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di Michele Paris
La deriva autoritaria seguita al trionfo elettorale del partito di centro-destra Fidesz in Ungheria ha fatto segnare una nuova tappa nei giorni precedenti il Natale. Una serie di misure anti-democratiche è stata infatti approvata dal Parlamento di Budapest, dove il partito del premier Victor Orbán detiene un’ampia maggioranza che negli ultimi mesi gli ha permesso di ampliare i poteri dell’esecutivo in maniera preoccupante, nonostante le proteste interne e delle istituzioni europee.
Venerdì scorso il Parlamento ungherese ha licenziato una nuova legge elettorale che espande il sistema maggioritario, a detta degli osservatori favorendo il partito Fidesz che già dispone di una maggioranza di due terzi dopo le elezioni dell’aprile 2010. Il voto della scorsa settimana è stato boicottato dall’opposizione socialista (MSZP) e dai verdi (LMP), mentre all’esterno dell’aula andavano in scena manifestazioni per cercare di bloccare la legiferazione. Nel corso degli scontri con la polizia sono finiti in manette anche alcuni parlamentari dell’opposizione, tra cui il due volte ex primo ministro socialista Ferenc Gyurcsany.
Nella stessa sessione precedente il Natale, è stata approvata anche una drastica restrizione dei tempi di intervento concessi durante i dibattiti ai parlamentari dell’opposizione - i quali avranno ora solo 15 minuti a disposizione - così come la nomina di nuovi giudici della Corte Costituzionale scelti dall’esecutivo. Il più alto tribunale ungherese ha recentemente bocciato alcune parti delle leggi volute da Fidesz, come quella sul controllo dei media e le modifiche al codice civile, ma le sue competenze - già ristrette in materia di bilancio - saranno ulteriormente ridotte con l’entrata in vigore della nuova costituzione il primo gennaio 2012, peraltro approvata senza un solo voto dell’opposizione.
Tra le altre più recenti iniziative del governo di Orbán va ricordata anche quella che poco meno di due settimane fa ha revocato la concessione delle frequenze radiofoniche ad una stazione allineata con l’opposizione, Klubradio, per concederle ad un’altra vicina all’esecutivo. Quest’ultima misura s’inserisce all’interno di una strategia ben precisa, tesa a porre sotto il controllo del governo le stazioni radio e quelle televisive, sia pubbliche che private.
Sul fronte economico, è stata poi fissata in Costituzione la tassa ad aliquota fissa (flat tax) del 16 per cento che potrà essere modificata solo con il voto dei due terzi dei membri del Parlamento, legando le mani ai futuri governi. In precedenza, un’altra modifica alla Costituzione aveva stabilito l’obbligo del pareggio di bilancio, a partire però dal 2016 e non dal 2012 come chiedeva l’Unione Europea
Lo scontro più duro con Bruxelles riguarda tuttavia una nuova legge tuttora in discussione a Budapest e che riguarda la Banca Centrale ungherese. Il gabinetto di Victor Orbán intende infatti ridurne notevolmente l’autonomia, espandendo l’influenza dell’esecutivo sulla politica monetaria per mezzo di nuove nomine di rappresentanti del governo ai vertici della stessa Banca Centrale. Il rifiuto da parte del governo ungherese di ritirare questa proposta di legge ha spinto l’Unione Europea, la Banca Centrale Europea e il Fondo Monetario Internazionale a congelare le discussioni in corso con Budapest per l’erogazione di un nuovo prestito del FMI.
L’Ungheria sta d’altra parte facendo i conti con una situazione economica a dir poco complicata. I redimenti dei suoi bond hanno toccato i livelli più alti dal 2009, quando il paese fu salvato dal default proprio grazie ad un’infusione di denaro del Fondo Monetario. Le previsioni per il prossimo anno, inoltre, sono anche peggiori, con l’inflazione che salirà oltre il 5 per cento e la disoccupazione al 12 per cento, mentre scenderanno sensibilmente le entrate fiscali e il PIL.
