di Alessandro Iacuelli

L'Iran è pronto a una grande espansione del suo programma nucleare nel sito sotterraneo di Fordow. È quanto hanno rivelato alcuni diplomatici che hanno chiesto di rimanere anonimi. Teheran, hanno aggiunto, ha preparato il sito per l'installazione di migliaia di centrifughe di nuova generazione, che possono produrre uranio arricchito molto più velocemente dei macchinari presenti al momento. I circuiti elettrici, le tubazioni e attrezzature di appoggio sarebbero già pronti.

L'impianto, costruito all'interno di una montagna in una ex base militare, nei prossimi giorni diverrà pienamente operativo. Sabato scorso il presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, citato dall'agenzia di stampa locale Mehr, ha affermato che "l'Iran a breve presenterà il frutto dei suoi progressi nucleari. Il mondo intero assisterà ad alcuni dei nostri grandi successi in campo nucleare".

Già agli inizi di gennaio Fereydoun Abbasi Davani, capo dell'Organizzazione per l'Energia Atomica Iraniana, aveva detto al quotidiano iraniano Kayahan: "Un sito sotterraneo per l'arricchimento di uranio sarà operativo per gli inizi di febbraio”. Il funzionario aveva poi precisato: “Fordow produrrà uranio arricchito al 20%, 3,5% e 4%. Siamo ormai pronti ad esportare ad altri paesi i servizi legati all’energia nucleare; possiamo produrre acqua pesante".

In realtà quest’uranio arricchito non può essere usato tecnicamente per la produzione di armi nucleari, come sostiene un po' tutto il mondo occidentale, USA in testa. Fisicamente, il processo di arricchimento per costruire una bomba atomica arriva fino al 90%. L’uranio presente nelle armi nucleari abitualmente contiene circa l’85% o più dell'isotopo 235, ed è noto come uranio "a gradazione per le armi". Se l'Iran arriva appena al 20% di arricchimento, non è in grado di produrre bombe atomiche. Al limite potrebbe costruirsi una centrale elettrica, costosissima e senza molto senso in un Paese ricchissimo di petrolio, o più verosimilmente potrebbe venderlo a Paesi terzi.

E' vero, come sostenuto da alcuni, che può bastare circa un 20% di arricchimento per costruire una cosa assomigliante ad un'arma nucleare, viene chiamata "bomba cruda"; ma dai test effettuati negli anni '50, in piena guerra fredda, si è dimostrata molto inefficiente. Pertanto, lo scontro attuale, la tensione altissima tra Iran e Occidente, non è tanto riguardante il sospetto che le sue attività nucleari abbiano finalità prettamente militari, quanto sul rischio che l'Iran si trasformi da Paese acquirente di tecnologie nucleari dell'Occidente, in Paese esportatore di servizi e materiali nucleari, andando a rubare ai Paesi occidentali nicchie di un mercato che diventa sempre più stretto.

Un paio di giorni fa, il presidente Ahmadinejad ha assistito personalmente all'introduzione della prima barra di combustibile nucleare in un reattore a Teheran. Operazione tecnica seguita da due annunci. Il primo è che gli scienziati hanno aggiunto tremila centrifughe alle seimila già esistenti. Il secondo è l'ordine di costruzione di altri 4 reattori "per scopi medici", in particolare la "cura di malati di tumore".

Chiaramente si tratta di un poco velato messaggio al resto del mondo e in particolare agli avversari: la ricerca nucleare sta progredendo nonostante i moniti dell'Occidente. Nonostante questo, Teheran ha finalmente risposto alla richiesta di negoziati sollecitata dai cosiddetti "5+1", ossia Usa, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania, riaprendo la via diplomatica che, per quanto complicata, è una via che molti osservatori invitano comunque ad esplorare.

Il confronto si svolge in una cornice ambigua, anche perché è difficile decifrare le intenzioni di Teheran, spesso misteriose e piene di retroscena. A titolo di esempio, i media iraniani hanno annunciato lo stop delle forniture di greggio a sei paesi europei, Italia inclusa. Una rappresaglia all'adozione delle sanzioni, sembrerebbe. Successivamente, il ministro del Petrolio Hassan Tajik ha smentito: "Manteniamo, per ora, le forniture per motivi umanitari, vista la crisi economica che attanaglia l'Europa".

