di Michele Paris

Qualche giorno fa, la Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti ha dato il via libera definitivo e con accordo bipartisan a quello che è stato propagandato come un provvedimento in grado di stimolare la creazione di nuovi posti di lavoro. La nuova legge, appoggiata dall’amministrazione Obama, ha in realtà a che fare con l’occupazione solo per l’acronimo che è stato scelto come nome (JOBS Act o Jumpstart Our Business Startup Act), dal momento che si risolve in una serie di misure volte a ridurre le regolamentazioni per il business americano che, con ogni probabilità, finiranno per facilitare le frodi finanziarie.

Anche se teoricamente rivolta alle piccole imprese, il punto centrale della legislazione appena licenziata dal Congresso è l’allentamento dei controlli da parte della Commissione per i Titoli e gli Scambi (Securities and Exchange Commission, SEC) - l’ente federale statunitense che vigila sulla Borsa - sulle nuove aziende (“Startup”) con un fatturato annuo fino a un miliardo di dollari

I contenuti del JOBS Act sono in buona parte ispirati alle proposte presentate nel recente passato dal presidente Obama, tra cui alcune snocciolate durante l’ultimo discorso sullo stato dell’Unione. Oltre alla scomparsa dell’obbligo di sottostare alla supervisione della SEC, la legge semplificherà la raccolta del capitale per le aziende nascenti, in particolare tra un vasto numero di investitori attraverso il web (“crowdfunding”).

Inoltre, il numero minimo di investitori al di sopra del quale queste “startup companies” saranno obbligate a sottoporre i bilanci alla SEC passerà da 500 a 1.000, mentre le aziende potranno fare pubblicità virtualmente senza controlli per sollecitare gli investimenti, con la conseguenza di facilitare le frodi.

Queste iniziative hanno suscitato le critiche delle associazioni a difesa dei consumatori e degli investitori, preoccupate per l’ulteriore apertura di un settore già debolmente regolamentato e che ha già registrato nel recente passato numerose truffe. L’agenzia a protezione degli investitori NASAA (North American Securities Administrators Association) ha ad esempio messo in guardia dagli effetti negativi della legge, soprattutto sui pensionati.

Il suo presidente, Jack Herstein, ha ricordato come “nel 2004 l’amministrazione Bush ostacolò numerose leggi statali a protezione degli investitori per facilitare la cosiddetta innovazione finanziaria, specialmente nel settore dei mutui. La maggior parte di noi ricorda molto bene come é andato a finire l’esperimento, ma il Congresso sembra non avere imparato la lezione”. Per Herstein, il JOBS Act creerà “nuovi posti di lavoro solo per i promotori di truffe finanziarie su Internet”.

Giovedì scorso, anche l’ex candidato alla presidenza degli Stati Uniti, nonché attivista per i diritti dei consumatori, Ralph Nader, ha fatto sentire la propria voce, chiedendo a Obama di porre il veto sulla nuova legge. Nader sostiene che “il JOBS Act permetterà di avviare imprese rischiose senza i dovuti controlli delle agenzie preposte” ed “eliminerà molti obblighi che vengono solitamente imposti alle nuove compagnie per proteggere gli investitori”.

I media mainstream d’oltreoceano e la stessa Casa Bianca, al contrario, hanno elogiato il Congresso per l’accordo bipartisan a favore della crescita economica. Le profonde divisioni tra i due schieramenti sono infatti messe da parte senza difficoltà quando si presenta l’occasione di avanzare proposte che beneficiano i grandi interessi economici e finanziari a spese di lavoratori e classe media.

Alla Camera, il JOBS Act è stato così approvato con 380 voti a favore e appena 41 contrari. Qualche giorno prima, il Senato lo aveva ugualmente licenziato con un margine di 73 a 26. La Camera si era in realtà già espressa a favore in precedenza, ma una modifica introdotta dal Senato ha richiesto un ulteriore voto.

Su richiesta di alcuni senatori democratici era stato inserito l’obbligo di un qualche controllo per le aziende che utilizzeranno il sistema del “crowdfunding”, anche se da più parti alla Camera è già stato espresso l’auspicio che nel prossimo futuro questa modesta regolamentazione venga smantellata.

