di Michele Paris

Nessuna sostanziale sorpresa ha fatto registrare il secondo round delle primarie repubblicane negli Stati Uniti. Nel piccolo Stato del New Hampshire il successo è andato al favorito della vigilia, il miliardario mormone Mitt Romney, il quale ha potuto così bissare l’affermazione della settimana scorsa nei caucus dell’Iowa e rafforzare la sua posizione di “front-runner” nella corsa alla nomination di un partito sempre più spostato a destra.

Nonostante i ripetuti attacchi lanciati nell’ultima settimana dai suoi principali rivali repubblicani, Romney ha incassato una vittoria piuttosto netta, capitalizzando il legame speciale che vanta con questo stato del New England. Romney è stato governatore del confinante Massachusetts tra il 2003 e il 2007 e si reca frequentemente in New Hampshire, dove possiede una delle sue numerose abitazioni. Il suo messaggio relativamente moderato sembra inoltre trovare terreno fertile tra l’elettorato dello Stato, anche se qui nel 2008 dovette subire da John McCain la sconfitta decisiva che mise fine alle sue speranze di nomination.

Primo candidato repubblicano (presidenti in carica esclusi) a vincere le due competizioni che aprono la stagione delle primarie dal 1976, nelle primarie del New Hampshire Mitt Romney ha raccolto il 39,4% dei consensi (quasi 100 mila voti), staccando di oltre 16 punti percentuali il secondo classificato, il deputato libertario del Texas, Ron Paul (22,8%).

Dal momento che la composizione dell’elettorato del New Hampshire difficilmente avrebbe potuto favorire una rimonta da parte dei candidati più conservatori, la questione di una possibile alternativa a Romney è rimandata alle cruciali primarie della Carolina del Sud, in programma il 21 gennaio prossimo. Qui il voto dei conservatori - legati principalmente all’industria militare dello Stato e ai Tea Party - avrà infatti un peso maggiore e risulterà fondamentale per le aspirazioni di candidati come Newt Gingrich e Rick Santorum.

Dietro a Romney, come già anticipato, è giunto Ron Paul, il quale aveva già fatto segnare un discreto terzo posto in Iowa. Paul ha beneficiato delle regole elettorali del New Hampshire, dove possono votare nelle primarie repubblicane sia gli indipendenti che gli elettori registrati come democratici. Gli indipendenti sono stati circa la metà di coloro che si sono recati alle urne ed hanno dimostrato di preferire il messaggio pacifista e radicalmente anti-governativo del 76enne parlamentare texano. Visto le sue posizioni decisamente lontane da quelle ufficiali repubblicane sui temi della sicurezza nazionale e in politica estera, Romney non sembra temere troppo la concorrenza di Ron Paul, anche se quest’ultimo ha costruito una macchina elettorale molto organizzata in tutto il paese che potrebbe consentirgli di rimanere competitivo per parecchio tempo.

Dietro Romney e Paul si è piazzato un altro candidato propostosi come moderato e che non aveva praticamente svolto campagna elettorale in Iowa. Si tratta di John Huntsman, figlio di uno degli uomini più ricchi d’America. Ex governatore dello Utah e fino a pochi mesi fa ambasciatore a Pechino per l’amministrazione Obama, Huntasman aveva puntato tutto sulle primarie del New Hampshire per tenere in vita una candidatura che ha comunque ben poche chances di decollare. Il modesto risultato (16,8%) non dovrebbe portarlo molto lontano, anche perché, paradossalmente, la sua campagna non può contare sulle risorse di cui dispongono i rivali.

Sebbene tutti i contendenti repubblicani propongano ricette economiche ultraliberiste che favoriscono i redditi più alti, alcuni candidati nei giorni precedenti il voto avevano attaccato Romney per il suo passato nel “private equity”. Alla guida della compagnia Bain Capital, negli anni Ottanta e Novanta, Romney aveva infatti accumulato una fortuna acquistando aziende, smembrandole, mandandole in bancarotta e licenziando senza scrupoli i loro dipendenti. Gli attacchi nei suoi confronti sono giunti in particolare da Newt Gingrich, dopo che anch’egli era stato bersaglio di campagne negative in Iowa orchestrate da organizzazioni (Super PAC) vicine a Romney e a Rick Perry.

