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di Carlo Musilli
C'è l'accordo. Anzi, no. Le trattative continuano. A oltre una settimana dalle elezioni, la Grecia non è ancora riuscita a mettere in piedi un nuovo governo in grado di onorare le promesse d'austerità fatte all'Europa. E il teatrino andato in scena domenica dimostra come nella politica ellenica la vera forza dominante sia il caos. Al quarto tentativo in sette giorni, i leader dei partiti maggiori sono stati convocati d'urgenza dal presidente della Repubblica, Karolos Papoulias, per cercare un accordo in extremis.
Nel primo pomeriggio sembrava fatta: Alexis Tsipras, leader del partito di estrema sinistra Syriza, ha annunciato l'intesa per un esecutivo biennale fra i conservatori di Nuova Democrazia, i socialisti del Pasok e i filoeuropei di Sinistra Democratica (Dimar). "Io non posso accettare quello che considero un errore", ha precisato tirandosi fuori.
Peccato che a stretto giro sia arrivato un duro comunicato di smentita. Dimar ha definito "menzogne diffamatorie" le parole del leader radicale, ribadendo che appoggerebbe un nuovo governo solo a due condizioni: la cancellazione delle leggi che riducono il salario minimo garantito e facilitano i licenziamenti e la profonda revisione degli accordi presi con Ue e Fmi.
Niente da fare, il valzer dei negoziati non si ferma. E così diventa sempre più concreta la possibilità che i cittadini greci siano chiamati nuovamente al voto il mese prossimo. Negli ultimi giorni la tensione è tornata a salire - sui mercati come nelle cancellerie - proprio per il timore che il governo nato da nuove elezioni possa trascinare il Paese fuori dall'eurozona e quindi, inevitabilmente, al default totale e incontrollato.
Se Nuova Democrazia, Pasok e Dimar si alleassero, sommando i loro attuali seggi arriverebbero a quota 168, sufficiente per ottenere la maggioranza assoluta in Parlamento. In ogni caso anche questa strana alleanza non cancellerebbe affatto le enormi incertezze legate alla situazione politica greca. Anzi, viene da chiedersi quale credibilità potrebbe avere un governo nato dalla disperazione più che da un vero accordo elettorale.
Il nuovo Esecutivo avrebbe un solo punto in agenda: mettere in pratica la macelleria sociale imposta da Bruxelles e ottenere in cambio i 130 miliardi di aiuti internazionali concordati con Ue e Fmi. Si tratterebbe semplicemente di approvare le riforme progettate e scritte da qualcun altro, abdicando totalmente a qualsiasi principio di autonomia, sovranità e rappresentanza dei cittadini. Sulla carta non sembra una missione impossibile, ma ad oggi qualsiasi accordo - ammesso che arrivi - lascerebbe forti dubbi sulle capacità di tenuta dell'Esecutivo.
Alle elezioni della settimana scorsa il risultato era stato più che contraddittorio. Nuova Democrazia e Pasok, i due partiti maggiori e primi interlocutori dell'Europa, si erano fermati a 149 seggi, appena due in meno rispetto alla soglia di maggioranza assoluta. Questo il verdetto delle urne: primi i conservatori di Antonis Samaras, secondi i radicali di Tsipras, terzi i socialisti di Evangelos Venizelos.
Ad appena tre ore dalla fine degli scrutini, il leader del partito vincitore aveva rinunciato a creare una maggioranza di governo. Il secondo classificato aveva impiegato più tempo, ma alla fine era giunto alla stessa conclusione. Si era poi diffusa la speranza che Venizelos potesse riuscire nell'impresa: il socialista aveva incassato l'ok di Sinistra Democratica, ma solo a patto che dell'esecutivo facesse parte anche Syriza. I radicali di Tsipras avevano però negato il loro appoggio a qualsiasi governo che intendesse proseguire sulla strada del piano di salvataggio chiesto dalla troika (Ue, Bce, Fmi). Ennesimo fallimento.
