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di Michele Paris
Dopo quasi un mese di stop, domenica scorsa gli Stati Uniti sono tornati a colpire con i droni in territorio pakistano, uccidendo quattro presunti militanti islamici. La più recente incursione è giunta nel pieno dei negoziati tra Washington e Islamabad per cercare di ristabilire i rapporti tra i due paesi, severamente danneggiati dall’assassinio di Osama bin Laden un anno fa e dalla strage di soldati pakistani da parte dei militari americani lo scorso mese di novembre.
L’attacco aereo dell’altro giorno ha avuto come bersaglio la città di Miranshah, capitale del Waziristan del Nord, dove è stata colpita una scuola femminile abbandonata, utilizzata dagli estremisti. L’operazione statunitense ha suscitato le dure proteste del governo pakistano, il quale aveva recentemente vincolato il ripristino della partnership con gli USA, tra l’altro, proprio alla sospensione degli attacchi con i droni sul proprio territorio.
Il governo di Islamabad martedì ha presentato una protesta formale ad un diplomatico americano convocato presso il ministero degli Esteri, mentre secondo alcuni il Pakistan potrebbe anche boicottare l’importante summit della NATO in programma a Chicago il 20 e il 21 maggio prossimi.
Lo stop alla campana con i droni era una delle condizioni contenute in una serie di linee giuda approvate all’unanimità dal parlamento pakistano qualche settimana fa e a cui la politica estera del governo dovrebbe attenersi, in particolare nei rapporti con gli Stati Uniti. Il documento partorito da una speciale commissione parlamentare pakistana era inteso più che altro a rispondere in qualche modo alla crescente ostilità nel paese verso gli USA e a fornire alla classe dirigente locale la possibilità di ristabilire le fondamentali relazioni con Washington nonostante i numerosi motivi di scontro.
Per trattare la rinnovata partnership, la settimana scorsa l’amministrazione Obama aveva inviato a Islamabad il proprio rappresentante speciale per l’Afghanistan, il diplomatico Marc Grossman, il quale tuttavia venerdì ha lasciato il paese senza un accordo.
Il punto non risolto, secondo i resoconti dei media, sarebbe stato il rifiuto da parte degli Stati Uniti di esprimere scuse ufficiali per la già ricordata uccisone di 24 soldati pakistani in uno scontro armato di frontiera il 24 novembre 2011.
L’amministrazione Obama e il Pentagono si sarebbero impuntati in seguito all’assedio del 15 aprile scorso condotto da militanti islamici a Kabul e in altre località dell’Afghanistan che, secondo l’intelligence a stelle e strisce, sarebbe stato opera di gruppi estremisti provenienti dal Pakistan.
Sul rifiuto di Washington influiscono anche motivi elettorali, con il presidente Obama che a pochi mesi dal voto non intende pronunciare scuse formali per non essere accusato dai rivali repubblicani di debolezza nei confronti di un paese che intrattiene rapporti ambigui con presunti terroristi.
In gioco per gli Stati Uniti c’è soprattutto la necessità di veder riaperti i valichi di frontiera con l’Afghanistan, così da permettere il transito dei convogli NATO che riforniscono le forze di occupazione. La chiusura dei passi di frontiera da parte di Islamabad era stata decisa dopo la strage del novembre scorso e, per tutta risposta, il governo americano decise di congelare gli aiuti erogati al Pakistan che ammontano a oltre un miliardo di dollari all’anno. L’importanza delle rotte attraverso il Pakistan diventerà ancora maggiore per la NATO nel prossimo futuro, in previsione cioè del ritiro di truppe e materiale militare dall’Afghanistan.
Nonostante la partenza di Grossman dal Pakistan a mani vuote, sembra che una decina di diplomatici americani siano rimasti nel paese per continuare a cercare un accordo che consenta alle parti di salvare la faccia e raggiungere un esito che entrambe auspicano.
L’ultimo attacco con i dronti rischia però di complicare ulteriormente la situazione, dal momento che il governo di Islamabad si trova praticamente costretto a criticare con fermezza gli Stati Uniti per queste operazioni militari profondamente impopolari a causa delle vittime civili che regolarmente causano.
