dell’Iran, non è firmatario del Trattato di Non Proliferazione e che possiede centinaia di testate nucleari non dichiarate.
Una tale operazione corrisponderebbe ad una nuova colossale violazione del diritto internazionale. Tuttavia, come hanno dimostrato le parole di Obama negli ultimi giorni, nonostante possibili dubbi e perplessità, essa verrebbe con ogni probabilità giustificata o, più probabilmente, appoggiata in pieno dagli Stati Uniti e dai loro alleati in Occidente, senza riguardo alcuno per le conseguenze catastrofiche che implicherebbe per l’intera regione.
L’insistenza con cui questi governi perseguono tale obiettivo e, in ultima analisi, il cambio di regime a Teheran con il pretesto della questione nucleare è tanto più dissennata quanto è vista con diffidenza dall’opinione pubblica. Malgrado la propaganda dei politici e dei principali media occidentali racconti quotidianamente di un Iran intento a sfidare la comunità internazionale e ad un passo dalla bomba atomica, una serie di recenti sondaggi negli Stati Uniti e in Israele hanno mostrato un sentimento ben diverso tra la popolazione.
L’impopolarità di un nuovo conflitto in Medio Oriente non ha comunque impedito ai falchi filo-israeliani di Washington di stringere le fila e di sfruttare la visita di Netanyahu per chiedere un’ulteriore escalation delle pressioni su Teheran dopo le minacce, le sanzioni e le operazioni segrete di stampo terroristico che già hanno caratterizzato la strategia anti-iraniana di Stati Uniti e Israele in questi ultimi mesi.
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di Michele Paris
Come ampiamente previsto, nelle elezioni di domenica il Premier Vladimir Putin ha conquistato un nuovo mandato alla guida del paese grazie ad una comoda maggioranza di suffragi che gli ha anche permesso di evitare il secondo turno di ballottaggio. L’affermazione di Putin non è mai stata in dubbio, anche se è giunta nel pieno di un limitato movimento di protesta che negli ultimi mesi ha cercato di scardinare il sistema di potere saldamente nelle mani da ormai oltre un decennio del 59enne ex agente del KGB.
A scrutinio pressoché ultimato in tutte le sezioni, la Commissione Elettorale Centrale russa ha dichiarato Putin presidente con il 63,3% dei consensi espressi. Nettamente staccati i quattro principali sfidanti, con il secondo posto andato al leader del Partito Comunista, Gennady Zyuganov (17,2%), sconfitto domenica per la quarta volta in un’elezione presidenziale.
Ancora più modeste sono state le prestazioni di Mikhail Prokhorov (7,9%), oligarca multi-miliardario presentatosi come presunta faccia nuova della politica russa, dell’ultra-nazionalista di estrema destra Vladimir Zhirinovsky (6,2%), alla quinta candidatura per il Cremlino, e dell’ex speaker della Camera Alta ed esponente del partito socialdemocratico Giusta Russia, Sergei Mironov (3,9%). Quest’ultimo era in realtà un candidato solo nominalmente di opposizione, come dimostra il sostegno che diede a Putin nel 2004 nonostante in quella tornata elettorale fosse anch’egli in corsa per la presidenza.
Sempre secondo i dati ufficiali, l’affluenza alle urne sarebbe stata appena sopra il 63%, vale a dire di circa tre punti superiore alle elezioni parlamentari del dicembre scorso ma di sette punti inferiore rispetto alle presidenziali del 2008 vinte da Dmitri Medvedev.
Nella serata di domenica, un Putin insolitamente commosso ha festeggiato il successo di fronte ai suoi sostenitori in una piazza nei pressi del Cremlino con il presidente uscente al suo fianco. Proprio Medvedev, scelto da Putin nel 2008 per succedergli alla presidenza dopo aver raggiunto il limite di due mandati consecutivi previsto dalla legge, dovrebbe essere nominato primo ministro il prossimo mese di maggio, quando avverrà il passaggio di consegne ufficiale alla guida del paese.
Come già accaduto dopo le contestate elezioni per il rinnovo della Duma (Camera Bassa) del 4 dicembre scorso, anche domenica ci sono state migliaia di segnalazioni di brogli in tutto lo sterminato paese. Le accuse a Putin e al suo partito, Russia Unita, di avere ancora una volta manipolato l’esito del voto sono giunte in particolare dai leader del movimento di opposizione che sta organizzando le proteste di piazza contro il governo.