E' chiaro di cosa si tratta: l'Iran non sospende le forniture ma minaccia di farlo e, trattandosi di petrolio, è la minaccia in sé è forse più forte della sua stessa attuazione. Lo dimostra il veloce contraccolpo in Europa: in seguito all’annuncio, a Londra la quotazione è salita di 1,53 dollari, portandosi a 118,8 dollari al barile. Il tutto per una veloce piroetta iraniana.

C'è da aggiungere che, secondo alcuni analisti politici, questi episodi ambigui sono legati a contrasti interni su come fronteggiare la pressione internazionale. Infatti, non c'è solo il nucleare: le tensioni restano alte dopo gli attacchi in Azerbaigian, India, Georgia, Thailandia. La polizia sostiene che le bombe esplose a Bangkok sono simili a quelle usate a New Delhi e Baku e, pur senza prove, fonti israeliane (ovviamente interessate) si sono dette sicure che si tratta di un'offensiva globale, condotta, però, in fretta, affidata forse a "mercenari".

Episodi che hanno dato vigore a chi ritiene che con l'Iran c’é poco da trattare. A confermarlo, la Gran Bretagna "non chiede" l'uso della forza contro l'Iran, ma neanche "esclude questa opzione". Lo ha dichiarato il ministro degli esteri britannico William Hague alla Bbc. A una domanda su un possibile attacco israeliano contro Teheran per fermare il programma nucleare iraniano, Hague ha detto che Londra "non fa parte di nessuna pianificazione di attacco militare e ha avvertito Israele che un attacco sarebbe "poco saggio".

In fin dei conti, si tratta di una lunga partita a scacchi che avviene su diversi piani: da quello militare, con l'ingresso di navi da guerra iraniane nel mediterraneo, a quello tecnologico, riguardo il nucleare, fino ad arrivare a quello principale: il piano economico. Qui sembra giocarsi una partita più delicata, dove l'Iran può con un semplice annuncio di nuove centrifughe o di sospensione delle forniture di petrolio, far salire o scendere a proprio piacimento le borse europee e nord-americane, far aumentare il prezzo del petrolio, quindi della benzina e, in definitiva far aumentare la spinta inflazionistica sia sul dollaro sia sull'euro.

di Michele Paris

Mentre la crisi siriana non accenna a placarsi, le potenze occidentali e del Golfo Persico interessate a rovesciare il regime di Bashar al-Assad continuano a fare pressioni su Damasco e a operare dietro le quinte per promuovere finanziariamente e militarmente un’opposizione ancora frammentata e con poco seguito nel paese. A gettare nuova benzina sul fuoco, sono state negli ultimi giorni le dichiarazioni di due autorevoli senatori americani e la conferma ufficiale dell’impiego di droni statunitensi nei cieli della Siria.

Nel corso di una visita a Kabul, i repubblicani John McCain dell’Arizona e Lindsey Graham della Carolina del Sud, hanno sostenuto apertamente la necessità che gli Stati Uniti forniscano armi all’opposizione siriana, anche se non in maniera diretta ma tramite altri paesi. Il senatore Graham, inoltre, ha spiegato in maniera inequivocabile l’importanza della Siria nell’ambito della strategia americana in Medio Oriente, volta principalmente ad isolare l’Iran e a provocare un cambio di regime a Teheran. Per Graham, “allontanare la Siria dall’Iran avrebbe la stessa importanza delle sanzioni nel contenimento della Repubblica Islamica. Se il regime siriano verrà sostituito da un'altra forma di governo senza legami con gli iraniani nel prossimo futuro, il mondo sarà un posto migliore”.

Dopo l’Afghanistan, McCain e Graham si recheranno in Egitto, dove nel summit previsto con i rappresentanti della giunta militare al potere al Cairo la questione siriana occuperà una parte importante. Stati Uniti ed Egitto sono nel pieno di una crisi diplomatica circa la sorte di alcuni operatori di ONG americane messi sotto accusa dalle autorità locali. Nonostante Washington abbia chiesto al governo egiziano di lasciar cadere ogni accusa, il regime deve fare i conti con il diffuso sentimento anti-americano tra la popolazione.

Dal momento che gli USA hanno minacciato di tagliare gli aiuti all’Egitto, che ammontano a circa 1,3 miliardi di dollari l’anno, i militari al potere stanno allora mostrando la loro disponibilità verso Washington riguardo la crisi in Siria. L’Egitto ha infatti annunciato domenica di aver ritirato il proprio ambasciatore a Damasco, mentre pare abbia assicurato gli americani di adoperarsi all’interno della Lega Araba, che ha sede al Cairo, per aumentare le pressioni sul regime di Assad.

