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di Fabrizio Casari
Diciassette anni dopo Francoise Mitterrand, Francois Hollande, socialista, è il nuovo Presidente della Repubblica francese, avendo battuto al ballottaggio il Presidente uscente Sarkozy, tra i peggiori capi di Stato della storia moderna d’Oltralpe. Un risultato che era prevedibile sia in virtù dei sondaggi, sia perché mai era accaduto che il presidente uscente fosse uscito dal primo turno elettorale in svantaggio nei confronti dello sfidante.
A nulla sono valse le sue bassezze elettorali, quali l’agitare lo spettro dell’isolamento francese in Europa, indicando nei mercati internazionali i primi avversari delle tesi socialiste e della stessa persona di Hollande, prefigurando sciagure finanziarie per i Transalpini.
L’inquilino - ora sfrattato - dell’Eliseo, nella disperata rincorsa ai voti dell’estrema destra, aveva apertamente dichiarato di voler assumere alcuni dei temi agitati dai lepenisti come agenda politica per il prossimo mandato, violando così la tradizione repubblicana gaullista che mai aveva avuto tentennamenti nei confronti della destra, sapendo discernere con nettezza le politiche conservatrici da quelle apertamente reazionarie.
Sarkozy, dunque, ha pagato amaramente sia il suo narciso egocentrismo, sia aver rotto il patto costituzionale storico francese, che impone la salvaguardia dei valori repubblicani nati dalla guerra di liberazione dal nazifascismo.
Alcuni degli analisti e dei commentatori rilevano come, dal momento che la somma dei voti al primo turno ha mostrato una maggioranza di destra nell’elettorato francese, più che la vittoria di Hollande la Francia abbia voluto sconfiggere Sarkozy. A riprova di questa tesi si ricorda che i conservatori, forti del 9% dei voti, abbiano detto sin dal giorno successivo al primo turno che non avrebbero dato indicazioni di voto per Sarkozy ed è anche vero che la stessa Le Pen ha rifiutato d’indicare in Sarkozy un’ipotesi di voto per il suo elettorato. Il disprezzo per l’ex inquilino dell’Eliseo ha indubbiamente attraversato il paese intero.
Ma ritenere questi gli elementi decisivi sarebbe limitato: sostenere che il mancato appoggio dell’elettorato reazionario francese sia la causa dell’esito finale, quindi in sostanza affermare che Hollande abbia vinto solo perché Sarkozy ha perso, è una lettura errata, aritmetica e non politica.
Una lettura tende ad “italianizzare” la Francia, giacché si fonda sul paradigma solo italiano che somma l’accozzaglia neofascista con la destra e il centro-destra pur di veder prevalere lo schieramento reazionario e conservatore, mentre in Francia ciò non è realizzabile. La sommatoria dei voti resta numerica, non diventa politica: in Francia non sono sommabili i due elettorati e le due leadership (conservatori e reazionari), mentre lo sono (purtroppo) in Italia.
Sarkozy ha perso perché ha esibito uno stile di governo di scarsa eleganza, che ha caratterizzato la sua corte con gossip, tradimenti, voltafaccia, corruzione e un livello privo di profilo presidenziale nell’agire politico e personale, che ha spesso sovrapposto il grottesco della sua figura personale con il ruolo austero di quella istituzionale (ricorda qualcuno?). Sul piano delle scelte politiche, poi, ancora peggio: è stato l’interprete di una linea di politica economica e sociale priva di respiro e autonomia, avendo letteralmente sposato le tesi tedesche sull’Europa e consegnato il paese alle unghie del rapace teutonico. Il prezzo della guerra elettorale di Libia ha poi svelato l’ambizione e la disperazione dell’ex-presidente e il tentativo di scaricare anche il suo ex-sodale e amico, Berlusconi, ha solo offerto un’ulteriore lettura dell’opportunismo e del cinismo del marito di Carla Bruni.
Hollande ha caratterizzato il suo programma con la proposta di patrimoniale, la difesa del salario minimo e dell’indennità di disoccupazione, la volontà di non rimanere inerti di fronte alla speculazione finanziaria, disegnando in senso progressista il programma di governo e rimettendo al centro del dibattito politico la Francia e non solo l’Europa. Convinto di dover improntare il suo programma elettorale al recupero della dimensione centrale del welfare nel sistema economico e nella promessa di riformare le linee rigoriste dell’impianto ideologico europeo, il neo presidente socialista si è detto convinto di dover ristabilire la relazione con Berlino quale asse centrale delle politiche europee, ma riequilibrando i pesi specifici tra i due paesi e imponendo un significativo cambio di rotta che metta al centro la crescita economica in luogo della centralità esclusiva di quella finanziaria.