Questo scenario ha già causato una rapida caduta dei livelli di popolarità del partito Fidesz di governo, il quale lo scorso anno aveva potuto approfittare della diffusa avversione nel paese verso i socialisti. Oltre al partito del premier Orbán, a raccogliere ampi consensi tra l’elettorato ungherese era stata anche la formazione di estrema destra anti-semita, Jobbik, che aveva conquistato quasi il 17 per cento dei voti e 47 seggi in parlamento. Con un partito socialista screditato, appare probabile dunque che a beneficiare del possibile declino di Fidesz nei prossimi appuntamenti elettorali sarà proprio Jobbik.
La svolta autoritaria e anti-democratica intrapresa dal governo ungherese in questi mesi, come già anticipato, ha destato le preoccupazioni della comunità internazionale. Oltre alle autorità europee, a protestare nei confronti di Budapest è stata, solo qualche giorno fa, anche il Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, la quale ha indirizzato una lettera al primo ministro Orbán esprimendo i timori di Washington per l’erosione delle libertà democratiche in Ungheria. Niente di più.
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di Emanuela Pessina
BERLINO. Stresstest, un termine particolarmente versatile che ha raccontato, negli ultimi dodici mesi, le tensioni presenti in numerosi ambiti della nostra società, e per questo largamente adoperato dai media. Tanto presente nella comunicazione quotidiana, in realtà, che i tedeschi hanno deciso di eleggerlo “parola dell’anno 2011”. Stresstest si potrebbe forse tradurre, in italiano, “test di resistenza allo stress” e indica un processo che ha perseguitato nel 2011 banche, governi e centrali nucleari di tutto il mondo, queste ultime alla luce della catastrofe di Fukushiima. E la Germania è ora pronta a scommetterci: il termine ha un futuro ed entrerà a far parte del linguaggio quotidiano dei cittadini.
Nato nel 1971 come semplice concorso, l’elezione della “parola dell’anno” è diventata ormai una tradizione per tutti i filologi tedeschi e non solo. Un gruppo di linguisti della Gesellschaft für deutsche Sprache, la Società per la Lingua Tedesca con sede a Wiesbaden, si riunisce nell’ultimo mese di ogni anno per scegliere, tra centinaia di proposte, la parola che più ha segnato il discorso pubblico e mediatico dell’anno in corso: lo scopo è identificare la parola che più caratterizza l’anno e che ha più possibilità di essere utilizzata anche in futuro. E’ la rivista Sprache und Literatur in Wissenschaft und Unterricht a pubblicarne poi i risultati, in un breve articolo in cui vengono commentate tutte le parole più significative dell’anno.
La parola stresstest è stata selezionata qeust’anno, in particolare, per la sua versatilità. Nato come termine medico, nel 2011 stresstest è stato utilizzato per le banche e ha acquistato notorietà alla luce della profonda crisi economica che ha accompagnato i mercati. Nonostante gli istituti bancari si sottopongano periodicamente a stresstest, quest’anno la loro resistenza è stata messa veramente alla prova in una situazione di tensione e crisi costante e i risultati dei test hanno spesso occupato le prime pagine dei giornali. Da notizia di nicchia, gli stresstest delle banche sono entrati a far parte dell’informazione di massa.
I media non si sono tuttavia risparmiati, nel 2011, di utilizzare il termine stresstest anche in campo politico. La Germania si riferisce ai numerosi appuntamenti elettorali che l’hanno segnata, sei in tutto: si tratta delle elezioni regionali, che hanno messo a dura, durissima prova, il Governo Merkel, alla stregua di veri e propri stresstest, una misura della capacità di resistenza della coalizione cristianodemocratica- liberale. Anche se, in realtà, ad essere messi alla prova nel 2011 sono stati molti governi sparsi in tutto il mondo: a partire dai Paesi arabi, coinvolti nella spirale di cambiamento che ha dato origine alla primavera araba, per finire con quelli europei, messi in discussione dalla crisi economica. E molti di questi governi, ora lo sappiamo, non hanno retto ai test, a partire dal nostro.
Così come le centrali nucleari, sottoposte ovunque a stresstest concreti e mediatici dopo la catastrofe di Fukushiima: come in Germania, dove le centrali nucleari non sono sopravissute alla prova mediatica, o in Italia, dove i cittadini, interpellati da un referendum, hanno detto No. Altrove, invece, hanno prevalso i risultati più o meno attendibili degli stresstest concreti. E il nucleare ancora c’è.