Per l’ex speaker della Camera questa strategia aggressiva non ha pagato in New Hampshire, come dimostra il quarto posto col 9,4% dei voti, ma verrà comunque ribadita in Carolina del Sud, dove si presenterà con un assegno da 5 milioni di dollari staccato qualche giorno fa alla Super PAC a lui vicina dall’amico e imprenditore miliardario nel settore dei casinò, Sheldon Adelson. Il denaro così raccolto andrà a finanziare in gran parte l’acquisto di spazi pubblicitari per mettere in cattiva luce Mitt Romney.

La sorpresa dei caucus dell’Iowa, l’ex senatore della Pennsylvania Rick Santorum, ha poi subito un brusco risveglio in New Hampshire. Il denaro improvvisamente entrato nelle sue casse dopo aver perso la settimana scorsa per appena otto voti da Romney, non gli ha permesso di estendere il proprio appeal in uno stato che vede con diffidenza il fondamentalismo cristiano che è alla base del suo messaggio politico. Per Santorum rimane qualche lieve speranza di riprendersi in Carolina del Sud, uno stato che potrebbe invece segnare la fine definitiva per Rick Perry. Il governatore del Texas ha tralasciato il New Hampshire per concentrarsi sul primo Stato del sud a tenere le primarie, ma nonostante abbia ancora parecchio denaro a disposizione la sua candidatura sembra avere ormai i giorni contati.

In attesa di capire se potrà emergere un unico candidato alternativo a Romney in grado di coagulare il voto dell’ala conservatrice del partito, buona parte dei media americani continua a veicolare il senso di inevitabilità della candidatura dell’ex governatore del Massachusetts. Quest’ultimo ha dalla sua soprattutto le ingenti risorse per finanziare una lunga campagna elettorale, grazie anche ai legami che ha coltivato negli anni con Wall Street. Mitt Romney ha raccolto donazioni per circa 23 milioni di dollari solo negli ultimi mesi del 2011 e in questi giorni ha incassato l’appoggio formale (“endorsement”) di politici repubblicani di spicco, come l’ex rivale John McCain.

In ogni caso, dopo appena due appuntamenti elettorali, gli equilibri in casa repubblicana sono dettati, oltre che dalle disponibilità economiche, dall’esposizione mediatica dei candidati. Per ottenere ufficialmente la nomination, un contendente repubblicano deve infatti mettere assieme quasi 1.200 delegati. Le primarie del New Hampshire ne hanno assegnati per ora solo 12 - Romney ne ha conquistati 7, Paul 3 e Huntsman 2 - dopo che i vertici nazionali del partito avevano deciso di dimezzare la quota riservata a questo Stato per punire i dirigenti locali, colpevoli di aver anticipato la data del voto, inizialmente fissata per il mese di febbraio.

Come già alla vigilia dei caucus dell’Iowa, anche il voto in New Hampshire è stato preceduto da varie schermaglie tra i sei repubblicani in corsa per la Casa Bianca. Nonostante gli scambi di accuse, tuttavia, i candidati risultano d’accordo sulle fondamentali questioni economiche e di politica estera - con l’eccezione di Ron Paul su quest’ultimo argomento - con le quali sarà chiamato a fare i conti il prossimo presidente americano.

Tutti i candidati repubblicani, così come Obama, concordano cioè sulla necessità sia di far pagare a lavoratori, disoccupati e pensionati la crisi in atto, che di mantenere un atteggiamento aggressivo al di fuori dei confini per salvaguardare gli interessi USA. Le loro divergenze riflettono semmai le divisioni all’interno delle élite che detengono il potere nel paese e che riguardano, ad esempio, l’opportunità di collaborare o meno con le organizzazioni sindacali negli attacchi alle condizioni di vita e ai diritti dei lavoratori, oppure la scelta di scatenare una nuova guerra piuttosto che conservare le risorse per i conflitti già in corso. Questi, in definitiva, sono i limiti angusti entro i quali si gioca negli Stati Uniti la competizione per la nomination repubblicana e per la Casa Bianca.

di Michele Paris

Da lunedì scorso la Nigeria è bloccata da uno sciopero generale indefinito, proclamato per protestare contro l’improvvisa cancellazione dei sussidi governativi al prezzo dei carburanti. In seguito alla decisione presa a inizio anno dal presidente Goodluck Jonathan, il costo della benzina per i nigeriani è più che raddoppiato da un giorno all’altro, scatenando manifestazioni e scontri in tutto il paese che hanno già causato alcuni decessi e centinaia di feriti, vittime della durissima reazione delle forze di sicurezza.