La vittoria di Hollande avrà comunque dei riflessi importanti nello scenario internazionale. Le tendenze sempre più forti ad una revisione sostanziale delle linee del patto finanziario europeo, uniscono infatti una parte cospicua dell’elettorato europeo e sono decisamente sostenute dagli Stati Uniti, che insieme ai paesi del BRICS imputano ormai alle politiche della BCE una minaccia gravissima alla stabilità ed alla ripresa del ciclo economico internazionale.
E' poi un’autentica doccia fredda per la signora Merkel, che deve affrontare le elezioni odierne in alcuni Leander non semplici e che si trova ormai con lo spettro delle politiche che potrebbero decretare la fine del suo regno; intanto la notizia che arriva dalla Francia dice chiaro che non disporrà più di un cameriere all’Eliseo.
E, tornando a Parigi, tra circa un mese le legislative determineranno sia maggioranza e minoranza parlamentare che la compagine governativa, ma risentiranno certamente della crisi dei conservatori che, da oggi, si apre in tutta la sua ampiezza. D’altra parte il peso che la sinistra del Front de Gauche e dei Verdi (che hanno votato in massa per Hollande) otterranno nelle legislative sarà decisivo per il sostegno ai socialisti, che s’immagina possano ricevere un ulteriore spinta dalla vittoria nelle presidenziali.
Sarkozy, nel confronto televisivo che l’aveva opposto al suo sfidante, aveva sostenuto che la Francia non aveva bisogno di un presidente “normale”, con cìò indicando come il leader socialista fosse privo di brillantezza e autorevolezza necessarie per guidare il paese. Ma l’elettorato francese ha invece dimostrato che la congiuntura internazionale deve riprendere a camminare su due gambe: quella che poggia sul recupero di sovranità economica e politica della Francia, in una logica europea basata sulla Carta di Roma più che sul Trattato di Lisbona e l’altra fondata su uno stile di governo ed una moralità che sappiano indicare sobrietà e giustizia sociale nella distribuzione dei carichi di sacrifici. Un Presidente “normale” è dunque necessario per il futuro, tanto quanto era necessario archiviare una macchietta che volle farsi re.
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di Michele Paris
Gli elettori greci che si recheranno alle urne domenica per scegliere il nuovo parlamento si apprestano con ogni probabilità ad infliggere una severa lezione ai principali partiti politici che hanno applicato le politiche di austerity dettate dagli ambienti finanziari internazionali, gettando il paese in una situazione a dir poco disastrosa. Nell’imminente voto anticipato, la Nuova Democrazia (ND) e, soprattutto, il Partito Socialista (PASOK) andranno così incontro ad un vero e proprio tracollo, a tutto beneficio delle formazioni politiche estreme di destra e di sinistra che in questa campagna elettorale hanno alimentato l’illusione di un percorso alternativo per il paese europeo maggiormente colpito dalla crisi del debito.
I più recenti sondaggi assegnano al PASOK un consenso più che dimezzato rispetto al 2009, quando vinse le elezioni con il 44% dei voti. Meno pesante dovrebbe essere invece il calo dell’ND di centro-destra, attestato attorno al 22% contro il 33% di tre anni fa. I due più importanti partiti greci pagano ovviamente il loro sostegno all’attuale governo tecnico guidato dall’ex governatore della Banca Centrale, Lucas Papademos, succeduto nel novembre dello scorso anno al leader del PASOK, George Papandreou, già scrupoloso esecutore delle misure draconiane richieste da Unione Europea e Fondo Monetario Internazionale in cambio del cosiddetto “piano di salvataggio”.
In netta crescita appaiono al contrario i partiti di opposizione della sinistra che approfitteranno dell’emorragia di voti del PASOK - Coalizione della Sinistra Radicale (SYRIZA), Partito Comunista Greco (KKE) e Fronte della Sinistra Anti-Capitalista (ANTARSYA) - e della destra, su cui convergerà parte degli elettori dell’ND ma anche del Raggruppamento Popolare Ortodosso (LAOS) di estrema destra, anch’esso facente parte della coalizione che appoggia il premier Papademos.
I due partiti della destra greca in ascesa sono i Greci Indipendenti, una formazione creata recentemente da fuoriusciti dell’ND, e il movimento neo-nazista Alba Dorata, accreditato dai sondaggi di circa il 5%. Complessivamente, si prevede che saranno una decina i partiti in grado di superare la soglia di sbarramento del 3%, facendo nascere il parlamento greco più frammentato dalla fine del regime militare nel 1974.
Il primo partito dopo le elezioni di domenica dovrebbe dunque tornare ad essere la Nuova Democrazia ma, secondo le previsioni, il suo leader Antonis Samaras, per diventare primo ministro, dovrà accontentarsi di formare una scomoda alleanza di governo con il PASOK. Insieme, i due partiti potrebbero sfiorare quota 40%, forse abbastanza per ottenere la maggioranza in parlamento, dal momento che la legge elettorale greca prevede un premio di 50 seggi per il partito che raccoglie più voti.