Il governo pakistano, almeno nel recente passato, pur prendendo le distanze pubblicamente dalle incursioni condotte dai droni della CIA, ha in realtà appoggiato in pieno la campagna americana e, anzi, l’ha spesso favorita fornendo preziose informazioni per individuare i bersagli da colpire.
Gli assassini mirati contro sospetti militanti islamici sono d’altra parte considerati fondamentali per gli Stati Uniti e la loro “guerra al terrore”. Questo strumento di morte al di fuori di ogni controllo giuridico viene utilizzato sempre più da Washington, oltre che in Pakistan, in paesi strategicamente importanti per i propri interessi come Yemen e Somalia.
Significativamente, il giorno dopo la ripresa degli attacchi con i velivoli senza pilota in Pakistan, il consigliere di Obama per l’anti-terrorismo, John Brennan, in un discorso al Woodrow Wilson Center di Washington ha ammesso e difeso la legalità e l’efficacia dell’impiego di questo strumento sul territorio di vari paesi sovrani. Nonostante sia universalmente noto che gli USA conducano da anni simili operazioni, gli esponenti del governo americano ne parlano in pubblico solo in rarissime occasioni.
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di Michele Paris
Le politiche di austerity profondamente anti-democratiche adottate ormai in tutta Europa come risposta alla crisi del debito, nel fine settimana appena trascorso hanno fatto una nuova vittima tra gli stessi governi che le stanno più o meno diligentemente implementando. L’ultimo esecutivo a crollare sotto l’impopolarità di simili misure è stato quello romeno di centro-destra, guidato dal primo ministro Mihai Razvan Ungureanu, battuto venerdì nel corso di un voto di fiducia in parlamento.
Il governo di Bucarest ha avuto un destino molto simile a quello a cui è andato incontro quello olandese di Mark Rutte, anch’esso sfiduciato all’inizio della scorsa settimana. Come in quell’occasione, una parte della maggioranza che lo sosteneva ha deciso di ritirare il proprio appoggio, principalmente a causa della crescente ostilità tra i cittadini alle politiche di rigore dettate dagli ambienti finanziari internazionali.
La mozione di sfiducia in Romania è stata presentata dall’opposizione, contraria al piano di privatizzazioni di Ungureanu, ed è stata votata da 235 membri della Camera dei Deputati, quattro in più del necessario per determinare la fine di un governo nato meno di tre mesi fa. Il presidente romeno, Traian Basescu, ha immediatamente assegnato l’incarico per formare un nuovo gabinetto al 39enne Victor Ponta, già ministro per i rapporti con il parlamento tra il 2008 e il 2009 nonché leader del Partito Social Democratico (PSD) e del raggruppamento di opposizione Unione Sociale Liberale (USL).
Estremamente significative dell’atmosfera che pervade l’Unione Europea in questo frangente e del carattere anti-democratico delle classi politiche che la compongono sono state le parole di Basescu dopo la crisi di governo. Il presidente, dal quale ci si sarebbe aspettato un tentativo di rassicurare i cittadini romeni, ha affermato che venerdì “non è successo nulla di drammatico, questa è la democrazia”, perciò “i mercati finanziari non hanno motivo di cedere al panico”.
Il governo Ungureanu era stato formato ai primi di febbraio, succedendo a quello dell’allora premier Emil Boc, a sua volta dimessosi in seguito a settimane di massicce proteste popolari contro l’austerity. L’avvicendamento alla guida del paese non aveva in ogni caso determinato alcun cambiamento di rotta, dal momento che Ungureanu aveva subito promesso di proseguire le “riforme” del suo predecessore, così da riportare il deficit di bilancio della Romania al di sotto del 2% del PIL entro la fine del 2012, come richiesto dal Fondo Monetario Internazionale e dall’Unione Europea in cambio di un prestito concordato ma non ancora erogato.
