di Michele Paris

Le immagini dei militari americani in posa con i corpi smembrati di militanti islamici afgani, pubblicate mercoledì dal Los Angeles Times, hanno messo in luce per l’ennesima volta negli ultimi mesi l’estremo disprezzo mostrato dagli Stati Uniti verso una popolazione costretta a subirne l’occupazione da oltre un decennio. Il quotidiano della California ha diffuso solo due delle 18 foto fornite da un anonimo soldato della 82esima Divisione Aerotrasportata di stanza a Fort Bragg, in North Carolina, della quale fanno parte gli stessi militari che appaiono nelle agghiaccianti immagini.

Le fotografie sono state scattate in due occasioni, nel febbraio e nell’aprile 2010, da oltre una decina di militari americani, affiancati da alcuni membri dell’esercito afgano, inviati nella provincia meridionale di Zabul per identificare tramite impronte digitali e scansione della retina i resti di estremisti islamici che si erano fatti esplodere nel corso di attentati suicidi.

La rivelazione del Los Angeles Times arriva solo a poche settimane di distanza da altri gravissimi episodi che avevano fatto esplodere la rabbia della popolazione locale nei confronti degli occupanti americani e che avevano palesato ancora una volta la falsità della pretesa di Washington di condurre in questo paese una “guerra giusta” per la liberazione degli afgani.

Nel solo 2012, infatti, gli Stati Uniti hanno dovuto far fronte alle reazioni scatenate dalla diffusione di un video in rete nel quale un gruppo di Marines urinava sui corpi di afgani uccisi, dal rogo di copie del Corano presso una base militare e, da ultimo, dal massacro di 16 civili compiuta da un soldato americano in un villaggio nella provincia di Kandahar.

Come per i precedenti episodi, anche quest’ultimo portato alla luce dal Los Angeles Times è stato immediatamente seguito dalla condanna dei vertici politici e militari statunitensi, i quali nuovamente hanno descritto i fatti come l’azione di persone disturbate o sotto stress a causa della lunga permanenza in un teatro di guerra. Dal momento che simili rivelazioni sono rese possibili solo grazie alle rare informazioni passate ai media o pubblicate sul web da singoli soldati, è altamente probabile che comportamenti del genere siano piuttosto la regola in Afghanistan e altrove.

Seguendo il consueto copione, inoltre, il Pentagono e la Casa Bianca hanno promesso l’ennesima indagine per portare i responsabili davanti alla giustizia, anche se, come per i fatti precedenti, c’è da credere che seri provvedimenti punitivi non saranno presi nemmeno in questa occasione.

Ancora più preoccupante è stato poi il tentativo fatto dal Pentagono di bloccare la pubblicazione delle stesse immagini. Il Los Angeles Times in un editoriale ha rivelato che, dopo aver ricevuto le foto qualche settimana fa, ne aveva mostrate alcune al Dipartimento della Difesa. In seguito alla consultazione, il Pentagono ha chiesto al giornale di non diffonderle ma il quotidiano, “dopo un intenso dibattito” interno, ha optato per la pubblicazione di solo due immagini, corredate da un articolo del corrispondente da Kabul, David Zucchino.

L’invito al Los Angeles Times a tenere nascosto il materiale è stato confermato da Bruxelles dallo stesso Segretario alla Difesa, Leon Panetta, durante una conferenza della NATO. Secondo quanto riportato dalla CNN, Panetta avrebbe fatto pressioni direttamente sui responsabili del giornale, “perché il nemico utilizza questo genere di immagini per incitare alla violenza”.

In sostanza, per gli USA, gli afgani non dovrebbero sapere quello che fanno gli occupanti americani nel loro paese, altrimenti esploderebbe una più che giustificata reazione popolare per chiederne l’allontanamento immediato. Il tentativo di occultare le fotografie è volto anche ad evitare di far conoscere la realtà della guerra in Afghanistan ai cittadini americani, sempre più stanchi di un conflitto senza alcuna soluzione in vista.