La nuova legge è stata ovviamente accolta con entusiasmo dai vari gruppi imprenditoriali e dalle corporations d’oltreoceano. Per stessa ammissione dei suoi sostenitori, comunque, il JOBS Act avrà al massimo un impatto irrisorio sul mercato del lavoro, con la creazione di un massimo stimato di 100 mila nuovi posti nei prossimi otto anni. Secondo i dati ufficiali dell’Ufficio per le Statistiche del Dipartimento del Lavoro, nel mese di febbraio gli americani disoccupati erano 12,8 milioni.

Di fronte ad una crisi che sembra aver mollato la presa solo per i membri dell’aristocrazia economico-finanziaria, gli unici provvedimenti che la politica statunitense è in grado di adottare consistono dunque esclusivamente in nuovi sostanziosi regali alle corporations e nella ulteriore deregolamentazione del business. Per i milioni di americani senza lavoro quello che resta sono invece le briciole di sussidi di disoccupazione sempre più ridotti o, tutt’al più, la misera prospettiva di impieghi precari e sottopagati.

di Luca Mazzucato

NEW YORK. Per alcuni, Goldman Sachs, la madre di tutte le banche, è il male assoluto, mentre per chi lavora in finanza è il sogno nel cassetto. Se fino ad ora le critiche sono state tutte concentrate sulle pratiche finanziarie ai limiti della legalità, adesso il gioco si fa pesante: l'accusa è di prostituzione minorile e traffico di esseri umani. Negli Stati Uniti questa è probabilmente la singola accusa più infamante, capace di trascinare un'azienda a picco. Lo scoop del New York Times apre una voragine nell'immagine pubblica di Goldman ed è difficile immaginare cosa succederà. Certo è che la storia è una bomba.

Fino al 2008, la banca d'investimento era considerata la più prestigiosa azienda del pianeta, dai profitti stellari e un vero magnete per le menti più brillanti del panoramana mondiale e soprattutto dell'Ivy League. I suoi ex-dipendenti stanno governando il nostro continente: dal capo della BCE Mario Draghi, al nostro premier Monti e al premier greco Papademos.

La reputazione della banca è da anni in costante declino, anche se i suoi profitti e i bonus dei suoi dirigenti sono tornati ai livelli pre-crisi. La storia recente ha portato alla luce il modus operandi della banca: cercare di speculare il più possibile sui propri clienti, a costo di rifilare a ignari fondi pensione investimenti spazzatura, scommettendo sul loro fallimento e mietendo profitti stellari. Le recenti dimissioni di un pezzo grosso di Goldman Sachs a mezzo di editoriale infamante sul NYT hanno ricordato a tutti chi sono e cosa fanno questi cosiddetti “Masters of the universe.” Ma ora viene quasi da pensare: fossero questi i problemi!

Nicolas Kristof, sul New York Times, racconta i retroscena di una storia che farà rizzare i capelli in testa anche al più cinico tra i repubblicani. Il mondo dei siti online che offrono servizi di sesso a pagamento è uno dei più redditizi negli Stati Uniti. Spesso però, come nel caso del sito Backpage.com, gli annunci su questi siti non sono postati da escort indipendenti, ma da veri e propri schiavisti. Una recente indagine ha scoperto un osceno traffico di ragazzine minorenni che venivano rapite, drogate, pestate, ridotte in schiavitù e poi offerte al pubblico pedofilo, proprio su questo sito. I magistrati hanno incastrato i colpevoli, ma purtroppo non sono riusciti a fare in modo che la società proprietaria del sito venisse considerata legalmente responsabile per gli annunci messi online. Questo nonostante l'intervento di ben diciannove senatori americani.

Kristof ha deciso di vederci chiaro e ha iniziato a indagare sugli assetti proprietari del sito, uno dei più popolari con milioni di visitatori. Scopre che l'azienda appartiene per il cinquantuno percento a "Village Voice Media", la stessa società che gestisce lo storico giornale gratuito The Village Voice, distribuito ovunque a New York, che peraltro si finanzia con decine di pagine di pubblicità di escort e vari servizi sessuali a pagamento. Ma chi possiede il resto della proprietà?