Intanto si fa strada la domanda più angosciosa: quanto costerebbe l'uscita della Grecia dall'Eurozona? Gli studi si moltiplicano. Secondo gli analisti di UBS, la nuova dracma dovrebbe subire una svalutazione fra il 50-60% (Citigroup parla del 40%). Questo significa che in un batter d'occhio il patrimonio delle famiglie greche perderebbe metà del proprio valore. Gli stipendi verrebbero aggiornati, ma il loro potere d'acquisto colerebbe a picco. I greci prenderebbero d'assalto le banche per salvare gli euro rimasti e molti cercherebbero portare i capitali all'estero.
Eventuali dazi potrebbero creare problemi a livello commerciale, anche se teoricamente la moneta debole sarebbe una manna per le esportazioni. Poi c'è la questione del debito pubblico, che continuerebbe ad essere calcolato in euro (266 miliardi dopo la ristrutturazione). Ripagarlo senza più un centesimo di aiuti internazionali sarebbe impossibile e la bancarotta diventerebbe inevitabile. A quel punto la credibilità del Paese sarebbe ridotta allo zero e gli investimenti esteri inizierebbero a sparire.
Ora sta ai partiti decidere quale strada seguire: rimanere nell'eurozona e affamare i cittadini per imposizione altrui o affrontare l'inferno per poter decidere in autonomia la propria politica monetaria e in prospettiva (forse) rilanciare il Paese. Ieri il tentativo di mediazione da parte del presidente Papoulias ha regalato qualche ora di speranza ai greci che non vogliono tornare alla dracma. Poi però è stato ancora una volta il caos a prevalere. La porta per uscire dall'eurozona rimane aperta.
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di Michele Paris
Il più grave singolo episodio di violenza accaduto giovedì in Siria dall’inizio della crisi oltre un anno fa segna un preoccupante passo verso una rovinosa guerra civile nel travagliato paese mediorientale. Le due esplosioni che hanno colpito la capitale, Damasco, sono con ogni probabilità opera di gruppi estremisti provenienti da paesi arabi vicini e vanno ad aggiungersi a numerose altre operazioni condotte recentemente dall’opposizione armata, sostenuta dall’Occidente, per alimentare il caos e giustificare un intervento militare esterno contro il regime di Bashar al-Assad.
I due attacchi suicidi con altrettante autobombe hanno causato la morte di almeno 55 persone e centinaia di feriti, in gran parte civili che si stavano recando al lavoro o a scuola poco prima delle 8 del mattino. Gli attentati di giovedì sono solo i più recenti di una ormai lunga lista di violenze e hanno fatto seguito ad un’altra esplosione che il giorno prima aveva colpito un convoglio degli osservatori ONU attualmente in Siria, ferendo una decina di membri delle forze di sicurezza.
A differenza delle vere o presunte operazioni condotte dal regime contro le forze di opposizione, i cui resoconti fatti dalle organizzazioni ad esse vicine con sede all’estero vengono accettate come oro colato da quasi tutti i media occidentali, i commenti sugli attentati come il più recente che ha colpito due edifici dell’intelligence a Damasco fanno in genere un cauto riferimento alle dichiarazioni del governo, il quale punta il dito verso gruppi terroristici appoggiati dall’esterno. Da parte degli organi come il Consiglio Nazionale Siriano (CNS), invece, quasi sempre si afferma che simili azioni sono orchestrate dal regime stesso per giustificare la repressione.
Episodi sanguinosi come quello di giovedì, in ogni caso, consentono agli Stati Uniti e ai loro alleati in Europa e tra i paesi arabi di muoversi verso una nuova fase della crisi siriana. Mentre il piano promosso da Kofi Annan prevede che i circa 70 osservatori ONU nel paese diventino 300 entro la fine di maggio, a Washington sembra già circolare l’ipotesi di far naufragare anticipatamente la missione.
Come ha spiegato il portavoce della Casa Bianca, Jay Carney, “se l’intransigenza del regime proseguirà, la comunità internazionale sarà costretta ad ammettere di aver fallito e dovrà lavorare per affrontare la seria minaccia alla pace e alla stabilità perpetrata dal regime di Assad”.