Il 2011 sarà quindi un anno ricordato per le tensioni che ha messo a dura prova la capacità di resistenza di molte istituzioni, scommettono i linguisti tedeschi, e per i test preventivi condotti in questo ambito. La scelta non è stata delle più semplici, hanno comunque spiegato i giuristi: nella top ten tedesca delle parole dell’anno ci sono molti termini prettamente riferiti alla crisi economica, mentre al terzo posto c’è arabellion, in riferimento alle ribellioni- rivoluzioni arabe.
Da segnalare, in particolare, la proposta guttenbergen, anch’essa fra i primi dieci, dal cognome dell’ex-ministro della Difesa tedesco Karl-Theodor zu Guttenberg, dimessosi lo scorso marzo per aver copiato la tesi di laurea. Il verbo guttenbergen indicherebbe proprio l’atto del copiare, o del portare a termine un compito con mezzi poco leciti. I giuristi assicurano che il termine è molto usato dai più giovani: forse più simpatico e interessante di stresstest, ma non abbastanza versatile, purtroppo, per essere inserito nei vocabolari di lingua tedesca.
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di Luca Mazzucato
NEW YORK. Non c'è verso, ai boliviani il Big Mac proprio non piace: preferiscono l'empanada. Dopo quattordici anni di attività e massicce quanto inutili campagne pubblicitarie, la multinazionale americana getta la spugna e chiude i suoi otto fast food a La Paz e nel resto della Bolivia. Ma la Bolivia è in buona compagnia. Altri sette Paesi dovranno dire addio alle insegne del McDonald's, a quanto pare senza molti rimpianti.
Il piano di ristrutturazione globale della multinazionale prevede la chiusura di tutti i punti vendita con bassi profitti. Anche se gli otto ristoranti boliviani, su un totale di trentatremila punti vendita nel mondo e 58 milioni di clienti al giorno, non sono un grosso giro d'affari, la ritirata ha un grande valore simbolico.
Secondo il sito “Hispanically Speaking News,” il settore marketing del colosso alimentare è stato preso talmente alla sprovvista, che ha deciso di girare un documentario sulla chiusura del loro ultimo fast food a La Paz (lo potete vedere su Youtube, dal titolo “Why did McDonald’s Bolivia go Bankrupt” ndr).
Nel documentario, cuochi, sociologi, nutrizionisti e educatori danno la loro versione dei fatti, spiegando come i boliviani non siano contrari agli hamburger di per sé. È proprio il concetto di fast food che non prende. Per i boliviani, un pasto deve essere preparato con amore e dedizione, un minimo rispetto per l'igiene, ma soprattutto deve essere ben cotto e a base di ingredienti genuini. In breve, il contrario del Big Mac!
Dopo che il divertente documentario SuperSize Me nel 2004 ha mostrato la pericolosità di una dieta a base di McDonald's, non si possono più ignorare i gravissimi rischi alla salute. Se ti strafoghi di hamburger e patatine per un mese, sei praticamente spacciato. Alla faccia dei salutisti e delle campagne per salvare la dieta mediterranea, in questo caso è invece il mercato a decidere.
Il fatto curioso del fallimento boliviano è che le preoccupazioni legate alla salute non sembrano essere alla base della debacle. Più semplicemente, pare che ai boliviani il Big Mac proprio non vada giù: l'intero concetto di “fast food” lì non interessa a nessuno. Del resto la Bolivia ha una storia indigena marcata anche sotto il profilo alimentare dalla quale non sembra proprio voglia recedere. Meglio mangiarsi una bella empanada calda con tutta calma e meno pericoli per la salute.
In Italia, McDonald's arriva nel 1985 e all'inizio non ha vita facile. Solo dopo aver rilevato la concorrente Burghy, la multinazionale americana riesce ad espandersi e ora conta su circa quattrocento fast food, in continua espansione. Sembra strano che nella patria mondiale dei buongustai, più che in Bolivia, il Big Mac sia così amato. De gustibus...