Alle parole di Panetta vanno aggiunte quelle del portavoce dell’esercito USA, colonnello Thomas Collins, il quale è sembrato attribuire la colpa di quanto accaduto alla tecnologia e ai social media. Per Collins, cioè, queste rivelazioni dipendono dal fatto che non si può controllare l’uso dei cellulari e l’accesso alla rete dei soldati, come se il problema non fosse tanto l’episodio in sé quanto il fatto che esso venga reso pubblico.

Di fronte alla stampa, Panetta ha anche ribadito che i fatti portati alla luce dal Los Angeles Times “non testimoniano ciò che rappresenta la grande maggioranza dei nostri uomini e delle nostre donne in uniforme”. In realtà, pur essendo opera di singoli, fatti simili rappresentano esattamente la natura stessa dell’imperialismo americano e il suo infliggere sofferenza ed umiliazione ai popoli dei paesi occupati per la difesa dei propri interessi strategici.

Di fronte all’indignazione crescente nel paese verso l’occupazione, giovedì il presidente Hamid Karzai ha chiesto alla NATO di accelerare il processo di ritiro delle truppe straniere dall’Afghanistan, per evitare il ripetersi di “esperienze dolorose” come quella di vedere soldati americani in posa con corpi mutilati di cittadini afgani.

Quest’ultimo episodio getta una nuova ombra sulle trattative in corso per chiudere l’occupazione stessa e assicurare agli Stati Uniti una sostanziosa presenza militare in Afghanistan dopo il 2014, così da presidiare un paese situato in una posizione fondamentale per l’accesso alle ingenti risorse energetiche dell’Asia centrale.

Il governo di Kabul, peraltro, non è disturbato più di tanto dal comportamento degli occupanti, da cui dipende interamente per la propria sopravvivenza fisica e politica, quanto per la possibile esplosione della rabbia popolare che finisce per alimentare una resistenza sempre più agguerrita.

L’odio diffuso anche in seguito a fatti come quelli documentati dal Los Angeles Times, infine, rischia di rendere ancora più precari gli equilibri militari per le forze NATO in concomitanza con l’apertura della consueta offensiva di primavera dei Talebani, inaugurata proprio qualche giorno fa con un assalto spettacolare ad alcuni edifici governativi di Kabul, e in altre località del paese, annientato a fatica solo dopo parecchie ore di assedio.

di Michele Paris

Un recente studio condotto sulla città di New York mette in evidenza come la metropoli che ospita la borsa americana e le sedi di alcune delle compagnie finanziarie più ricche e potenti del pianeta abbia fatto registrare in questi anni un preoccupante aumento dei livelli di povertà tra i propri abitanti. L’indagine, stilata dal Center for Economic Opportunity (CEO), ha rilevato lo scivolamento al di sotto della soglia di povertà di decine di migliaia di persone tra il 2009 e il 2010, con conseguenze particolarmente pesanti per le famiglie con figli e per i residenti più giovani.

Secondo i ricercatori del CEO, in un solo anno sono stati quasi 100 mila gli abitanti di New York a finire sotto il livello di povertà, pari ad un aumento dell’1,3% che ha portato il totale al 21%. Questa percentuale è la più alta almeno dal 2005, quando cioè le autorità cittadine hanno modificato i parametri per stabilire la soglia di povertà. Per quanto riguarda i minori, più di uno su quattro al di sotto dei 18 anni - il 25,8%, contro il 22,9% nel 2008 - è costretto a vivere in queste condizioni.

Le famiglie con prole, come già accennato, sono ancora più colpite con un tasso del 23% e, inoltre, con un numero significativo appena al di sopra del limite di povertà ufficiale. Se la crisi e la disoccupazione esplosa dopo il 2008 sono fattori determinanti per la riduzione del reddito dei newyorchesi, anche le famiglie nelle quali lavorano due componenti a tempo pieno risultano in difficoltà. Nel 2010, infatti, il 5% di queste ultime era al di sotto della soglia di povertà, quando, complessivamente, i residenti classificati come poveri a New York nel 2010 erano ben 1,7 milioni.

Il Center for Economic Opportunity è stato fondato nel 2006 dal sindaco miliardario di New York, Michael Bloomberg, teoricamente per “implementare modalità innovative che riducano la povertà”, e nel suo più recente rapporto - “The CEO Poverty Measure, 2005-2010” - elogia perciò le modeste iniziative adottate dall’amministrazione cittadina per alleviare gli effetti della crisi.