Simili affermazioni rivelano chiaramente come gli USA intendano approfittare del crescente caos in Siria per cercare di aumentare le pressioni su Damasco e giungere ad un qualche intervento esterno. Questa strategia è stata espressa in una recente intervista radiofonica dalla ex direttrice dell’ufficio per la Pianificazione Politica del Dipartimento di Stato, Anne-Marie Slaughter, la quale in riferimento agli attentati terroristici in Siria ha affermato che “la presenza di gruppi jihadisti nel paese non dovrebbe dissuadere gli USA e i loro alleati dall’intervenire. Anzi, dovrebbe spingerli a considerare maggiormente il pericolo che potrebbe creare un prolungato conflitto nel paese”.
In altre parole, Washington, così come la Turchia, l’Arabia Saudita o il Qatar, alimentano la guerra civile in Siria appoggiando materialmente le opposizioni armate per poi utilizzare lo stesso conflitto interno per giustificare iniziative più energiche da parte della “comunità internazionale”. Il tutto per giungere ad un cambio di regime a Damasco dopo aver dato il proprio appoggio ufficiale ad un piano di pace che dovrebbe essere invece implementato sotto la guida dello stesso presidente Assad.
Nei media mainstream e nei commenti di molti osservatori occidentali, la responsabilità per questa evoluzione della situazione in Siria è attribuita interamente al regime. Per l’organizzazione International Crisis Group, ad esempio, “la condotta del regime ha alimentato gli estremismi da entrambe le parti, facendo scivolare il paese nel caos e lasciando libertà di movimento” agli integralisti islamici.
La stessa amministrazione Obama, come ha scritto ieri il Washington Post, pur non potendo confermare quali siano i responsabili degli attacchi, assegna la colpa interamente al presidente Assad, accusato di aver lasciato che la situazione precipitasse invece di conformarsi alla risoluzione ONU che ha dato il via libera al cessate il fuoco e all’invio degli osservatori.
Ancora, il presidente della commissione Esteri del Senato americano, il democratico John Kerry, ha detto che Assad sta cercando di sfruttare la missione di Annan come una copertura per continuare la repressione contro l’opposizione siriana. L’ipocrisia che traspare da queste parole appare del tutto evidente, dal momento che sono gli stessi Stati Uniti e gli altri governi occidentali e del Golfo Persico a nascondersi dietro il piano Annan, accusando Damasco di violarne le disposizione mentre continuano ad assicurare sostegno militare e finanziario all’opposizione armata affinché prosegua la sua campagna contro il regime in violazione del cessate il fuoco.
Una politica a dir poco sconsiderata che, come si è potuto constatare, alimenta il conflitto e destabilizza la Siria, permettendo l’arrivo nel paese di cellule estremiste.
Un intervento militare diretto dall’Occidente appare comunque ancora lontano ed è vincolato a diversi fattori che complicano la situazione siriana. Per cominciare, sui piani di Washington gravano le riserve di Russia e Cina, le quali continuano a respingere qualsiasi risoluzione ONU che possa condurre alla rimozione di Assad, soprattutto alla luce dell’esempio libico dello scorso anno.
Mosca, correttamente, sostiene infatti che i governi arabi e occidentali che appoggiano l’opposizione al regime stiano fomentando la violenza per legittimare un intervento militare. Il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, lo ha ribadito l’altro giorno da Pechino, quando ha affermato che “alcuni nostri partner stranieri stanno prendendo iniziative per fare in modo che la situazione esploda, sia letteralmente che metaforicamente”.
Un’operazione militare guidata dagli USA o dalla NATO contro Damasco sarebbe inoltre impopolare per l’opinione pubblica occidentale e agli occhi della maggioranza della popolazione siriana. Perciò, in molti in Occidente sembrano preferire per ora l’adozione di nuove sanzioni accompagnate da un aumento dell’impegno volto a finanziare e armare l’opposizione oppure, tutt’al più, la creazione di corridoi “umanitari” in Siria per consentire ai “ribelli” di organizzarsi e stabilire canali di comunicazione con i paesi vicini, a cominciare dalla Turchia.
