di Fabrizio Casari

La nomina del senatore democratico John Kerry, Presidente della Commissione Esteri del Senato a Segretario di Stato appare ormai imminente. La definitiva giubilazione di Susan Rice, la cui candidatura è rimasta sepolta sotto le macerie dell’ambasciata Usa a Bengasi, è già di per sé una buona notizia. La Rice, falco e devota custode dell’inclinazione imperiale, avrebbe certamente condizionato in senso più conservatore la già poco progressista politica estera di Obama. Alla nomina di Kerry potrebbe poi sommarsi quella dell’ex senatore democratico Chuck Hagel, che potrebbe divenire il nuovo Segretario alla Difesa.

Con queste due nomine, il circolo ristretto di Obama in materia di politica estera e militare (cioè le due facce della stessa medaglia) si gioverebbe di un deciso cambio di orientamento in termini di linea politica. Sia Kerry che Hagel, infatti, sono uomini di esperienza e competenza già sperimentate in politica estera e certamente, riguardo alla relazione tra USA e Cuba, rappresentano il punto di vita intelligente di quella parte di establishment che ritiene debba considerarsi chiusa la storia anacronistica dell’ostilità totale tra Washington e L’Avana.

Certo, gli interessi strategici della superpotenza non sono suscettibili di variazione profonda, che possano cioè ribaltare il sistema valoriale che sostiene la dionisiaca volontà di potenza dell’impero, però è altrettanto vero che una diversa impostazione politica sui temi delle relazioni internazionali ha avuto luogo nella storia statunitense, si pensi solo alla presidenza Carter. Il secondo mandato di Obama potrebbe assumere un profilo riformatore tante volte annunciato all’inizio del primo mandato e mai giunto.

Fin dal 1984, quando venne eletto al Senato, Kerry è sempre stato un avversario tenace delle politiche interventiste statunitensi in America latina, da lui sempre considerata come un continente con il quale mantenere una relazione politica importante e collaborativa; e nello specifico del rapporto con Cuba, ha sempre considerato inutile ed anacronistico il blocco statunitense, auspicando una svolta nelle relazioni bilaterali.

Coerentemente con le sue posizioni, Kerry non esitò a schierarsi contro lo stesso Obama in relazione all’utilizzo dell’agenzia USAID per destabilizzare Cuba, condizionando il via libera al finanziamento di venti milioni di dollari per le attività dell’agenzia ad una revisione di suoi programmi. Non esitò nemmeno a dichiararsi decisamente scettico circa l’utilizzo di fondi Usa per mantenere Radio e Tv Martì, le due emittenti legate alla FNCA, dicendosi convinto che “nessun cubano le vede o le sente e ancor meno gli interessano”.

In un chiaro riferimento agli episodi di malversazione di fondi e utilizzo degli stessi in funzione di greppia alla quale sfamano i propri appetiti i cosiddetti “dissidenti”, il senatore democratico non scelse le mezze misure per dichiararsi contrario: “Non ci sono prove - disse Kerry in un comunicato - che i programmi di promozione della democrazia, che fino adesso sono costati ai contribuenti statunitensi oltre 150 milioni di dollari, stiano aiutando il popolo cubano”.  “Anzi - aggiunse - non sembra che i cosiddetti aiuti per la democrazia abbiano ottenuto risultati diversi da quello di aver provocato l’arresto di un contractor del governo statunitense (Alan Gross ndr) che distribuiva strumenti di comunicazione satellitari a contatti cubani”.

Dal canto suo Chuck Hagel, non ha mai risparmiato critiche proprio riguardo alla politica USA verso Cuba, definendola “senza senso”. Unico membro del Congresso che Carter invitò ad accompagnarlo in occasione della visita a Cuba nel 2002, Hagel si schierò a favore della legislazione per aprire il mercato cubano la vendita di alimenti e medicine e per ridurre le restrizioni sui viaggi tra Usa e Cuba.

Su Cuba la differenza d’approccio al tema della relazione con Cuba non risente particolarmente delle differenze tra Democratici e Repubblicani. Basti pensare che democratico è il deputato Robert Torricelli, autore di una legge anticubana che ha preso il suo nome e che ha fatto da apripista alla famigerata legge Helms-Burton, dal nome dei due senatori dell’ultradestra repubblicana. Insomma, quando si è trattato di accarezzare il pelo alla lobby terroristica e mafiosa cubano americana, né un partito né l’altro si sono sottratti all’obolo richiesto, pregiudicando in profondità la qualità della politica estera statunitense e vessando senza vergogna il popolo cubano.

La nomina di Kerry e Hagel, quindi, non verrà accolta nel modo migliore dai falchi del partito repubblicano e anche da quelli nelle file democratiche, tra questi primo fra tutti Bob Menendez, che insieme al senatore repubblicano Marco Rubio fu tra gli oppositori più accaniti del decreto presidenziale con il quale Obama riaprì i viaggi diretti tra Usa e Cuba (su questo fu scontro aperto proprio con Kerry, che appoggiava la decisione della Casa Bianca) e arrivò anche a minacciare la fine del contributo finanziario statunitense all’Organizzazione degli Stati Americani (OSA) quando decise di accogliere Cuba nelle sue riunioni.