Molto dure sono state, ad esempio, le parole del popolare blogger anti-corruzione Alexei Navalny (già salito alla ribalta delle cronache nei media occidentali) il quale, oltre a denunciare irregolarità nel voto, ha lanciato appelli per nuove manifestazioni e una occupazione permanente a Mosca sul modello del movimento “Occupy Wall Street”. Lamentele sono state espresse anche dai candidati sconfitti, come Zyuganov che, pur ammettendo l’impossibilità di ottenere una revisione dei risultati definitivi, ha bollato il voto come “illegittimo e non trasparente”.
Molto critica è stata anche la missione degli osservatori OCSE, secondo la quale, malgrado tutti i candidati abbiano avuto la possibilità di fare campagna elettorale in maniera libera, ci sono stati “seri problemi” fin dall’inizio, dal momento che le condizioni erano “chiaramente a favore di uno dei candidati, l’attuale primo ministro Vladimir Putin”. Il coordinatore degli osservatori OCSE ha aggiunto che, mentre “un’elezione dovrebbe avere un esito incerto, questo non è stato il caso per la Russia, dove non c’è stata una vera competizione e l’abuso delle risorse del governo ha fatto in modo che il vincitore ultimo del voto non fosse mai in discussione”.
Dopo la valanga di denunce e le proteste del dicembre scorso, dunque, per il voto di domenica erano previsti migliaia di osservatori, ed erano state installate 180 mila web cam, al costo di 300 milioni di dollari, per documentare in tempo reale le operazioni di voto nei seggi. Ciononostante, le accuse di brogli sono state nuovamente numerose.
Tra le pratiche più segnalate ci sono il cosiddetto “voto giostra” - secondo il quale un gruppo di persone viene trasportato di seggio in seggio per votare più volte lo stesso candidato - e il “voto centralizzato”, dove dirigenti di aziende, scuole, ospedali e altre organizzazioni fanno pressioni sui loro dipendenti per esprimere la loro preferenza per un determinato candidato. Oltre a queste, ci sono state svariate altre segnalazioni di irregolarità diffuse, come il danneggiamento delle telecamere, l’allontanamento degli osservatori dai seggi, pressioni di vario genere sugli elettori e così via.
Le reazioni seguite alle più recenti elezioni parlamentari, tuttavia, sembra abbiano suggerito al Cremlino una certa cautela nel ricorrere ai sistemi più grossolani per manipolare l’esito del voto, almeno secondo quanto dichiarato dall’organizzazione indipendente Golos.
Sia pure in una situazione tutt’altro che regolare, la netta vittoria di Putin e il risultato deludente dei suoi rivali appaiono però principalmente come i segnali della ristretta base su cui possono contare le forze di opposizione che hanno animato le proteste delle ultime settimane in Russia. Il malcontento nei confronti di un governo corrotto, autoritario e che non ha saputo porre rimedio al deterioramento delle condizioni di vita della maggioranza della popolazione è in realtà assai diffuso.
Tuttavia, questi ambienti della borghesia urbana che si sono mobilitati contro il Cremlino intendono liberalizzare ulteriormente l’economia russa, suscitando così il sospetto delle classi più povere, le quali identificano correttamente tali tendenze con le conseguenze devastanti per decine di milioni di persone già ampiamente manifestatesi dopo lo smantellamento selvaggio dell’Unione Sovietica nella transizione al capitalismo.
L’appoggio più o meno esplicito fornito a queste forze dagli USA e dagli altri governi occidentali, con i quali esse chiedono rapporti più stretti, hanno poi ulteriormente contribuito ad allontanare ampi settori dell’elettorato. Non a caso, in campagna elettorale Putin ha fatto più volte leva sull’anti-americanismo, accusando Washington (con più di una ragione) di interferire nelle questioni interne della Russia.