Le dichiarazioni dei due senatori USA, peraltro, sono superate dalla realtà sul campo, visto che l’opposizione siriana riceve da tempo sostegno materiale sia dall’Occidente che dalla Turchia e da molti paesi arabi interessati a rimuove Assad. Il cinismo dei governi occidentali emerge anche dalle preoccupazioni espresse da più parti per l’aggravarsi della situazione in Siria.

L’altro giorno, ad esempio, il ministro degli Esteri britannico, William Hague, ha affermato di temere per lo scivolamento del paese verso la guerra civile. Dal Messico, poi, gli ha fatto eco il suo omologo australiano, Kevin Rudd, per il quale è sempre più difficile giungere ad una soluzione pacifica della crisi in Siria. Dichiarazioni simili tralasciano ovviamente di ricordare come le violenze e la deriva della guerra civile siano alimentate anche da questi stessi governi per giustificare un intervento militare esterno.

L’atteggiamento sempre più aggressivo degli Stati Uniti è stato confermato poi sabato da un esponente dell’amministrazione Obama, il quale ha detto alla NBC che Washington sta operando una “missione” con aerei senza pilota in Siria. La fonte della rivelazione ha escluso che gli USA stiano preparando un intervento armato in questo paese. Il dispiegamento dei droni, che rappresenta un’evidente violazione dello spazio aereo siriano, servirebbe piuttosto a raccogliere informazioni circa la repressione del dissenso da parte delle forze del regime, in vista di una “risposta della comunità internazionale”.

Ancora sabato, inoltre, il giornale israeliano Haaretz ha scritto che l’esercito siriano ha arrestato più di 40 agenti turchi che stavano collaborando con l’opposizione in territorio siriano. Gli arrestati, secondo quanto riportato dalla stampa ufficiale del regime di Assad, avrebbero confessato di avere ricevuto addestramento dal Mossad israeliano ed avevano il compito di organizzare attentati per destabilizzare il paese. Uno degli agenti turchi avrebbe anche rivelato che il Mossad sta addestrando i disertori che fanno parte dell’Esercito Libero della Siria, così come membri di Al-Qaeda in Giordania da inviare in Siria per mettere in atto azioni terroristiche. Attorno ai 40 arrestati sarebbero in coso trattative tra Ankara e Damasco. Per la loro liberazione, il governo siriano vorrebbe in cambio l’estradizione di ufficiali e soldati che hanno defezionato e trovano ora rifugio in Turchia.

Che le confessioni estratte dagli agenti turchi corrispondano o meno alla verità, la presenza di cellule di Al-Qaeda in Siria è stata confermata recentemente anche dal direttore dell’intelligence americana, James Clapper, riferendosi alle bombe esplose nelle ultime settimane a Damasco e Aleppo.

L’atteggiamento sempre più spregiudicato dell’opposizione armata siriana è emerso anche da una serie di assassini mirati. Nella provincia nord-occidentale di Idlib vicino al confine turco, domenica sono stati uccisi da uomini armati un pubblico ministero, Nidal Ghazal, il procuratore generale Mohammed Ziyadeh e il loro autista mentre viaggiavano sulla stessa auto. Il giorno precedente era caduto invece vittima di un’esecuzione Jamal al-Bish, membro del consiglio comunale della città di Aleppo. Questi episodi sono tutt’altro che isolati. L’11 febbraio era stato infatti assassinato in un’imboscata fuori dalla sua abitazione di Damasco il generale Issa al-Khouli, noto medico militare legato alla famiglia Assad, mentre a gennaio la stessa sorte era toccata al capo della Mezzaluna Rossa nella città di Idlib, Abdulrazak Jbero, mentre si stava recando nella capitale siriana.

Oltre alla repressione del regime in corso nelle città dove è forte la presenza dei “ribelli” (Deraa, Hama, Homs), basandosi sui resoconti di dubbia affidabilità delle organizzazioni con sede all’estero legate all’opposizione, la stampa occidentale nel fine settimana ha dato ampio spazio alla manifestazione di protesta contro il regime nel quartiere borghese di Mezze, a Damasco. La dimostrazione sembra aver raccolto alcune centinaia di partecipanti dopo che le forze di sicurezza avevano aperto il fuoco su un funerale di un manifestante.

La capacità dell’opposizione di mobilitare un vasto numero di siriani, in ogni caso, appare ancora scarsa, soprattutto nelle principali città del paese come Aleppo e Damasco. Secondo la Associated Press, domenica alcuni attivisti nella capitale avevano cercato di organizzare un giorno di sciopero in solidarietà delle vittime della repressione nelle altre località sotto assedio. La risposta è stata però a dir poco tiepida, tanto che tutte le attività commerciali e gli uffici pubblici sono rimasti aperti.