E anche relativamente all’ipotesi di un dialogo tra Washington e L’Avana che avesse al centro i casi di Alan Gross, detenuto a Cuba per spionaggio e i cinque cubani accusati anch’essi di spionaggio e detenuti negli Usa a seguito di processi-burla, Menendez ebbe a dire, in una intervista al New York Times, che avrebbe preferito lasciare Alan Gross in carcere “per non entrare in negoziati con qualcuno che è ostaggio del governo cubano”. Ma Menendez non se la passa bene, coinvolto in vari scandali e il livello delle pressioni che storicamente la comunità cubanoamericana ha esercitato verso la Casa Bianca perché mantenesse la sua ostilità verso l’isola caraibica, ha decisamente perso di peso specifico.

Obama, infatti, ha vinto ad ogni livello le elezioni in Florida e nella stessa Miami-Dade ed è risultato vincitore anche nel voto della comunità latina. L’apporto di Kerry e Hagel al suo gabinetto di governo potrebbe spingere il presidente, al suo secondo e ultimo mandato, quindi indifferente alla minaccia della rielezione, a dare vita ad un cambio significativo della politica vetusta ed inutile verso Cuba.

A cominciare dalla presa di distanza tra la Casa Bianca e il recalcitrante magma reazionario di Miami che ha sempre ricattato politicamente ed elettoralmente ogni presidente democratico che pensava di porre anche solo piccoli cambiamenti nell’agenda statunitense per la regione.

Una rottura con l’estremismo dei fuoriusciti di Miami e una riconsiderazione dei rapporti bilaterali con Cuba  risulterebbe essere, tra le altre cose, un passaggio importante sia nei confronti della comunità internazionale, che ogni anno in sede ONU condanna il blocco Usa, sia per il miglioramento generale dei rapporti con l’insieme dell’America latina.

La fine dell’isterìa anticubana, peraltro,, proprio per quanto appena detto, influirebbe positivamente anche nella politica interna. Perché, come afferma Richard Lugar, senatore repubblicano uscente tra i più prestigiosi negli USA, “un cambio di politica verso Cuba è nell’interesse nazionale degli Stati Uniti”.

 

 

di Michele Paris

Tra il 4 e il 17 del mese di dicembre, negli Stati Uniti sono deceduti due veterani del Congresso, l’ex deputato del Texas Jack Brooks e il senatore delle Isole Hawaii Daniel Inouye. 89 anni il primo e 88 il secondo, i due parlamentari democratici sono stati oggetto di elogi sulla stampa istituzionale americana per i risultati ottenuti nelle rispettive lunghissime carriere politiche.

Ciò che è rimasto assente dai loro necrologi è però un episodio, estremamente significativo del degrado delle istituzioni democratiche americane, che li ha visti protagonisti un quarto di secolo fa, quando entrambi facevano parte della commissione d’inchiesta sul cosiddetto scandalo Iran-Contras.

Per quanto riguarda Jack Brooks, soprattutto la stampa liberal d’oltreoceano ha ricordato come egli sia stato uno dei pochi parlamentari democratici del sud degli Stati Uniti ad appoggiare le leggi sull’emancipazione razziale negli anni Sessanta, ma anche la sua presenza su un auto che faceva parte del convoglio del presidente Kennedy quando fu assassinato a Dallas il 22 novembre 1963.

Nel ricordo del senatore di origine giapponese Daniel Inouye non è potuto mancare invece il suo impegno per le Hawaii nei 53 anni di servizio al Congresso, nonché la Medaglia d’Onore conferitagli nel 2000 dal presidente Clinton come riconoscimento tardivo per un suo atto eroico durante la Seconda Guerra Mondiale sul fronte italiano che gli causò la perdita di un braccio.

Come già anticipato, tuttavia, Brooks e Inouye erano anche due dei rappresentanti democratici di Camera e Senato selezionati per la Commissione del Congresso incaricata di fare luce su una delle più gravi crisi scoppiate durante la presidenza Reagan o, meglio, di evitare che riguardo ad essa venissero resi noti tutti gli imbarazzanti dettagli.

L’affare Iran-Contras (o Irangate) venne alla luce nel novembre del 1986, quando il giornale libanese Ash-Shiraa rivelò l’esistenza di un piano segreto autorizzato dalla Casa Bianca per vendere armi all’Iran in cambio della liberazione di ostaggi americani in Libano nelle mani di Hezbollah, la milizia sciita appoggiata dalla Repubblica Islamica. Il piano, in realtà, era stato variato rispetto alla sua forma originaria per consentire di destinare una parte dei proventi di queste forniture ai Contras, cioè i gruppi armati controrivoluzionari che combattevano il governo Sandinista del Nicaragua e che si erano distinti per avere commesso svariati crimini e abusi.

Qualche giorno prima della rivelazione giornalistica, lo scandalo era peraltro già emerso in seguito all’abbattimento in Nicaragua di un aereo che trasportava armi destinate ai Contras. L’unico sopravvissuto dei quattro membri americani dell’equipaggio - Eugene Hasenfus - in una conferenza stampa organizzata dai sandinisti a Managua aveva infatti ammesso che l’aereo su cui viaggiava stava appunto trasportando armi e faceva parte di un piano operato dalla CIA.