Crediti di imposta, sussidi per il pagamento dell’affitto, buoni per l’acquisto di cibo e altri programmi pubblici, ampliati a partire dal 2007, hanno però contribuito a contenere l’incidenza della povertà di appena qualche punto percentuale, senza scalfire il quadro generale.

In ogni caso, l’aumento vertiginoso del numero di newyorchesi che hanno beneficiato dei programmi di assistenza testimonia precisamente la gravità della situazione. I residenti che hanno utilizzato i buoni alimentari a New York, ad esempio, sono passati dai 773.000 del 2008 a oltre un milione nel 2010.

Dal momento che il CEO e la città di New York includono questi “benefit” nel calcolo della soglia di povertà ufficiale, essa risulta più alta di quella stabilita a livello federale, rispettivamente 30.055 dollari e 22.113 dollari per una famiglia con due figli nel 2010. Di conseguenza, anche i dati finali non combaciano. Per gli statistici del governo, i newyorchesi in condizioni di estrema povertà, cioè con a disposizione la metà del reddito fissato per la soglia di povertà, sono il 7,7%, mentre per la città sono il 5,5%.

Come era prevedibile, sono le minoranze a passarsela peggio, con il 26% degli ispanici di fatto al di sotto della soglia di povertà, il 25% degli asiatici, il 21,7% dei neri e il 15,2% dei bianchi non ispanici. Ancora, i residenti senza cittadinanza fanno segnare un 27,8%, contro il 19,9% dei nati negli USA e il 17,8% di quelli stranieri naturalizzati americani.

Il quadro così delineato smentisce ancora una volta clamorosamente i dati ufficiali relativi all’andamento dell’economia, secondo i quali la recessione negli Stati Uniti sarebbe terminata nel giugno del 2009.

In realtà, da questa data a beneficiare della presunta “ripresa” è stata sola una ristretta classe di privilegiati. I due binari su cui si è mossa l’economia americana in questi ultimi anni appaiono in tutta la loro evidenza proprio in una città come New York, dove da un lato oltre un residente su cinque fatica a far quadrare il bilancio e dall’altro si registra la maggiore concentrazione di ricchezza del paese e, forse, di tutto il mondo.

Questa situazione ha portato ad un’esplosione delle disuguaglianze sociali nella metropoli, paragonate da una recente indagine condotta da un altro centro studi con sede a New York, il Center for Working Families, a di paesi latinoamericani come l’Honduras, dove la distribuzione della ricchezza è tra le più inique del pianeta.

di Michele Paris

Il Senato statunitense lunedì ha bocciato un provvedimento fiscale presentato dai democratici che conteneva la cosiddetta “Buffett Rule”, promossa da Barack Obama come uno dei punti centrali del suo programma elettorale nella corsa ad un secondo mandato alla Casa Bianca. La legge in questione avrebbe dovuto teoricamente alzare le tasse per i redditi più elevati, anche se lo stesso presidente aveva in sostanza riconosciuto la natura puramente propagandistica della proposta.

Tecnicamente, con il voto dell’altro giorno la legge (“Paying a Fair Share Act”) non è stata respinta, bensì è stato impedito il suo approdo in aula per la discussione. Secondo le norme del Senato, infatti, qualsiasi proposta, per poter essere presa in considerazione, deve preliminarmente superare un ostacolo procedurale (“filibuster”) che richiede almeno 60 voti su 100.

La “Buffett Rule” ne ha invece raccolti appena 51, mente 45 senatori hanno votato per bloccarla. Tutti i senatori democratici presenti, tranne uno (Mark Pryor dell’Arkansas), hanno votato a favore, così come tutti i repubblicani, tranne uno (la moderata Susan Collins del Maine), si sono opposti. Quattro sono stati gli astenuti.

Il nome della legge deriva da quello del finanziere miliardario Warren Buffett, il quale tempo fa aveva rivelato pubblicamente che il suo carico fiscale era inferiore a quello della sua segretaria. Perciò, la proposta avanzata da Obama prevedeva l’innalzamento dell’aliquota minima almeno al 30% per i redditi al di sopra del milione di dollari.