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di Carlo Musilli
Serve una "psicoterapia nazionale" per regalare ai russi "certezze nel domani". E' questa l'ultima umiliazione che il primo ministro di Mosca, Vladimir Putin, ha voluto infliggere al suo popolo. Nemmeno l'inganno di un eufemismo, ma l'arroganza di una perifrasi che ribadisce in modo ancor più volgare il modus operandi preferito dallo Zar: se la protesta è troppo estesa per esser messa tacere col manganello, quello che serve è un bel surplus di propaganda. Da diffondere naturalmente con ogni strumento mediatico a disposizione, a cominciare dalla televisione e soprattutto da internet.
Proprio per via telematica è nata l'ultima sollevazione della Russia contro Putin. Sabato scorso sono scese in piazza 100 mila persone, il doppio di quelle che avevano sfilato appena due settimane prima. Un fiume di manifestanti che non si era mai visto nei 12 anni in cui l'ex capo dei servizi segreti ha retto le sorti del Paese. Chiedono semplicemente il rispetto dei loro diritti civili: le ultime elezioni legislative, che ancora una volta hanno consegnato al partito del Premier ("Russia Unita") la maggioranza alla Duma, si sono svolte fra clamorosi brogli e andrebbero ripetute.
Come se non bastasse, il 4 marzo si tornerà alle urne per le consultazioni presidenziali. Se nulla cambierà nei prossimi mesi, l'esito del voto sarà il più scontato: Putin, dopo aver provveduto ad una chirurgica modifica della Costituzione, potrà rimanere inchiodato al suo trono per un'altra dozzina d'anni.
Di certo non gli fa paura la sfida lanciata dal blogger/avvocato 35enne Alexei Navalny, uomo simbolo della recente protesta, che ieri ha annunciato di volersi candidare per defenestrare Sua Maestà e metter fine al cosiddetto putinismo. "Forse sono troppo ingenuo - ha detto a una radio moscovita - ma se portiamo un milione di persone in piazza allora è fatta, non potranno farci niente. E dovranno ascoltare le nostre richieste". In realtà qualcosa gli hanno già fatto: fra il 6 e il 21 dicembre Navalny è stato rinchiuso in carcere con l’accusa di aver ostacolato la polizia e di aver fomentato i manifestanti durante le proteste.
Il presidente Dmitri Medvedev ha bonariamente promesso di semplificare la procedura per permettere anche ai partiti minori di partecipare alle consultazioni. In fondo un ragazzo volenteroso che male può fare? Al contrario, la sua velleitaria candidatura potrebbe dare alle prossime elezioni proprio quell'imbiancatura di legittimità di cui il Cremlino ha tanto bisogno.
Intanto però gli attacchi di misteriosi hacker stanno oscurando i blog e le pagine web in cui si concentravano le più accese proteste anti-governative. E non ci vuole Sherlock Holmes per immaginare chi sia il mandante.
Insomma, lo Zar non ha molti dubbi su come andrà a finire la partita, tanto che si preoccupa a mala pena di sminuire gli slogan dei suoi contestatori: "Abbiamo ascoltato le persone in piazza con rispetto - ha detto - ma erano una minoranza". E se in un regime non conta l'opinione della maggioranza, figurarsi che peso può avere la voce di 100 mila persone: "Le elezioni sono chiuse - ha sentenziato ancora il Primo ministro - non ci sarà alcuna revisione".
Quanto ai suoi sparuti oppositori, declassati verbalmente al rango di banale "concorrenza", il loro problema è che "non hanno un unico programma, né una strada chiara per raggiungere i loro obiettivi, anch'essi fumosi. Non ci sono persone in grado di fare alcunché di concreto". Inutile obiettare che perfino nel più ridicolo surrogato di democrazia non spetta al premier valutare la ragion d'essere delle opposizioni.
Ma lo scherno più incredibile partorito da Putin è stato quello riservato alle presidenziali: "Mi auguro che il voto del prossimo marzo sia limpido, ma temo che qualcuno cerchi di minarne la sua legittimità". Strano che abbia scelto il verbo "temere", perché migliaia di suoi connazionali invece non hanno dubbi. Nonostante le preoccupazioni dello Zar, i russi hanno già delle certezze.