Lo sciopero in corso è stato indetto dalle due principali organizzazioni sindacali del paese africano, anche se il movimento di protesta contro il taglio dei sussidi era in realtà esploso spontaneamente, autodefinendosi “Occupy Nigeria” per sottolineare, qui come in Occidente, le sempre più difficili condizioni economiche della maggior parte della popolazione e le enormi disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza.

L’annuncio dell’addio ai sussidi ai carburanti in Nigeria da parte del presidente era giunto il primo gennaio scorso, con l’immediata conseguenza di un’impennata del prezzo della benzina alle pompe, passato da 0,45 dollari a 0,94 dollari al litro. Al rialzo del costo dei carburanti si è accompagnata una raffica di aumenti sui prezzi di altri beni e servizi di prima necessità, dal cibo ai trasporti. Allo stesso tempo, la precaria rete elettrica del paese ne ha risentito pesantemente, dal momento che essa dipende in gran parte da generatori alimentati a benzina.

I sussidi soppressi dal governo rappresentano uno dei pochissimi benefici che i nigeriani ottengono dallo sfruttamento selvaggio delle enormi risorse energetiche del paese da parte delle multinazionali del petrolio. Gli effetti dell’operazione rischiano così di avere gravi conseguenze in un paese di 167 milioni di abitanti, di cui oltre i due terzi costretti a sopravvivere con meno di due dollari al giorno.

Lo sciopero iniziato lunedì ha fatto segnare un’ampia partecipazione in tutti i settori pubblici e privati, paralizzando la principale città del paese, Lagos, la capitale, Abuja, e gli altri maggiori centri abitati. Anche se un tribunale nigeriano ha emesso un ordine per porre fine allo sciopero, i sindacati hanno manifestato l’intenzione di continuare con la protesta. Gli scontri più gravi sono avvenuti per ora nella città settentrionale di Kano, dove le forze di polizia avrebbero fatto almeno tre morti dopo avere aperto il fuoco sui manifestanti che avevano assediato un edificio governativo.

Non è servito poi a calmare gli animi, né a evitare lo sciopero, l’appello lanciato in diretta TV sabato scorso dal presidente Jonathan, il quale aveva promesso una riduzione del 25 per cento del suo stipendio e di quello dei membri del suo governo. Il presidente ha in ogni caso ribadito la necessità di porre fine ai sussidi, poiché “devono essere fatte scelte difficili per salvaguardare l’economia e la sopravvivenza stessa della nazione”. In Nigeria come altrove, ovviamente, le “scelte difficili” riguardano esclusivamente gli strati più disagiati della popolazione, mentre non toccano la ristretta élite di privilegiati che controlla il potere e le ricchezze del paese.

La decisione del presidente e del suo ministro dell’Economia, l’ex dirigente della Banca Mondiale Ngozi Okonjo-Iweala, è stata presa inoltre in seguito alle pressioni degli ambienti finanziari internazionali. Lo scorso dicembre, ad esempio, la direttrice del Fondo Monetario Internazionale, Christine Lagarde, era stata in visita in Nigeria, elogiando l’amministrazione Jonathan per il suo impegno a perseguire riforme orientate verso il “libero mercato”.

La Nigeria produce più di due milioni di barili di petrolio al giorno, ma il greggio estratto viene in gran parte raffinato all’estero e poi reimportato per il consumo interno. Per questo, il governo spende annualmente circa 8 miliardi di dollari - cioè un quarto del proprio budget - in sussidi per compensare la differenza tra il prezzo del petrolio sui mercati internazionali e quello con cui viene venduto nel paese. Per il presidente, l’eliminazione dei sussidi consentirà al governo di investire nell’ammodernamento delle infrastrutture che versano in condizioni disastrose. La sorte del provvedimento, tuttavia, appare in bilico, dal momento che tutti i tentativi dei precedenti governi di cancellare i sussidi si sono risolti in altrettante marce indietro, vista la massiccia resistenza popolare puntualmente incontrata.

L’impopolarità della misura, d’altra parte, è stata confermata da un sondaggio condotto da uno studio di consulenza di Abuja e citato martedì dal Wall Street Journal. Secondo i dati raccolti, il 98 per cento dei nigeriani intervistati sarebbe infatti contrario alla fine dei sussidi. In merito alle proteste esplose nel paese, il direttore dello stesso studio ha poi ammesso che “non stiamo parlando di opposizione [alla rimozione dei sussidi], ma di una rivolta generale”.

Gli scioperi in corso in Nigeria hanno intanto già contribuito all’ulteriore innalzamento della quotazione del greggio sui mercati internazionali, spaventati dall’eventualità che alle proteste possano unirsi anche i lavoratori dei pozzi petroliferi. Per il momento, tuttavia, sembra che la produzione di petrolio nel paese non abbia risentito delle tensioni.

La nuova crisi giunge nel pieno di un’ondata di violenze settarie provocate dal gruppo fondamentalista islamico Boko Haram, espressione del malcontento diffuso nelle aree più povere nel nord del paese e che ha causato 510 morti nel 2011, tra cui 49 in un attentato contro una chiesa cattolica il giorno di Natale.

La vera minaccia per la gran parte della popolazione nigeriana non viene però dalle divisioni religiose o dal terrorismo, bensì proprio da un governo centrale irrimediabilmente corrotto e al servizio dei colossi dell’industria petrolifera e della finanza internazionale. Una realtà compresa alla perfezione dai nigeriani, come confermano gli scioperi e le proteste di questi giorni, alle quali hanno preso parte indistintamente sia i cristiani che i musulmani.

di Michele Paris

Il primo rapporto degli osservatori inviati in Siria dalla Lega Araba il 26 dicembre scorso è stato presentato ufficialmente domenica presso il quartier generale dell’organizzazione panaraba al Cairo. Dopo le forti pressioni americane ed occidentali degli ultimi giorni, il giudizio della Lega sulla situazione nel paese è risultato meno incoraggiante rispetto alle prime impressioni rilasciate dagli osservatori stessi, anche se è stata finalmente riconosciuta la presenza attiva di gruppi armati che si battono contro le forze di sicurezza del regime e che contribuiscono al continuo lievitare delle violenze.

La Lega Araba ha lanciato un nuovo appello al governo di Bashar al-Assad per fermare le violenze nel paese e implementare i termini della road map che Damasco aveva accettato il 19 dicembre. Allo stesso tempo è stato chiesto ai rivoltosi di astenersi da azioni violente e di tornare a manifestare in maniera pacifica, così da consentire agli osservatori nel paese di portare a termine la propria missione.

I 165 osservatori della Lega Araba erano giunti in Siria con l’incarico di verificare le condizioni sul campo nel paese mediorientale e la volontà del governo di mettere in pratica il dettato di un accordo che prevede, tra l’altro, il ritiro dei militari dalle città teatro della rivolta, la liberazione di tutti i prigionieri politici e l’avvio di un dialogo con le forze di opposizione.

Il rapporto degli osservatori inviato nella capitale egiziana non appoggia interamente la posizione del regime, secondo il quale gli scontri sarebbero causati dalla presenza in Siria di gruppi terroristici armati da paesi stranieri, ma non conferma però quanto sostiene l’opposizione, cioè che le forze di sicurezza fedeli ad Assad stiano operando su vasta scala nelle città in rivolta.

La temporanea fiducia nella missione in corso è stata poi confermata dalla decisione di aumentare il numero degli osservatori da inviare in Siria, che salirà a 300. Il nuovo gruppo di osservatori dovrà presentare un rapporto aggiornato entro il 19 gennaio prossimo e, fino a quel giorno, è certo che le pressioni su di loro e sulla Lega Araba non faranno che aumentare.

Già alla vigilia dell’incontro di domenica, il primo ministro e ministro degli Esteri del Qatar, Sheik Hamad bin Jassem al-Thani, che presiede la commissione della Lega per la Siria, aveva chiesto all’ONU di partecipare alla missione degli osservatori. Secondo al-Thani, infatti, Damasco non sta implementando le condizioni della road map e, perciò, la missione stessa sarebbe una perdita di tempo.

Dopo il rapporto degli osservatori e le dichiarazioni del segretario generale della Lega, Nabil el-Araby, secondo il quale le violenze negli ultimi giorni in Siria sono diminuite, i carri armati sono stati ritirati da alcune città e centinaia di prigionieri sono stati liberati, lo stesso al-Thani ha dovuto ammettere qualche miglioramento, anche se ha poi ribadito che, nel caso le uccisioni nel paese dovessero continuare, allora “la presenza degli osservatori diventerebbe inutile”.

La proposta di far intervenire l’ONU per risolvere la crisi siriana da parte del primo ministro del Qatar è stata però respinta dalla Lega Araba. Una decisione questa che ha messo in evidenza le divisioni all’interno dell’organizzazione, dove i membri meno allineati con gli Stati Uniti temono che un intervento delle Nazioni Unite possa essere la premessa di una nuova intromissione occidentale nelle vicende di un paese arabo. Un tale scenario alimenterebbe l’ostilità delle popolazioni arabe verso gli USA, creando nuove tensioni in molti paesi.

Dietro alla richiesta di al-Thani ci sono innanzitutto le monarchie dittatoriali del Golfo Persico che puntano alla rimozione del regime alauita (sciita) di Assad in Siria e, ovviamente, Washington. Il trasferimento della questione siriana all’ONU rappresenterebbe un ulteriore passo verso una soluzione simile a quella libica. L’intenzione degli Stati Uniti è di giungere ad una condanna del regime di Damasco da parte del Consiglio di Sicurezza così da legittimare un qualche intervento militare per rovesciare Assad e installare un nuovo governo sunnita filo-occidentale, con l’obiettivo ultimo di isolare l’Iran nella regione mediorientale.

L’amministrazione Obama ha d’altra parte criticato da subito la missione promossa dalla Lega Araba in Siria. Quando il 2 gennaio scorso gli osservatori annunciarono che le forze armate siriane si erano ritirare dalle principali città e che nel paese erano stati registrati significativi progressi, gli USA intervennero sostenendo fermamente che Assad non aveva mantenuto la promessa di rispettare l’accordo sottoscritto e che era sempre più necessaria una risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU.

Verosimilmente per convincere la Lega Araba ad adottare una posizione più critica nei confronti di Damasco, la settimana scorsa la Casa Bianca ha anche inviato in fretta e furia al Cairo l’assistente al Segretario di Stato per gli Affari del Vicino Oriente, il diplomatico Jeffrey Feltman. Nel rapporto sulla Siria i toni si sono fatti così più critici verso il regime, il quale avrebbe messo in atto solo “parzialmente” le misure richieste dalla Lega Araba.

Che la situazione in Siria sia invece più complessa di quanto non traspaia dai media e dalla propaganda dei governi occidentali è stato confermato, oltre che dal sanguinoso attentato a Damasco di venerdì scorso con 26 morti, anche dallo stesso capo degli osservatori. Secondo quanto riportato da alcuni media arabi, il generale sudanese Mohamed Ahmed Mustafa al-Dabi avrebbe confermato la presenza di gruppi armati di opposizione che controllano molte aree del paese. Al-Dabi avrebbe anche messo in guardia dal trasferimento della responsabilità della missione all’ONU, chiedendo piuttosto alla Lega Araba più fondi e un maggior numero di osservatori, come appunto è stato fatto domenica.

Al di là di quanto sta accadendo realmente in Siria, gli Stati Uniti e i loro alleati in Europa e nel mondo arabo intendono ottenere dagli osservatori un rapporto finale quanto più critico possibile sulla condotta del regime di Damasco, in modo da giustificare un nuovo innalzamento dei toni nei confronti di Assad.

Se un intervento diretto della NATO in Siria appare alquanto improbabile, il tentativo di Washington sembra essere quello di giungere quanto meno alla creazione di corridoi “umanitari” in territorio siriano nelle regioni di confine con Turchia, Libano o Giordania. Qui i ribelli, organizzati principalmente nel cosiddetto Esercito Libero della Siria, potrebbero essere appoggiati dalle forze armate turche, giordane o dello stesso Qatar per condurre le proprie operazioni contro il regime.

L’ostacolo al raggiungimento di un consenso nella comunità internazionale e, quindi, di una soluzione simile a quella riservata alla Libia di Gheddafi, è per ora la posizione di Cina e, soprattutto, Russia all’interno del Consiglio di Sicurezza. Per Mosca la caduta dell’alleato Assad rappresenterebbe infatti un colpo mortale ai propri interessi in Medio Oriente. Per questo, la destabilizzazione del regime di Damasco appare ancor più un gioco rischioso che minaccia di innescare un conflitto dalle conseguenze rovinose per l’intera regione.

di Luca Mazzucato

NEW YORK. C'era una volta la democrazia in America. Che se ne stia scappando a gambe levate, pare se ne siano accorti per il momento solo i giovani di Occupy Wall Street. Ha ancora senso nel 2012 lo slogan “una testa, un voto?” Disse Mitt Romney, l'attuale favorito nella corsa contro Obama: “Le aziende sono persone, amico mio!” rispondendo alla domanda trabocchetto di un’attivista, che gli chiedeva se fosse giusto che le donazioni elettorali da parte delle aziende siano illimitate. E confluiscano tutti nel mostro giuridico chiamato Super PAC.

No, non è una versione 2.0 di Pacman, il videogame. Anche se, un po' come nel videogame, questo Super PAC mangia soldi senza sosta, in un labirinto normativo, aggirando tutte le norme di buon senso. Vediamo come funzionano questi oggetti misteriosi del desiderio di ogni politico.

In principio fu la famigerata sentenza “Citizens United” della Corte Suprema. I giudici stabilirono il seguente sillogismo demenziale: le aziende hanno libertà di parola come le persone, nel caso vogliano decidere di appoggiare un candidato; le aziende si esprimono non con le parole, ma con il denaro, dunque le aziende possono donare somme illimitate ai candidati. Un ragionamento molto semplice. Persino secondo John McCain, candidato repubblicano che perse contro Obama nel 2008, questa sentenza è “una delle decisioni peggiori della storia della Corte Suprema, che con la sua assoluta ignoranza della politica” ha determinato “un'inondazione di denaro nelle campagne elettorali, non trasparente e non rintracciabile.”

Un qualunque cittadino può registrare il suo Super PAC presso la commissione elettorale federale, dichiarando il sostegno per uno dei candidati. Una volta creato, il Super PAC può raccogliere qualsiasi donazione, da parte di persone o aziende, senza alcun limite di finanziamento. Per esempio, Goldman Sachs potrebbe aver donato un miliardo di dollari al Super PAC che sostiene Mitt Romney. La cosa divertente è che nessuno lo saprebbe. Infatti l'unico obbligo è di rendere note le donazioni ogni tre mesi, ma basta scegliere la scadenza dei tre mesi in modo oculato. I candidati repubblicani hanno deciso di pubblicare la lista dei donatori non prima, ma dopo le recenti primarie in Iowa, tanto per essere sicuri che i loro elettori del Tea Party, infuriati con le grandi banche, non scoprissero che i portafogli dei loro beniamini sono stracolmi di soldi di Wall Street.

Ci sono persino casi ai confini della realtà, come quello del Super PAC della mitica Sara Palin. Com'è possibile che anche lei abbia un Super PAC, visto che non si è candidata? In realtà, Sara Palin o chi per lei registrò un bel Super PAC l'anno scorso, che iniziò a incanalare un grossissimo volume di denaro per far partire la campagna elettorale. La Palin usò le donazioni per comprare un bus e finanziare il suo viaggio attraverso i luoghi storici degli Stati Uniti e una lunga serie di comizi in tutto il Paese. Peccato che, venuto il momento di annunciare la sua candidatura, Sara Palin decise di... non farlo. Lasciando tutti di stucco, con una colossale figuraccia. A parte un piccolo particolare: si è tenuta i soldi!

L'attuale legislazione sui Super PAC è talmente scandalosa che il famoso comico Stephen Colbert ha deciso di farne un colpo di teatro. Dopo aver ottenuto l'autorizzazione dalla commissione elettorale ad aprire il suo Super PAC, ha deciso di usarlo per “sostenere” la campagna del governatore repubblicano del Texas Rick Perry, noto con il nomignolo “George Bush con gli steroidi.” Chiedendo donazioni ai telespettatori del suo seguitissimo programma di satira The Colbert Report, il comico continua a raccogliere decine di migliaia di dollari. Usati per mandare in onda finti spot elettorali in favore di Perry, che in realtà sbugiardavano le bassezze fasciste e l'ignoranza bieca del candidato repubblicano. Chiedendo fra l'altro ai suoi telespettatori di andare a votare per lui e di scrivere sulla scheda non Perry ma “Parry con la A, come in America!”

Risultato: centinaia di voti per Rick Parry nella fiera dell'Iowa “straw poll,” un'anteprima delle primarie, voti che però sono stati conteggiati comunque a favore del governatore del Texas. Un vero spasso.

di Carlo Musilli

Si è chiuso in Egitto il terzo turno delle elezioni parlamentari, le prime dopo la caduta del dittatore Hosni Mubarak, avvenuta l'11 febbraio dello scorso anno. E mentre ieri, nel processo contro l'ex Presidente, il pubblico ministero chiedeva la condanna alla pena di morte, gli occhi degli egiziani erano già puntati sui primi risultati ufficiali delle consultazioni, che però arriveranno solo a fine mese.

I grandi favoriti per il successo finale rimangono comunque i partiti d'ispirazione islamica: Al-Naour, formazione salafita, e soprattutto Giustizia e Libertà, la lista dei Fratelli Musulmani. Questi ultimi hanno ottenuto il maggior numero di voti nei primi due turni, in parte grazie alle varie promesse di stabilità fatte negli ultimi mesi, che sembrano aver attecchito fra diversi strati della popolazione egiziana. La loro eventuale affermazione rischia però di esacerbare le già gravi tensioni politiche sul fronte interno come su quello internazionale, complicando ulteriormente i rapporti con Israele.

Fra martedì e mercoledì sono stati circa 14 milioni i cittadini chiamati alle urne, ma l'affluenza è stata bassa. In particolare, si sono espressi i residenti nelle nove regioni intorno al Sinai, al delta del Nilo e nel Sud rurale a maggioranza copta. Hanno votato per eleggere 498 parlamentari dell'Assemblea del Popolo, la Camera dei deputati (o Camera bassa) dell'Egitto.

Nonostante la vittoria dei Fratelli Musulmani sembri ormai già scritta agli occhi di molti, sono ancora diversi i dubbi da sciogliere. Innanzitutto, i governanti militari non hanno fatto luce sui criteri che saranno utilizzati per distribuire i seggi in relazione ai voti ottenuti. Non è un dettaglio di poco conto: potrebbe fare la differenza fra un governo islamico a maggioranza assoluta e un governo di coalizione.

Da tempo la Fratellanza ripete di non attendersi un'affermazione superiore al 40% e di puntare quindi sulla strada dell'alleanza con altri partiti. Questi buoni propositi non hanno nulla a che fare con un atteggiamento realmente democratico, ma sono utili a tranquillizzare gli animi delle potenze occidentali e dei liberali egiziani, terrorizzati dalla possibilità di veder nascere un governo interamente islamico.

E' probabile inoltre che i Fratelli Musulmani vogliano spartire con altri le responsabilità che si dovranno assumere in un periodo di transizione molto difficile per il Paese, sia dal punto di vista istituzionale sia da quello economico. Per queste stesse ragioni la Fratellanza preferirebbe allearsi con i liberali piuttosto che con gli ultra-conservatori salafiti, anche se proprio la forza dimostrata da questi ultimi rappresenta fin qui la più grossa sorpresa emersa dalle urne.

Altro nodo decisivo per il futuro dell'Egitto è il potere che sarà effettivamente attribuito al nuovo Parlamento. I militari hanno già fatto sapere che intendono tenere per sé l'autorità di revocare il primo ministro, per poi nominarne uno ad interim. L'assemblea appena eletta dal popolo si rivelerebbe così poco più di un fantoccio ostaggio dell'esercito, con buona pace dei partiti.

I Fratelli musulmani però continuano a ostentare forza e intransigenza: "Questo Parlamento seguirà i principi che hanno ispirato la rivoluzione, garantendo la libertà e la fine della legge di emergenza - ha detto Mohamed Elbeltagy, un esponente di Giustizia e Libertà -. Per assicurare il processo democratico, c’impegneremo affinché l’elezione presidenziale conduca verso la fine del potere dell’esercito".

Intanto, sullo scacchiere mediorientale la situazione si fa sempre più tesa. In un'intervista al quotidiano arabo Al-Hayat, il leader della Fratellanza, Rashad Bayoumy, ha ribadito la dura posizione del gruppo nei confronti di Gerusalemme: “Riconoscere Israele è una precondizione per governare? Questo non è possibile, le circostanze non hanno importanza. Non riconosciamo Israele nel modo più assoluto. È un nemico criminale e occupante”.

Bayoumy ha poi specificato che nessun membro del suo partito si siederà a un tavolo di trattative con gli israeliani. Anzi, i Fratelli Musulmani intendono perfino organizzare un referendum (il cui esito sarebbe quasi certamente favorevole) per chiedere agli egiziani di rinnegare il trattato di pace con Israele. Quello firmato nel 1979, pochi mesi dopo gli accordi di Camp David siglati sotto la mediazione del presidente americano Jimmy Carter. Per un Paese che dovrebbe guardare avanti, non si potrebbe immaginare un inizio peggiore.


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