Vennero successivamente alla luce anche aspetti ancora peggiori dell’operazione: gli aerei americani, che decollavano dalla base militare di Ilopango in El Salvador, trasportavano armi in Nicaragua, e droga dalla Colombia, i cui proventi servivano a finanziare l’esercito terroristico dei Contras. A coordinare le attività in El Salvador c’erano Frank Carlucci e Luis Posada Carriles, il terrorista di origini cubane denominato il “bin Ladin delle Americhe”, legato alla Fondazione Nazionale Cubano Americana fondata proprio con il sostegno diretto di Ronald Reagan con l’incarico di colpire Cuba con il terrore.

Un giornalista americano, Gary Webb, vinse due premi Pulitzer con i suoi articoli pubblicati sul San Josè Mercury News e con il libro-inchiesta The Dark Alliance (L’alleanza oscura) proprio sull’operazione Iran-Contras. Pochi mesi dopo la sua pubblicazione venne trovato morto in casa con due colpi di fucile nel petto. Le autorità parlarono di suicidio..

Le operazioni segrete, approvate dal presidente Reagan, dimostravano quanto meno la doppiezza della condotta del governo americano, il quale nonostante la posizione ufficiale anti-iraniana stava fornendo armi a Teheran, alimentando di fatto le violenze nella sanguinosa guerra in corso con l’Iraq, al cui fianco gli Stati Uniti erano invece ufficialmente schierati. Inoltre, qualsiasi genere di assistenza ai Contras era palesemente illegale, dal momento che era stata proibita dal cosiddetto Emendamento Boland, dal nome del deputato democratico del Massachusetts che aveva promosso questa legislazione tra il 1982 e il 1984.

Malgrado gli ostacoli legali, l’amministrazione Reagan aveva dato comunque il via libera all’operazione segreta, incaricandone della responsabilità il tenente colonnello Oliver North, uno dei membri del Consiglio per la Sicurezza Nazionale della Casa Bianca.

La commissione congiunta di Camera e Senato tenne così numerose sessioni dedicate allo scandalo, fino a che, il 13 luglio 1987, il dibattito finì per sfiorare una questione ad esso collegata ma con implicazioni ben più gravi. In quell’occasione, il deputato Jack Brooks provò cioè a chiedere conto allo stesso Oliver North del suo coinvolgimento in un piano segreto precedente all’affare Iran-Contras e che era stato rivelato il 5 luglio da un articolo del quotidiano Miami Herald.

Questo piano andava sotto il nome di “Operazione Rex ’84” (“Readiness Exercise 1984”) e prevedeva, tra l’altro, la sospensione della Costituzione negli Stati Uniti, l’entrata in vigore della legge marziale, l’assegnazione dei compiti di governo sia a livello statale che locale ai militari e l’arresto di un vasto numero di americani considerati una minaccia alla sicurezza nazionale. Un simile scenario avrebbe dovuto scattare nel caso in cui il presidente avesse dichiarato lo Stato di Emergenza Nazionale per far fronte ad una prevedibile ondata di opposizione nel paese in conseguenza dell’invasione americana di un paese centro-americano, come appunto il Nicaragua.

L’Operazione Rex ’84 era stata organizzata da Oliver North e da John Brinkerhoff, uno dei dirigenti dell’Agenzia Federale per la Gestione delle Emergenze (FEMA), alla quale sarebbero stati dati ampi poteri nell’eventualità dell’esplosione di una crisi in territorio statunitense. Secondo il Miami Herald, il piano di North e Brinkerhoff per l’amministrazione Reagan si ispirava ad uno documento del 1970 di Louis Giuffrida, un militare nominato direttore della FEMA nel 1981 dal presidente repubblicano, nel quale prospettava, nell’ambito di una situazione di emergenza nazionale, il trasferimento forzato di milioni di afro-americani in campi di detenzione.

Secondo le trascrizioni della seduta in questione, Brooks chiese dunque a Oliver North se, come membro del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, gli fosse stato affidato l’incarico di lavorare ad un piano per garantire la “continuità del governo” da mettere in atto in caso di un qualche “significativo disastro”.

La domanda sembrò scuotere North e il suo legale, Brendan Sullivan, il quale si rivolse al senatore Daniel Inouye, co-presidente della commissione assieme al deputato dell’Indiana, Lee Hamilton, anch’egli democratico. Inouye intervenne allora prontamente affermando che “la domanda andava a toccare un’area altamente sensibile e classificata” e invitando perciò Brooks a desistere dal suo intento.

Quest’ultimo provò comunque a insistere, manifestando la propria preoccupazione, poiché aveva letto sul Miami Herald che “era stato realizzato un piano, da questa stessa agenzia (il Consiglio per la Sicurezza Nazionale), che in caso di emergenza prevedeva la sospensione della Costituzione”. Brooks si domandava se North avesse lavorato in questo ambito e, essendone praticamente certo, intendeva averne conferma dal diretto interessato.

Per tutta risposta, Inouye chiuse il discorso sull’Operazione Rex ’84, invitando “rispettosamente” ancora una volta il collega democratico “a non toccare l’argomento in questa occasione”, poiché, nel caso ci fosse stato qualche interesse, era certo che si sarebbe potuto affrontare in un’altra sessione. Brooks a questo punto lasciò cadere la questione e la commissione prevedibilmente non tornò più sull’argomento.

L’Operazione Rex ’84 e il tentativo di evitare qualsiasi discussione pubblica su di essa da parte del defunto senatore Inouye testimoniano sia il processo di erosione dei diritti democratici negli Stati Uniti in atto da almeno tre decenni sia la progressiva scomparsa dal panorama politico americano di voci autenticamente progressiste disponibili a difendere pubblicamente questi stessi diritti.