Sul fronte economico, invece, ha modellato un messaggio in equilibrio tra l’appello populista nei confronti dei ceti più disagiati, così da metterli contro la borghesia urbana, alle lusinghe verso quest’ultima, con la promessa di intraprendere un percorso di liberalizzazione del sistema. E non é dunque un caso se il Partito comunista di Zyuganov, che condivide in buona sostanza le posizioni di Putin in politica economica e politica estera e rifiuta invece le ricette filo-Usa care al fronte liberale e filo americano dell'opposizione, arriva ad essere il secondo partito del Paese.
In definitiva, nel suo terzo mandato, Putin si troverà così a far fronte sia alle crescenti proteste di un’opposizione filo-occidentale che chiede maggiori spazi di azione politica, sia all’intensificarsi delle tensioni sociali a causa dell’allargamento delle disuguaglianze sociali nel paese. Il tutto mentre giungono segnali preoccupanti da un’economia dipendente dalle esportazioni energetiche e dunque in balia delle fluttuazioni dell’economia globale.
Sul fronte della politica estera, infine, i prossimi anni di Putin al Cremlino saranno segnati dalle tensioni sempre più evidenti con gli Stati Uniti dopo il fallito tentativo di riavvicinamento tentato per un breve periodo da Obama e Medvedev. Un conflitto quello tra Mosca e Washington che si incrocia con i divergenti obiettivi strategici delle due super-potenze su scala planetaria e che si sta manifestando in tutta la sua gravità attorno alla questione della Siria, dove gli interessi del Cremlino sono sempre più seriamente minacciati da un possibile intervento occidentale per rovesciare il regime di Assad.
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di Vincenzo Maddaloni
Perché stupirsi se il Fronte Unito dei principalisti, vicino alla Guida suprema Ali Khamenei, ha guadagnato oltre il 75 per cento dei seggi nelle elezioni del 2 marzo per il nuovo Majlis (Parlamento iraniano)? Perché stupirsi se l'afflusso degli iraniani al voto è stato del 64,2 per cento con punte dell’ 88 per cento nella provincia centrale di Kohkilouyeh-Boyer Ahmad? La vittoria schiacciante del clero era annunciata in un Paese piegato dalle sanzioni economiche che gli sono state inflitte per bloccargli il programma nucleare, il quale secondo Stati Uniti, Europa e Israele è destinato a scopi bellici.
Sicché oggi l’Iran produce 600mila barili di petrolio in meno rispetto a qualche anno fa a causa della mancanza di raffinerie nel Paese, e pertanto deve importare gran parte del diesel e della benzina dall’estero, a prezzi molto alti.
Inoltre, da mesi i cittadini iraniani convivono con un’inflazione in crescita costante. Nel tentativo di fermarla il governo iraniano ha dovuto limitare i suoi sussidi statali sui beni di prima necessità, ma non è riuscito nemmeno a bloccare la caduta della valuta nazionale iraniana, il rial, che ha toccato in questi giorni il minimo storico perdendo il 30 per cento del suo valore.
Risultato? La congiunta ha rafforzato negli iraniani quell’attaccamento alla trinità culturale “iranità, islamità e modernità” nella quale essi coniugando novità e tradizione, affrontano ogni genere di confronto con quella determinazione nazional-religiosa che li ha resi peculiari agli occhi del mondo. All’origine, c’è la difesa estrema dell’indipendenza nazionale che era stata - anno 1979 - una delle ragioni della convergenza tra la sinistra e i movimenti religiosi nella lotta contro il potere capitalista degli Usa e contro lo Stato monarchico da essi sostenuto.
Vinse la rivoluzione, ma col passare degli anni i preti si sono impossessati del potere, annientando ogni forza di opposizione, anche le più moderate, com’è accaduto appunto nel 2009 al movimento riformista. Tant’è che trentatre anni dopo l’arrivo dell’ayatollah Khomeini a Teheran, i “Princìpi politici, filosofici, sociali e religiosi dell’ayatollah Khomeini”, il libretto che condensa i “comandamenti” del buon musulmano, rimane tuttora il “catechismo” di ogni “buon” persiano.
In esso c’è un capitolo nel quale - al pari di sant’Agostino - Khomeini sostiene la tesi secondo la quale tutti i governi sono artificiali; ma a differenza del filosofo cristiano, l’ayatollah non indica soltanto la Città di Dio come la soluzione ideale di riferimento. Egli ritiene indispensabile che ci sia sulla terra un governo islamico, composto dal collettivo dei giuristi, i fuqaha, (i giureconsulti musulmani), uomini di grande virtù ai quali spetta il diritto di governare e di accompagnare i credenti fino alla soglia della Città di Dio.