I vertici dell’ND hanno però già fatto intendere di non essere particolarmente entusiasti di entrare in una nuova coalizione con il PASOK, che si baserebbe peraltro su un una maggioranza risicata e su un partito di centro-sinistra gravemente screditato dall’esito elettorale. L’altra ipotesi sarebbe quella di un’alleanza che includa i partiti minori, magari tra il PASOK e le sinistre, la quale darebbe vita in ogni caso ad un governo ugualmente instabile e precario.
Per questa ragione, molti leader politici greci, soprattutto dell’ND, parlano già apertamente di altre elezioni entro pochi mesi, qualcuno addirittura già a giugno, se non si riuscirà a mettere assieme una maggioranza stabile. L’aspirazione dell’ND sarebbe appunto di ottenere una chiara vittoria in un secondo round elettorale nel 2012, così da formare in autonomia un governo che continui ad ubbidire prontamente all’UE e all’FMI, contrariamente alla volontà espressa in maniera chiara dalla vasta maggioranza della popolazione greca.
Che le vie alternative per Atene dopo il voto non siano molte è reso evidente dalle scadenze fissate dalla troika (UE, FMI, BCE) con cui il governo Papademos ha raggiunto l’accordo per il prestito da 173 miliardi di euro lo scorso marzo. In una situazione di impoverimento diffuso, di gravissima recessione e con una disoccupazione ufficialmente al 14%, la Grecia dovrà infatti tagliare la propria spesa pubblica di altri 11,5 miliardi di euro entro giugno. Anche un eventuale nuovo esecutivo formato da forze attualmente all’opposizione, che si dicono contrarie all’austerity o che chiedono di rinegoziare l’accordo con UE/FMI, sarebbe perciò esposto ad enormi pressioni da parte degli ambienti finanziari internazionali per ritrattare in fretta le promesse elettorali.
Come ha significativamente scritto ieri il Wall Street Journal, se la Grecia non avrà un governo stabile e pronto a mettere in atto ulteriori privatizzazioni, tagli alla spesa e licenziamenti nel settore pubblico, l’Unione Europea e il Fondo Monetario potrebbero sospendere gli aiuti finanziari, aggravando la crisi politica e sociale nel paese con conseguenze sull’intera unione monetaria.
A ribadire l’accoglienza riservata ad un eventuale gabinetto che mostrerebbe anche solo qualche esitazione nel rispettare gli impegni internazionali è stata, ad esempio, una recente analisi di Bank of America citata sempre ieri dalla Reuters, nella quale si afferma che “la paralisi politica in Grecia dopo le elezioni potrebbe portare al default e addirittura all’uscita dall’euro”. Per questo, continua il documento della banca statunitense, “crediamo che la troika non potrebbe avere altra scelta che congelare i fondi diretti alla Grecia se non ci sarà un governo stabile”.
Inoltre, visto che Atene nel recente passato ha più volte mancato alcuni degli obiettivi di rigore imposti da UE/FMI, in molti ritengono che da parte di questi ultimi ci sarebbe ora ancora meno tolleranza verso leader greci intenzionati a rinegoziare l’accordo, anche per evitare un destabilizzante effetto domino in altri paesi europei dove, come in Grecia, le politiche di austerity sono estremamente impopolari.
Come esempio della sorte a cui andrebbe incontro un governo democraticamente eletto che manifestasse l’intenzione di discostarsi dai diktat di Unione Europea e Fondo Monetario, per quanto riguarda la Grecia, c’è d’altra parte quello del gabinetto Papandreou. Quando il leader del PASOK lo scorso ottobre annunciò un possibile referendum popolare sul pacchetto di salvataggio da poco approvato a livello europeo, venne infatti travolto dalle critiche e fu costretto a dimettersi di lì a pochi giorni.
In definitiva, anche se i media occidentali continuano a ipotizzare che un’affermazione delle forze di sinistra ad Atene, assieme ad una eventuale vittoria nelle presidenziali francesi del candidato socialista François Hollande, potrebbe produrre un ripensamento generale delle politiche di rigore, le pressioni e i ricatti dei mercati finanziari farebbero in modo, tutt’al più, di limitare i cambiamenti a qualche concessione di secondaria importanza, lasciando sostanzialmente invariato il drammatico quadro generale nei paesi europei più in difficoltà come la Grecia.