Alcune delle misure previste dal piano stilato dal colonnello Oliver North su richiesta dell’amministrazione Reagan, infatti, sarebbero state non a caso riprese negli anni successivi, in particolare con l’inaugurazione della guerra al terrore promossa da George W. Bush dopo l’11 settembre 2001.

Le incarcerazioni di massa di oppositori previste dall’Operazione Rex ’84 vennero ad esempio prese in considerazione - ai danni di cittadini arabi americani - nei mesi precedenti l’invasione dell’Iraq, come rivelò nel luglio del 2002 un articolo del quotidiano Detroit Free Press basato sulle dichiarazioni rilasciate da una fonte interna alla Commissione per i Diritti Civili negli Stati Uniti.

Gli assalti ai diritti garantiti dalla Costituzione hanno fatto registrare in ogni caso una drammatica escalation nell’ultimo decennio, questa volta sanzionati legalmente da provvedimenti come il "Patriot Act "o con la creazione del Dipartimento per la Sicurezza Nazionale e del Comando Settentrionale delle Forze Armate (NORTHCOM), quest’ultimo con lo scopo di condurre potenziali operazioni militari sul suolo americano nonostante le limitazioni imposte fin dal 1878 dal Posse Comitatus Act.

L’obiettivo sempre più sfuggente del terrorismo globale, in definitiva, ha finito per fornire alla classe dirigente americana la giustificazione per implementare misure profondamente anti-democratiche - dai tribunali militari alla facoltà del governo di controllare virtualmente tutte le comunicazioni dei propri cittadini, dalle detenzioni indefinite al potere del presidente di ordinare l’assassinio di chiunque sia sospettato di minacciare la sicurezza nazionale - che affondano le radici in piani segreti come quello appena sfiorato dall’inchiesta sullo scandalo Iran-Contras 25 anni fa e che mirano a creare le fondamenta legali per controllare e reprimere sul nascere qualsiasi opposizione interna ad una classe politica sempre più impopolare.

di Michele Paris

Con il ritiro qualche giorno fa della candidatura a Segretario di Stato dell’attuale ambasciatrice USA alle Nazioni Unite, Susan Rice, il presidente Obama sembra vicinissimo ad assegnare la guida della diplomazia americana al senatore del Massachusetts, John Kerry. Il candidato alla Casa Bianca per il Partito Democratico nel 2004, vista la sua esperienza e il rispetto guadagnato tra i colleghi del Senato, appare come una scelta sicura per la successione a Hillary Clinton, anche se sarà da verificare fino a che punto il suo presunto pragmatismo nell’approccio alle questioni internazionali riuscirà a modellare la politica estera degli Stati Uniti nei prossimi quattro anni.

La prima scelta di Obama per la Segreteria di Stato era appunto la delegata di Washington presso il Palazzo di Vetro di New York, la quale però si è vista costretta giovedì scorso ad inviare una lettera alla Casa Bianca nella quale ha comunicato la propria rinuncia ad un eventuale incarico. Susan Rice è infatti da tempo sotto il fuoco incrociato del Partito Repubblicano per le dichiarazioni rilasciate subito dopo l’assalto al consolato americano di Bengasi, in Libia, l’11 settembre scorso, che costò la vita all’ambasciatore, J. Christopher Stevens, e ad altri tre cittadini statunitensi.

Le accuse alla Rice, rivolte in particolare dai senatori repubblicani John McCain e Lindsey Graham, erano iniziate dopo la sua apparizione in alcuni talk show televisivi nei giorni successivi ai fatti di Bengasi. Pubblicamente, la Rice aveva definito l’attacco al consolato e ad un annesso edificio segreto della CIA come la conseguenza spontanea delle proteste esplose nel mondo arabo in seguito alla diffusione sul web di un video amatoriale che irrideva il profeta Muhammad.

In realtà, ben presto divenne noto che l’episodio era una vera e propria azione terroristica studiata a tavolino e portata a termine da uno o più gruppi di ex “ribelli” libici legati ad Al-Qaeda, con i quali peraltro gli Stati Uniti e lo stesso ambasciatore Stevens avevano collaborato per rovesciare il regime di Gheddafi.

Secondo i repubblicani, la Rice aveva deliberatamente fuorviato l’opinione pubblica americana per favorire la rielezione di Obama, impegnato a propagandare i risultati della propria amministrazione nella lotta al terrorismo. Secondo la versione ufficiale del governo americano, invece, nelle sue dichiarazioni iniziali la Rice si era semplicemente basata su rapporti forniti dall’intelligence che avevano rimosso qualsiasi riferimento a possibili legami degli assalitori con Al-Qaeda.

Dal momento che il candidato ad assumere la guida del Dipartimento di Stato deve ottenere l’approvazione del Senato, e che anche un solo senatore può bloccare il processo di conferma, le polemiche seguite agli assassini di Bengasi minacciavano seriamente di ingolfare una nomina così importante e, soprattutto, di interferire con le già difficili trattative in corso tra democratici e repubblicani per raggiungere un accordo sul cosiddetto “fiscal cliff”.

Se fonti interne all’amministrazione Obama hanno assicurato che la Casa Bianca non ha avuto alcun ruolo nella rinuncia della Rice, è molto probabile al contrario che il presidente e il suo staff abbiano fatto pressioni sull’ambasciatrice all’ONU per farsi da parte volontariamente, così da evitare distrazioni e imbarazzi. Prolungate e accese audizioni per la conferma della Rice avrebbero potuto inoltre esporre particolari poco graditi sui torbidi rapporti intercorsi tra le milizie estremiste e gli Stati Uniti nel conflitto orchestrato per “liberare” la Libia e che si stanno ora riproponendo in Siria.

Oltre che dai repubblicani, la scelta di Susan Rice non era stata digerita nemmeno da molti nell’ala liberal del Partito Democratico a causa del suo atteggiamento all’insegna dell’arroganza nei rapporti con i diplomatici di altri paesi e per i legami che la ex funzionaria del Dipartimento di Stato durante la presidenza Clinton aveva instaurato con leader africani responsabili di crimini e repressioni varie, come il defunto premier dell’Etiopia, Meles Zenawi, o i presidenti di Ruanda e Uganda, Paul Kagame e Yoweri Museveni.

In questo scenario, la scelta di John Kerry, che salvo sorprese potrebbe essere annunciata ufficialmente già questa settimana, è sembrata essere la più logica, anche perché di fatto sponsorizzata apertamente da molti suoi colleghi repubblicani al Senato, i quali vedrebbero aprirsi così uno spiraglio per strappare un seggio ai democratici in rappresentanza dello stato del Massachusetts.

Secondo fonti interne alla Casa Bianca citate da alcuni giornali d’oltreoceano, le riserve che il presidente nutrirebbe tuttora nei confronti di Kerry deriverebbero esclusivamente dal fatto che con la nomina di quest’ultimo la sua amministrazione finirebbe per avere sempre meno donne o appartenenti a minoranze etniche al proprio interno. Al di là delle motivazioni puramente propagandistiche nella scelta di una donna di colore come Susan Rice al Dipartimento di Stato, è probabile che se riserve effettivamente sussistono da parte di Obama verso Kerry, esse dipendano piuttosto dalla relativa diversità di vedute tra i due candidati sulle questioni di politica estera.

Mentre la Rice, come Hillary Clinton, può essere ascritta alla categoria dei falchi della diplomazia a stelle e strisce, John Kerry viene considerato relativamente più moderato. In passato, ad esempio, pur affermando il legame indissolubile del suo paese con Israele, Kerry ha infatti criticato gli insediamenti illegali in Palestina, mentre relativamente all’Iran, nonostante abbia approvato tutte le sanzioni imposte dagli Stati Uniti, ha a volte evitato i toni estremisti di molti suoi colleghi riguardo alla questione del nucleare.

Quest’ultimo atteggiamento di Kerry, secondo i commentatori più ottimisti, potrebbe indicare perciò una certa volontà di dialogo con Teheran da parte di Obama. Un altro segnale in questo senso potrebbe essere la scelta dell’ex senatore repubblicano del Nebraska, Chuck Hagel, per sostituire Leon Panetta al Dipartimento della Difesa. Anche Hagel è noto per le sue posizioni decisamente più moderate in politica estera rispetto agli standard del Partito Repubblicano e, in particolare, sull’Iran ha frequentemente espresso profondi dubbi circa l’opportunità di un intervento militare, così come la necessità di risolvere la crisi con il dialogo.

Se le nomine di John Kerry e Chuck Hagel non sono ancora del tutto certe è dovuto forse anche a qualche timore che essi suscitano in Israele. Queste preoccupazioni sono state espresse chiaramente da un recente articolo del quotidiano conservatore israeliano, Jerusalem Post, secondo il quale Kerry e Hagel - rispettivamente al Dipartimento di Stato e al Pentagono - non sarebbero esattamente la scelta preferita dal governo di Tel Aviv.

Kerry, in ogni caso, è un sostenitore della prima ora di Barack Obama e il presidente democratico nel corso del suo primo mandato lo ha spedito varie volte all’estero per risolvere alcune situazioni spinose, bypassando il Segretario di Stato Clinton. Dopo le elezioni presidenziali del 2009 in Afghanistan, seguite da una valanga di accuse di brogli nei confronti di Hamid Karzai, Kerry si recò ad esempio a Kabul per convincere quest’ultimo ad acconsentire almeno ad un secondo turno di ballottaggio. Allo stesso modo, dopo il raid che portò all’assassinio di Osama bin Laden nel maggio 2011, il 69enne senatore democratico cercò di placare le proteste delle autorità del Pakistan durante una visita prolungata in questo paese.

Se l’insuccesso della candidatura a Segretario di Stato di Susan Rice, alla luce soprattutto della sua incessante campagna per la promozione degli interessi americani nel mondo dietro la retorica degli interventi “umanitari”, non può che essere accolto positivamente, l’eventuale conferimento della responsabilità della diplomazia USA a John Kerry non sarà in ogni caso garanzia di una svolta sostanziale nella politica estera dell’amministrazione Obama.

Oltre al fatto che la Rice continuerà per ora ad occupare il posto di ambasciatrice all’ONU e che, secondo indiscrezioni, potrebbe presto addirittura diventare la consigliera del presidente per la Sicurezza Nazionale, ad ispirare le decisioni del nuovo numero uno del Dipartimento di Stato continueranno ad essere sempre e comunque le ragioni dell’imperialismo americano.

di Michele Paris

Rispettando le previsioni fornite dai sondaggi nelle ultime settimane, le elezioni per il rinnovo della Camera bassa della Dieta (Parlamento) giapponese hanno fatto registrare domenica una umiliante sconfitta per il partito di centro-sinistra al governo dal 2009. La vera e propria disfatta del Partito Democratico (DPJ) dell’impopolare premier Yoshihiko Noda ha consentito così il trionfo e il ritorno al potere del Partito Liberal Democratico (LDP), il quale, nonostante l’appoggio tutt’altro che entusiastico degli elettori nipponici, potrà ora disporre di una vastissima maggioranza per imprimere una netta sterzata a destra delle politiche del paese, sia sul fronte domestico che su quello estero.

I risultati finali del voto anticipato hanno assegnato al DPJ 294 seggi sui 480 in palio. Assieme al fedele alleato, il partito conservatore di ispirazione buddista Nuovo Komeito, il DPJ potrà contare su una super-maggioranza di due terzi dei seggi totali, con la possibilità di superare eventuali veti posti dalla Camera alta, per il cui rinnovo si voterà comunque a luglio, sulla legislazione approvata da quella bassa.

La prestazione del DPJ ha assunto al contrario le proporzioni di un tracollo, con appena 59 seggi conquistati contro i 308 del 2009. Il DPJ rimane il secondo partito in Parlamento ma con un margine di soli 4 seggi sul neonato Partito per la Restaurazione del Giappone, fondato dal giovane e populista sindaco di Osaka, Toru Hashimoto. Quest’ultima formazione nutriva in realtà ambizioni maggiori ma il poco tempo a disposizione per la campagna elettorale, assieme ad una certa confusione prodotta da un’alleanza siglata in extremis con l’ex governatore di estrema destra dell’area metropolitana di Tokyo, l’80enne Shintaro Ishihara, ha probabilmente finito per offuscare l’immagine di partito del cambiamento agli occhi di molti elettori.

In conseguenza di questi risultati, nei prossimi giorni l’ex premier ultra-nazionalista Shinzo Abe verrà incaricato di formare un nuovo governo, dopo che tra il 2006 e il 2007 aveva già presieduto un esecutivo impopolare segnato da scandali vari prima di rassegnare le proprie dimissioni, ufficialmente per motivi di salute.

Per ammissione dello stesso Abe, il voto di domenica non è stato tanto un attestato di fiducia dei giapponesi nei confronti del suo partito quanto una punizione inflitta al Partito Democratico. Interrompendo una serie quasi ininterrotta di governi liberal-democratici durata oltre cinque decenni, nel 2009 il DPJ aveva messo a segno una nettissima vittoria alle urne grazie a promesse di cambiamento che prospettavano un modesto aumento della spesa pubblica, il ridimensionamento della potente burocrazia statale e una politica estera svincolata dal rapporto esclusivo con Washington tramite aperture verso la Cina.

In seguito alle dimissioni già nel giugno 2010 del premier Yukio Hatoyama, a causa della mancata promessa di chiudere una base militare americana sull’isola di Okinawa, a Tokyo si sono poi susseguiti altri due governi - guidati da Naoto Kan e Yoshihiko Noda - che hanno subito riallineato il paese sulle posizioni degli Stati Uniti e fatto ricorso alle politiche di austerity adottate nel resto del pianeta con l’intensificarsi della crisi economica.

La pessima gestione della crisi nucleare di Fukushima e la recente approvazione di un aumento della tassa sui consumi hanno alla fine segnato definitivamente la sorte dell’esperienza di governo del DPJ. Proprio quest’ultima tassa, inoltre, ha anche spaccato il partito di centro-sinistra, costringendo il gabinetto Noda a ricorrere ai voti dell’LDP per la sua approvazione, in cambio però dello scioglimento anticipato della Camera bassa del parlamento.

A confermare la profonda ostilità degli elettori per tutta la classe politica giapponese c’è soprattutto il dato dell’astensionismo che ha toccato il 41%, vale a dire uno dei livelli più alti nella storia del paese e, in ogni caso, di dieci punti percentuali superiore rispetto al 2009. In assenza di reali alternative, dunque, il ritorno al Partito Liberal Democratico ha rappresentato l’unica scelta possibile per la maggioranza relativa di coloro che si sono recati alle urne.

Dopo essere stato nominato leader del proprio partito nel mese di settembre, il premier in pectore Shinzo Abe aveva condotto una campagna elettorale all’insegna del nazionalismo, assecondando una tendenza di tutta la classe politica nipponica per distogliere l’opinione pubblica dai reali problemi del paese. Sul fronte dei rapporti con la Cina, Abe ha fatto intendere di non nutrire alcuno scrupolo nel far salire le tensioni, promettendo di adottare misure più dure in risposta alla condotta di Pechino attorno alla disputa territoriale in corso per le Isole Senkaku (Diaoyu in cinese) nel Mar Cinese Orientale.

Inoltre, Abe propone apertamente alcune modifiche alla costituzione pacifista del 1947 per porre fine alle restrizioni imposte al ruolo delle forze armate giapponesi. Per apportare variazioni alla costituzione è necessario il voto dei due terzi di entrambi i rami del parlamento e un referendum popolare.