La stessa messa in scena è stata proposta ai cittadini romeni nel fine settimana dal premier in pectore Victor Ponta, autodefinitosi di “estrema sinistra” ma subito impegnatosi con l’FMI e l’UE a rispettare gli impegni presi da Bucarest. Sabato, infatti, dalla città di Brasov, Ponta ha annunciato un prossimo vertice con il Fondo Monetario per esporre “la continuità e il progetto di governo che verrà presentato la settimana prossima”.
Ponta ha anche aggiunto che il suo nuovo governo non intende ridurre l’imposta sui consumi dal 24% al 19%, né modificare la “flat tax” ad aliquota unica (16%) in vigore, nonostante il programma del suo partito preveda il ritorno ad una tassazione progressiva.
Vista l’impopolarità del percorso intrapreso negli ultimi anni dai governi romeni, si prevede più di una difficoltà nel tentativo di Ponta di mettere assieme un nuovo esecutivo nei prossimi giorni. La coalizione guidata da Ponta controlla infatti appena 227 seggi sui 460 totali delle due camere che compongono il parlamento romeno.
Oltre ai tre partiti dell’USL - il PSD più il Partito Liberale Nazionale e il Partito Conservatore di centro-destra - il nascente governo dovrebbe essere sostenuto da alcuni parlamentari che rappresentano le minoranze etniche romene e il piccolo partito UNPR (Unione Nazionale per il Progresso della Romania) che fino a pochi giorni fa appoggiava il premier uscente Ungureanu.
Se gli sforzi di Ponta dovessero essere premiati, il suo gabinetto avrà, come i precedenti, vita difficile alla luce dei ristretti margini di manovra a sua disposizione per operare, dal momento che si troverà di fatto sotto la supervisione di FMI e UE. Così, il traguardo di novembre, scadenza naturale della legislazione e mese nel quale si terranno nuove elezioni, anche se vicino potrebbe essere molto difficile da raggiungere.
Gli ambienti finanziari internazionali hanno d’altra parte già iniziato a fare pressioni su Bucarest. Il Fondo Monetario ha fatto sapere di aver congelato le procedure per il pacchetto di aiuti pari a 5 miliardi di euro concordato nel marzo 2011 in attesa di un governo pronto a mettere in atto i propri diktat.
In una dichiarazione congiunta con l’UE, i cui rappresentanti erano proprio in questi giorni nella capitale romena per valutare il l’implementazione delle “riforme”, l’FMI ha detto di attendersi dalla Romania “il rispetto degli impegni di politica economica presi con i partner internazionali”, poiché “continue riforme strutturali rimangono essenziali per la ripresa e la crescita a lungo termine” del paese.
Dall’esplosione della crisi del debito, la Romania ha messo in atto drastici tagli alla spesa pubblica, congelato le pensioni, ridotto i salari dei dipendenti pubblici, licenziato migliaia di dipendenti statali, aumentato le tasse al consumo e dato il via libera a privatizzazioni selvagge, innescando come altrove una rovinosa recessione che ha causato un grave deterioramento delle condizioni di vita di milioni di persone.
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di Michele Paris
Il potente uomo politico giapponese Ichiro Ozawa è stato prosciolto qualche giorno fa dalle accuse di aver violato la legge locale sul finanziamento ai partiti. La sentenza emessa giovedì da un tribunale distrettuale di Tokyo getta le basi per il ritorno di Ozawa sulla scena politica nipponica e minaccia di destabilizzare ulteriormente il già impopolare governo in carica guidato dal suo compagno di partito, nonché rivale, Yoshihiko Noda.
Il 69enne Ozawa, vera e propria eminenza grigia del Partito Democratico (DPJ) al potere, nel corso di una carriera politica che dura da quattro decenni, ha frequentemente incontrato impedimenti sulla sua strada, spesso in momenti cruciali che sembravano dover segnare la sua definitiva consacrazione. Già segretario del Partito Liberal Democratico (LDP) conservatore, che ha governato il Giappone pressoché ininterrottamente dal dopoguerra al 2009, nei primi anni Novanta Ozawa formò un proprio movimento politico che sarebbe poi confluito nel DPJ di centro-sinistra nel 2003.