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di Michele Paris
Il giorno del Primo Maggio, in concomitanza con una serie di manifestazioni di protesta in varie città americane, le autorità federali hanno incriminato formalmente cinque presunti anarchici accusati di aver pianificato un attentato terroristico nella città di Cleveland, nell’Ohio. Il caso giudiziario è però solo il risultato dell’ennesima operazione montata interamente dall’FBI che, con metodi ormai consolidati, ha incastrato un gruppo di giovani disturbati i quali, da soli, con ogni probabilità non avrebbero mai rappresentato alcuna minaccia per la sicurezza del paese.
L’operazione orchestrata dagli agenti federali statunitensi ruota attorno alla figura di un informatore sotto copertura, assoldato dall’FBI fin dal luglio 2011 e infiltrato tra i dimostranti del gruppo di protesta Occupy Cleveland lo scorso autunno per indagare su potenziali attività criminali da parte di membri anarchici.
I cinque giovani presi nella rete dell’FBI hanno un’età tra i 20 e i 35 anni e, secondo quanto riportato dai media locali, alcuni di loro soffrono di disturbi mentali. Da quanto si evince dalla dichiarazione giurata dell’ufficio dell’FBI di Cleveland, l’anonimo informatore ha invece vari crimini alle spalle e alcune condanne per possesso di cocaina, rapina ed emissione di assegni a vuoto. Il compenso passatogli dai federali per i suoi servizi nell’operazione ammonterebbe a 5.750 dollari, più altri 550 dollari come rimborso delle spese sostenute.
Come è frequentemente accaduto nel recente passato e da quanto emerge dalle carte ufficiali, l’FBI continua dunque a fare affidamento su informatori con un profilo simile, i quali per evitare condanne dure e in cambio di soldi accettano di partecipare a questo genere di operazioni che si basano sull’invenzione di gravi crimini che, diversamente, mai vedrebbero la luce.
I cinque arrestati compariranno davanti ad un tribunale federale lunedì prossimo per far fronte ad accuse di cospirazione e tentativo di far esplodere una struttura di proprietà pubblica. Nel corso del procedimento, un ruolo chiave verrà giocato proprio dall’informatore dell’FBI, il cui comportamento fin troppo zelante è già stato messo in discussione dai legali della difesa.
In ogni caso, gli imputati rischiano fino a 25 anni di carcere, nonostante i documenti ufficiali evidenzino come le conversazioni avvenute tra di essi e l’informatore infiltrato durante i primi contatti abbiano comportato più che altro semplici scambi di battute sulla possibilità di far esplodere ordigni rudimentali contro edifici della città dell’Ohio, così da “mandare un messaggio alle corporation e al governo degli Stati Uniti”.
Queste ipotesi articolate dai cinque giovani sono state utilizzate dall’informatore sotto copertura per convincerli ad acquistare ed utilizzare materiale esplosivo che egli stesso sarebbe stato in grado di procurare. L’uomo dell’FBI avrebbe anche indicato il bersaglio da colpire, un ponte situato nel Cuyahoga Valley National Park, a sud di Cleveland. A questo scopo avrebbe accompagnato i cinque con la propria auto presso il ponte per un sopralluogo, facendo loro credere di avere un contatto affidabile per il reperimento dell’esplosivo necessario.
L’informatore ha inoltre fatto pressioni sui cinque accusati per accelerare i tempi e mettere in atto l’attentato al più presto, anche se uno di loro avrebbe in un’occasione affermato che le loro discussioni sull’uso di materiale esplosivo non comportavano nulla di certo e il gruppo ancora non sapeva come muoversi.
Alla fine, i presunti cospiratori hanno acquistato l’esplosivo da un agente FBI sotto copertura assieme ai dispositivi per la detonazione. I cinque avrebbero così tentato senza successo di far saltare il ponte e lunedì sera sono stati arrestati a bordo di un auto vicino al luogo prescelto per l’attentato.
Nelle trascrizioni delle conversazioni registrate dall’informatore emerge chiaramente come sia stato quest’ultimo il vero promotore della finta cospirazione, mentre i cinque malcapitati non avrebbero avuto la volontà né la capacità di organizzare un simile attentato. Oltretutto, la sicurezza degli abitanti di Cleveland non è mai stata in pericolo, dal momento che l’FBI ha avuto il controllo della vicenda durante l’intera operazione.
Il messaggio intimidatorio inviato con l’arresto dei cinque giovani da parte dell’FBI ai gruppi di protesta è stato recepito immediatamente. Infatti, i leader di Occupy Cleveland, oltre a prendere le distanze dagli imputati, hanno revocato la manifestazione prevista in città per il Primo Maggio.
Questo genere di operazioni condotte dall’FBI negli Stati Uniti in questi anni hanno quasi sempre ruotato attorno a cittadini musulmani, spesso con seri problemi alle spalle, coinvolti in attentati terroristici del tutto immaginari.