E’ un richiamo forte alla tradizione degli sciiti, i quali (diversamente dai sunniti che delegano la cura delle anime fin dal VII secolo ai califfi) l‘affidano soltanto agli uomini della Chiesa, agli Imam. Ne sono essi gli unici custodi riconosciuti fin dal 1502, quando nella Persia governata dai Safavidi, lo sciismo divenne la religione di Stato.
Cosicché all’imam Khomeini non rimase che trasformare lo sciismo da corrente per molti versi popolar-mistica dell’Islam in ideologia politica e terzomondista che sfida l’imperialismo personificato dalle potenze straniere, dall’alta borghesia e dalla grande finanza internazionali. E’ la sua una rilettura dell’Islam dei primordi della vita del Profeta, del quale ne esalta l’umiltà. Ma si spinge oltre, mescolando varie teorie, (non ultima quella marxista) disegnando una nuova ideologia ricca di spunti di riflessione sulle problematiche politiche, economiche e sociali, temi che attirano l’interesse degli iraniani. Khomeini si arma di un tale pragmatismo da non esitare a rimpastare la shari’a http://it.wikipedia.org/wiki/Shari'a pur di raggiungere i propri obiettivi. «Quando mai - si chiederà Rafsanjani, presidente dal 1989 al 1997 - nella storia dell’Islam si è visto un Parlamento, un Presidente, un Primo Ministro e un Governo? In realtà l’ottanta per cento di quello che facciamo non ha precedenti nella storia dell’Islam».
Tuttavia, la formula rimane vincente, lo comprova il commento di Khamenei, quando all’apertura dei seggi ha sottolineato che le elezioni hanno sempre svolto un ruolo determinante per la Repubblica islamica, «dando un messaggio ad amici e nemici». E ha poi aggiunto, con un chiaro riferimento agli Usa, che le «potenze arroganti spandono propaganda e minacce contro l'Iran per negare i propri fallimenti, oltre a imporre sanzioni e sollevare la questione dei diritti umani».
Se si tiene a mente questo scenario si capisce perché sia andato a votare, venerdì 2 marzo, anche l'ex presidente l’ayatollah Mohammad Khatami, che ha fama di moderato e di difensore dei principi democratici. Egli nei mesi scorsi aveva posto una serie di condizioni per la partecipazione del suo fronte alle elezioni, tra cui la liberazione di Mehdi Karrubi e Mir Hossein Mussavi, due dei leader dell'opposizione, la libertà per i partiti indipendenti e riformisti e per la stampa e la supervisione delle elezioni da un organismo indipendente. «Quali di queste condizioni si sono realizzate?
Perché Khatami ha voltato le spalle alla gente e ai tantissimi prigionieri politici» si è chiesto l’altro ieri, qualcuno sul web. A rispondere è stato l'ex portavoce dell'ex presidente, Abdollah Irmezanadih, il quale ha assicurato sulle buone intenzioni di Khatami dicendosi convinto che, sebbene avesse accettato di rischiare di perdere la faccia, egli l'aveva fatto nell'interesse della gente, e che un giorno ne avrebbe spiegato il motivo. Sicuramente sarà un “motivo” intessuto di riferimenti nazional-religiosi, argomenti di facile presa e condivisi dalle masse, come da cinquecento anni accade.
Un’altra premessa è d’obbligo a questo punto. La nazione islamica, l’umma, http://it.wikipedia.org/wiki/Umma e la società civile hanno ciascuna le proprie caratteristiche specifiche. Alcune di queste sono comuni ad entrambe, mentre altre non lo sono. Infatti, i membri della società civile vengono chiamati "cittadini", quelli della società islamica sono chiamati "credenti". Se il “cittadino” è caratterizzato dai “diritti”, il “credente” è caratterizzato dai “doveri”. Secondo il parere dei sociologi della politica, la società laica si colloca tra lo Stato e l'individuo. Lo stesso accade anche nella società islamica, dove l’umma si colloca tra il governo e il credente.