Le più recenti disavventure giudiziarie di Ichiro Ozawa erano iniziate nel maggio 2009, quando fu costretto a lasciare la carica di leader del Partito Democratico in seguito all’arresto di un suo collaboratore invischiato in un altro scandalo legato alla violazione della legge sul finanziamento ai partiti. Questo inconveniente giunse qualche mese prima dello storico voto del settembre 2009 che decretò la netta vittoria del DPJ, impedendo ad Ozawa di conquistare l’incarico di formare il nuovo governo. Alla carica di primo ministro venne nominato invece Yukio Hatoyama, politico facente parte della corrente all’interno del partito che fa capo allo stesso Ozawa.
Il potenziale prossimo ritorno alla politica attiva di quest’ultimo minaccia di generare nuova instabilità nella compagine di governo giapponese, proprio mentre il premier Noda è impegnato a cercare la difficile approvazione dell’aumento della tassa sui consumi all’8% nel 2014 e al 10% nel 2015 per contenere un gigantesco debito pubblico. La nutrita corrente del DPJ fedele a Ozawa, così come l’LDP che controlla la camera bassa del parlamento, è infatti contraria alla tassa e, alla luce del nuovo scenario creato con l’assoluzione di giovedì, promette di dare battaglia per farla naufragare e assestare un colpo letale a ciò che resta del prestigio del primo ministro.
Le profonde divisioni all’interno del Partito Democratico sono apparse in tutta la loro gravità anche alla luce delle differenti reazioni dei suoi leader alla sentenza. Se per il primo ministro l’assoluzione è una questione puramente giuridica, il segretario e numero due del DPJ, Azuma Koshiishi, ha subito annunciato di voler prendere provvedimenti per reintegrare Ozawa nel partito.
L’ennesima resa dei conti all’interno del DPJ è prevista per il prossimo mese di settembre, quando dovrà essere eletto il nuovo presidente del partito. Il voto ha implicazioni più ampie per il paese, dal momento che tradizionalmente in Giappone il leader del partito di maggioranza accede alla carica di primo ministro.
Il caso giudiziario risolto l’altro giorno era stato riaperto nel gennaio 2011 a carico di Ozawa, accusato di aver falsificato le dichiarazioni relative a finanziamenti al suo partito per l’importo di circa 5 milioni di dollari. Lo scorso febbraio un tribunale aveva però respinto alcune delle prove contro di lui perché raccolte illegalmente dall’accusa. Ciononostante, il procedimento, evidentemente motivato politicamente, era proseguito. Secondo molti osservatori, Ozawa era stato punito per aver cercato di riformare il sistema giapponese, in gran parte controllato da una potente burocrazia statale a scapito dei politici eletti.
Sulle disavventure di Ozawa e sulle conseguenti vicende dei governi succedutisi dal 2009 hanno pesato anche le questioni di politica estera. Ozawa e i suoi alleati nel DPJ, oltre a promuovere un’agenda economica che predilige misure di spesa per stimolare la crescita rispetto a politiche di rigore, auspicano infatti un certo avvicinamento diplomatico di Tokyo alla Cina, dal momento che rappresentano quei settori dell’élite nipponica che hanno beneficiato dei sempre più intensi rapporti commerciali tra i due paesi vicini.
Questa politica, avanzata dallo stesso ex premier Hatoyama, aveva suscitato più di una preoccupazione negli Stati Uniti, i quali proprio a partire dall’ingresso di Obama alla Casa Bianca nel 2009 hanno decretato un cambiamento delle priorità strategiche americane, con al centro dell’attenzione l’Estremo Oriente in funzione di contenimento di Pechino. Questa svolta epocale decisa a Washington presuppone perciò una partnership sempre più stretta con i tradizionali alleati asiatici, a cominciare da paesi come Corea del Sud e, appunto, Giappone.