Nel fermare il provvedimento, i repubblicani hanno come di consueto fatto riferimento all’inopportunità di alzare le tasse per chiunque durante una crisi economica e tanto meno per i presunti “creatori di posti di lavoro”. Giovedì, inoltre, la Camera si esprimerà su una proposta relativa al fisco preparata dagli stessi repubblicani e che comprende, per il 2012, un taglio alle tasse del 20% per le aziende con meno di 500 dipendenti.

La misura presentata dal leader di maggioranza alla Camera, Eric Cantor, costerebbe alle casse federali ben 46 miliardi di dollari, mentre la “Buffett Rule” ne avrebbe fatti incassare 47 nei prossimi dieci anni. Anche la misura repubblicana non ha in ogni caso alcuna possibilità di essere approvata dal Senato.

Il voto negativo di lunedì sulla “Buffett Rule” era comunque scontato, a conferma del fatto che essa era unicamente una manovra elettorale per permettere ai democratici di presentarsi come difensori della classe media e di accusare i repubblicani di essere legati indissolubilmente ai grandi interessi economici e finanziari del paese.

La strategia per la rielezione di Obama è d’altra parte caratterizzata da una netta virata in senso populista della sua retorica. Una misura come quella appena bocciata, così, oltre a fare leva sulla popolarità nel paese di qualsiasi proposta che alzi le tasse per i più ricchi, appare come un’arma di propaganda contro il rivale per la Casa Bianca, Mitt Romney, il quale recentemente aveva rivelato di aver pagato nel 2010 poco meno del 14% di tasse sulle sue entrate milionarie.

Che la “Buffett Rule” non abbia nulla a che fare con un progetto di riforma del sistema fiscale americano che tenti di correggere anche in minima parte le enormi disuguaglianze sociali prodotte in questi ultimi tre decenni lo ha confermato lo stesso Obama nel corso di una conferenza stampa tenuta domenica sera a Cartagena, in Colombia, al termine del summit dell’Organizzazione degli Stati Americani.

Quando un reporter ha chiesto al presidente se la “Buffett Rule” fosse assimilabile alle politiche populiste dei governi latinoamericani di sinistra, Obama ha tenuto a precisare che questa legge “non ha nulla a che fare con la redistribuzione” della ricchezza.

La “Buffett Rule” conferma dunque come il Partito Democratico d’oltreoceano non sia interessato a ristabilire una tassazione progressiva negli Stati Uniti, dal momento che essa, anche se adottata, si limiterebbe ad equiparare l’aliquota minima riservata ai più ricchi con quella dei redditi più bassi, anziché far gravare sui primi un carico fiscale ben più alto rispetto ai secondi.

Per dare un’idea del colossale trasferimento di ricchezza promosso dalle classi dirigenti americane negli ultimi decenni, vale la pena ricordare che attualmente l’aliquota fiscale massima prevista negli USA è del 35%, anche se la maggior parte dei più ricchi e le grandi aziende pagano di fatto molto meno, mentre negli anni Cinquanta e Sessanta era al 91% e durante la presidenza Reagan ancora al 50%.

In ogni caso, la “Buffett Rule” rimarrà al centro del dibattito politico di Washington nei prossimi mesi e servirà solo a creare una cortina di fumo per far digerire i nuovi tagli alla spesa sociale che attendono le classi più disagiate dopo le elezioni di novembre, indipendentemente dal partito che se le aggiudicherà.