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di Michele Paris
A soli pochi giorni dal ritiro ufficiale delle ultime truppe statunitensi dall’Iraq, il travagliato paese mediorientale sembra essere già precipitato nel caos. Con il fragile governo di unità nazionale sull’orlo della crisi e il rischio concreto di nuove violenze settarie, dopo quasi nove anni di occupazione la popolazione irachena si ritrova a dover fronteggiare nuovamente gli spettri della dittatura e della guerra civile, con la possibilità tutt’altro che remota di un ritorno delle forze armate americane.
La fine delle operazioni USA in Iraq è stata festeggiata con una cerimonia ufficiale giovedì scorso, mentre il contingente militare residuo ha lasciato il paese nel fine settimana. Pochi giorni prima, il presidente Obama aveva ricevuto a Washington il premier, Nuri Kamal al-Maliki, al quale aveva espresso tutto il suo apprezzamento per i progressi fatti dal sistema politico iracheno, saldamente avviato verso un futuro democratico. Gli stessi elogi verso il governo di Baghdad sono stati espressi da Obama anche nel suo discorso tenuto di fronte ai militari rientrati dall’Iraq, ovviamente senza citare l’illegalità della guerra scatenata nel 2003 e la totale devastazione del paese causata dall’invasione americana negli anni successivi.
La vera faccia della realtà irachena, al di là delle lodi dell’amministrazione democratica di Washington, è tuttavia apparsa in tutta la sua evidenza proprio in seguito ad una nuova serie di azioni messe in atto da Maliki per consolidare il suo potere a spese degli avversari politici. Da tempo la gestione del primo ministro è d’altra parte oggetto di dure critiche, soprattutto da parte della minoranza sunnita nel paese, tanto che venerdì scorso il blocco parlamentare Iraqiya aveva preso la decisione di boicottare l’attività del governo dopo la presentazione in Parlamento da parte della maggioranza sciita di una mozione di sfiducia contro il vice-premier sunnita, Saleh al-Mutlaq, responsabile di aver bollato Maliki come “dittatore” nel corso di un’intervista televisiva.
Domenica scora, poi, i servizi segreti agli ordini di Maliki hanno arrestato sette guardie del corpo del vice-presidente iracheno, il sunnita Tariq al-Hashimi, perché accusate di terrorismo. A far precipitare la situazione è stato infine il mandato d’arresto emesso il giorno successivo ai danni dello stesso Hashimi, a sua volta accusato di aver ordinato una serie di attacchi terroristici nel paese contro gli sciiti, tra cui un tentativo di assassinare il primo ministro.
Il mandato di cattura per Hashimi era stato preparato da un’altra iniziativa più consona ad un regime dittatoriale che ad una nascente democrazia, vale a dire la trasmissione in TV delle confessioni di alcune ex guardie del corpo del vice-presidente, le quali hanno ammesso di aver portato a termine attentati terroristici ordinati dal loro autorevole superiore. Per sfuggire all’arresto, Hashimi si è rifugiato nella regione settentrionale semiautonoma del Kurdistan iracheno, dove le forze di sicurezza di Baghdad non hanno giurisdizione.
La vicenda che coinvolge Hashimi è solo il più recente sviluppo di una strategia messa in atto negli ultimi mesi da Maliki per mettere a tacere i propri oppositori interni e che comprende ondate di arresti di sunniti accusati di aver fatto parte del partito Baath di Saddam Hussein ed ex ufficiali che avrebbero complottato per rovesciare il governo centrale. Quest’ultima accusa trae origine dalle informazioni passate a Maliki dal nuovo governo libico, il quale avrebbe a sua volta scoperto documenti segreti a Tripoli che documentano come Gheddafi avesse finanziato e incoraggiato una rivolta sunnita contro il premier sciita dopo l’addio dei soldati americani all’Iraq.
Che il primo ministro non abbia alcuna intenzione di fare marcia indietro lo si è visto anche in una lunga intervista alla TV irachena andata in onda mercoledì, nella quale Maliki ha minacciato, tra l’altro, di rendere pubbliche nuove prove in suo possesso che implicherebbero alcuni avversari politici in attentati terroristici.