A partire dal primo giorno alla guida dell’esecutivo, Abe sarò tuttavia chiamato ad affrontare scelte economiche molto complicate per un paese in declino prolungato e che nel terzo trimestre del 2012 è scivolato nuovamente in recessione - la quinta negli ultimi 15 anni - così che potrebbe esserci ben poco entusiasmo, soprattutto nel Partito Nuovo Komeito, per una battaglia attorno alla modifica della costituzione.

Questo tema sull’agenda dell’LDP è però sollecitato più o meno apertamente dagli Stati Uniti che vedono con favore un impegno più attivo delle forze armate dell’alleato nel quadro della svolta dell’amministrazione Obama in Asia orientale per contenere l’espansionismo della Cina. Allo stesso tempo, il nazionalismo anti-cinese di Abe potrebbe però essere mitigato dal fatto che Pechino rimane il primo partner commerciale di Tokyo e che lo scontro diplomatico tra i due paesi ha già causato significativi danni economici per il Giappone.

Mentre Abe sarà così costretto a districarsi tra esigenze e pressioni contrastanti, è probabile comunque che alla fine a prevalere saranno le pressioni americane e la necessità di reagire ad una situazione interna che verosimilmente peggiorerà nel prossimo futuro, così che la retorica nazionalista e le azioni del governo entrante di centro-destra provocheranno un’ulteriore pericolosa escalation delle tensioni nell’intera regione.

Le preoccupazioni di Pechino per la vittoria di Abe sono d’altra parte apparse subito evidenti dopo la chiusura dei seggi. Ad esempio, l’agenzia di stampa ufficiale Xinhua ha pubblicato un editoriale per manifestare l’insoddisfazione del regime per i risultati annunciati da Tokyo. L’articolo ha messo in guardia dalle tendenze nazionaliste dei politici giapponesi che potrebbero peggiorare i rapporti con i vicini, minacciare le relazioni economiche e la stabilità della regione.

Il governo Abe, peraltro, potrebbe complicare i rapporti non solo con la Cina ma anche con un altro vicino con cui il Giappone condivide l’alleanza con gli Stati Uniti, vale a dire la Corea del Sud, dove si voterà il 19 dicembre per scegliere il nuovo presidente. A suggerirlo sono state le tendenze revisioniste ostentate in campagna elettorale dal futuro premier in relazione alle responsabilità del suo paese per i crimini di guerra commessi in Cina e nella penisola coreana negli anni precedenti la seconda guerra mondiale. Washington insiste da tempo per una partnership più stretta tra Tokyo e Seoul in funzione anti-cinese ma uno sforzo in questo senso è già naufragato in maniera clamorosa pochi mesi fa a causa del riemergere di rigurgiti nazionalisti in entrambi i paesi alla vigilia di delicati appuntamenti elettorali.

Le acque potrebbero diventare agitate infine anche nei rapporti con i competitori sui mercati internazionali, dal momento che sul fronte economico Shinzo Abe ha promesso, oltre ad un improbabile piano di opere pubbliche, una politica monetaria ispirata al cosiddetto “quantitative easing”, sulla linea di quanto fatto a più riprese dalla Fed americana, così da indebolire artificialmente lo yen e ridare fiato all’export nipponico, su cui si basa in gran parte la tenuta della terza economia del pianeta.

di Michele Paris

Il più recente episodio di efferata violenza compiuto da una singola persona negli Stati Uniti è avvenuto nella mattinata di venerdì presso una scuola elementare e materna di una ricca cittadina del Connecticut. La strage di bambini e insegnanti ha lasciato ancora una volta i media istituzionali e i politici di Washington senza parole, tutti come al solito incapaci di dare un senso ad un orrore che, per la sua serialità, non può che affondare le proprie radici nei mali che affliggono la società americana.

Come è ormai noto, il 20enne Adam Lanza ha sparato alla madre 52enne nell’abitazione di Newtown dove i due vivevano prima di recarsi in automobile alla Sandy Hook Elementary della città nella contea di Fairfield, a poco più di 100 km a nord-est di New York. L’assassino ha fatto irruzione con la forza nell’edificio ed ha sparato ai bambini presenti in due aule, inizialmente da lontano e poi da distanza ravvicinata. Secondo le ricostruzioni delle autorità di polizia, alcune vittime sarebbero state colpite fino a 11 volte. L’esito del massacro è stato così raccapricciante che molti genitori hanno riconosciuto i figli uccisi tramite fotografie.

Il bilancio complessivo è stato alla fine di 28 morti, inclusi l’autore della strage, che si è tolto la vita all’interno dell’edificio scolastico, e la madre. Delle altre 26 vittime, 20 erano bambini tra i 6 e i 7 anni e 6 dipendenti della scuola, tra cui la preside, 4 insegnanti ed una psicologa.

I racconti dei famigliari e delle persone che conoscevano Adam Lanza hanno descritto un giovane intelligente ma estremamente schivo, con problemi mentali, ma che mai aveva mostrato alcuna propensione alla violenza. I genitori si erano separati da qualche anno e il padre e il fratello di quattro anni più vecchio si erano trasferiti nel non lontano New Jersey.