Gli stessi democratici non hanno infatti nessuna intenzione di far pagare la crisi e il risanamento del bilancio federale alle classi privilegiate, come aveva già confermato lo scorso febbraio un’altra proposta fiscale lanciata dal presidente Obama. Secondo quest’ultimo piano, l’aliquota per le corporation doveva scendere dal 35% al 28% e, per le grandi aziende manifatturiere, addirittura al 25%.

di Fabrizio Casari

Nata da un’idea di Bush padre e chiamata pomposamente “Vertice delle Americhe”, anche la riunione di Cartagena tra i capi di Stato americani (dal Canada al Cile) è stato l’ennesimo flop della politica statunitense a livello continentale. Dopo il fallimento del vertice del 1994 a Miami, dove Clinton venne sonoramente sconfitto dal blocco democratico latinoamericano nel suo tentativo di far passare l’ALCA, (prolungamento continentale del NAFTA tra Usa, Messico e Canada) i successivi - nel 2005 a Mar del Plata e nel 2009 a Trinidad - avevano fatto registrare altrettante rovesci per il comando Usa sul continente.

Emanazione diretta dell’Organizzazione degli Stati Americani (OEA), i vertici sono riusciti ad evidenziare come nel corso degli ultimi anni la crescente aggregazione politica ed economica - con tratti riguardanti anche gli aspetti finanziari e militari - tra i paesi del Cono Sud abbia considerevolmente cambiato il quadro d'insieme della realtà coninentale e, con ciò, messo fortemente in discussione lo schema sulla base del quale l’OEA era nata e gli stessi Vertici erano stati pensati, cioé vetrine per gli Usa che - magnanimamente - si prestavano al dialogo con i loro sudditi.

Dalla creazione dell’ALBA (nata nel 2005) a quella più recente della CELAC (Comunità di stati latinoamericani e caraibici, nata nel 2010), passando per il rafforzamento della cooperazione regionale e lo sviluppo del MERCOSUR, le ultime due decadi latinoamericane sono state improntate alla crescita dell’autonomia politica e finanziaria dagli stati Uniti. In ragione di questo, della miopia politica statunitense che non riesce a leggere i profondi mutamenti politici del patio trasero, i vertici richiesti dagli Usa hanno prodotto un effetto boomerang per Washington, dal momento che hanno evidenziato al mondo intero la creazione, solidificazione e crescita progressiva di un blocco latinoamericano non più soggetto al Washington consensus.

Ormai ogni vertice diventa così l’occasione per una dimostrazione concreta di come l’egemonia statunitense sulla regione sia diventato un ricordo del passato, abbarbicato alla disponibilità di ormai pochissimi paesi - Messico, Panama, Cile e Colombia - a dipendere politicamente dal gigante del Nord. E anche la storia di questo vertice, tra defezioni e scontri, tra toni aspri e colloqui poco amichevoli, hanno confermato l’impraticabilità da parte statunitense di tornare svolgere un ruolo di dominus politico nel continente.

Ma veniamo all’incontro di Cartagena. Preceduto da un generale scetticismo, il vertice aveva già dovuto annoverare le assenze di Ecuador e Nicaragua, in solidarietà con Cuba che, per volontà di Stati Uniti e Canada, continua ad essere esclusa dalle riunioni tra stati dove Washington è presente tra gli organizzatori. Come già nelle riunioni dell’OEA, la presenza del governo dell’Avana viene esclusa in ragione del veto statunitense.

A dare la misura di come davvero la questione democratica sia irrilevante nella sua sostanza, va detto che l’anfitrione Santos, presidente colombiano con un curriculum in tema di diritti umani da far drizzare i capelli, (ma impegnato a dare una spolverata di democrazia dopo il genocida Uribe allo scopo di promuovere la Colombia agli occhi degli investitori statunitensi) ha giustificato l’assenza di Cuba con il meccanismo procedurale che prevede le decisioni all’unanimità sulla convocazione dei vertici.

Inutili si sono rivelate le rimostranze degli altri paesi latinoamericani, che giudicano l’assenza di Cuba come un pegno dovuto all’anacronistica e ossessiva politica Usa contro L’Avana: tanto Obama come Harper, il canadese che altro non è se non l’appendice dello statunitense, non hanno voluto sentire ragioni. “Cuba non ha ancora fatto passi avanti sul terreno della democrazia”, ha spiegato Obama al riguardo, mentre non provava nessun imbarazzo a sedersi affettuoso con il presidente honduregno, messo al suo posto da elezioni truccate in seguito al colpo di Stato che depose il legittimo Presidente Zelaya.