Per l’amministrazione Obama, tuttavia, ogni opzione rimane percorribile. Come ha confermato un paio di giorni fa il segretario alla Difesa, Leon Panetta, il Pentagono ha preparato piani di intervento per qualsiasi genere di approccio alla crisi siriana verrà scelto dalla Casa Bianca. A confermalo è anche la massiccia esercitazione militare “Eager Lion 2012” che gli Stati Uniti si apprestano ad inaugurare oltre il confine siriano, in Giordania, e alla quale parteciperanno ben 12 mila soldati di paesi che condividono gli stessi obiettivi di Washington circa la sorte del regime di Assad.
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di Emanuela Pessina
BERLINO. Sono passati solo pochi giorni dalla notifica ufficiale della sua elezione, ma il neo presidente francese, François Hollande, ha già ricevuto il suo primo invito galante. L’incontro è stato fissato a Berlino per la prossima settimana con Angela Merkel. La Cancelliera tedesca è preoccupata: Hollande va a sostituire Nicolas Sarkozy, uno delle sue amicizie più importanti nella questione fiscale europea, e la Merkel deve riparare. Se vuole continuare ad avere un ruolo predominate nell’Unione europea, e soprattutto nella risoluzione della crisi del debito, il primo uomo da conquistare è proprio Hollande.
Hollande ha costruito la sua campagna elettorale sulla volontà di dare nuovo orientamento all’economia europea, e cioè di cercare una via d’uscita alla crisi attraverso il fattore crescita: per il socialista l’austerity non basta. Nel mirino del neopresidente francese c’è, in particolare, il Fiscal compact firmato a marzo dai leader dell’Unione europea, che prevede di risolvere la crisi del debito attraverso severi vincoli fiscali da applicare indistintamente a ogni Paese.
Hollande, da parte sua, chiede che il patto di bilancio sia integrato con regole che stimolino la crescita economica. Puntare sulla crescita economica significa in primo luogo garantire lavoro ai cittadini.
E Hollande, a quanto pare, non ha dubbi: a Parigi si conta di trovare un punto d’incontro con la Merkel, la maggiore sostenitrice del patto di bilancio, e con tutti gli altri leader che hanno, tra l’altro, già firmato il patto stesso. A parlare per il futuro presidente è il suo consigliere Pierre Moscovici: “La mia modesta esperienza mi dice che si troverà un compromesso”, rassicura il politico, già ministro europeo a Bruxelles.
Di tutt’altra opinione appare però Berlino. A parlare, in particolare, è Wolfang Schaeuble (CDU): “L’Europa sa bene che non si rinegoziano i contratti già sottoscritti dopo ogni risultato elettorale”, ha commentato quasi con ironia il ministro della Finanze tedesco, uno dei principali sostenitori del patto di bilancio, aggiungendo che questo “non avrebbe senso”. Il patto è stato firmato da 25 su 27 stati membri e il Governo tedesco non prevede modifiche o rinegoziazioni di alcun tipo.
"A riportare Hollande con i piedi per terra saranno comunque i mercati finanziari", aggiungono dall’entourage della Cancelliera: nel caso in cui si facciano passi falsi, la Borsa non mancherà di “punire” la Francia. Già lo scorso inverno l’agenzia di rating Standard & Poor’s aveva declassato il Paese a causa della politica di rigidità intrapresa: questa volta a essere visti male sarebbero gli eccessi di debiti che un programma di stimolo alla crescita comporterebbe. Anche i mercati, a quanto pare, non hanno più le idee chiare a proposito.
Berlino continua a mostrarsi sicura di sé, ma l’elezione di Hollande è un segno decisamente negativo per la Cancelliera che - da non dimenticare - aveva sostenuto apertamente Sarkozy durante la campagna elettorale.
Sono in tanti a leggere nelle elezioni francesi un feedback negativo nei confronti della politica di Angela Merkel e delle riforme strutturali previste dal suo piano di salvataggio economico, a partire dai partiti di opposizione tedeschi, che predicono una svolta socialista per il Vecchio continente, anche alla luce delle votazioni in Grecia e delle amministrative in Italia, ma non solo.
Forse anche gli altri leader europei sperano silenziosamente in un cambio di direzione che permetta ai cittadini (e alle classi politiche stesse) di respirare. A essere resi più insicuri da un’eventuale svolta sono i mercati che, come abbiamo visto, non hanno tuttavia le idee chiare. Ed è forse per questo che non è il caso di dare troppo peso alla loro opinione.