Nella società islamica, come nella società laica, esistono diritti e valori: la società civile deve rispettare le leggi; istituzionalizzare la partecipazione politica, realizzare la proprietà privata, assicurare la stabilità politica, riconoscere i diritti e i doveri tra individuo e Stato (governo), ecc. Ma mentre nella società laica il bene terreno è dominante, nella società islamica il mondo viene visto da una angolazione la cui dominanza è l'Aldilà. Pertanto se il mondo e l'Aldilà sono sullo stesso piano, il mondo è un campo che va coltivato per realizzare l’Aldilà, poiché «non si possono raccogliere frutti da un campo se non viene coltivato».
E dunque, il profondo rapporto che il clero sciita ha con le masse, che ogni volta sorprende e disorienta gli osservatori occidentali, nasce dalla secolare capacità del clero di incanalare gli entusiasmi popolari in manifestazioni di fede. Ogni spunto, atto, offerto dalla vita quotidiana, terrena, dalla “casa di prova”, viene “traslato” continuamente nella vita eterna, la “casa eterna”.
In questo modo, collegando il tempo limitato e contingente al tempo illimitato ed eterno con cerimonie, processioni e cortei con canti, elegie, battitori del petto, il pianto, le cerimonie di lutto, il pellegrinaggio ai luoghi sacri e ai mausolei dei santi, tutti ben articolati e sapientemente distribuiti nell’arco del tempo, i preti portano le masse alla resa totale ad Allah, l’Onnipotente.
Riti e prediche mirano a plasmare la mentalità dell’individuo sui modelli ecclesiali e a rimodellarla secondo schemi culturali e fideistici dei quali soltanto il clero ne possiede il magistero. Il risultato è che non soltanto le classi meno abbienti che nella solidarietà incentivata dalle moschee, nella filantropia, trovano il minimo di sostentamento e nella preghiera la serenità, vanno a votare gli esponenti del clero, ma anche la piccola e grande borghesia dei bazar si affida ai mullah nella speranza della salvezza eterna.
Sicché i meno abbienti e la piccola e grande borghesia invece di dedicarsi insieme alla lotta per una maggiore giustizia terrena, da sempre rincorrono la benedizione celeste elargita dai mullah e ayatollah, rinunciando al quotidiano in cambio dell’eterno, correndo ubbidienti ai seggi perché sono i preti che gli ordinano di farlo.
Beninteso, la fede nelle generazioni nate dopo la Rivoluzione del 1979 assume un senso e una rappresentazione diversi da quelli dei loro genitori e soprattutto diversi dalla destra conservatrice e fondamentalista. E’ la loro una fede, interiorizzata, individuale, nella quale non c’è spazio per la violenza.
L’immagine che i giovani (o meglio la maggioranza di essi) hanno di Dio non è quella del Dio che punisce, ma quella del Dio misericordioso che crea il mondo e benedice “i cinque”, i “pang tan”, cioè la Sacra Famiglia: Maometto, sua figlia Fatima, suo cugino e genero Ali, e i due figli di Fatima e Ali, Hasan e Hussein. Almeno questo è quanto si coglie scorrendo i numerosi blog che non sono soltanto luoghi di fermento religioso, ma anche spazio di critica, di espressione personale e discussione con i laici più radicali.
Naturalmente la nuova generazione ha avuto un’educazione lontana dalle influenze della società occidentale soltanto nelle apparenze. In realtà la sincronia di un Islam politicizzato e onnipresente nella vita quotidiana e l’inevitabile impatto con le culture straniere, enfatizzato dai vari media, ha stimolato nella società civile una rilettura della dottrina religiosa sciita che ancora non si è compiuta.
Per completare il quadro va pure ricordato che l’Iran ha il miglior sistema d’istruzione dell’intero mondo musulmano, con una popolazione culturalmente più avanzata e aggiornata. Tuttavia, trentatre milioni sui quarantotto milioni degli aventi diritto che sono andati a votare, non sono pochi. Che la vittoria del clero sia da considerarsi schiacciante non è un’esagerazione. Essa continuerà ancora a condizionare di molto le pressioni americane e tutto quello che accadrà in Mesopotamia nei prossimi tempi.