D’altra parte va ricordato che, storicamente, l’interpretazione tutta statunitense della democrazia prevede che i colpi di stato militari siano legittimi (e spesso sostenibili) mentre le rivoluzioni popolari siano deprecabili sempre e comunque. Un conto è mettere i paesi in mano ai primi, un altro è vederli in mano agli ultimi. Cuba, dunque, è stata uno dei tre paesi assenti dal vertice, al quale per diverse ragioni (anche di salute) non hanno partecipato altri presidenti, tra cui Chavez.

Sul piano strettamente politico della rappresentanza, assenti Cuba, Ecuador e Nicaragua, c’era  quindi la sola Bolivia a rappresentare l’ALBA, il blocco di sinistra dei paesi latinoamericani. Ma è stato anche l’ultimo dei vertici così concepiti, dal momento che la stessa Bolivia, così come Argentina e Brasile, hanno già dichiarato che non si parteciperanno ad ulteriori, future riunioni, ove Cuba non fosse invitata.

Liberalizzazione delle droghe leggere, apertura alla presenza di Cuba nel consesso e prese di posizione chiara a favore di Buenos Aires nella disputa sulle Malvinas, sono stati i punti significativi su cui si è misurata la distanza incolmabile - e consumato lo scontro - tra Usa e Canada da un lato e la maggior parte del blocco latinoamericano dall’altro.

Sul permettere o no a Cuba di far parte del consesso si è già detto, mentre sulla questione spinosissima della sovranità di Buenos Aires sulle Isole Malvinas, Obama, riproducendo le scelte di Washington all’epoca del conflitto armato tra Londra e Buenos Aires, ha scelto di sposare la politica britannica, che rivendica il possesso delle isole argentine alla corona. Le polemiche e le minacce inglesi di questi ultimi due mesi hanno però visto l’intera America latina schierarsi al fianco della presidente Cristina Fernandez nella rivendicazione della sovranità territoriale argentina sulle isole. Dunque anche qui nessun accordo, nemmeno la possibilità di partorire una proposta comune di mediazione, resa impossibile del resto dalle completamente divaricate posizioni di partenza.

Ed anche in relazione alla delicatissima questione della lotta al narcotraffico, di fronte alla richiesta latinoamericana di riconsiderare strategie e obiettivi, non c’è stata nessuna possibilità di dialogo. Obama ha confermato l’assoluta indisponibilità statunitense a rivedere le sue politiche ultra-proibizioniste, nonostante la prova del loro fallimento, visto che non solo non hanno impedito la produzione di oppiacei nel mondo, ma hanno anche fatto raggiungere agli Usa il non felice record di maggior consumatore planetario di sostanze stupefacenti. I paesi latinoamericani, dal canto loro, oltre a ritenere che la produzione di coca e di cannabis sia l’unica produzione possibile per i contadini latinoamericani, distrutti dall’abbattimento operato dal WTO del valore dei prodotti alimentari sul mercato mondiale, le sostanze possano essere utilizzati a scopi scientifici e terapeutici oltre che al consumo personale per il quale, comunque, non vengono identificate come dannose o addirittura letali.

Ma la politica ultraproibizionista statunitense risulta indifferente alle verifiche sulla propria efficacia. Il fatto è che la produzione, distribuzione e consumo clandestino (perché illegale) rende possibile la nascita e lo sviluppo imperioso dei cartelli dei narcos, con le note implicazioni sul piano della sicurezza e sulla circolazione di denaro illecito, che obbligano a dover fronteggiare un fenomeno che ormai può definirsi letale per la istituzioni e la vita democratica in diversi paesi. In molti paesi - Messico in primo luogo - si sono create infatti organizzazioni talmente potenti dal configurare veri e propri stati paralleli.

E non c’è dubbio che si sono creati, grazie all’immensa disponibilità di denaro ottenuto con i proventi del traffico di narcotici, divenendo così organizzazioni interne ai singoli paesi (ed internazionali) che mettono in discussione dalle fondamenta lo stesso ordine democratico. Sarebbe quindi necessario che le politiche di contrasto si muovessero nella direzione di depotenziare ruolo e affari dei narcos. E solo la legalizzazione delle sostanze meno nocive ed il loro commercio regolato dagli stati potrebbe, di colpo, azzerare i proventi delle organizzazioni criminali, che prive di risorse straordinarie vedrebbero venir meno la ragione della loro stessa esistenza.