Anche per questo motivo, dunque, il governo Hatoyama ebbe vita breve, tanto che il premier vicino a Ozawa finì per dimettersi nel giugno del 2010 in seguito al mancato mantenimento della promessa di chiudere la base militare americana di Okinawa. Dopo Hatoyama, la fazione guidata da Ozawa fu messa in minoranza all’interno del Partito Democratico e perse le due successive sfide interne per la nomina dei successori alla guida del governo, Naoto Kan e, dal settembre 2011, Yoshihiko Noda.
Il nuovo rimescolamento delle carte nel panorama politico giapponese lascia intravedere tuttavia un possibile nuovo ribaltone nel paese del Sol Levante, sul cui governo del prossimo futuro influiranno in maniera determinante i nuovi equilibri all’interno del DPJ, a loro volta determinati, sul fronte interno, dagli obiettivi contrastanti dei grandi interessi economici nipponici e, su quello estero, dalla crescente rivalità tra Cina e Stati Uniti.
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di Michele Paris
In risposta alla richiesta della CIA, l’amministrazione Obama ha concesso l’altro giorno maggiore discrezione nell’impiego dei droni in Yemen alla principale agenzia di intelligence americana e al comando delle operazioni speciali (Joint Special Operations Command, JSOC). La decisione presa dalla Casa Bianca sanziona l’impegno sempre maggiore degli Stati Uniti in questo paese della penisola arabica, consentendo l’implementazione di regole più blande nella gestione degli attacchi mirati contro presunti terroristi affiliati ad Al-Qaeda.
La richiesta alla Casa Bianca e al Consiglio per la Sicurezza Nazionale, come aveva rivelato la settimana scorsa un servizio speciale del Washington Post, era stata sottoposta dal direttore della CIA, generale David Petraeus, già promotore dell’escalation delle operazioni condotte sotto copertura dalle forze speciali a stelle e strisce in Afghanistan e in Pakistan.
I cambiamenti alle linee guida per le incursioni dei droni in Yemen prevedono in primo luogo la possibilità di colpire presunti militanti islamici di cui gli USA non conoscono nemmeno l’identità, come avviene appunto nelle aree tribali del Pakistan. La CIA e il JSOC avevano chiesto in realtà una discrezione ancora più ampia, così da ottenere mano libera per portare a termine i cosiddetti “signature strikes”, secondo i quali i bombardamenti con i droni sono consentiti sulla sola base di informazioni che indicano “una rete di comportamenti sospetti”.
La Casa Bianca aveva sempre rifiutato di concedere una simile autorizzazione, chiedendo alla CIA e alle forze speciali di limitarsi ad assassinare i militanti presenti sulle liste in loro possesso e che minacciano di portare a termine attentati terroristici in territorio americano. L’amministrazione Obama ha ora invece acconsentito parzialmente all’istanza, escludendo da future operazioni mirate solo alcuni potenziali bersagli, come i militanti di basso livello e i depositi di armi.
La distinzione tra affiliati di spicco ad organizzazioni integraliste e membri di secondaria importanza appare in ogni caso difficile da rispettare, dal momento che saranno ora possibili attacchi contro persone di cui non si conosce il nome basandosi su informazioni facilmente manipolabili relative al loro comportamento.
I presunti terroristi, inoltre, sono soprattutto guerriglieri armati, non necessariamente facenti parte di gruppi integralisti, che si battono contro il governo centrale, anche se Washington e i media americani continuano a sottolineare il pericolo proveniente dai militanti yemeniti per la sicurezza nazionale degli USA. Per questo motivo, il rischio che gli Stati Uniti finiscano per prendere parte, ovviamente a favore del governo, a quella che sta emergendo sempre più come una vera e propria guerra civile in Yemen, appare estremamente probabile.
Secondo alcune stime, negli ultimi tre anni gli americani hanno condotto una trentina di incursioni con i droni in Yemen, uccidendo 250 persone. Fino ai cambiamenti di pochi giorni fa, la CIA e il JSOC individuavano le proprie vittime scegliendole da una lista nera, su cui peraltro i presunti militanti finiscono senza passare attraverso un procedimento legale legittimo e senza che vengano rese note pubblicamente le prove della loro affiliazione ad un’organizzazione terroristica.