Così come i musulmani sono stati presi di mira non per comportamenti criminali, bensì esclusivamente per la loro fede religiosa, ora il governo americano sembra aver inaugurato una nuova campagna per colpire il dissenso interno.
Mentre nel caso di potenziali quanto improbabili criminali islamisti la messa in atto di simili operazioni serve ad alimentare nella popolazione americana la paura di possibili atti terroristici e, di conseguenza, giustificare le aberrazioni della “guerra al terrore”, il recente caso degli anarchici di Cleveland mostra chiaramente come Washington intenda ora utilizzarle contro le voci critiche delle politiche governative, suscitando infondati timori per una fantomatica rete eversiva interna.
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di Michele Paris
Da un paio di giorni, il Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, e il suo collega del Tesoro, Tim Geithner, hanno iniziato una delicata visita in Cina in occasione dei colloqui bilaterali annuali sulle questioni economiche e della sicurezza. Sul vertice di quest’anno pesano non solo le crescenti provocazioni statunitensi nel sud-est asiatico, ma anche il più recente scontro diplomatico causato dalla fuga del dissidente cinese Chen Guangcheng dagli arresti domiciliari e tenuto per sei giorni sotto protezione dell’ambasciata USA a Pechino.
Al centro delle discussioni ci saranno principalmente le questioni internazionali più calde (Corea del Nord, Iran e Siria) e quelle spinose relative ai rapporti commerciali tra le prime due economie del pianeta. La retorica di Washington su questi ultimi temi ha fatto peraltro registrare da qualche tempo un parziale abbassamento dei toni, in particolare in seguito al sensibile aumento delle esportazioni americane verso la Cina e ad una certa rivalutazione dello yuan nei confronti del dollaro decisa dalle autorità di Pechino.
Nonostante le crescenti rivalità, dettate dai divergenti interessi strategici, l’intreccio degli interessi economici dei due paesi fa in modo che il percorso intrapreso dalla leadership cinese in questo ambito sia visto con estremo favore a Washington. I vertici del Partito Comunista, impegnati tra qualche mese in un processo di ricambio all’interno degli organi dirigenti, stanno infatti lanciando svariati segnali della loro volontà di aprire ulteriormente l’economia cinese al mercato, consentendo maggiore competitività e avviando verso la privatizzazione alcune grandi aziende e colossi finanziari ancora in mano pubblica.
Questa trasformazione, che accentuerà il già enorme divario tra un’élite privilegiata e la vasta maggioranza della popolazione, ha ricevuto un forte impulso dalla recente purga ai danni del popolare membro del partito Bo Xilai, già governatore della provincia di Chongqing ed ex candidato ad entrare nel Comitato Permanente del Politburo, la cui promettente carriera è stata stroncata dal coinvolgimento con la moglie nella morte misteriosa di un uomo d’affari britannico.
La crisi politica provocata dal caso di Bo Xilai, esponente di spicco della “nuova sinistra” di ispirazione maoista, era stata innescata dal tentativo del suo collaboratore e capo della polizia di Chongqing, Wang Lijun, di cercare asilo politico negli Stati Uniti. In un altro caso imbarazzante per Washington, lo scorso febbraio quest’ultimo era rimasto per 24 ore presso il consolato americano della città di Chengdu, prima di venire consegnato ad agenti della sicurezza cinesi e scortato a Pechino.
Sul processo di “riforme” che intende intraprendere la leadership uscente del Partito Comunista Cinese, così come quella che ne prenderà il posto, hanno da tempo messo gli occhi le aziende statunitensi, le quali cercano ora di avviare colloqui con Pechino per un trattato bilaterale di investimento che, tra l’altro, consenta alle compagnie straniere la piena proprietà di imprese in Cina, cosa attualmente limitata ad una certa percentuale e solo in alcuni settori.
Anche se i colloqui di questa settimana non hanno all’ordine del giorno le questioni dei diritti umani, il caso dell’attivista non vedente Chen Guangcheng, fuggito dalla propria abitazione sotto il controllo delle forze di sicurezza locali in un villaggio rurale della provincia di Shandong, minaccia di complicare i rapporti tra USA e Cina.
Secondo quanto riportato dalla stampa, dopo giorni di trattative tra le due parti, mercoledì Chen avrebbe lasciato l’ambasciata americana a Pechino per recarsi in un ospedale della capitale, mentre le autorità cinesi gli avrebbero concesso di trasferirsi in un posto sicuro in Cina.
Con la sua fuga rocambolesca, Chen è riuscito a portare il proprio caso all’attenzione della comunità internazionale, suscitando la simpatia degli attivisti di mezzo mondo per la sua battaglia contro gli aborti forzati imposti dal governo cinese e limitando i margini di manovra di Pechino per mettere a tacere la vicenda.