Ma il presidente statunitense non ha ritenuto nemmeno possibile l’apertura di un dialogo sul tema. Ufficialmente perché la posizione politica statunitense di guerra aperta a tutto ciò che non condividono non consente margini di trattativa e ripensamenti, ma in realtà a nessuno sfugge quanto con i cartelli dei narcos sempre più protagonisti della vita politica e sociale, la sovranità messicana sia in forte dubbio. Anche per questo il problema viene lasciato a marcire: un paese vicino, produttore di petrolio e di braccia a basso costo, se impedito nella sua sovranità, offre al vicino potente maggiori e migliori strumenti per il suo controllo politico.

Senza contare poi che il traffico di armi dagli Usa verso il Messico e quello degli stupefacenti dal Messico verso gli Usa, consente a Washington di agire - in nome della sicurezza delle sue frontiere - come commissario straordinario con pieni poteri nei confronti del Messico, con un livello d'ingerenza insopportabile per qualunque relazione tra stati. Un modo tutto sommato efficace e redditizio di dirigere dal di fuori un altro paese, peraltro strategicamente ed economicamente importante. Viene quindi facilmente identificato dai latinoamericani il tentativo statunitense di utilizzare la guerra ai narcos per incrementare ulteriormente il suo dispositivo militare nella regione e la conseguente influenza politica di natura squisitamente coloniale ai danni dei paesi latinoamericani.

Dunque nessun consenso, nessun documento comune, nessuna dichiarazione di chiusura unitaria da Cartagena. Se la volontà di Obama era quella di presentarsi alla comunità latinoamericana come leader di una ritrovata sintonia tra Nord e Sud - elemento da utilizzare nel voto degli elettori latinos nella prossima campagna elettorale - il vertice ha dimostrato l’esatto contrario. Il Presidente Usa, che proprio ai latinoamericani si era presentato in una delle sue prime uscite dopo l’insediamento alla Casa Bianca, era stato all’epoca accolto con la speranza che potesse aiutare a costruire una inversione di rotta nel rapporto tra Nord e Sud del continente. Ma quattro anni dopo, preso atto del suo continuo abbandono nei fatti di quanto promesso a parole, di averlo visto procedere solo a rinforzare la presenza militare nel continente (ultima la base nel sud del Cile) senza offrire nessun dialogo politico, oltre che una buona parte degli elettori Usa anche i governi a sud del Rio Bravo hanno deciso di sfiduciarlo.

di Michele Paris

Mentre il complicato cessate il fuoco previsto dal piano Annan, entrato in vigore giovedì scorso in Siria, sembra resistere sia pure a fatica, un primo piccolo contingente di osservatori militari delle Nazioni Unite è finalmente entrato nel paese mediorientale per monitorare il rispetto della tregua. Sei osservatori sono giunti a Damasco nella giornata di domenica, un’altra trentina arriverà a breve e il totale di 250 sarà raggiunto in seguito alle trattative con il governo siriano e una nuova autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dopo quella approvata all’unanimità sabato scorso.

Il portavoce dell’ex Segretario Generale dell’ONU, Ahmad Fawzi, in un comunicato ufficiale da Ginevra ha detto che i sei osservatori sono sotto la guida del colonnello marocchino Ahmed Himmiche e che lunedì hanno incontrato a Damasco il ministro degli Esteri siriano, Walid Muallem, per discutere delle regole da seguire nel corso della missione e della libertà di movimento che avranno nel paese.

Negli ultimi giorni, in ogni caso, le notizie provenienti dalla Siria parlano ancora di svariati scontri a fuoco, in particolare nel quartiere Khaldiyeh di Homs, a Hama, nelle vicinanze di Aleppo e in alcuni villaggi al confine settentrionale con la Turchia. Il ritiro pressoché totale delle forze di sicurezza dai centri abitati, come richiesto dal piano Annan, ha inoltre scatenato in qualche città manifestazioni di protesta contro il regime del presidente Bashar al-Assad.

