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di Michele Paris
Nella più recente tappa delle primarie repubblicane degli Stati Uniti, martedì il candidato ultra-conservatore Rick Santorum ha incassato vittorie di misura in Alabama e Mississippi, due stati meridionali che avevano assunto un’insolita importanza dopo il risultato tutt’altro che definitivo del supermartedì. Anche se il percorso per l’ex senatore della Pennsylvania resta tutto in salita, quest’ultima affermazione potrebbe quanto meno consentirgli di spegnere definitivamente le velleità di nomination di Newt Gingrich, così da imporsi come unica alternativa al favorito, Mitt Romney.
In entrambi gli stati, dove erano in palio complessivamente 90 delegati, il miliardario mormone è finito al terzo posto, preceduto anche dallo stesso Gingrich, nonostante avesse condotto una campagna elettorale piuttosto aggressiva, a fronte dell’organizzazione ridotta all’osso di Santorum, e dopo aver ricevuto l’appoggio di gran parte dei vertici locali del partito. L’esito di Alabama e Mississippi per Romney ha rappresentato dunque l’ennesima prova dello scetticismo che nutre nei confronti della sua candidatura la destra del Partito Repubblicano.
L’ambiente ostile nel sud degli Stati Uniti verso Romney era comunque in preventivo e il sostanziale equilibrio evidenziato dai risultati finali permetterà all’ex governatore del Massachusetts di ottenere anche in questi due stati un numero considerevole di delegati. Nella giornata di martedì, inoltre, non sono mancate le notizie positive per Romney, il quale è uscito vincitore dagli altri due appuntamenti elettorali in programma, i caucus delle Isole Samoa Americane, dove i votanti sono stati una settantina, e delle Hawaii (20 delegati in palio).
Il risultato più incerto è stato quello delle primarie in Mississippi, dove Santorum ha conquistato il 32,9% dei consensi, Gingrich il 31,3%, Romney il 30,3% e Ron Paul il 4,4%. In Alabama, Santorum ha chiuso al 34,5%, Gingrich al 29,3%, Romney al 29% e Paul al 5%. Solida è stata la prestazione di Santorum e Paul alle Hawaii, dove hanno ottenuto rispettivamente il 25,3% e il 18,3%. A vincere, come già anticipato, è stato però Mitt Romney con il 45,4%, mentre Gingrich è finito quarto con l’11%.
Prima del voto di martedì, c’erano state alcune competizioni minori che avevano ancora una volta premiato sia Romney che Santorum. Il 10 marzo, Santorum aveva fatto suoi in maniera molto netta i caucus del Kansas (40 delegati in palio). Una sconfitta annunciata per Romney, bilanciata però dalle vittorie in tre isole situate nell’Oceano Pacifico: Guam, Isole Marianne e Isole Vergini (27 delegati in totale). Fino ad ora, Romney ha prevalso in 19 stati o territori, 9 sono andati a Santorum e 2 a Gingrich. Secondo il conteggio della Associated Press aggiornato a mercoledì, Romney ha finora accumulato 495 delegati, contro i 252 di Santorum, i 131 di Gingrich e i 48 di Paul. Per assicurarsi la nomination repubblicana ne servono almeno 1.144.
Se pure Santorum continua a raccogliere ampi consensi tra l’elettorato più conservatore del partito in molti stati, il vantaggio di Romney in termini di delegati lo rende ormai pressoché inattaccabile. Tanto più che nelle prossime settimane sono in programma competizioni in stati teoricamente più favorevoli all’uomo d’affari mormone, a cominciare dalle primarie di martedì prossimo in Illinois. Nello stato di Barack Obama, oltretutto, Santorum non sarà sulle schede elettorali in alcuni distretti, come già era accaduto in un altro stato del Midwest in bilico, l’Ohio.
Il calendario repubblicano prevede però già sabato prossimo i caucus del Missouri, dove Santorum appare favorito, e il giorno successivo le primarie a Porto Rico. Il 24 marzo sarà la volta di un altro stato del sud ostile a Romney, la Louisiana, mentre ad aprile quest’ultimo dovrebbe riuscire a capitalizzare una serie di sfide favorevoli, come Washington D.C., dove Santorum non sarà presente, Maryland, Connecticut, Delaware, New York e Rhode Island. Santorum potrebbe rifarsi il 24 aprile nel suo stato, la Pennsylvania, anche se la pesante sconfitta che subì nel 2006 per la rielezione al Senato lascia più di uno spiraglio a Romney per ridurre il margine di distacco.
La sconfitta patita martedì da Gingrich in due stati sui quali aveva puntato tutto ha alimentato parecchi dubbi sull’opportunità di proseguire la corsa per l’ex speaker della Camera. Per il momento, facendo notare come sia in Alabama che in Mississippi il suo distacco da Santorum è stato minimo, Gingrich ha fatto sapere di voler continuare e, anzi, ha promesso ai suoi sostenitori di resistere fino alla convention del partito ad agosto a Tampa, in Florida. L’impazienza nel team di Santorum sta comunque aumentando e lo stesso ex senatore alla vigilia del voto di martedì aveva lanciato un velato invito a Gingrich ad abbandonare la competizione, così da coagulare il voto conservatore attorno ad un unico candidato anti-Romney.
Sia Santorum che Gingrich, in ogni caso, ammettono più o meno apertamente che le chances a loro disposizione per superare Romney nel numero di delegati sono pressoché inesistenti. L’obiettivo, perciò, sembra essere più che altro quello di impedire al “front-runner” il raggiungimento della soglia dei 1.144 delegati, in modo da arrivare ad una convention divisa, durante la quale i delegati dei due candidati conservatori potrebbero formare una maggioranza anti-Romney, presumibilmente assegnando la nomination a Rick Santorum.
Dalla sua parte, oltre a risorse finanziare decisamente superiori a quelle dei rivali, Mitt Romney ha la cosiddetta “eleggibilità”, cioè viene considerato dagli elettori repubblicani come il candidato maggiormente in grado di allargare la base elettorale del partito nel voto di novembre per sconfiggere Obama.
Il principale problema per lui, tuttavia, è che una parte consistente dei votanti in queste primarie lo considera non abbastanza conservatore e questa carenza continua a pesare sull’esito delle urne negli stati del Midwest, dell’Ovest e, soprattutto, del sud degli Stati Uniti. In Alabama e Mississippi, ad esempio, gli exit poll hanno evidenziato come otto su dieci elettori presentatisi ai seggi martedì erano cristiani evangelici, i quali hanno finora mostrato una netta preferenza per Santorum.
Le difficoltà per Romney nel chiudere il discorso nomination sono anche la conseguenza del brusco spostamento a destra del baricentro politico americano negli ultimi anni e, di conseguenza, di quello repubblicano. Durante la sua carriera politica, Romney si è sempre collocato su posizioni relativamente moderate, quanto meno in rapporto alla tendenza generale del suo partito. Nel clima politico attuale, la necessità di abbandonare tali posizioni per svoltare a destra lo ha esposto inevitabilmente alle accuse di ipocrisia e opportunismo.
Fin dall’inizio del suo secondo tentativo di conquistare la Casa Bianca, Romney ha così dovuto cambiare le sue opinioni su svariati temi delicati e rinnegare molte delle scelte fatte in passato, soprattutto in veste di governatore, tra il 2003 e il 2007, di uno stato massicciamente democratico come il Massachusetts. In particolare, Romney è stato praticamente costretto a sconfessare la legge da lui firmata sulla copertura sanitaria universale in questo stato, sia pure basata sul settore privato, e che pare aver fatto da modello alla riforma di Obama del 2010, ma anche il suo appoggio all’aborto e all’introduzione di un salario minimo legato all’inflazione.
Nell’impossibilità di scavalcare a destra il fondamentalismo cristiano di Santorum sulle questioni sociali, Romney ha finito allora per attaccare da destra il suo principale rivale per la nomination sui temi economici, proponendosi come il candidato repubblicano con le maggiori credenziali pro-business nel pieno di una crisi causata precisamente da oltre tre decenni di politiche ultra-liberiste.
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di Michele Paris
Nelle prime ore di domenica scorsa, un sergente dell’esercito americano ha fatto irruzione in alcune abitazioni in un villaggio rurale nel distretto di Panjwai, provincia di Kandahar, nel sud dell’Afghanistan, uccidendo a sangue freddo 16 civili, tra cui 9 bambini e 3 donne. La strage è stata definita dalle autorità americane come l’azione isolata di un individuo disturbato, anche se in realtà essa rappresenta solo l’ultima di una lunga serie di atrocità commesse dalle forze NATO che evidenziano a sufficienza la brutalità di un’occupazione ormai decennale nel travagliato paese centro-asiatico.
Il militare americano, dopo aver lasciato la propria base, ha percorso quasi due chilometri a piedi prima di scegliere tre abitazioni come obiettivo del suo delirio. Delle 16 vittime, 11 appartengono alla stessa famiglia, di cui 4 sono risultate essere bambine non oltre i sei anni. Dopo aver giustiziato i membri della famiglia presenti, l’autore della strage ha cercato di dare fuoco ai cadaveri. Il padre e un altro figlio sono sfuggiti al massacro perché si trovavano lontani dal loro villaggio. Al loro ritorno hanno trovato i familiari uccisi e i corpi carbonizzati. Oltre alle vittime, ci sarebbero anche 5 feriti gravemente, con il rischio dunque che il bilancio definitivo dei morti possa salire ulteriormente.
L’attacco è stato duramente condannato dal presidente afgano, Hamid Karzai, che lo ha definito “inumano e intenzionale” e ha chiesto agli americani di fare giustizia. Da Washington, il presidente Obama e il segretario alla Difesa, Leon Panetta, hanno espresso il loro dispiacere per l’accaduto e hanno promesso un’indagine severa. Nonostante la Casa Bianca in una nota ufficiale abbia parlato di “un incidente tragico e scioccante che non rappresenta l’eccezionalità dei nostri militari e il rispetto degli Stati Uniti per il popolo afgano”, la strage sembra invece essere precisamente l’ennesima prova del carattere violento e umiliante che fin dall’inizio ha avuto l’occupazione americana per la popolazione locale.
Secondo la ricostruzione ufficiale, l’autore del massacro sarebbe un militare che, come ha confermato un portavoce della NATO, tenete colonnello Jimmie Cummings, ha agito da solo e che si trova ora agli arresti dopo essersi consegnato spontaneamente ai militari americani. I racconti dei testimoni sono tuttavia discordanti. Mentre alcuni abitanti del villaggio teatro della strage hanno effettivamente confermato di aver visto un solo militare, altri hanno parlato di svariati militari e di un elicottero che sorvolava la scena.
Se quest’ultima circostanza potrebbe essere legata all’invio di un contingente per fermare il sergente americano, essa ha con ogni probabilità spinto i Talebani ad affermare che nel villaggio è andato in scena uno dei raid notturni delle forze speciali NATO che sono tra i principali motivi dell’ostilità nutrita dagli afgani nei confronti degli occupanti. Lo stesso Karzai, in ogni caso, nella sua dichiarazione di condanna aveva inizialmente attribuito la strage alle “forze americane”, anche se successivamente ha anch’egli appoggiato la versione del singolo individuo.
Il nome di quest’ultimo è stato tenuto segreto, anche se si tratterebbe di un soldato 38enne che ha già servito in Iraq e sarebbe arrivato in Afghanistan nel dicembre scorso. Il sergente proverrebbe dalla base Lewis-McChord di Tacoma, nello stato di Washington, ed era assegnato ad una divisione con il compito di sviluppare i rapporti tra la forza di occupazione e i capi villaggio afgani.
La base Lewis-McChord è tra le più grandi e problematiche degli Stati Uniti ed è la stessa da cui venivano i militari membri della cosiddetta Brigata Stryker, condannati nel 2010 per aver ucciso tre civili afgani e aver smembrato i loro corpi facendone dei macabri trofei in un distretto poco lontano da quello di Panjwai.
Dopo il massacro di domenica, alcuni abitanti del villaggio hanno trasportato i corpi bruciati all’ingresso di una base americana a Kandahar, dove ben presto si sono radunate centinaia di persone per manifestare la propria rabbia.
I timori tra i vertici NATO è che il più recente episodio di violenza possa scatenare una nuova ondata di proteste tra la popolazione afgana, proprio mentre si stava placando l’ira seguita al rogo delle copie del Corano presso una base americana e alla diffusione di un video nel quale un gruppo di Marines urinavano sui corpi di afgani uccisi.
Ad alimentare le tensioni nel paese, inoltre, venerdì c’era stata un’altra strage di civili, causata dal fuoco di elicotteri NATO su quelli che erroneamente credevano talebani. Il bilancio è stato di quattro morti e tre feriti. All’incursione, avvenuta nella provincia orientale di Kapisa, sabato scorso è seguita una manifestazione di protesta con più di mille dimostranti.
Per gli Stati Uniti, i fatti di domenica rappresentano anche un altro possibile ostacolo nelle già difficili trattative di pace in corso non solo con i Talebani ma, soprattutto, con il governo di Kabul per trovare un accordo sulla permanenza dei militari americani in Afghanistan ben oltre il ritiro della maggior parte delle truppe previsto entro la fine del 2014.
Nonostante l’annuncio ufficiale di un accordo raggiunto qualche giorno fa per il trasferimento del controllo delle strutture di detenzione alle autorità afgane entro sei mesi, i negoziati sono complicati da alcune questioni delicate, a cominciare proprio dai raid notturni, considerati dalle forze NATO fondamentali per colpire presunti terroristi e che il presidente Karzai vorrebbe invece fermare perché estremamente impopolari.
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di Michele Paris
Le elezioni anticipate di sabato scorso in Slovacchia hanno assegnato, come previsto, una nettissima maggioranza all’opposizione social-democratica dell’ex premier, Robert Fico. A uscire sconfitta è stata così la coalizione del primo ministro uscente, Iveta Radicová, il cui governo era di fatto crollato lo scorso ottobre sul voto di fiducia per l’approvazione del Fondo Europeo di Stabilità (EFSF).
In quell’occasione, il Parlamento slovacco riuscì a dare il via libera alla legislazione richiesta da Bruxelles solo grazie all’appoggio dei social-democratici, i quali in cambio chiesero appunto il voto anticipato.
Secondo i dati definitivi, il partito di centro-sinistra SMER-Socialdemocrazia di Fico ha ottenuto il 44,4% dei consensi che si tradurrà in 83 dei 150 seggi in Parlamento. Grazie a questo risultato, Fico - già premier tra il 2006 e il 2010 - sarà in grado di formare un nuovo governo senza ricorrere al sostegno di altri partiti. Una situazione questa del tutto insolita per la Slovacchia, che ha avuto governi di coalizione fin dalla divisione della Cecoslovacchia nel 1993.
La campagna elettorale per il voto di sabato ha visto al centro del dibattito lo scandalo-corruzione esploso alla fine dello scorso anno e che ha coinvolto praticamente tutti i partiti slovacchi, rivelando le modalità con le quali la classe dirigente ha governato il paese da quasi due decenni a questa parte.
Lo scandalo è legato alla cosiddetta operazione “Gorilla”, condotta tra il 2005 e il 2006 dai servizi segreti slovacchi, i quali avevano piazzato delle microspie in un appartamento di Bratislava dove avvenivano incontri segreti tra importanti personalità del mondo politico e imprenditoriale. Il materiale così raccolto ha documentato la corruzione ampiamente diffusa nella gestione degli affari pubblici in Slovacchia. La pubblicazione dei contenuti delle intercettazioni lo scorso dicembre ha portato a numerose proteste di piazza in molte città alle quali hanno partecipato decine di migliaia di persone.
Lo scandalo “Gorilla” ha messo in luce un sistema corrotto con al centro, soprattutto, le privatizzazioni delle aziende statali e l’assegnazione degli appalti pubblici. A farne le spese nelle urne è stato in particolare il partito del premier Radicová, l’Unione Democratica e Cristiana Slovacca (SDKU-DS), al governo nel 2005-2006 sotto la guida di Mikulás Dzurinda, attuale ministro degli Esteri e presidente del partito. L’SDKU-DS è così andata incontro ad un autentico tracollo, passando dal 15,4% dei consensi raccolti nel 2010 al 5,9% di sabato.
Quest’ultimo partito e gli altri tre della coalizione di governo uscente avranno complessivamente appena 51 seggi nel prossimo Parlamento, contro i 79 vinti nelle precedenti elezioni. Nel giugno 2010 i quattro partiti di centro-destra, nonostante i socialdemocratici di SMER avessero ottenuto la maggioranza relativa, diedero vita ad un’alleanza di governo alquanto instabile. Il premier Radicová è riuscita in due anni a portare comunque a termine alcune delle “riforme” richieste dalle élite economico-finanziarie slovacche e dall’Unione Europea, come quella delle pensioni, del settore pubblico e del fisco.
Tra le altre formazioni politiche in corsa sabato, il nuovo partito conservatore Gente Comune, fondato lo scorso ottobre e protagonista di una campagna anti-corruzione, ha vinto 16 seggi, mentre l’ultra-nazionalista Partito Nazionale Slovacco (SNS) non è riuscito a superare la soglia di sbarramento del 5% per entrare in Parlamento. L’affluenza, infine, è stata superiore alle aspettative e attestata al 59,1%, cioè praticamente simile al 2010.
Tra le promesse elettorali del premier in pectore, Robert Fico, ci sarebbe il mantenimento dell’attuale livello di spesa sociale, l’aumento del carico fiscale per le aziende e le classi più agiate, l’eliminazione della tassa sui redditi ad aliquota unica (19%) introdotta dal precedente governo e lo stop alle privatizzazioni.
Nonostante la retorica, tuttavia, le politiche del prossimo governo slovacco non si scosteranno in maniera sostanziale da quelle degli ultimi due anni. Fico ha infatti già confermato di voler rispettare gli impegni presi dal suo paese riguardo la messa in ordine delle finanze: il deficit di bilancio dovrà così scendere quest’anno al 4,6% del PIL e al 3% nel 2013. Questi obiettivi, ovviamente, dovranno essere raggiunti con ingenti tagli alla spesa pubblica.
Allo stesso modo, come dimostra il voto sul Fondo di Stabilità, il leader social-democratico appoggia in pieno le misure UE per la risoluzione della crisi del debito e il salvataggio della moneta unica, introdotta in Slovacchia nel 2009 sotto la guida dello stesso Fico. Orientamenti di questo genere, inevitabilmente, porteranno nell’immediato futuro all’adozione di nuove pesanti misure di austerity anche in questo paese già segnato da tassi di povertà e disoccupazione ben superiori alla media europea.
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di Michele Paris
In un agghiacciante discorso tenuto qualche giorno fa presso la Northwestern University Law School di Chicago, il ministro della Giustizia americano (“Attorney General”), Eric Holder, ha annunciato pubblicamente i principi “legali” su cui si basa la facoltà del presidente degli Stati Uniti di ordinare segretamente l’assassinio mirato di presunti terroristi, cittadini americani compresi, in ogni angolo del pianeta. L’intervento di Holder sancisce in pratica la soppressione di ogni controllo sul potere esecutivo, traducendosi in un pericoloso assalto ai diritti democratici garantiti dalla costituzione.
L’attesa uscita pubblica del primo ministro della Giustizia di colore della storia americana arriva in seguito alle richieste di chiarimento provenienti da più parti circa i fondamenti legali che hanno portato all’uccisione lo scorso settembre in Yemen di Anwar al-Awlaki, il predicatore islamista nato in Nuovo Messico e con cittadinanza statunitense. In quell’occasione, una bomba sganciata da un drone tolse la vita anche ad un secondo cittadino americano, il fondatore della rivista di Al-Qaeda in lingua inglese Inspire, Samir Khan. Due settimane più tardi, la stessa sorte di Awlaki sarebbe inoltre toccata al figlio appena sedicenne, Abdulrahman.
Anwar al-Awlaki era finito sulla lista nera della Casa Bianca nell’aprile del 2010 senza che fossero state rese pubbliche eventuali prove a suo carico e senza passare attraverso un normale procedimento legale. L’elenco dei sospettati di terrorismo da “uccidere o catturare” viene stilata in tutta segretezza da una ristretta cerchia di consiglieri del presidente e nei loro confronti il governo americano ha la facoltà di agire da giudice unico nonché esecutore della pena.
Holder ha inquadrato il suo discorso nell’ambito della guerra al terrore, riecheggiando in maniera inquietante la retorica dell’amministrazione Bush, volta a suscitare il panico nei cittadini statunitensi. Per il ministro della Giustizia, nel caso non sia possibile catturare vivi individui sospettati di essere legati ad Al-Qaeda e che rappresentano una minaccia imminente per la sicurezza nazionale - qualora si trovino in un paese che non è in grado di eliminare tale minaccia o che ha concesso agli USA il permesso di colpirli - “il nostro governo ha chiaramente l’autorità di difendere il paese tramite un uso letale della forza” e “la sola cittadinanza americana non conferisce alcuna immunità a questi individui”.
Come giustificazione legale per gli assassini mirati, Holder ha citato l’Autorizzazione all’Impiego della Forza Militare, il provvedimento approvato dal Congresso il 14 settembre 2001 e firmato dal presidente George W. Bush quattro giorni più tardi, in seguito all’attacco contro le Torri Gemelle. Inizialmente intesa a colpire membri di Al Qaeda e i Talebani, ritenuti responsabili dell’11 settembre, tale misura è servita per scatenare la guerra contro il governo afgano e, da allora, è stata violata in continuazione per legittimare uccisioni di presunti terroristi, ma anche per la messa in atto di tutta una serie di pratiche abusive che hanno caratterizzato un decennio di guerra al terrore, come torture, “rendition”, detenzioni indefinite, tribunali militari, invasione della privacy dei cittadini e la creazione del lager di Guantanamo.
Secondo Holder, dal momento che gli Stati Uniti si trovano a combattere una guerra al terrore dai contorni sempre più oscuri, l’autorità legale assegnata alla Casa Bianca per condurre operazioni di questo genere “non è limitata al solo campo di battaglia dell’Afghanistan”, mentre viene del tutto esclusa l’applicazione del decreto presidenziale emanato nel 1975 da Gerald Ford che vieta gli assassini extragiudiziari da parte del governo e delle sue agenzie.
Il passaggio del discorso di Holder con le più gravi implicazioni è probabilmente quello in cui afferma che la costituzione americana garantisce un “giusto processo” ma non un “processo giudiziario”, cioè l’insieme di regole e norme previste da un normale procedimento legale in un’aula di tribunale.
Una simile interpretazione subordina alla discrezione dell’esecutivo la validità di una serie di principi democratici fondamentali contenuti nei primi dieci Emendamenti della Costituzione americana, approvati nel 1791, tra cui l’habeas corpus, il diritto ad un processo pubblico e di ragionevole durata, il diritto ad una giuria imparziale o il diritto all’assistenza di un legale. Il tutto in nome delle esigenze della sicurezza nazionale di un paese impegnato in una guerra al terrore dalla più che dubbia legittimità.
Infatti, questo conflitto sui generis è in realtà il pretesto per giustificare la continua espansione del militarismo e dell’imperialismo USA, manifestatosi in questi anni in una serie di guerre di aggressione non provocate e, sul fronte domestico, nella progressiva erosione dei diritti democratici della popolazione.
Che tale pericolosa evoluzione rifletta la volontà di tutta la classe dirigente statunitense è evidente dal fatto che le pratiche inaugurate dall’amministrazione Bush sono state proseguite e spesso superate dall’attuale inquilino democratico della Casa Bianca. Non a caso, la sanzione legale data da Holder agli assassini mirati segue di poco più di due mesi la firma posta da Obama su un provvedimento che ratifica la detenzione indefinita presso l’autorità militare di sospetti terroristi, compresi i cittadini americani arrestati sul territorio dell’Unione.
Il discorso di Holder ha suscitato le dure reazioni delle organizzazioni per i diritti civili, tra cui l’ACLU (American Civil Liberties Union), la quale aveva citato il governo di Washington per indurlo a rendere pubblici i documenti riservati relativi all’assassinio di Awlaki in Yemen. Secondo la ONG newyorchese, “ben poche sono le cose più pericolose per la libertà della tesi secondo la quale il governo americano ha la facoltà di uccidere propri cittadini ovunque nel mondo sulla base di prove e standard legali non sottoposti ad una corte, né prima né dopo il fatto”.
Ancora più preoccupante, se possibile, è anche lo spazio dedicato al discorso di Holder dai principali media d’oltreoceano. Pur avendo coperto le dichiarazioni del ministro della Giustizia, essi hanno pressoché totalmente evitato di analizzarne le implicazioni. Nessun politico, ovviamente, ha infine sentito la necessità di denunciare le parole di Holder o di evidenziare la minaccia portata ai diritti democratici negli Stati Uniti da una dottrina legale che sta gettando le basi per la creazione di quello che assomiglia sempre più ad un vero e proprio stato di polizia.
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di Michele Paris
Il tradizionale supermartedì negli Stati Uniti ha registrato l’altro giorno un’affermazione complessivamente positiva nelle primarie repubblicane per il favorito, Mitt Romney, anche se il suo immediato rivale, Rick Santorum, è stato in grado di conquistare alcune significative vittorie che gli permetteranno di rimanere in corsa nelle prossime settimane. Il miliardario mormone, in particolare, è riuscito a prevalere, sia pure di misura, nello stato più importante tra quelli chiamati a votare martedì - l’Ohio - ribaltando i sondaggi della vigilia che sembravano dare invece un certo vantaggio a Santorum.
Nel supermartedì repubblicano hanno votato gli elettori di dieci stati, dove erano complessivamente in palio più di 400 delegati, vale a dire circa il 20 per cento del totale da assegnare e il 40 per cento di quelli necessari ad ottenere la nomination del partito. Dopo le vittorie messe a segno nell’ultima settimana in Michigan, in Arizona e nello stato di Washington, Romney ha potuto così allungare il passo su Santorum e sugli altri sfidanti interni, ma non evitare il prolungarsi di una competizione che il suo staff sperava di poter archiviare entro i primi di marzo. Addirittura, la netta affermazione martedì di New Gingrich nel suo stato, la Georgia, manterrà per il momento in corsa anche l’ex speaker della Camera, dividendo il voto dell’ala conservatrice del partito a tutto vantaggio di Romney.
Oltre all’Ohio (66 delegati in palio), Romney ha vinto in Virginia (49), dove Santorum e Gingrich non avevano raccolto abbastanza firme per apparire sulle schede, in Massachusetts (41), dove è stato governatore tra il 2003 e il 2007, in Vermont (17) e nei caucus di Alaska (27) e Idaho (32), stato quest’ultimo con una folta presenza di mormoni. Santorum ha prevalso invece in Tennessee (58) e in Oklahoma (43), nei quali ha inciso la componente di elettori evangelici vicini alle posizioni reazionarie dell’ex senatore della Pennsylvania, così come nei caucus del North Dakota (28). Per Gingrich, come già ricordato, è arrivata la sola vittoria della Georgia, lo stato che martedì assegnava il maggior numero di delegati (76).
In Ohio l’esito delle primarie è stato in bilico a lungo, fino a quando all’alba di mercoledì la Associated Press ha assegnato il primo posto a Mitt Romney con un margine di poco più di 12 mila voti e un punto percentuale (38% a 37%) su Rick Santorum.
Questo stato, perennemente in bilico tra democratici e repubblicani (“swing state”), è considerato fondamentale per la conquista della Casa Bianca a novembre e perciò i due candidati repubblicani hanno investito parecchie risorse per cercare di prevalere. Romney è riuscito a rimediare allo svantaggio che i sondaggi gli attribuivano nei confronti di Santorum spendendo ancora una volta massicciamente in messaggi elettorali negativi contro il suo avversario.
Ciononostante, alla fine è arrivata per lui una vittoria stentata che ha confermato i dubbi di molti all’interno del partito nei confronti della sua candidatura, non solo tra l’estrema destra ma anche tra quelle sezioni della working-class bianca che vota repubblicano e che rappresenta una parte relativamente consistente dell’elettorato del Midwest. Questa fetta di elettori era stata corteggiata a lungo nelle ultime settimane dai due candidati e, in Ohio, sembrava orientata verso il messaggio populista di Santorum. Oltre alle minori disponibilità finanziarie rispetto a Romney, in Ohio Santorum ha pagato anche l’assenza del suo nome sulle schede in tre distretti elettorali a causa di problemi burocratici.
Dopo il voto di martedì, Romney ha accumulato un discreto margine di vantaggio in termini di delegati. Secondo le stime parziali di mercoledì della Associated Press, l’ex governatore del Massachusetts avrebbe finora messo assieme 415 delegati contro i 176 di Santorum, i 105 di Gingrich e i 47 di Ron Paul. Per assicurarsi la nomination sono necessari almeno 1.144 delegati.
Se Romney sembra dunque aver superato, sia pure a fatica, la prova del Midwest con le vittorie di Michigan e Ohio, all’orizzonte c’è ora un altro test complicato con una serie di stati nel sud degli Stati Uniti, teoricamente favorevoli a candidati più conservatori some Santorum o Gingrich. Sabato prossimo sono previsti i caucus del Kansas (40 delegati in palio) e martedì le primarie di Alabama (50) e Mississippi (40).
Se la sfida per la nomination repubblica appare sempre più una questione tra Romney e Santorum, Ron Paul e New Gingrich per il momento non intendono lasciare. Per il deputato libertario del Texas da tempo non esiste alcuna chance di nomination, ma i suoi sostenitori sono tra i più agguerriti ed organizzati. Nel supermartedì, Paul ha come al solito ottenuto buoni risultati negli stati che prevedevano caucus (secondo in Idaho e North Dakota, terzo in Alaska) e il 40% dei consensi in Virginia, dove però l’unico avversario era Romney.
Per Gingrich, invece, quello in Georgia è stato il secondo successo della stagione dopo che aveva prevalso in Carolina del Sud a gennaio. Considerato la prima alternativa a Romney fino a qualche settimana fa, la stella di Gingrich si è tuttavia rapidamente offuscata, lasciando spazio al ritorno di Rick Santorum. La sua permanenza nella competizione dipendeva esclusivamente da una vittoria convincente nel suo stato, grazie alla quale - e ad una nuova infusione di denaro da parte del suo principale finanziatore, il magnate dei casinò Sheldon Adelson - proverà ora a giocarsi le residue carte a disposizione nel sud degli Stati Uniti.
Come già accaduto nei primi due mesi dell’anno, anche nei giorni precedenti il supermartedì la campagna elettorale per le primarie repubblicane è stata caratterizzata dai consueti scambi di critiche e accuse tra i vari candidati. Questi ultimi hanno fatto a gara nel posizionarsi il più a destra possibile sui temi sociali, economici e - a parte Ron Paul - della politica estera. In particolare, Romney, Gingrich e Santorum, in concomitanza con la convention annuale della lobby sionista AIPAC e della visita a Washington del premier israeliano Netanyahu, hanno attaccato il presidente Obama sulla questione del nucleare iraniano, minacciando un intervento militare contro Teheran in caso di elezione alla Casa Bianca.
Romney, inoltre, ha continuato a promuovere la sua immagine di imprenditore vincente grazie alla passata esperienza nel “private equity” che lo renderebbe il candidato più adatto a risollevare l’economia americana.
Santorum, da parte sua, facendo leva sulle sue umili origini da una famiglia cattolica della Pennsylvania, si è presentato soprattutto in Ohio come il difensore dei lavoratori e delle classi più disagiate, nonostante abbia messo assieme una fortuna come lobbista per svariate corporation dopo aver perso la rielezione al Senato nel 2006. Assieme alle vittorie dell’ultima settimana di Romney, in ogni caso, sono giunti segnali inequivocabili da parte dell’establishment repubblicano per serrare i ranghi attorno al favorito.
Nei vertici del partito sono d’altra parte diffusi i timori per il protrarsi di una campagna lacerante e, soprattutto, per un’eventuale nomination di Santorum che con ogni probabilità allontanerebbe una buona parte dell’elettorato in vista di novembre a causa delle sue posizioni troppo estreme sui temi sociali. Un fondamentalismo quello di Santorum che, in Ohio come in Michigan, ha addirittura spinto la maggioranza dei cattolici a preferire il mormone Romney.
Quest’ultimo ha potuto così incassare l’appoggio ufficiale di alcune importanti personalità del Partito Repubblicano, come il leader di maggioranza alla Camera, Eric Cantor, il senatore dall’Oklahoma, Tom Coburn, e l’ex ministro della Giustizia di George W. Bush, John Ashcroft. Il vantaggio principale di Romney rimane però la quantità di denaro - oltre 100 milioni di dollari - tuttora a disposizione della sua campagna elettorale e della SuperPAC che lo sostiene. Il “front-runner” repubblicano, vanta anche una fortuna personale stimata in qualcosa come 250 milioni di dollari alla quale in caso di necessità potrebbe attingere, come fece durante le primarie del 2008.