Lo stesso Chen, in un video messaggio postato su YouTube il 27 aprile dopo la fuga avvenuta cinque giorni prima e indirizzato al premier Wen Jabao, sembrava aver offerto una via d’uscita al governo centrale, dal momento che aveva accusato proprio le autorità locali per la sua condizione, facendo invece appello a Pechino per venire in suo aiuto.
L’amministrazione Obama dovrà comunque muoversi con circospezione per chiudere definitivamente la vicenda, facendo attenzione, da un lato, a non urtare la sensibilità delle autorità cinesi e, dall’altro, a non dare motivo ai rivali repubblicani di aver mostrato eccessiva debolezza nella gestione della crisi diplomatica.
Il vertice sino-americano vedrà impegnati Hillary Clinton e Tim Geithner da giovedì, mentre mercoledì è andato in scena un prologo con dei colloqui sulle questioni militari in un clima di estrema diffidenza. Certi ambienti americani mettono in guardia da qualche tempo dall’incremento delle spese militari cinesi, anche se, a ben vedere, ciò è dovuto soprattutto alla maggiore presenza americana in Estremo Oriente per cercare di contenere la crescente influenza cinese nel continente.
Pur parlando di cooperazione e interessi condivisi, Washington sta mettendo in atto una politica aggressiva in Asia sud-orientale, rafforzando la partnership con alleati come Corea del Sud, Giappone e Filippine, in funzione anti-cinese. Questa svolta sancita fin dal 2009 dall’amministrazione Obama ha già portato a parecchi incidenti diplomatici e scontri tra le forze navali di Pechino e quelle di paesi come Filippine e Vietnam in alcune aree contese del Mar Cinese Meridionale.
Sul tema della sicurezza, durante i colloqui di questa settimana la Cina dovrebbe sollevare una serie di annose questioni, tra cui quella della fornitura di armi dagli USA a Taiwan, ma anche l’attività spionistica aerea americana sul territorio cinese e le restrizioni all’export di tecnologia militare statunitense.
Più in generale, le preoccupazioni principali di Pechino nei confronti di Washington sono però le manovre americane nelle aree del sud-est asiatico considerate vitali per la sicurezza nazionale cinese. Al di là delle dichiarazioni distensive di circostanza, gli Stati Uniti non sembrano infatti per nulla intenzionati ad invertire una politica che risulta essere la risposta al declino della propria influenza su scala globale e alla rapida ascesa di quella cinese.
Per lanciare un ulteriore messaggio al governo cinese sulla realtà sempre più minacciosa con cui dovrà fare i conti nei prossimi anni, nei giorni precedenti l’avvio dei colloqui annuali, l’amministrazione Obama ha significativamente organizzato due vertici con altrettanti rappresentati di paesi alleati in Estremo Oriente.
Lunedì, Hillary Clinton e il numero uno del Pentagono, Leon Panetta, hanno ospitato a Washington i loro omologhi filippini per riaffermare il totale sostegno degli USA alla ex colonia. L’incontro è avvenuto mentre è in corso da quasi un mese un confronto tra navi da guerra della marina delle Filippine e di Pechino nel Mar Cinese Meridionale.
L’impasse è l’esempio di come un incidente apparentemente di secondaria importanza possa sfociare in un conflitto ben più rovinoso, in questo caso se le Filippine dovessero fare appello al trattato di mutua difesa che obbliga gli Stati Uniti ad intervenire militarmente a fianco dell’alleato in caso di aggressione esterna.
L’altro recente summit nella capitale americana ha avuto come protagonisti il presidente Obama e il primo ministro giapponese Yoshihiko Noda. Nel faccia a faccia è stato ribadito l’impegno di rafforzare l’alleanza strategica tra Washington e Tokyo e di coordinare maggiormente le attività militari dei due paesi. Iniziative, queste, che nonostante le smentite da entrambe le parti sono rivolte principalmente contro la Cina e contribuiscono perciò ad appesantire l’atmosfera delle discussioni in corso a Pechino.
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Senza chiedere permesso, senza autorizzazione alcuna, il Comandante Tomàs Borge Martinez, ultimo dei fondatori in vita del Frente Sandinista de Liberacìòn Nacional, di cui era Presidente onorario, ha lasciato per sempre orfano il Nicaragua. Testimone vivente delle gesta sandinista, dimostrazione cogente e storica di come Davide è capace di sconfiggere Golia, Tomàs, 82 anni, ha cessato di vivere lunedì scorso, ricoverato nell’ospedale militare di Managua.
Il governo ha dichiarato tre giorni di lutto nazionale, come si deve ad un uomo che ha intrecciato così intensamente la storia del paese da rendere difficile dividerne i reciproci destini. E bene lo sanno le migliaia e migliaia di nicaraguensi che per ore hanno omaggiato in fila la salma del Comandante.
Fondatore del FSLN nel 1961, membro della storica direzione nazionale del partito, ministro dell’Interno durante la decada rivoluzionaria dei sandinisti al potere, parlamentare sandinista e, da ultimo, ambasciatore nicaraguense in Perù, il Comandante Borge è stato molte cose in una sola. Sandinista, poi ancora sandinista, irrimediabilmente e per sempre sandinista.
Fu tra coloro che sconfissero una delle dittature più feroci e truculente della storia, appoggiata dagli Stati Uniti e detestata dai nicaraguensi; la rivoluzione sandinista rese possibile credere che anche nel "giardino di casa" di Washington, ribellarsi era doveroso, vincere era possibile. A prezzo di lutti infiniti e pagine eroiche, abbatterono una dittatura e fondarono una democrazia, guadagnarono il rispetto dei loro amici e il timore dei loro nemici, insegnarono imparando e trasformarono un'entità territoriale in una nazione.
Dalle montagne dove organizzava la guerriglia alla carcere dove detenuto per tre anni venne continuamente quanto inutilmente torturato, dal Ministero dell’Interno da lui fondato alla diplomazia, Borge è stato l’uomo più carismatico del Frente. Un atteggiamento quasi messianico nei confronti degli umili e la fama di “duro” nell’agone politico, erano le caratteristiche con le quali lo si descriveva, in fondo la fedele rappresentazione di un uomo che ha segnato profondamente la storia del suo paese immergendosi completamente nelle sue vene più profonde.
Parlare diffusamente ed esaurientemente di Tomàs Borge richiederebbe uno spazio ben maggiore di quello a disposizione. Una delle numerose volte che ebbi il piacere di conversare con lui, lo intervistai per Liberazione. Ricordi, analisi, aneddoti di una vita tra le montagne a combattere la guardia nazionale somozista e molti più anni a combattere il terrorismo dei Contras e della Cia, che nelle Amministrazioni guidate da Ronald Reagan aveva inondato di armi e dollari, menzogne e complotti, il Nicaragua che cercava la sua via di emancipazione.
Alla domanda se avesse cambiato qualcosa della sua vita, potendo tornare indietro, mi disse che no, avrebbe rifatto tutto quello che aveva fatto, perché le scelte adottate non l’avevano mai visto cedere di fronte a lusinghe o paure, a calcolo o a indolenza; si rimproverava invece una certa arroganza nel periodo di governo: “Avrei dovuto avere maggiore umiltà e studiare di più”, mi disse.
Ricordando i momenti più difficili della resistenza sandinista all’aggressione statunitense, mi confessò che fu proprio la determinazione e la capacità combattente dei nicaraguensi a fermare l’invasione del Nicaragua da parte degli Usa: “Non saremmo stati come Panama o Grenada, e loro lo sapevano bene; i piani militari di reazione all’invasione che avevamo elaborati erano ben diversi da quelli che gli Stranamore del Pentagono prefiguravano. Noi non avremmo potuto contrastare i bombardamenti, ci saremmo ritirati nei bunker e in ogni luogo. Ma loro dovevano per forza scendere a terra per occupare il paese, e allora a terra li avremmo attesi".
Ma sarebbe bastato a fermarli? "Avremmo combattuto metro per metro, con una preparazione militare che loro nemmeno si sognavano e più di un milione di persone in armi. E non solo questo: ci saremmo ritirati sulle montagne dalle quali provenivamo e che conoscevamo palmo a palmo, obbligandoli a seguirci, gli avremmo portato la guerra in tutto l’emisfero. Loro attaccavano in Nicaragua? La guerra sarebbe scoppiata anche in El Salvador, Honduras, Costa Rica e Guatemala. Avremmo invaso anche i nostri vicini per portare la guerra ad un livello regionale; non avrebbero vinto mai, è per questo che non c’invasero, sapevano che avrebbero perso. E, dopo il Viet-nam, non potevano permetterselo”.
Fondatore della Polizia Sandinista e delle truppe speciali del Ministero dell’Interno, della Direzione Generale della Sicurezza di Stato (affidata al suo fido Lenin Cerna) rappresentò un vero e proprio calvario per la controrivoluzione in guayabera e in uniforme, quella che mangiava alla nicaraguense, pensava in inglese e parlava in spagnolo, che inutilmente tentò per nove anni di sovvertire il cammino scelto nel 1979. Era amato dalla sua gente e odiato dai suoi nemici, che lo etichettavano come “persecutore”, in quanto colpevole di mantenere il paese in sicurezza. Mai nessuna cellula terroristica dei contras e della CIA poterono insediarsi nelle città del paese. Gli chiesi se fosse dispiaciuto o compiaciuto dall’essere etichettato come un “duro” e lui, sorridendo, mi disse: “Inevitabile: hai mai visto un Ministro dell’Interno con una faccia da angelo?”.
Eppure quel volto e quella fama di duro si sposavano bene con la sua mistica rivoluzionaria e con l’amore nel senso più ampio del termine. Fu Tomàs Borge, dopo l’entrata trionfale dei sandinisti nella capitale, ad emanare il primo e, forse, più caratterizzante decreto del paese liberato: l’abolizione della pena di morte. E fu ancora lui che, pochi mesi dopo il trionfo rivoluzionario, di fronte ai resti della Guardia nazionale somozista arresasi ai sandinisti, ordinò all’uomo che lo aveva torturato in carcere per anni di uscire dalla fila e farsi avanti per ricevere il verdetto: l’uomo fece un passo avanti convinto di andare verso il plotone di esecuzione e Borge gli disse: “Emetto la sentenza: sei condannato ad essere libero, puoi andare”.
Perché, come amava ripetere, “i sandinisti sono implacabili nel combattimento, ma generosi nella vittoria”. Fu l’inizio di una amnistia generale che rese liberi la stragrande maggioranza di coloro che avevano collaborato con il somozismo e, a chi gli faceva notare come ciò rappresentasse un fatto inedito nella storia del suo paese, e che mai i somozisti avrebbero avuto lo stesso tratto, Tomàs rispondeva: “Tra i tanti motivi per i quali si fa una rivoluzione, c’è soprattutto quello di dimostrare di essere completamente diversi da loro”.
La storia dimostrò purtroppo come tanta generosità si rivelò in parte controproducente, visto che le ex-guardie somoziste furono i primi ad associarsi con i contras per riempire di lutti il paese, ma è pur vero che senza quei gesti la rivoluzione sandinista non sarebbe stata quella che è stata.
E da parte di Borge non vi furono mai pentimenti, al punto che, diversi anni dopo, in piena guerra d’aggressione al Nicaragua, non esitò a difendere un’ulteriore amnistia ai contras prigionieri per il raggiungimento degli accordi di pace di Esquipulas. Difese il provvedimento di clemenza non solo come strumento per il raggiungimento dell’accordo di tregua, ma anche come elemento caratteristico della cultura politica dei sandinisti.
Appena insediatosi da Ministro dell’Interno del Nicaragua ordinò che la facciata del Ministero ospitasse un’insegna che recitava: “Ministero dell’Interno, sentinella dell’allegria del popolo”. Non erano certo la fantasia e l’immaginazione che gli difettavano, insieme ad una cultura straordinaria.
Tomàs è stato anche uno straordinario oratore, capace d’infiammare le piazze come solo Fidel nel panorama latinoamericano era in grado di fare. E come scrittore ha pubblicato diversi libri, tra i quali “La paziente impazienza” (Premio Casa de las Americas 1989), “L’assioma della speranza”, “Un grano di mais”.
Aveva per Fidel Castro una venerazione totale e per la sua Cuba un sentimento di riconoscenza ed ammirazione illimitato. L’aiuto straordinario offerto da Cuba ai sandinisti, prima nella lotta per la liberazione dalla tirannide genocida dei Somoza, poi nella difesa e nella formazione ad ogni livello del paese durante la decada del governo rivoluzionario, aveva certamente segnato a fondo in tutta la direzione del Fsln. Ma per Tomàs in particolare, la relazione con Cuba era difficile da poter spiegare ad occhi più distaccati. Quando gli si chiedeva di fare i nomi dei cinque uomini più importanti della storia, rispondeva: al primo posto Fidel Castro, al secondo Fidel Castro e al terzo, quarto, quinto, Fidel Castro”.
Tomàs lascia ora a Daniel Ortega - di cui fu instancabile sostenitore - il testimone dell’eredità sandinista, in Nicaragua e ovunque. Le spoglie di Carlos Fonseca Amador, fondatore del FSLN, vedranno ora la vicinanza di quelle di Tomàs Borge Martinez. Sono, come disse Tomàs salutando i resti di Carlos Fonseca, "quei morti che non muoiono mai". Sono i padri della patria, coloro che, seguendo il cammino di Augusto Cesar Sandino, il “Generale degli uomini liberi”, hanno dato la loro vita per il loro paese, ai quali ora anche lui appartiene.
Resti immortali che hanno fecondato e feconderanno una terra di gente umile e fiera, guidata da poeti, rivoluzionari ed eroi capaci, passandosi di mano continuamente armi e poesia, di piegare il più grande impero della storia per alzare al cielo il sorriso della nuova Nicaragua. Libera, sovrana, cristiana e sandinista.