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di Michele Paris
In un’intervista televisiva, Barack Obama l’altro giorno ha per la prima volta dichiarato ufficialmente di essere favorevole alla legalizzazione dei matrimoni tra persone dello stesso sesso negli Stati Uniti. La presa di posizione del presidente americano rappresenta una svolta storica e riflette i progressi indiscutibili fatti dal movimento per i diritti degli omosessuali in questi anni. A ben vedere, tuttavia, la mossa dell’inquilino della Casa Bianca sembra essere più che altro una manovra elettorale ed opportunistica studiata a tavolino per rianimare una parte importante della propria base elettorale in vista del voto di novembre.
Quello che dai principali media d’oltreoceano è stato descritto come l’inevitabile approdo di una travagliata evoluzione di Obama sul tema dei matrimoni gay, era stato preparato qualche giorno prima da almeno due dichiarazioni pubbliche di altrettanti membri autorevoli della sua amministrazione.
Domenica mattina, il programma “Meet the Press” della NBC aveva infatti trasmesso un’intervista registrata due giorni prima con il vice-presidente, Joe Biden, nella quale quest’ultimo affermava il suo appoggio alle nozze gay. Sulla stampa, l’uscita di Biden è stata fatta passare quasi come l’ennesima gaffe del vice-presidente che aveva inavvertitamente forzato la mano a Obama, spingendolo a manifestare una volta per tutte il proprio pensiero sull’argomento.
Lunedì, poi, è stata la volta del segretario all’Educazione, Arne Duncan, il quale ha anch’egli pronunciato le stesse parole favorevoli ai matrimoni omosessuali in diretta televisiva. I due interventi, come avevano senza dubbio previsto gli strateghi della Casa Bianca, hanno immediatamente alimentato la curiosità dei media, suscitando un’attesa enorme per un chiarimento da parte del presidente circa la sua posizione ufficiale.
Obama, così, mercoledì ha invitato alla Casa Bianca la anchorwoman della ABC, Robin Roberts, alla quale ha rivelato di essere giunto, “a un certo punto, alla conclusione che sia importante per me affermare che le coppie dello stesso sesso abbiano la possibilità di unirsi in matrimonio”. Fin dal suo ingresso nella politica che conta, Obama si era mostrato favorevole solo alle unioni civili per gli omosessuali ma, a suo dire, in questi ultimi anni il suo punto di vista è cambiato, in parte grazie all’opera di convincimento di amici gay e dopo lunghe conversazioni con la first lady e le due figlie.
“Sui matrimoni gay”, ha aggiunto Obama, “ho esitato in parte perché ritenevo che le unioni civili fossero sufficienti”. I suoi indugi erano causati dal fatto che “per molte persone, la parola matrimonio evoca tradizioni consolidate e credenze religiose”. Come spesso ha fatto durante il suo primo mandato, inoltre, Obama ha cercato ancora una volta di evitare lo scontro con la destra cristiana, affermando di aver tratto ispirazione dalla sua fede religiosa che insegna a “trattare gli altri allo stesso modo in cui vorremmo essere trattati noi stessi”.
Molti commentatori americani hanno fatto notare come Obama avesse preso nel recente passato una serie di importanti iniziative per promuovere i diritti LGBT, come l’abolizione della cosiddetta politica del “don’t ask, don’t tell”, che di fatto discriminava gli omosessuali arruolati nell’esercito, o la decisione di non appoggiare nelle cause legali riguardanti i diritti gay la legge federale che definisce il matrimonio esclusivamente come l’unione tra due persone di sesso opposto.
Quest’ultima legge - Defense of Marriage Act (DOMA) - era stata firmata nel 1996 da Bill Clinton e permette inoltre ai singoli stati di rifiutare il riconoscimento dei matrimoni gay celebrati in altri stati. Attualmente, sei stati americani (Connecticut, Iowa, Massachusetts, New Hampshire, New York e Vermont) e il distretto federale della capitale hanno legalizzato le nozze gay.