Il 26 febbraio prossimo, intanto, si terrà l’annunciato referendum sulla nuova costituzione che, nelle intenzioni di Assad, dovrebbe aprire la strada verso il multipartitismo in Siria. La consultazione, anticipata di un mese rispetto alla data originariamente prevista, si svolgerà tuttavia in un’atmosfera carica di tensioni, mentre le opposizioni e l’Occidente hanno già denunciato l‘iniziativa come una manovra puramente di facciata da parte del regime.

Sostegno al referendum è stato espresso invece dall’inviato di Pechino a Damasco, il vice-ministro degli Esteri Zhai Jun, il quale dopo aver incontrato Assad nella giornata di sabato ha fatto un appello a tutte le parti per fermare le violenze. La posizione cinese riguardo la Siria appare d’altra parte molto chiara, come ha evidenziato un editoriale apparso lunedì sulla prima pagina dell’organo del Partito Comunista, Il quotidiano del popolo, e che accusa esplicitamente l’Occidente di alimentare la guerra civile nel paese, tramite il sostegno all’opposizione e le richieste di dimissioni di Assad, così da promuovere un intervento militare.

Un ultimo segnale della pericolosa escalation delle tensioni in Siria si è avuto infine qualche giorno fa, quando due navi da guerra iraniane hanno attraversato il Canale di Suez per attraccare nel porto siriano di Tartous. In questa località, la Russia mantiene una base navale strategicamente fondamentale per i suoi interessi nella regione e per difenderli sembra essere disposta a impedire ad ogni costo qualsiasi interferenza esterna che possa sconvolgere gli equilibri esistenti.

di Michele Paris

I tre recenti falliti attentati contro obiettivi israeliani in India, Georgia e Thailandia, sono stati puntualmente attribuiti all’Iran da parte di Washington e Tel Aviv, da dove è stata subito lanciata una nuova serie di minacce nei confronti della Repubblica Islamica. Il primo e relativamente più significativo attacco è avvenuto lunedì scorso a Nuova Delhi, dove un motociclista ha fissato un ordigno esplosivo ad un’auto su cui viaggiavano un diplomatico israeliano e sua moglie. Quest’ultima e l’autista sono rimasti lievemente feriti.

Lo stesso giorno a Tbilisi, capitale della Georgia, un esplosivo simile è stato trovato attaccato ad un veicolo dell’ambasciata israeliana. La bomba è stata individuata prima che esplodesse e non ha provocato alcun danno. Martedì, infine, alcune esplosioni accidentali in un appartamento di Bangkok hanno portato all’arresto di tre persone che sono state identificate come cittadini iraniani. Una di esse, nel tentativo di fuggire, ha lanciato una granata artigianale contro le forze di polizia tailandesi ferendosi gravemente ad una gamba.

Nonostante i falliti attentati non abbiano causato vittime e nessuna autorità di India, Georgia o Thailandia abbia accennato al coinvolgimento del governo di Teheran, Israele ha immediatamente accusato l’Iran di condurre una campagna terroristica. Parlando mercoledì alla Knesset (Parlamento), il premier Netanyahu ha affermato che “le attività terroristiche dell’Iran sono state esposte” e che Teheran “sta minacciando la stabilità del pianeta mettendo in pericolo le vite di diplomatici innocenti”. Per questo, “tutti i paesi devono tracciare una linea rossa e condannare gli atti terroristici iraniani”.

Le gravissime accuse di Netanyahu arrivano a poco più di un mese dalla morte a Teheran di Mustafa Ahmadi Roshan, il quarto scienziato nucleare iraniano assassinato negli ultimi anni con esplosivi magnetici simili a quelli utilizzati qualche giorno fa a Nuova Delhi e a Tbilisi.

Per questi attentati terroristici tutte le tracce indicano la responsabilità del Mossad israeliano, verosimilmente tramite le prestazioni di affiliati a organizzazioni attive in Iran come Mujahideen-e Khalq (MeK) e Jundallah, entrambe bollate come terroristiche persino dagli Stati Uniti e il cui obiettivo è la destabilizzazione e il rovesciamento della Repubblica Islamica.

Il governo di Teheran ha seccamente smentito ogni responsabilità nei tre episodi. In un comunicato ufficiale, il Ministero degli Esteri ha sottolineato che le accuse israeliane fanno parte della stessa strategia diffamatoria che lo scorso ottobre aveva spinto l’amministrazione Obama a rivelare un presunto quanto improbabile complotto iraniano per assassinare l’ambasciatore saudita a Washington con la collaborazione di un cartello messicano del narcotraffico. Per l’Iran, sarebbero piuttosto “gli agenti del regime sionista [Israele] i responsabili di simili azioni terroristiche”.

Giornali e analisti occidentali hanno ipotizzato anche un coinvolgimento di Hezbollah, dal momento che lunedì scorso ricorreva il quarto anniversario dell’assassinio di un importante membro dell’organizzazione sciita libanese, Imad Mughniyah, avvenuto a Damasco sempre per mano del Mossad. Il leader di Hezbollah, Sayyed Hassan Nasrallah, ha anch’esso respinto quelle che ha definito “assurde congetture”, affermando che, se la sua organizzazione volesse vendicarsi della morte di Mughniyah, verrebbero presi di mira obiettivi israeliani ben più importanti.

Tutti e tre i falliti attentati, inoltre, come già la trama per eliminare l’ambasciatore saudita negli Stati Uniti, hanno evidenziato la scarsa professionalità dei loro autori, rendendo dunque improbabile un qualche ruolo dei servizi segreti iraniani o di Hezbollah. I tre individui arrestati dalla polizia tailandese pare anche che abbiano fatto di tutto per rivelare la loro provenienza, ad esempio prendendo in affitto un appartamento a Bangkok vicino ad un centro culturale iraniano e tenendo con sé i loro passaporti e della valuta iraniana.

Le ragioni per dubitare delle accuse di Netanyahu sono però da ricercare principalmente nei rapporti che legano l’Iran a due paesi asiatici tutt’altro che ostili, come Thailandia e, soprattutto, India. Quest’ultimo paese ha infatti scavalcato da poco la Cina per diventare il primo importatore di petrolio iraniano, mentre a breve una delegazione indiana di alto livello è attesa a Teheran per discutere il rafforzamento dei legami commerciali tra i due paesi.

Oltre al rischio di mettere a repentaglio questi rapporti in un momento in cui l’Iran è soggetto ad una vera e propria guerra economica da parte dell’Occidente, c’è anche da chiedersi per quale motivo il regime di Teheran abbia deciso di mettere in scena degli attentati così grossolani entro i confini di un paese con il cui governo sta trattando un accordo per il pagamento del proprio greggio, così da evitare le sanzioni di Stati Uniti ed Europa.

In India, la quale nonostante le pressioni ha deciso di non rispettare le sanzioni di Washington che prendono di mira il settore petrolifero iraniano, le perplessità circa eventuali responsabilità di Teheran nell’attentato al diplomatico israeliano sono ampiamente diffuse. Due recenti articoli del Times of India risultano particolarmente interessanti. Il primo ha rivelato che, qualche giorno prima dei fatti, il direttore del Mossad, Tamir Pardo, era stato in visita a Nuova Delhi, mettendo in guardia il governo da possibili attentati di matrice iraniana, anche se non specificatamente in territorio indiano, come ha precisato successivamente il giornale israeliano Haaretz.

Il secondo è invece un pezzo dell’editorialista Shobhan Saxena, il quale nel suo blog il 15 febbraio ha messo in relazione l’attentato con il fastidio provocato a Tel Aviv e a Washington dalle relazioni indo-iraniane. Per Saxena, “l’Occidente da anni cerca di guastare i rapporti dell’India con l’Iran, il nostro secondo fornitore di petrolio. È una coincidenza che questo attentato sia avvenuto proprio quando l’Iran ha accettato di ricevere pagamenti in rupie per il greggio fornito all’India? Il pagamento in rupie rappresenta il totale fallimento del tentativo dei paesi occidentali di impedire all’India di continuare a fare affari con l’Iran. Perciò, se l’incidente di Delhi dovesse causare frizioni con Teheran, chi ne beneficerebbe ? L’intera vicenda deve essere vista in questa prospettiva. L’unico paese che ne trarrebbe beneficio è Israele”.

Gli eventi dell’ultima settimana hanno così fatto salire ulteriormente le tensioni tra Stati Uniti e Israele da una parte e Iran dall’altra. Essi però sono giunti in concomitanza anche con un certo abbassamento dei toni attorno alla questione del nucleare di Teheran, da dove l’altro giorno è partita una proposta indirizzata all’Unione Europea per riaprire i negoziati, questa volta, pare, senza condizioni preliminari.

A fronte delle aperture mostrate ancora una volta dall’Iran, appare comunque improbabile che i governi occidentali siano disposti a intavolare un dialogo serio, dal momento che l’annosa disputa sul programma nucleare è poco più che un pretesto per continuare a fare pressioni sulla Repubblica Islamica, con l’obiettivo di scatenare un conflitto armato e provocare la caduta del regime.

Che non sia l’Iran a costituire una minaccia alla stabilità del Medio Oriente, infine, è stato confermato anche da due esponenti del governo americano nel corso di una recente audizione al Congresso USA. Il direttore dei servizi segreti militari, generale Ronald Burgess, di fronte ad una commissione del Senato, ha infatti detto di ritenere improbabile che l’Iran possa iniziare un conflitto se non in risposta ad un attacco esterno. Poco più tardi, il capo dell’intelligence a stelle e strisce, James Clapper, ha a sua volta sostenuto che, pur essendo tecnicamente possibile per l’Iran produrre un ordigno nucleare entro uno o due anni, questa ipotesi sul piano pratico rimane alquanto improbabile.

di Carlo Musilli

A Berlino come ad Atene è stato un fine settimana al cardiopalma. Proprio mentre mancavano poche ore all'incontro che deciderà il destino della Grecia, il Paese leader dell'Eurozona - quello con maggior potere nelle trattative per il salvataggio - è sprofondato all'improvviso nel caos politico. Con lo spettro della bancarotta che si avvicina (14,4 miliardi di bond in scadenza il 20 marzo), ormai da settimane il Paese ellenico sta pregando per l'arrivo di due intese decisive: il via libera al nuovo pacchetto di aiuti internazionali da 130 miliardi di euro e l'accordo con i creditori privati per la ristrutturazione del debito.

Angela Merkel vorrebbe risolvere entrambe le questioni nella riunione dell'Eurogruppo di oggi pomeriggio, in modo da non lasciare nulla in sospeso e dare finalmente una linea certa. Al mercato come agli elettori. Ma se è vero che la sopravvivenza dei greci è legata a doppio filo alle bizze della politica interna tedesca, l'ultimo ciclone che ha travolto la cancelliera non poteva arrivare in un momento peggiore.

Venerdì frau Merkel ha ricevuto un colpo durissimo. Il presidente della Repubblica da lei sponsorizzato nel 2010, Christian Wulff, è stato costretto alle dimissioni da una patetica vicenda fatta di prestiti agevolati e vacanze regalate. La leadership della cancelliera viene così ulteriormente indebolita proprio quando le spaccature nel suo governo sulla questione greca sono ai massimi livelli.

Secondo il Financial Times, il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, è alla testa dei "falchi" che vorrebbero lasciar fallire Atene, ipotesi alla quale Merkel si oppone strenuamente. L'indiscrezione è stata sommersa da un fiume inevitabile di smentite, ma a Bruxelles come nel resto d'Europa rimangono dubbi su come la Germania affronterà il dilemma greco dopo l'ultima tempesta interna.

Il tracollo di Wulff indurrà i tedeschi a essere ancora più rigidi nelle trattative per il salvataggio? Oppure, in piena crisi, Merkel preferirà non intralciare ancora una volta i negoziati? La prima strada riavvicinerebbe il governo a quell'ampia fetta di elettorato che non accetta di dover continuare a pagare per gli errori commessi da un altro paese. La seconda consentirebbe invece di trovare delle importanti stampelle politiche sul fronte interno (l'opposizione socialdemocratica) come su quello estero.

A giudicare dalle ultime esternazioni, sembrerebbe proprio che la cancelliera abbia optato per la seconda opzione: "Farò tutto il possibile per arrivare a un accordo con la Grecia lunedì", ha detto in teleconferenza con il nostro Mario Monti e con il primo ministro di Atene, Lucas Papademos. A Palazzo Chigi hanno "rilevato un atteggiamento più morbido e disponibile" da parte tedesca, tanto da essere "fiduciosi che lunedì all'Eurogruppo potrà essere raggiunto l'accordo".

Ora, che Merkel riesca a convincere i membri del suo governo fan della bancarotta senza subirne i condizionamenti è tutto da dimostrare. Com'è da dimostrare che questa soluzione sia davvero la migliore per il popolo greco. L'ultima bozza d'intesa messa a punto dai funzionari europei prevede infatti un commissariamento di ferro per il Paese ellenico. Il testo contiene dei vincoli finora mai imposti ad uno Stato sovrano.