Nella loro abitazione di Newtown, Adam Lanza e la madre conservavano svariate armi, frutto della passione di quest’ultima che pare essere stata trasmessa al figlio minore. La legge del Connecticut consente la vendita di armi da fuoco solo a chi ha compiuto 21 anni ma Adam Lanza ha potuto comunque avere accesso senza difficoltà a due pistole - una Glock e una Sig Sauer - e ad un fucile semi-automatico Bushmaster calibro .223, simile a quelli in dotazione delle forze armate americane in Iraq e in Afghanistan.

Per la seconda strage più grave per numero di vittime della storia americana, avvenuta a pochi giorni da un’altra sparatoria mortale in un centro commerciale dell’Oregon, gli investigatori del Connecticut hanno fatto sapere di non avere ancora trovato alcun indizio che possa rivelare le ragioni del comportamento di Adam Lanza.

Nei resoconti dei media e nelle reazioni di politici e commentatori, i termini maggiormente  ricorrenti in relazione al massacro sono stati come sempre “inspiegabile” e “senza senso”. Recatosi immediatamente a Newtown dopo il massacro, il governatore del Connecticut, il democratico Daniel Malloy, ha parlato di “una tragedia indicibile”, mentre, ad esempio, il Washington Post ha ritenuto utile sentire il parere di un docente di teologia morale, il quale ha avvertito che la risposta iniziale all’accaduto “non deve essere il tentativo di individuarne le cause”, appellandosi perciò al silenzio.

Altri esperti hanno poi chiesto un maggiore impegno nello studio del disagio mentale, mentre l’argomento preferito soprattutto dai media liberal è stato prevedibilmente il controllo sulla vendita di armi da fuoco. Lo stesso presidente Obama, recatosi in Connecticut domenica sera, nella dichiarazione pubblica dalla Casa Bianca dopo il massacro ha fatto un vago accenno alla necessità di adottare regolamentazioni in questo ambito, dopo che la sua amministrazione in questi quattro anni ha sempre evitato di sollevare una delle questioni politicamente più delicate a Washington.

Quasi in lacrime, Obama ha affermato la necessità di “prendere provvedimenti significativi per prevenire altre tragedie simili, al di là delle differenze politiche”. In molti hanno rimproverato al presidente di non avere assunto toni più decisi nel sollecitare un dibattito sul controllo delle armi, ma è evidente che qualsiasi restrizione sarà pressoché impossibile da implementare una volta che la strage di Newtown sarà sparita dai titoli dei giornali vista la profonda influenza della lobby delle armi su praticamente tutti i politici repubblicani e su buona parte di quelli democratici.

Se l’accessibilità delle armi da fuoco ha indubbiamente un peso nelle stragi in America e, soprattutto, nel numero spesso elevato di vittime, è altrettanto vero che altri paesi, come ad esempio il vicino Canada, che hanno una diffusione di armi simile fanno segnare livelli di violenza nettamente inferiori. Allo stesso modo, se è evidente che i disturbi mentali dei responsabili dei massacri hanno un ruolo importante, queste patologie non sono limitate agli Stati Uniti né questo paese sembra averne il primato.

Ciò che appare evidente dal ripetersi ininterrotto di simili massacri di massa, e che rimane puntualmente al di fuori dai tentativi ufficiali di spiegarne le ragioni, è piuttosto un contesto sociale americano caratterizzato da profonde tensioni che non possono trovare alcuna espressione “sana” all’interno degli attuali rapporti di classe e di un sistema segnato dal grave deteriorarsi dell’ambiente democratico e da crescenti disuguaglianze.

A ciò si aggiunga una cultura della violenza imposta dalle classi dirigenti, alimentata sia dai conflitti imperialisti del dopo 11 settembre, condotti da una gigantesca macchina da guerra, che dall’innalzamento dell’accumulazione di ricchezze ad ogni costo a ideale assoluto, da raggiungere per le élite economiche e finanziarie attraverso l’impoverimento di milioni di persone appartenenti ad una classe media e lavoratrice sempre più disorientate e senza alternative politiche.

Un processo, questo, accelerato dalla crisi irreversibile del capitalismo americano e dalla risposta data ad essa dalle classi dominanti a partire almeno dagli ultimi tre decenni. Non a caso, infatti, delle dodici peggiori stragi della storia americana, ben dieci hanno avuto luogo a partire dalla metà degli anni Ottanta. Di queste, inoltre, addirittura sei si sono verificate negli anni 2000, un decennio segnato appunto dalla guerra al terrore e dall’apparato pseudo-legale anti-democratico creato dal governo americano dopo l’11 settembre, nonché dalla più pesante crisi economica dalla Grande Depressione.

Oltre alla recente strage di Newtown, i più gravi episodi di violenza in questi anni comprendono quelli della Virginia Tech (32 morti, aprile 2007), di Binghamton nello stato di New York (13 morti, aprile 2009), di Fort Hood in Texas (13 morti, novembre 2009), di Aurora in Colorado (12 morti, luglio 2012) e della Contea di Geneva in Alabama (10 morti, marzo 2009). Nel solo 2012, infine, i media d’oltreoceano hanno elencato ben 13 uccisioni di massa per un totale di 81 morti e svariate decine di feriti.

Oltre ai luoghi dove il disagio sociale appare più evidente, la violenza esplode ormai anche nelle località più insospettabili e apparentemente risparmiate dalle tensioni e dal degrado, come nella idilliaca e benestante cittadina di Newtown, Connecticut, fino ad ora considerata una delle città più sicure di tutti gli Stati Uniti.


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