Gli stati di Washington e Maryland hanno recentemente approvato leggi per legalizzarle ma esse verranno sottoposte a referendum popolari a novembre. Sull’altro fronte, 31 stati hanno finora approvato modifiche alla propria costituzione per vietare i matrimoni gay, tra cui proprio martedì scorso la Carolina del Nord, dove il Partito Democratico terrà la convention ad agosto.
Per la stampa liberal statunitense, la presa di posizione del presidente rappresenterebbe una scelta coraggiosa e non priva di rischi, dal momento che quello dei matrimoni tra persone dello stesso sesso è un tema delicato che provoca parecchie divisioni tra l’opinione pubblica americana. In realtà, tutti i sondaggi sull’argomento mostrano come oltre metà della popolazione sia ormai apertamente favorevole, soprattutto i più giovani.
Perciò, il rischio politico corso da Obama appare molto limitato, tanto più che gli elettori più contrariati dal suo appoggio alle nozze gay sono con ogni probabilità gli ultra-conservatori e i fondamentalisti cristiani che, in ogni caso, non voteranno per il candidato democratico nelle presidenziali. Qualche effetto negativo potrebbe esserci piuttosto sugli elettori di colore e ispanici, tradizionalmente più conservatori sui temi sociali, anche se essi sono però tra i più fedeli sostenitori del Partito Democratico e, essendo tra i più colpiti dalla crisi, tenderanno a votare soprattutto con un occhio alle questioni economiche.
L’uscita pubblica di Obama, in sostanza, appare più che altro come il tentativo di energizzare in qualche modo la sua base elettorale progressista, scoraggiata da oltre tre anni di continui spostamenti a destra da parte dell’amministrazione democratica e a cui, per mobilitarsi, può apparire sufficiente una parvenza di impegno limitato all’ambito delle politiche identitarie.
Che quella annunciata in TV sia una trovata poco più che propagandistica, pochi giorni dopo l’inaugurazione ufficiale della campagna per la rielezione, lo conferma anche il fatto che l’abrogazione del DOMA e la legalizzazione dei matrimoni gay a livello federale hanno ben poche possibilità di superare l’ostacolo del Congresso USA nel prossimo futuro.
A spiegare la decisione di Obama di prendere una chiara posizione su questo tema c’è anche la necessità di fare appello ad una fetta significativa di facoltosi finanziatori impegnati nella causa dei diritti LGBT. La campagna elettorale del presidente prevede infatti proprio in questi giorni alcuni eventi privati promossi dalla comunità gay, durante i quali verranno raccolti svariati milioni di dollari, tra cui uno questa settimana presso l’abitazione di George Clooney a Los Angeles e un altro a New York nella giornata di lunedì.
I gruppi liberal della società civile, quelli a difesa dei diritti gay e i media vicini ai democratici hanno comunque espresso tutto il loro entusiasmo dopo aver sentito le parole di Obama alla ABC. Il New York Times, ad esempio, ha pubblicato giovedì un editoriale ricco di lodi per il presidente, esaltato per aver mostrato la leadership necessaria a promuovere l’uguaglianza dei diritti di tutti i cittadini americani.
Per una testata come il NYT e le sezioni della borghesia liberal a cui fa riferimento poco importa se un’uscita propagandistica come quella di mercoledì si inserisce nel quadro di una politica tendente costantemente a destra, sia sulle questioni economiche che su quelle dei diritti democratici, ridimensionati in maniera drastica in questi tre anni da una serie di gravi iniziative giustificate dalla “guerra al terrore”.
La presa di posizione di Obama su quella che lo stesso NYT definisce “la più importante battaglia per i diritti civili del nostro tempo” è così sufficiente per assicurare il sostegno degli intellettuali progressisti alla campagna per la rielezione di un presidente sotto la cui guida sono stati implementati tagli devastanti alla spesa pubblica, andati persi milioni di posti di lavoro, peggiorate drammaticamente le condizioni di vita di decine di milioni di famiglie ed è aumentato l’impegno militare all’estero con conseguenze rovinose per la stabilità dell’intero pianeta.
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di Carlo Musilli
Che sia o meno il "processo del secolo", a Guantanamo si celebra prima di tutto una pesante sconfitta per Barack Obama. Dopo 10 anni e otto mesi dall'11 settembre, nel segretissimo "camp 7" del carcere Usa in territorio cubano, è iniziato il procedimento contro i cinque presunti organizzatori degli attentati che sterminarono quasi tremila americani.