Avete indovinato. La quota di minoranza di "Village Voice Media" appartiene a varie banche d'investimento, e il secondo azionista - con il sedici percento - è proprio Goldman Sachs, che ha acquistato la sua quota nel 2000, subito prima che la società mettesse le mani sul sito di sesso a pagamento. Uno dei consiglieri di amministrazione della società, fino al 2010, è stato il senior manager di Goldman Sachs Scott Lebovitz. Elizabeth McDougall, consulente capo di "Village Voice Media", intervistata dal New York Times ha dichiarato che nessuno dei proprietari ha mai mostrato alcun dissenso rispetto alla condotta della società.

Insomma, ci sono dentro fino al collo. Negli ultimi giorni la banca e le altre società finanziarie coinvolte, invece di usare il loro peso azionario per aiutare i magistrati a bloccare le pratiche illegali del sito Backpage.com, hanno cercato di sbarazzarsi delle azioni in fretta e furia, senza peraltro riuscirci. Come bambini colti con le mani nel sacco: anche se in questo caso il sacco è un osceno intreccio di schiavitù, sfruttamento e prostituzione minorile.

di Vincenzo Maddaloni

Il bersagliere ucciso nell’attacco talebano di pochi giorni fa rende ancor più pesante il fallimento della missione italiana in Afghanistan. Da una parte cresce a cinquanta il numero dei nostri caduti, dall’altra parte il fatto che le grandi potenze occidentali riunite nella Nato non possono che proclamare la sconfitta, dopo oltre dieci anni di conflitto.

Tuttavia, nonostante il nostro contingente in Afghanistan sia il quarto per numero, non ha impedito che in Italia più che altrove la politica estera resti un’appendice della politica interna anche con il governo Monti (si tenga a mente come si ta gestendo la vicenda dei due marò imprigionati in India).

Infatti, per cause storiche e culturali, abbiamo una classe dirigente restia non solo a pensare la politica estera in termini globali, ma persino a coltivare curiosità per quelle zone dove sono presenti i soldati italiani e lo Stato spende.

Che tutto questo sia reale lo conferma la gran parte di quanto è stato detto e scritto in Italia negli ultimi dieci anni e passa a proposito dei grandi temi della politica estera, incluso l’Afghanistan con i suoi talebani. Eppure, per rimediare basterebbe un semplice ripasso ricordando, per esempio, che ben tre guerre furono perse con l'Afghanistan, nell'Ottocento e nel Novecento. L’Inghilterra le perdette perché insediò a Kabul dei governi fantocci, perché non tenne in alcuna considerazione le sue antiche decentrate strutture tribali, perché credeva che era il miglior modo per fare dell’Afghanistan uno Stato cuscinetto tra Russia, Persia, India.

Sono errori che continuano a ripetersi, e fa impressione che nessuno se ne sia rammentato. Mi tornano sempre in mente le parole di Boris Gromov, il generale comandante dell’Armata Rossa che seppe uscire con dignità dalla trappola afghana:« Abbiamo perso la guerra perché non abbiamo rispettato le promesse con la popolazione, come non era mai accaduto prima. Infatti - mi  spiegava (anno 1989) - prima la nostra tattica prevedeva la distruzione dei centri di potere dei tiranni e poi intervenire in soccorso della popolazione con ingenti aiuti economici. Così facendo abbiamo sempre vinto. Siamo stati sconfitti in Afghanistan perché è venuta a mancare questa seconda fase. Gli ottusi dirigenti che avevano preceduto Gorbaciov non avevano rispettato le promesse, e i pastori afghani delusi ci si sono rivoltati contro. Non vi si poteva rimediare se non ritirandosi».

Beninteso, anche la guerra afghana in versione Nato ha messo in evidenza tanto gli errori politici quanto quelli militari. Fin dall’inizio (anno 2001) si sono declamati un’infinità di obiettivi: abbattere il regime talebano, distruggere l’infrastruttura di Al Qaeda, catturare bin Laden, diffondere pratiche e istituzioni più democratiche, lottare contro la corruzione, sostenere il governo di Karzai, limitare l’influenza delle potenze regionali vicine.  Morale, si è realizzato poco o nulla di questo ambizioso, articolato e mutevole programma.

bin Laden è morto? Probabilmente non è mai esistito. Al Qaeda ha subito colpi durissimi e molti leaders sono stati fisicamente eliminati? È vero,ma molti altri ne hanno preso il posto e, cosa ben più grave, persino quella  parte di popolazione che aveva salutato con speranza  l’intervento occidentale  ha girato le spalle ai “liberatori”, come aveva profetizzato vent'anni fa il generale Gromov.

Che cosa pensare? In un mondo mediatico in cui si continua a incoraggiare un giornalismo speculativo e spettacolare, a scapito di un giornalismo d’informazione e che dequalifica la figura stessa del giornalista fino ad annullarla, c’è poco da pensare. In Italia ha "perso  di valore" il professionista esperto e aggiornato che possa intervenire con sicura competenza sui nodi sempre più ardui del mondo contemporaneo e spiegarli.

La funzione critica del giornalismo in Italia rischia l'estinzione. L’ultima parola - è diventata ormai una prassi - la si dà al conduttore televisivo, al maggiordomo del salotto mediatico. Così facendo, accade che siano i non giornalisti ad essere catapultati ai vertici della professione. Poi ci sono i politici che sempre di più intervengono nel mestiere del giornalista, e infine gli editori che sono imprenditori, attivi in molti campi, ai quali interessa solo e soltanto il business.

Sicché in un simile panorama si sono letti i commenti più disparati su tutta una serie di episodi come quelli sui soldati  americani che «impazziscono» e massacrano civili inermi per difendere i quali sono stati inviati in Afghanistan. Oppure sulle immagini di soldati Usa che offendevano nel modo più volgare cadaveri di talebani. Oppure sui militari afghani che sparano e uccidono i soldati che li stavano addestrando. Oppure i commenti sulle copie del Corano bruciate che hanno provocato violente manifestazioni e assalti ai compounds alleati durante i quali sono morti decine di afghani. Sui Droni che ammazzano persone a casaccio col preteso di eliminare questo o quel capobanda. Infine sull'inaudito massacro di 16 civili afghani ad opera del sergente Robert Bales.

Così la sequenza di «incidenti» ha fatto esplodere il clima di sfiducia già da tempo latente negli Usa scatenando un dibattito che, dietro le quinte dell'ufficialità, è ancora lontano da conclusioni condivise. Inoltre ha moltiplicato i dubbi dei nostri alleati europei al punto che in molti si chiedono se sia realistico pensare di ritirare il grosso delle truppe straniere dal Paese entro il 2014, come la Nato ha annunciato di voler fare da oltre un anno. L'Italia che fa?  Stando così le cose che senso ha per un paese nelle condizioni economiche dell’Italia tirare fino al 2014? Se ci fosse una risposta chiara avremmo tutti da guadagnarne, a cominciare dal risparmio sulle spese militari. Ma Monti, come si vede, glissa. Per non dispiacere Obama.

www.vincenzomaddaloni.it

 

di Fabrizio Verde 

Ha organizzato una nuova “presa” della Bastiglia, inondando una piazza gremita da almeno centoventimila persone, in un tripudio di rosse bandiere - lo scorso 18 di marzo - simbolica data dell'insurrezione popolare che nel 1871 diede via alla “Comune di Parigi”. Il primo esperimento di governo socialista, nel cuore dell'Europa, che adottò come bandiera il drappo rosso, e tra l'altro sancì la separazione tra Stato e Chiesa, istituì l'istruzione laica e gratuita, eliminò l'esercito permanente ed armò i cittadini, rese elettive tutte le cariche pubbliche retribuendo funzionari e membri del Consiglio della Comune con salari di livello operaio.

Il tutto adottando l'istituto assembleare in luogo di quello parlamentare. Impresa titanica per il generoso popolo parigino, che finì sotto la scure della reazione governativa: un bagno di sangue per gli operai comunardi.

Non c’è oggi in discussione una nuova presa della Bastiglia, ma chi a questo s’ispira è Jean-Luc Mèlenchon. Il candidato alle prossime elezioni presidenziali francesi per il Front de Gauche, coalizione elettorale che comprende il Partito Comunista Francese, il Partito della Sinistra e movimenti ambientalisti ed anticapitalisti riuniti sotto la sigla della Federazione per un'Alternativa Sociale ed Ecologica.