Nonostante il cosiddetto piano Annan sia stato presentato dalla maggior parte dei media occidentali come un estremo tentativo fatto dalla comunità internazionale per trovare una soluzione pacifica ad una sanguinosa crisi che infuria da più un anno, a giudicare dall’atteggiamento degli Stati Uniti, dei governi europei, delle monarchie assolute del Golfo Persico e della Turchia, esso appare piuttosto come una nuova tappa per giungere ad un intervento armato esterno in Siria e rovesciare il regime di Assad.

Per cominciare, anche se lo stesso piano - approvato da Russia e Cina, oltre che da Damasco - chiede lo stop alle violenze sia da parte del governo siriano che dell’opposizione armata, gli USA e i loro alleati hanno finora esercitato pressioni esclusivamente su Assad. Non solo questi governi evitano di chiedere alle opposizioni di fermare gli attacchi e le violenze contro le forze del regime, ma continuano ad appoggiarle materialmente con armi, denaro ed equipaggiamenti vari. Tutto ciò malgrado Annan e l’attuale Segretario Generale dell’ONU, Ban Ki-moon, abbiano invece invitato esplicitamente il Consiglio Nazionale Siriano e il suo braccio armato, il Libero Esercito della Siria, a rispettare il cessate il fuoco.

In sostanza, dunque, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno da un lato fornito il loro sostegno ad una risoluzione che dovrebbe pacificare la Siria sotto la guida di Assad, mentre dall’altro si adoperano contemporaneamente per rovesciarlo. In questo modo, vengono più o meno tacitamente promosse le iniziative dei “ribelli” armati, così da provocare la reazione delle forze di sicurezza del regime e denunciare il mancato rispetto della tregua da parte di Damasco.

Fin dall’inizio del ritiro delle forze armate dalle città siriane martedì scorso, infatti, sono state registrate numerose operazioni in risposta agli attacchi e alle imboscate dell’opposizione armata, tutte puntualmente seguite dall’elenco di presunte vittime civili e dalle critiche ad Assad per non aver mantenuto gli impegni con la comunità internazionale. Gli esponenti dei governi occidentali, come ha fatto recentemente anche il Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, continuano inoltre a indicare come sbocco inevitabile della crisi la rimozione di Assad, nonostante essa non sia contemplata dal piano Annan, lasciando ben pochi dubbi su quale sia il loro obiettivo finale.

In questo scenario è estremamente probabile che gli osservatori che si stanno recando in Siria saranno molto attenti a riportare qualsiasi minima violazione della tregua o la mancata implementazione dei sei punti del piano Annan, mentre le opposizioni armate saranno libere di agire a loro piacimento. In caso contrario, la missione verrà fatta naufragare, come accadde a quella lanciata dalla Lega Araba nel dicembre 2011 sotto la guida del generale sudanese Mohammed Ahmed Mustafa al-Dabi, boicottata da Qatar e Arabia Saudita perché colpevole di aver documentato alcuni progressi positivi della situazione sul campo.

Il vero scopo della missione degli osservatori ONU, secondo Washington e gli altri governi che chiedono il cambio di regime a Damasco, è stato rivelato, forse involontariamente, da un recente articolo di un corrispondente del New York Times da Beirut. Il reporter americano ha scritto che, “per certi versi, il piano Annan deve fallire, in modo da convincere Russia e Cina a non utilizzare il loro potere di veto in future risoluzioni sulla Siria come hanno fatto due volte nel recente passato”.

In altre parole, il piano Annan è stato redatto includendo condizioni come la permanenza di Assad al potere e la richiesta anche all’opposizione di fermare le violenze solo per indurre Mosca e Pechino a sottoscriverlo. Invece di sostenerlo completamente però, gli Stati Uniti, l’Europa, i paesi del Golfo e la Turchia si muovono ora per farlo fallire, provocando la reazione del regime e accusando Assad di agire soltanto per reprimere nel sangue le proteste, così da ottenere il via libera anche da Russia e Cina per una futura risoluzione ONU che spiani la strada alla fornitura massiccia di armi ai “ribelli” o a un intervento armato esterno.


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy