di Michele Paris

Da un paio di giorni, il Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, e il suo collega del Tesoro, Tim Geithner, hanno iniziato una delicata visita in Cina in occasione dei colloqui bilaterali annuali sulle questioni economiche e della sicurezza. Sul vertice di quest’anno pesano non solo le crescenti provocazioni statunitensi nel sud-est asiatico, ma anche il più recente scontro diplomatico causato dalla fuga del dissidente cinese Chen Guangcheng dagli arresti domiciliari e tenuto per sei giorni sotto protezione dell’ambasciata USA a Pechino.

Al centro delle discussioni ci saranno principalmente le questioni internazionali più calde (Corea del Nord, Iran e Siria) e quelle spinose relative ai rapporti commerciali tra le prime due economie del pianeta. La retorica di Washington su questi ultimi temi ha fatto peraltro registrare da qualche tempo un parziale abbassamento dei toni, in particolare in seguito al sensibile aumento delle esportazioni americane verso la Cina e ad una certa rivalutazione dello yuan nei confronti del dollaro decisa dalle autorità di Pechino.

Nonostante le crescenti rivalità, dettate dai divergenti interessi strategici, l’intreccio degli interessi economici dei due paesi fa in modo che il percorso intrapreso dalla leadership cinese in questo ambito sia visto con estremo favore a Washington. I vertici del Partito Comunista, impegnati tra qualche mese in un processo di ricambio all’interno degli organi dirigenti, stanno infatti lanciando svariati segnali della loro volontà di aprire ulteriormente l’economia cinese al mercato, consentendo maggiore competitività e avviando verso la privatizzazione alcune grandi aziende e colossi finanziari ancora in mano pubblica.

Questa trasformazione, che accentuerà il già enorme divario tra un’élite privilegiata e la vasta maggioranza della popolazione, ha ricevuto un forte impulso dalla recente purga ai danni del popolare membro del partito Bo Xilai, già governatore della provincia di Chongqing ed ex candidato ad entrare nel Comitato Permanente del Politburo, la cui promettente carriera è stata stroncata dal coinvolgimento con la moglie nella morte misteriosa di un uomo d’affari britannico.

La crisi politica provocata dal caso di Bo Xilai, esponente di spicco della “nuova sinistra” di ispirazione maoista, era stata innescata dal tentativo del suo collaboratore e capo della polizia di Chongqing, Wang Lijun, di cercare asilo politico negli Stati Uniti. In un altro caso imbarazzante per Washington, lo scorso febbraio quest’ultimo era rimasto per 24 ore presso il consolato americano della città di Chengdu, prima di venire consegnato ad agenti della sicurezza cinesi e scortato a Pechino.

Sul processo di “riforme” che intende intraprendere la leadership uscente del Partito Comunista Cinese, così come quella che ne prenderà il posto, hanno da tempo messo gli occhi le aziende statunitensi, le quali cercano ora di avviare colloqui con Pechino per un trattato bilaterale di investimento che, tra l’altro, consenta alle compagnie straniere la piena proprietà di imprese in Cina, cosa attualmente limitata ad una certa percentuale e solo in alcuni settori.

Anche se i colloqui di questa settimana non hanno all’ordine del giorno le questioni dei diritti umani, il caso dell’attivista non vedente Chen Guangcheng, fuggito dalla propria abitazione sotto il controllo delle forze di sicurezza locali in un villaggio rurale della provincia di Shandong, minaccia di complicare i rapporti tra USA e Cina.

Secondo quanto riportato dalla stampa, dopo giorni di trattative tra le due parti, mercoledì Chen avrebbe lasciato l’ambasciata americana a Pechino per recarsi in un ospedale della capitale, mentre le autorità cinesi gli avrebbero concesso di trasferirsi in un posto sicuro in Cina.

Con la sua fuga rocambolesca, Chen è riuscito a portare il proprio caso all’attenzione della comunità internazionale, suscitando la simpatia degli attivisti di mezzo mondo per la sua battaglia contro gli aborti forzati imposti dal governo cinese e limitando i margini di manovra di Pechino per mettere a tacere la vicenda.

Lo stesso Chen, in un video messaggio postato su YouTube il 27 aprile dopo la fuga avvenuta cinque giorni prima e indirizzato al premier Wen Jabao, sembrava aver offerto una via d’uscita al governo centrale, dal momento che aveva accusato proprio le autorità locali per la sua condizione, facendo invece appello a Pechino per venire in suo aiuto.

L’amministrazione Obama dovrà comunque muoversi con circospezione per chiudere definitivamente la vicenda, facendo attenzione, da un lato, a non urtare la sensibilità delle autorità cinesi e, dall’altro, a non dare motivo ai rivali repubblicani di aver mostrato eccessiva debolezza nella gestione della crisi diplomatica.

Il vertice sino-americano vedrà impegnati Hillary Clinton e Tim Geithner da giovedì, mentre mercoledì è andato in scena un prologo con dei colloqui sulle questioni militari in un clima di estrema diffidenza. Certi ambienti americani mettono in guardia da qualche tempo dall’incremento delle spese militari cinesi, anche se, a ben vedere, ciò è dovuto soprattutto alla maggiore presenza americana in Estremo Oriente per cercare di contenere la crescente influenza cinese nel continente.

Pur parlando di cooperazione e interessi condivisi, Washington sta mettendo in atto una politica aggressiva in Asia sud-orientale, rafforzando la partnership con alleati come Corea del Sud, Giappone e Filippine, in funzione anti-cinese. Questa svolta sancita fin dal 2009 dall’amministrazione Obama ha già portato a parecchi incidenti diplomatici e scontri tra le forze navali di Pechino e quelle di paesi come Filippine e Vietnam in alcune aree contese del Mar Cinese Meridionale.

Sul tema della sicurezza, durante i colloqui di questa settimana la Cina dovrebbe sollevare una serie di annose questioni, tra cui quella della fornitura di armi dagli USA a Taiwan, ma anche l’attività spionistica aerea americana sul territorio cinese e le restrizioni all’export di tecnologia militare statunitense.

Più in generale, le preoccupazioni principali di Pechino nei confronti di Washington sono però le manovre americane nelle aree del sud-est asiatico considerate vitali per la sicurezza nazionale cinese. Al di là delle dichiarazioni distensive di circostanza, gli Stati Uniti non sembrano infatti per nulla intenzionati ad invertire una politica che risulta essere la risposta al declino della propria influenza su scala globale e alla rapida ascesa di quella cinese.

Per lanciare un ulteriore messaggio al governo cinese sulla realtà sempre più minacciosa con cui dovrà fare i conti nei prossimi anni, nei giorni precedenti l’avvio dei colloqui annuali, l’amministrazione Obama ha significativamente organizzato due vertici con altrettanti rappresentati di paesi alleati in Estremo Oriente.

Lunedì, Hillary Clinton e il numero uno del Pentagono, Leon Panetta, hanno ospitato a Washington i loro omologhi filippini per riaffermare il totale sostegno degli USA alla ex colonia. L’incontro è avvenuto mentre è in corso da quasi un mese un confronto tra navi da guerra della marina delle Filippine e di Pechino nel Mar Cinese Meridionale.

L’impasse è l’esempio di come un incidente apparentemente di secondaria importanza possa sfociare in un conflitto ben più rovinoso, in questo caso se le Filippine dovessero fare appello al trattato di mutua difesa che obbliga gli Stati Uniti ad intervenire militarmente a fianco dell’alleato in caso di aggressione esterna.

L’altro recente summit nella capitale americana ha avuto come protagonisti il presidente Obama e il primo ministro giapponese Yoshihiko Noda. Nel faccia a faccia è stato ribadito l’impegno di rafforzare l’alleanza strategica tra Washington e Tokyo e di coordinare maggiormente le attività militari dei due paesi. Iniziative, queste, che nonostante le smentite da entrambe le parti sono rivolte principalmente contro la Cina e contribuiscono perciò ad appesantire l’atmosfera delle discussioni in corso a Pechino.

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