In questo scenario, il governo guidato da Maliki appare in grave pericolo, se non già formalmente in crisi. L’esecutivo guidato dal premier sciita era nato grazie al raggiungimento di un faticoso accordo nel dicembre 2010 dietro le pressioni americane e a distanza di ben nove mesi dalle elezioni parlamentari. Maliki aveva potuto così conservare la carica di primo ministro, anche se le altre formazioni politiche rappresentanti le minoranze curda e sunnita avevano ottenuto cariche importanti. L’accordo di governo si fondava soprattutto sulla collaborazione di Iraqiya, di cui fa parte il vice-presidente Hashimi e che dopo l’emissione del mandato di cattura ha annunciato invece il ritiro dei propri ministri dal gabinetto.
Il riesplodere del settarismo in Iraq dopo la parziale uscita di scena degli Stati Uniti è da attribuire in primo luogo ai leader politici espressione dei vari gruppi religiosi, che sfruttano le divisioni nel paese anche per cercare di distogliere l’attenzione degli iracheni dalla situazione disastrosa seguita all’invasione americana del 2003 di cui hanno ampiamente beneficiato. Il profondo malcontento che attraversa la popolazione è testimoniato infatti dalle numerose manifestazioni di protesta esplose in varie località del paese nei mesi scorsi sull’onda della Primavera Araba.
In questo quadro di tensioni settarie si inseriscono anche i malumori delle province a maggioranza sunnita che stanno cercando una qualche autonoma da Baghdad, sul modello della regione curda. Particolarmente delicata appare la situazione nella provincia orientale di Diyala, dove i leader sunniti hanno chiesto maggiori poteri al governo centrale. A queste richieste ha fatto seguito però la dura reazione di Baghdad, concretizzatasi con una serie di manifestazioni organizzate dai partiti locali alleati di Maliki che hanno causato la fuga del governatore sunnita - anch’egli rifugiatosi nel Kurdistan iracheno - sostituito dal suo vice, di fede sciita.
La domanda di una maggiore autonomia da parte di queste province deriva dai timori diffusi per l’eccessiva vicinanza all’Iran di Maliki e del suo governo, laddove i sunniti desidererebbero invece una maggiore affinità con l’Arabia Saudita e gli altri paesi del Golfo.
Da qui l’apprensione del primo ministro che l’uscita di scena degli USA possa rinvigorire i sunniti, contro i quali si scaglia denunciando ipotetiche trame per rovesciare il suo governo e ristabilire un regime simile a quello di Saddam. Per questa ragione, Maliki continua anche a rifiutarsi di condannare il regime di Assad in Siria, poiché una sua caduta potrebbe avere effetti nefasti per Baghdad. Un nuovo governo a maggioranza sunnita e anti-iraniano a Damasco darebbe infatti un’ulteriore impulso alle rivendicazioni sunnite in Iraq.
Per gli iracheni, in ogni caso, una nuova guerra settaria nel paese avrebbe conseguenze catastrofiche. Il conflitto causato dall’occupazione americana ha già causato centinaia di migliaia di morti tra i civili, soprattutto tra il 2006 e il 2008, nonché abusi, atrocità diffuse e più di quattro milioni di profughi. A ricordare la precarietà della situazione in Iraq, giovedì mattina nella capitale sono state varie esplosioni che hanno provocato più di sessanta morti e centinaia di feriti.
La crescente instabilità nel paese è seguita infine con grande apprensione dagli Stati Uniti, da dove l’amministrazione Obama si sta muovendo per cercare di calmare gli animi a Baghdad. Nei giorni scorsi, ad esempio, il vice-presidente Joe Biden ha avuto colloqui telefonici con Maliki e con il presidente iracheno, Jalal Talabani, per spingere le parti verso un compromesso. Allo stesso tempo, nonostante le imminenti festività natalizie, il presidente democratico ha rispedito in Iraq sia l’ambasciatore USA, James Jeffrey, che il direttore della CIA, David Petraeus, nel tentativo di evitare che la situazione possa sfuggire definitivamente di mano.