di Michele Paris

Dopo quasi un mese di stop, domenica scorsa gli Stati Uniti sono tornati a colpire con i droni in territorio pakistano, uccidendo quattro presunti militanti islamici. La più recente incursione è giunta nel pieno dei negoziati tra Washington e Islamabad per cercare di ristabilire i rapporti tra i due paesi, severamente danneggiati dall’assassinio di Osama bin Laden un anno fa e dalla strage di soldati pakistani da parte dei militari americani lo scorso mese di novembre.

L’attacco aereo dell’altro giorno ha avuto come bersaglio la città di Miranshah, capitale del Waziristan del Nord, dove è stata colpita una scuola femminile abbandonata, utilizzata dagli estremisti. L’operazione statunitense ha suscitato le dure proteste del governo pakistano, il quale aveva recentemente vincolato il ripristino della partnership con gli USA, tra l’altro, proprio alla sospensione degli attacchi con i droni sul proprio territorio.

Il governo di Islamabad martedì ha presentato una protesta formale ad un diplomatico americano convocato presso il ministero degli Esteri, mentre secondo alcuni il Pakistan potrebbe anche boicottare l’importante summit della NATO in programma a Chicago il 20 e il 21 maggio prossimi.

Lo stop alla campana con i droni era una delle condizioni contenute in una serie di linee giuda approvate all’unanimità dal parlamento pakistano qualche settimana fa e a cui la politica estera del governo dovrebbe attenersi, in particolare nei rapporti con gli Stati Uniti. Il documento partorito da una speciale commissione parlamentare pakistana era inteso più che altro a rispondere in qualche modo alla crescente ostilità nel paese verso gli USA e a fornire alla classe dirigente locale la possibilità di ristabilire le fondamentali relazioni con Washington nonostante i numerosi motivi di scontro.

Per trattare la rinnovata partnership, la settimana scorsa l’amministrazione Obama aveva inviato a Islamabad il proprio rappresentante speciale per l’Afghanistan, il diplomatico Marc Grossman, il quale tuttavia venerdì ha lasciato il paese senza un accordo.

Il punto non risolto, secondo i resoconti dei media, sarebbe stato il rifiuto da parte degli Stati Uniti di esprimere scuse ufficiali per la già ricordata uccisone di 24 soldati pakistani in uno scontro armato di frontiera il 24 novembre 2011.

L’amministrazione Obama e il Pentagono si sarebbero impuntati in seguito all’assedio del 15 aprile scorso condotto da militanti islamici a Kabul e in altre località dell’Afghanistan che, secondo l’intelligence a stelle e strisce, sarebbe stato opera di gruppi estremisti provenienti dal Pakistan.

Sul rifiuto di Washington influiscono anche motivi elettorali, con il presidente Obama che a pochi mesi dal voto non intende pronunciare scuse formali per non essere accusato dai rivali repubblicani di debolezza nei confronti di un paese che intrattiene rapporti ambigui con presunti terroristi.

In gioco per gli Stati Uniti c’è soprattutto la necessità di veder riaperti i valichi di frontiera con l’Afghanistan, così da permettere il transito dei convogli NATO che riforniscono le forze di occupazione. La chiusura dei passi di frontiera da parte di Islamabad era stata decisa dopo la strage del novembre scorso e, per tutta risposta, il governo americano decise di congelare gli aiuti erogati al Pakistan che ammontano a oltre un miliardo di dollari all’anno. L’importanza delle rotte attraverso il Pakistan diventerà ancora maggiore per la NATO nel prossimo futuro, in previsione cioè del ritiro di truppe e materiale militare dall’Afghanistan.

Nonostante la partenza di Grossman dal Pakistan a mani vuote, sembra che una decina di diplomatici americani siano rimasti nel paese per continuare a cercare un accordo che consenta alle parti di salvare la faccia e raggiungere un esito che entrambe auspicano.

L’ultimo attacco con i dronti rischia però di complicare ulteriormente la situazione, dal momento che il governo di Islamabad si trova praticamente costretto a criticare con fermezza gli Stati Uniti per queste operazioni militari profondamente impopolari a causa delle vittime civili che regolarmente causano.

Il governo pakistano, almeno nel recente passato, pur prendendo le distanze pubblicamente dalle incursioni condotte dai droni della CIA, ha in realtà appoggiato in pieno la campagna americana e, anzi, l’ha spesso favorita fornendo preziose informazioni per individuare i bersagli da colpire.

Gli assassini mirati contro sospetti militanti islamici sono d’altra parte considerati fondamentali per gli Stati Uniti e la loro “guerra al terrore”. Questo strumento di morte al di fuori di ogni controllo giuridico viene utilizzato sempre più da Washington, oltre che in Pakistan, in paesi strategicamente importanti per i propri interessi come Yemen e Somalia.

Significativamente, il giorno dopo la ripresa degli attacchi con i velivoli senza pilota in Pakistan, il consigliere di Obama per l’anti-terrorismo, John Brennan, in un discorso al Woodrow Wilson Center di Washington ha ammesso e difeso la legalità e l’efficacia dell’impiego di questo strumento sul territorio di vari paesi sovrani. Nonostante sia universalmente noto che gli USA conducano da anni simili operazioni, gli esponenti del governo americano ne parlano in pubblico solo in rarissime occasioni.

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