Alla sbarra Khalid Shaikh Mohammed, autoproclamatosi "ideatore" degli attacchi, Aziz Ali, Walid Muhammad Salih Mubarak Bin Attash (ex responsabile di Al-Qaeda in Arabia Saudita), Ramzi Binalshibh (capo della cellula di Amburgo) e "il cassiere" Mustafa Ahmed Adam al-Hawsawi. Arrestati ben nove anni fa, dalla settimana scorsa siedono davanti a un tribunale militare. Sono accusati di aver addestrato e finanziato i 19 dirottatori responsabili degli attacchi aerei. E rischiano la pena di morte.
Si avvera così quello che il Presidente aveva giurato di evitare. Prima ancora di ricevere (sulla fiducia) il premio Nobel per la pace, nella fantasmagorica campagna elettorale del 2007 e poi ancora a inizio mandato, Obama aveva fatto due promesse: il trasferimento del caso alla giustizia civile in un tribunale di Manhattan e la chiusura di Guantanamo, vergognosa eredità del guerrafondaio Bush jr.
Il primo obiettivo è stato mancato anche per l'opposizione del sindaco di New York, Michael Bloomberg, che aveva calcolato in 400 milioni di dollari i costi che la città avrebbe dovuto sostenere solo per le misure di sicurezza. Il fallimento più grave è arrivato però in Congresso, dove il Presidente si è visto negare i fondi per la chiusura del carcere. A votargli contro non solo i Repubblicani, ma anche una minoranza dei suoi stessi democratici. Nell'ultima finanziaria è comparsa perfino una postilla che vieta al Pentagono di usare fondi propri per trasferire i detenuti da Guantanamo al continente. Come a dire che, negli Stati Uniti, nemmeno il Presidente del "Yes we can" può permettersi di remare troppo forte contro i vertici militari.
Quella che vorrebbe essere la prima democrazia del pianeta continuerà così a violare sistematicamente i diritti civili dei detenuti in una fortezza oltreconfine. Ma su questo punto a Obama è riuscito il colpo di coda. E non si tratta di un dettaglio, anzi, potrebbe perfino invertire le sorti del processo. In sostanza, grazie a una riforma del codice militare, è diventato illegale usare in sede giudiziaria "testimonianze estorte con la tortura".
Una vera disdetta per gli zelanti militari, che nel corso degli ultimi anni hanno sottoposto il solo Khalid Shaikh Mohammed (la "mente") a ben 183 sedute di "waterboarding". Il nome sembra quello di un'attrazione da parco acquatico, ed in effetti è uno dei passatempi più in voga fra i gendarmi di Guantanamo: si immobilizza il nemico da interrogare in modo che i piedi siano più in alto della testa, poi gli si versa in faccia un getto d'acqua continuo. Con questa pratica - detta anche "annegamento controllato" - gli americani hanno estorto ai detenuti montagne di informazioni. Una perdita di tempo oltre che di umanità, visto che ora nessuna di quelle rivelazioni può essere usata nel processo.
La limitazione giudiziaria è uno smacco per i militari, ma non mette fine al regime di tortura che domina a Guantanamo. L'opinione pubblica aveva chiesto a Obama di cancellare la violenza illegale del bushismo, ma dopo una lunga battaglia il Presidente democratico ha fallito. Secondo il Washington Post, la maggioranza degli americani non crede che agli attentatori dell'11 settembre sarà garantito un giusto processo.
In ogni caso, comunque vada il procedimento, la stampa non può darne conto liberamente. I giornalisti non sono ammessi in aula: in sessanta possono assistere al processo, ma solo attraverso i maxischermi allestiti in quattro diverse basi militari. Le immagini vengono trasmesse con una differita di 40 secondi, in modo da consentire la censura d'urgenza.
La scena più cruda di cui si abbia avuto notizia finora ha avuto come protagonista Ramzi Binalshibh. Presentandosi di fronte ai giudici, l'imputato yemenita è stato uno dei pochi ad aprire bocca: "Volete solo ucciderci", ha urlato.