Inizialmente snobbato dai media, il sessantunenne ex senatore della componente di sinistra del Partito Socialista, già ministro dal 2000 al 2002, nel governo presieduto da Lionel Jospin, si è imposto all'attenzione dapprima dei francesi e poi dei media a livello continentale. Dando vita ad una inattesa, quanto irresistibile, ascesa nei sondaggi, che adesso - con il 14% dei consensi - lo accreditano in terza posizione alle spalle dei favoriti Hollande (PS) e Sarkozy (UMP).

Alcune sue proposte per combattere la violenta crisi che attanaglia senza soluzione di continuità la Francia e l'intera economia occidentale, così come la manifestata intenzione di tassare fortemente chi detiene un alto reddito, hanno costretto il candidato del Partito Socialista, afferente alla “sinistra” moderata e riformista come si afferma nella comune vulgata, a scendere sul suo terreno.

Addirittura, alla questione, si è accodato anche l'attuale presidente uscente Nicolas Sarkozy, notoriamente liberista e conservatore, che è arrivato ad annunciare l'intenzione di alzare la tassazione e ricorrere ad un aumento dell'Iva previsto già prima delle elezioni.

Inizialmente, Mèlenchon era accreditato di un misero 5% nelle intenzioni di voto, tanto che tra i principali competitori nella corsa all'Eliseo, non veniva nemmeno menzionato al pari dei candidati considerati “minori” come i  trotzkysti Poutou (Nuovo Partito Anticapitalista) e Arthaud (Lotta Operaia), piuttosto che della candidata ecologista Joly.

Ma il navigato fondatore del Partito della Sinistra che in gioventù aveva scelto un evocativo nome di battaglia, Joseph Santerre (in omaggio al mitico birraio che fu tra i protagonisti della presa della Bastiglia nel luglio del 1789) è forte anche dell'appoggio di un partito comunista storico oltre che autorevole come quello francese, anche se in declino dal punto di vista elettorale.

Grazie al suo carisma, le sue doti oratorie, ma soprattutto grazie alle sue proposte di chiaro stampo anti-liberista, fortemente improntate alla rottura con le politiche di austerità (che, come mostra in maniera inconfutabile la Grecia, deprimono ancor di più l'economia) con slogan netti e chiari come “prenez le pouvoir”, è riuscito a riunire sotto le insegne del Front de Gauche una sinistra spesso riottosa e frammentata, proprio come nella vicina Italia.

Lo ha fatto galvanizzando il suo popolo e attirando i consensi di larghi strati di popolazione, inesorabilmente colpiti dai morsi di una crisi dalle dimensioni sempre più ampie, che ha scatenato anche oltralpe un processo di oggettiva proletarizzazione di ampie fasce appartenenti al cosiddetto ceto medio.

Il programma del Front de Gauche guidato da Mèlenchon, é in netto contrasto con i dettami ultraliberisti “dell'abbietta trojka” da cui non si discostano, sostanzialmente, i partiti socialisti “riformisti” d'Europa

E’ imperniato sul rilancio del concetto di uguaglianza ritenuto dirimente a sinistra, prevede una «Costituente per la VI Repubblica», la «fine dei privilegi del capitale», il salario minimo a 1700 euro, tassazione al 100% per i redditi superiori ai 360000 euro, età pensionabile fissata a 60 anni, un massiccio piano di assunzioni nella funzione pubblica, nazionalizzazione delle grandi banche al fine di fondare un polo bancario - finanziario pubblico, la difesa dell'ambiente e dei beni comuni, come acqua ed energia. Questi i punti principali del programma della sinistra d'alternativa francese, unita e fautrice di una nuova Europa «sociale, democratica ed ecologica».

I principali media, mainstream, tacciano il Front de Gauche di populismo, paragonando il  programma gauchiste a quello dell'estrema destra del Front National guidato da Marine Le Pen. Intanto Mèlenchon continua la sua ascesa nei sondaggi, nonostante gli appelli di Hollande al «voto utile»: secondo l'ultima rilevazione dell'istituto BVA per RTL, sarebbe balzato in un mese al 14% (+5%), mentre Hollande con il 29,5% perde mezzo punto percentuale, con Sarkozy invece, che guadagna due punti attestandosi al 28%. Il Front National di Le Pen perde due punti scendendo al 13%, come il centrista Bayrou, sostenuto in Italia da una corrente del Partito Democratico, che scende al 12% perdendo un punto percentuale. Marginali gli altri candidati, con i trotzkysti fermi allo 0,5% dopo anni di buone affermazioni.

La sinistra francese promette di creare un sommovimento capace di scuotere il torpore che pervade i popoli europei. A cominciare dall'Italia, dove una parte della sinistra guarda con interesse all'esperimento d'oltralpe. Sarà, anche nel ventunesimo secolo, il suolo transalpino a trasmettere il fermento rivoluzionario al resto del continente?

 

di Michele Paris

Giovedì scorso, una giunta militare ha conquistato il potere in Mali dopo aver rimosso il presidente Amadou Toumani Touré, due volte democraticamente eletto alla guida del paese dell’Africa occidentale. Il nuovo regime degli ufficiali golpisti è stato immediatamente condannato da una comunità internazionale che da qualche giorno si sta muovendo per adottare iniziative volte a ristabilire la democrazia.

Alla base del rovesciamento del governo legittimo ci sono problemi di natura economica e sociale precipitati negli ultimi mesi, in particolare dopo la caduta del regime di Gheddafi in seguito all’intervento NATO dello scorso anno.

Il colpo di stato sembra essere scaturito da un’insurrezione dei militari in una caserma nella capitale, Bamako, mercoledì scorso. Alla testa dei soldati ribelli ci sarebbe il capitano Amadou Sanogo, addestrato negli Stati Uniti nel corso di svariati soggiorni presso alcune accademie militari americane.

La giunta, dopo aver preso possesso del palazzo presidenziale e il controllo delle trasmissioni televisive, ha annunciato la sospensione della Costituzione, ha adottato il coprifuoco e chiuso le frontiere, anche se alcune misure di emergenza sono state annullate negli ultimi giorni per dare un’apparenza di normalità al paese.

La giunta militare, autodefinitasi “Comitato Nazionale per il Ristabilimento della Democrazia e la Rinascita dello Stato”, sembra avere ancora un controllo precario del paese ed è formata da ufficiali di basso grado. Il motivo ufficiale del golpe contro un presidente che avrebbe dovuto lasciare il potere al termine del suo secondo mandato il mese prossimo, sembra essere stata l’incapacità di quest’ultimo di sedare la rivolta dei Tuareg in corso da qualche mese nel nord del Mali.

L’insurrezione era iniziata attorno alla metà di gennaio sotto la guida del Movimento di Liberazione Nazionale Azawad (MNLA), creato dalla fusione di vari gruppi ribelli, anche grazie all’afflusso in Mali di centinaia di Tuareg armati che avevano lasciato la Libia dopo il crollo di Gheddafi, per il quale avevano combattuto contro le milizie sostenute dalla NATO. I combattimenti che sono seguiti hanno permesso all’MNLA di strappare al controllo governativo ampie porzioni di territorio e importanti città, mentre hanno causato l’evacuazione di centinaia di migliaia di persone, costrette a lasciare i propri villaggi per cercare rifugio nei paesi confinanti.

La scarsa preparazione delle truppe inviate al nord per spegnere la rivolta e gli equipaggiamenti inadeguati forniti dal governo avevano provocato una profonda insofferenza verso il presidente Touré tra le forze armate. Il primo febbraio, inoltre, le mogli e le madri dei membri dell’esercito uccisi nei combattimenti con i Tuareg avevano organizzato una manifestazione di protesta dopo la scoperta di una fossa comune con una quarantina di corpi di soldati, a fronte di un bilancio ufficiale di appena due decessi.

Pochi giorno dopo il colpo di stato, gli Stati Uniti, la Francia e l’Unione Europea hanno congelato gli aiuti economici destinati al Mali che ammontano a decine di milioni di dollari. Nella capitale della vicina Costa d’Avorio, inoltre, è stata convocata una riunione di emergenza della Comunità Economica dei Paesi dell’Africa Occidentale (ECOWAS), da cui il Mali è già stato sospeso.

Il presidente ivoriano Alassane Ouattara ha minacciato sanzioni contro la giunta al potere e ha annunciato la messa in stato di allerta di un contingente di peacekeepers da inviare in Mali se sarà necessario. Una delegazione composta da cinque presidenti di paesi africani sta infine per recarsi a Bamako per cercare di “ristabilire l’ordine costituzionale”.

Nella serata di martedì, intanto, un portavoce della giunta apparso in diretta TV ha affermato che il Mali avrà a breve una nuova costituzione, lasciando intendere che verrà formato un nuovo governo nonostante gli appelli a reinsediare quello del presidente Touré. Mercoledì, poi, Al Jazeera ha dato notizia di una manifestazione a favore degli stessi militari per le strade di Bamako, con ogni probabilità orchestrata da essi stessi per mostrare un qualche appoggio popolare al golpe.

Il deposto presidente Amadou Toumani Touré era stato anch’egli a capo di un golpe militare in veste di generale nel 1991, quando l’esercito depose il dittatore Moussa Traoré sull’onda delle proteste popolari esplose nel paese. Soprannominato “Soldato della Democrazia”, l’anno successivo Touré facilitò la transizione democratica e le elezioni presidenziali, vinte da Alpha Oumar Konaré. Alla scadenza del secondo mandato di quest’ultimo, Touré conquistò la presidenza nelle elezioni del 2002 e venne rieletto nel 2007.

Dopo l’indipendenza dalla Francia nel 1960, il Mali si allineò al blocco sovietico, anche se successivamente le relazioni con l’Occidente migliorarono notevolmente. In particolare, dopo l’11 settembre e l’ascesa al potere di Touré, il governo del Mali si è mostrato un partner affidabile nella guerra al terrore lanciata dagli Stati Uniti. La cooperazione militare con Washington si è intensificata, anche per il ruolo di Bamako nel contenimento della minaccia più o meno reale dei gruppi affiliati ad Al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM) attivi nella regione sahariana e del Sahel.

Anche se Washington e Parigi hanno ufficialmente condannato in maniera decisa il golpe in Mali, chiedendo il ristabilimento del potere civile, da qualche tempo erano giunti svariati segnali della crescente impazienza occidentale nei confronti del governo di Touré. Questi malumori erano dovuti all’inadeguatezza sempre più evidente nel fronteggiare i gruppi integralisti operanti nel nord del paese e che sembrano aver stabilito qualche legame proprio con i ribelli Tuareg. Il Mali, inoltre, è diventato un punto di transito importante per il traffico di droga proveniente dall’America Latina e diretto al mercato europeo.

La situazione interna sempre più precaria del Mali, tuttavia, è la conseguenza diretta proprio dell’intervento NATO in Libia. Come aveva ricordato lo stesso Touré in un’intervista rilasciata lo scorso febbraio al settimanale francese L’Express, Gheddafi aveva infatti agito da mediatore e pacificatore sulla questione dei Tuareg, favorendo il disarmo dei ribelli e la loro integrazione nella società. Il regime di Tripoli aveva costruito stretti legami con il Mali, dove i massicci investimenti libici avevano prodotto una certa crescita di alcuni settori dell’economia locale.

Il ritorno dei Tuareg reclutati dal rais e l’improvvisa disponibilità di armi in Libia dopo il tracollo dell’autorità centrale a Tripoli ha dunque riportato alla luce i problemi che lacerano la società maliana gettando il paese nel caos.

Il malcontento ampiamente diffuso tra le popolazioni nomadi dei Tuareg contribuisce inoltre a spiegare la persistenza dei rigurgiti di violenza nelle regioni desertiche settentrionali del Mali, dove gravi ribellioni avevano già avuto luogo tra il 1962 e il 1964, tra il 1990 e il 1995 e, più recentemente, tra il 2007 e il 2009. Tra i paesi più poveri dell’intero pianeta, il Mali registra oltretutto forti differenze tra un sud dove si concentrano le attività economiche e un nord impoverito.

Sparsi entro i confini di Algeria, Burkina Faso, Libia e Niger, i Tuareg in Africa del nord sarebbero complessivamente, a seconda delle stime, tra i due e i tre milioni. Nel solo Mali sono invece almeno un milione e nutrono invariabilmente un profondo risentimento verso un governo centrale incapace di porre rimedio all’emarginazione e alla povertà cui sono sottoposti da decenni.


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