L’attenuazione delle regole relative all’uso dei droni renderà così ancora più probabile l’assassinio indiscriminato non solo di presunti militanti la cui colpevolezza di un qualche crimine è tutta da dimostrare, ma anche e soprattutto di civili. Questi ultimi sono già stati spesso il bersaglio delle incursioni americane, rendendole estremamente impopolari tra gli yemeniti, tanto che, come avevano rivelato alcuni cablo diffusi da WikiLeaks, il governo centrale nel recente passato si era assunto le responsabilità delle operazioni anti-terrorismo con i droni condotte in realtà dagli USA per evitare di scatenare proteste o rivolte nel paese.
La discrezione garantita all’intelligence e alle forze speciali americane è comunque già considerevole, come conferma un attacco con un drone effettuato domenica scorsa. Quest’ultimo blitz ha colpito un veicolo che gli Stati Uniti ritenevano stesse trasportando membri di Al-Qaeda, anche se i vertici della CIA hanno fatto sapere di essere ancora al lavoro per identificare le persone assassinate.
La svolta nell’impiego dei droni in Yemen è stata accuratamente preparata negli ultimi mesi da un’incessante propaganda sui media d’oltreoceano, impegnati a descrivere una inarrestabile espansione in questo paese delle attività di Al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP), in particolare nelle regioni meridionali dove il controllo governativo è tradizionalmente blando. In questa campagna mediatica un ruolo fondamentale era stato attribuito al predicatore nato in America Anwar al-Awlaki, accusato di aver organizzato una serie di attentati terroristici falliti e ucciso proprio da un drone nel settembre dello scorso anno.
L’impegno americano in Yemen è giustificato in gran parte dall’importanza strategica di questo paese, situato in una posizione cruciale per le rotte commerciali (petrolio in particolare) che passano attraverso il Canale di Suez. Per questo motivo, l’esplosione delle proteste popolari lo scorso anno contro il regime dell’ormai ex presidente, Ali Abdullah Saleh, avevano spinto gli USA ad intensificare il proprio coinvolgimento nelle vicende yemenite, in modo da non perdere il controllo su un alleato così cruciale.
Dopo mesi di complicate trattative, Washington e le monarchie assolute del Golfo Persico un paio di mesi fa sono riuscite a negoziare le dimissioni di Saleh, orchestrando una transizione farsa, suggellata da nuove elezioni presidenziali a cui ha partecipato un solo candidato, l’ex vice-presidente Abd Rabbuh Mansour Hadi, ora alla guida del paese.
Secondo quanto riportato mercoledì dal Wall Street Journal, gli Stati Uniti avrebbero esercitato enormi pressioni sul governo di Sana’a per convincerlo ad accettare le nuove condizioni d’impiego dei droni sul suo territorio. Il regime yemenita, invece, intendeva limitarne il più possibile l’utilizzo per evitare di suscitare nuove protese nel paese, tanto più che, come ha fatto notare la fonte anonima del quotidiano newyorchese, “tutti gli yemeniti sono armati, perciò come è possibile distinguere un sospetto militante da un civile armato ?”.
Questo aspetto della società dello Yemen rende dunque estremamente rischiosa la nuova politica USA sui droni, dal momento che ogni incontro tra persone armate in ogni angolo del paese potrebbe virtualmente diventare il bersaglio di un attacco aereo.
Il nuovo governo dello Yemen, in ogni caso, ha alla fine dato il via libera alla CIA e al JSOC, anche perché l’intensificazione della campagna americana aiuterà in maniera decisiva il regime a colpire i movimenti indipendentisti e i gruppi islamici che contribuiscono alla destabilizzazione del paese più povero dell’intero mondo arabo.
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di Mario Braconi
Lo stato confusionale in cui versa il partito conservatore britannico è ben fotografato dalla condotta incredibile di uno dei suoi rappresentanti più in vista, la responsabile dell’Home Office Theresa May. La Signora May, che recentemente sta attirando l’attenzione dei media con la sua simpatia per le deportazioni o estradizioni (stranieri o britannici), incarna la difficoltà del partito conservatore ad accettare la legittimità di una istituzione come la Corte Europea dei Diritti Umani. E’ evidente infatti che l’anima euroscettica del partito di Cameron ritiene la questione della tutela dei diritti umani una faccenda superata.
Basta leggere quanto scrive sulla sua colonna sul Telegraph l’euro(!)deputato conservatore britannico Daniel Hannah, che dal suo comodo (e lautamente remunerato) scranno a Bruxelles fieramente sostiene la causa del “localismo” e del liberalismo (estremo) contro le perniciose “tendenze socialiste” dell’euro-burocrazia: “La Convenzione Europea [dei diritti umani] probabilmente un tempo poteva avere un senso: è stata infatti stesa dopo la seconda guerra mondiale, in un momento storico in cui vi era la comprensibile determinazione a garantire i diritti in stati che stavano emergendo dalla tirannide”. Segue una grottesca esemplificazione dei soggetti che hanno potuto avvantaggiarsi di quelle che ad Hannah sembrano solo assurde regole europee che turbano lo “splendido isolamento” dell’Isola: “terroristi della IRA, [...], clandestini che si appellano regolarmente alla convenzione per evitare di essere deportati, incarcerati pagani che pretendono di poter utilizzare in carcere i rametti necessari ai loro rituali, o persone ristrette che desiderano accedere a trattamenti di stimolazione della fertilità.”
Se quanto sostiene Hannah (che si ritiene un “immigrato”, essendo nato in Perù) è una buona approssimazione della linea dei suoi colleghi di partito sui temi dei diritti umani e dei diritti in generale (che dovrebbero essere cari ad un partito di destra rispettabile), viene da domandarsi se esista ancora qualche incrostazione di liberalismo dalle parti dell’attuale partito conservatore britannico … Non si tratta solo del riflesso condizionato anti-europeista dei politici conservatori; a mandare in tilt Cameron e May qui c’è un caso specifico, con un nome ed un cognome: Abu Qatada al-Filistini, un palestinese con cittadinanza giordana.
Abu Qatada, il cui vero nome è Omar Othman, arriva nel Regno Unito con la sua famiglia nel 1993. Essendo vittima di persecuzioni religiose, nonché di episodi di tortura ad opera delle autorità giordane, Qatada chiede asilo politico. Nel 1994 gli viene riconosciuto lo status di rifugiato e consentito di rimanere a Londra, dove le sue credenziali di ulama salafita ti lo rendono una specie di star della predicazione estremistica islamica. Nel 2001 Qatada ha emanato delle direttive nelle quali giustificava gli attacchi suicidi contro i nemici dell’Islam: sembra provato che Qatada abbia fatto da “padre spirituale” ad alcuni terroristi islamici con larga esposizione mediatica (Richard Reid, il terrorista dalla scarpa esplosiva, e Zacarias Moussaoui, la “riserva” dell’equipaggio l’11 settembre 2001 trasformò New York nell’inferno), mentre nel corso di una perquisizione dell’abitazione dell’ulama sarebbero state rinvenute una notevole somma in contanti (oltre 170.000 sterline) ed una busta contenente poco meno di 1.000 sterline pronta per essere destinata ai “compagni mujahideen ceceni”.
La cosa curiosa è che le autorità giudiziarie britanniche non hanno ritenuto di muovere a Qatada accuse formali. Tuttavia, come ricorda Dominic Casciani, corrispondente della BBC per gli Interni, poco prima dell’approvazione dell’assai discutibile legge Anti-terrorism, Crime and Security Act 2001 (che introduceva la possibile detenzione a tempo indeterminato senza incriminazioni, né processo a carico di cittadini stranieri “sospettati” di terrorismo), Qatada sparisce. Viene rintracciato in una casa popolare a Londra Sud, arrestato ed incarcerato in una struttura di massima sicurezza.
Non appena la sua detenzione viene dichiarata illegale da un tribunale londinese, e Qatada confinato agli arresti domiciliari, arriva la richiesta di estradizione dalla Giordania, dove egli è stato dichiarato colpevole in contumacia di un attacco terroristico. Inizia così il lungo incubo di Cameron e May, decisi a tutto pur di liberarsi del fardello rappresentato dal predicatore estremista. A metà gennaio di quest’anno, una corte britannica ha stabilito che Qatada non poteva essere deportato in Giordania dal momento che questo atto costituirebbe una palese “negazione di giustizia”: in effetti nel processo che dovrebbe essere celebrato a suo carico nel paese mediorientale, verrebbero usate delle “prove” a suo carico estorte a suo tempo mediante tortura.
La farsa arriva al clou quando, lo scorso martedì, una eccitatissima Theresa May annuncia in Parlamento il nuovo arresto di Qatada e la riattivazione della sua pratica di deportazione in Giordania: i tempi tecnici consentiti a Qatada per fare un ulteriore appello alla Corte Europea dei Diritti Umani (tre mesi) sono scaduti senza azioni da parte del sospettato e quindi la signora May pensa bene di cantare vittoria. Ma il diavolo è nei dettagli, come si dice in Inghilterra: gli avvocati di Qatada presentano l’appello alle ore 23 del 17 aprile, ovvero un’ora prima della mezzanotte, proprio mentre, per colmo di sventura politica, Theresa May sta folleggiando ad un party un personaggio di una serie televisiva molto popolare.
La corte dà per regolarmente ricevuta la richiesta di appello, dal momento che ritiene che la scadenza effettiva sia da considerarsi la mezzanotte del 17 e non la mezzanotte del 16. Un pasticcio. Se solo May avesse aspettato un giorno in più, le cose forse sarebbero andate diversamente. Ora invece, fino a quando la Corte Europea non si sarà pronunciata, non solo è escluso che Qatada venga deportato in Giordania, ma è altamente probabile che la Corte Europea chieda alla Giustizia britannica di alleggerire le modalità di detenzione di Qatada, attualmente ospite di un carcere di massima sicurezza (ancora senza accuse e senza processo).
Che Theresa May sia un personaggio di un’incompetenza pericolosa è un fatto: basti pensare alla leggerezza con la quale ha firmato l’ordine di estradizione negli USA di Richard O'Dwyer, dove lo attendono l’incarcerazione preventiva e una possibile detenzione di oltre dieci anni: il tutto per aver costruito, nel Regno Unito, un sito che faceva da aggregatore di link dai quali si poteva scaricare gratuitamente materiale coperto da copyright. Ma nel caso Qatada non è escluso che vi sia sotto qualcosa d’altro.
In effetti, come osserva giustamente Richard Norton-Taylor sul Guardian, è quantomeno curioso che il governo inglese si opponga in modo così strenuo alla celebrazione di un processo a Qatada in Gran Bretagna. In fondo, grazie alle leggi “per la sicurezza” varate dal 2001 e in poi, la predicazione violenta dell’ulama sarebbe già sufficiente per configurare la commissione di un reato. E non si può dire che Qatama abbia tenuto per sé le sue idee incendiarie: con giornalisti e giudici a più riprese si è espresso a favore della violenza contro i civili in un contesto di “guerra santa”. Norton-Taylor suggerisce a mezza bocca che lo MI5 si starebbe adoperando in tutti i modi per evitare un processo per timore che in un procedimento legale possa venire fuori qualcosa di poco gradevole: nel lontano 2001, infatti, si è parlato di un possibile reclutamento di Qatama da parte dei servizi segreti.
Effettivamente i tempi e modi della sparizione del predicatore (proprio nel momento in cui sarebbe stato incastrato) da una nuova legge fanno pensare: così come interessante appare il fatto che entrambi i terroristi che sembrerebbe siano entrati in contatto con il palestinese siano stati poi arrestati. Con un po’ di malizia, si potrebbe ipotizzare che Qatama sia stato sfruttato finché utile e che adesso “qualcuno” abbia deciso che sia giunto il momento di abbandonarlo al suo destino. E che però questo qualcuno non abbia tenuto nella corretta considerazione la scarsa voglia di Qatama di farsi una vacanza in qualche prigione giordana.