Innanzitutto, si tratterebbe di creare un fondo speciale con i soldi necessari a ripagare il debito greco in scadenza nei prossimi 9-12 mesi. Come a dire: "Di voi non ci fidiamo. Facciamo noi. Quindi obbedite". Se a un certo punto questo fondo non fosse più sufficiente, allora si attingerà alle risorse prestate alla Grecia per far funzionare la macchina pubblica (stipendi, pensioni, sanità...). Altra bella pistola alla tempia. Dulcis in fundo, sarà nominata una commissione di esperti che sorveglierà la politica economica del governo ellenico. Per di più con diritto di veto. Con tanti saluti all'atteggiamento "morbido e disponibile".

Nel frattempo comincia a venire a galla qualcuno dei grossolani errori dell'Europa. Se la Grecia è ancora in queste condizioni, lo deve anche agli obiettivi di bilancio assurdi che Bruxelles gli ha imposto. Aspettando l'Eurogruppo, Commissione europea e troika (Ue, Bce, Fmi) si sono finalmente accorte che Atene non riuscirà mai a ridurre il suo debito pubblico al 120% del Pil entro il 2020 (oggi è oltre il 170%). Nel loro ultimo rapporto parlano del 125-129%, ed è ancora un'ipotesi ottimistica. Un esercito di studiosi ha dimostrato che, anche a quel livello, il debito greco sarebbe tutt'altro che sostenibile. Come a dire che, senza il default, Bruxelles rimarrà la vera capitale della Grecia ancora per molto tempo. Qualunque cosa succeda, il dilemma non si risolverà oggi.

 

di Michele Paris

La strage avvenuta nella notte tra martedì e mercoledì in seguito all’esplosione di un incendio in un carcere dell’Honduras è la più grave tragedia avvenuta in una struttura detentiva nell’ultimo secolo. Secondo le autorità locali, il bilancio complessivo delle vittime nella prigione di Comayagua ammonta a 358 e i particolari della catastrofe evidenziano impietosamente non solo le pesanti carenze del sistema carcerario del paese centro-americano, ma anche le condizioni drammatiche in cui versa l’intera società honduregna, dove violenza, povertà e disuguaglianze sono all’ordine del giorno.

A scatenare l’incendio sembra essere stato un mozzicone di sigaretta finito su un materasso di una cella, secondo alcuni resoconti in maniera intenzionale, anche se le notizie diffuse successivamente hanno accennato a possibili altre cause, come un cortocircuito elettrico o una rivolta. Il fuoco è stato innescato attorno alle 22.50 di martedì sera ma i vigili del fuoco hanno potuto iniziare le operazioni di soccorso solo 40 minuti più tardi, cioè quando le fiamme erano ormai fuori controllo e si erano diffuse in molte celle facendo una vera e propria strage tra i detenuti bloccati al loro interno.

Appena diffusasi la notizia dell’incendio, centinaia di parenti dei detenuti si sono precipitati presso il penitenziario per conoscere la sorte dei loro cari. I familiari hanno cercato di fare irruzione nel carcere, abbattendo i cancelli d’ingresso e lanciando pietre contro le forze di sicurezza.

Ancora prima degli scontri, secondo quanto riportato dalla stampa honduregna, la polizia e l’esercito intervenuti a Comayagua avrebbero sparato colpi di avvertimento per tenere lontano i parenti dei carcerati. Nel caos che è seguito, il ministro della Sicurezza del governo centrale, Pompeyo Bonilla, è stato cacciato dopo che aveva invitato gli stessi parenti a mantenere la calma.

Le guardie carcerarie avrebbero infatti impedito ai vigili del fuoco di accedere all’interno della struttura per almeno mezz’ora, perché a loro dire le grida dei detenuti erano dovute ad una rivolta in corso.

Secondo la testimonianza di un detenuto scampato alle fiamme, la guardia responsabile delle chiavi delle celle ha lasciato l’edificio subito dopo l’esplosione dell’incendio. Quando le chiavi sono state successivamente recuperate dagli addetti all’infermeria del carcere, è stato possibile aprire solo alcune celle per evacuare i detenuti ancora vivi. Alcuni prigionieri, poi, sarebbero rimasti uccisi dalle forze di sicurezza mentre tentavano di fuggire per mettersi in salvo.

Il presidente dell’Honduras, Porfirio Lobo, in seguito ai fatti di Comayagua ha immediatamente riunito il Consiglio per la Sicurezza Nazionale, mentre ha annunciato la sospensione dei responsabili del carcere e l’apertura di un’indagine per fare chiarezza sull’accaduto.

La strage, tuttavia, deve giungere tutt’altro che inaspettata per le autorità del paese centro-americano, dal momento che è solo l’ultima di una serie di tragici avvenimenti che hanno colpito un sistema carcerario piagato da sovraffollamento, edifici fatiscenti e sistematiche violazioni dei diritti umani dei detenuti.

I precedenti più gravi in Honduras risalivano al 2003 e al 2004. Nel primo caso, in un penitenziario vicino alla città costiera di La Ceiba, persero la vita 68 prigionieri - tra cui 51 uccisi dalla polizia, dall’esercito e dalle guardie carcerarie - in seguito a violenti scontri tra gang rivali. L’anno successivo fu invece un incendio a fare 107 vittime tra i detenuti in una struttura fatiscente di San Pedro Sula.

Il sistema carcerario honduregno comprende 24 prigioni che ospitano quasi 13 mila detenuti a fronte di una capienza complessiva massima di 8 mila. Le due principali strutture del paese contano rispettivamente 2.800 e 2.100 prigionieri, mentre sono state costruite per ospitarne al massimo 1.800 e 550.

La prigione di Comayagua, situata a circa 80 km a nord-ovest della capitale, Tegucigalpa, ospitava 856 detenuti, di cui più della metà in attesa di giudizio. Secondo i dati ottenuti dalla Associated Press, questo edificio era stato progettato per 500 prigionieri. Durante le ore diurne, erano generalmente in servizio 51 guardie e appena 12 in quelle notturne, quando l’altro giorno è appunto scoppiato il devastante incendio. Il carcere, inoltre, pare non disponesse di strutture sanitarie adeguate e il suo budget ammonterebbe a meno di un dollaro al giorno per ogni detenuto. A Comayagua, infine, qualsiasi carcerato con un tatuaggio rischia di essere sottoposto alle durissime condizioni detentive previste dalla legge honduregna per gli affiliate alle gang.

La situazione delle carceri in Honduras è talmente grave che lo stesso governo nel 2010 dichiarò lo stato di emergenza in questo ambito, ammettendo anche che quasi la metà delle prigioni del paese non rispettava i requisiti minimi di sicurezza prescritti dalla legge.

Fotografando efficacemente le implicazioni della situazione carceraria honduregna, il responsabile per il continente americano di Human Rights Watch, José Manuel Vivanco, ha affermato che “questa tragedia è il risultato delle condizioni delle prigioni, le quali sono a loro volta il sintomo della più generale crisi della pubblica sicurezza nel paese”. A causa dell’elevatissimo tasso di violenza in Honduras, sostiene Vivanco, “ci sono enormi pressioni per incarcerare criminali veri o sospetti e, sfortunatamente, non c’è alcuno scrupolo per le condizioni dei detenuti”.

Inevitabilmente, così, le condizioni delle prigioni e dei loro ospiti risultano a dir poco drammatiche e sono la diretta conseguenza sia dell’aumento vertiginoso della criminalità in tutto il Centro-America che dell’emergenza sociale e della povertà dilagante che questi paesi si trovano a fronteggiare. L’Honduras, in particolare, è il secondo paese più povero del continente latino-americano, dopo Haiti e, secondo i dati dell’ONU, quello con il più elevato tasso di omicidi di tutto il pianeta: 82,1 per ogni 100 mila abitanti, contro una media mondiale di 6,9.

A far salire sensibilmente in questi anni il numero degli episodi di violenza è stato il diffondersi delle attività dei cartelli del narcotraffico che usano l’Honduras - così come altri paesi centro-americani - come via di transito per la droga diretta al mercato statunitense. L’altro evento che ha causato il peggioramento della situazione è stato poi il colpo di stato militare che nel giugno del 2009 ha rimosso il presidente democraticamente eletto, Manuel Zelaya.

Il golpe, tacitamente approvato da Washington, installò al potere dapprima il presidente ad interim Roberto Micheletti e, successivamente, nel pieno della repressione messa in atto contro gli oppositori, aprì la strada all’elezione del conservatore Porfirio Lobo alla guida del paese. Da quasi tre anni a questa parte, la precarietà della scena politica honduregna ha causato il dilagare della criminalità, così come centinaia di assassini di operai, contadini, giornalisti critici del regime golpista e sostenitori dell’ex presidente Zelaya, i cui responsabili, però, quasi mai sono stati chiamati a rendere conto delle loro azioni di fronte alla giustizia.


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy