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di Michele Paris
In un’atmosfera profondamente diversa da quella che aveva caratterizzato la vigilia elettorale del 2008, il Partito Democratico ha aperto martedì la propria convention nazionale a Charlotte, in North Carolina, per candidare ufficialmente Barack Obama ad un secondo mandato alla Casa Bianca. In tre giorni dominati dalla consueta retorica, il partito del presidente cercherà di presentarsi compatto nella difesa degli interessi della classe media americana, così da provare a rianimare un elettorato deluso da quattro anni caratterizzati da un costante spostamento a destra.
La prima giornata alla Time Warner Cable Arena ha visto gli interventi, tra gli altri, della first lady Michelle Obama, del leader di maggioranza al Senato Harry Reid e, in collegamento video, dell’ex presidente Jimmy Carter, mentre lobbisti e rappresentanti delle corporation a stelle e strisce hanno tenuto i loro incontri con i delegati democratici lontani dai riflettori. Anche se il partito di Obama aveva promesso ufficialmente di rifiutare i contributi delle grandi aziende, come ha rivelato martedì Bloomberg News, compagnie come Bank of America e Wells Fargo hanno sborsato almeno 20 milioni di dollari per finanziare la convention dopo che il comitato organizzatore ha faticato a reperire i 52 milioni necessari per coprire i costi.
A tenere banco questa settimana, in ogni caso, sarà innanzitutto la difesa dei presunti successi del presidente uscente in questi quattro anni alla guida del paese, nonché lo sforzo nel dipingere un eventuale successo elettorale del Partito Repubblicano come un pericolo mortale per la sorte di programmi pubblici come Medicare e Medicaid, di cui beneficiano decine di milioni di americani. Un ticket Romney-Ryan, secondo i democratici, porterebbe inoltre un ulteriore taglio alle tasse per i redditi più elevati, con un conseguente assottigliamento dei servizi pubblici per quelli più bassi, ma anche un attacco ai diritti delle minoranze etniche, degli omosessuali e all’aborto.
La strategia messa in campo a Charlotte dai democratici è d’altra parte consolidata e prevede il rispolveramento della retorica populista e l’agitazione dello spettro di una vittoria repubblicana, in modo da motivare la propria base elettorale, per poi svoltare puntualmente a destra una volta al potere.
La natura stessa del Partito Repubblicano, che ha chiuso la propria convention giovedì scorso con uno scoraggiante discorso di Mitt Romney, offre d’altra parte ai democratici l’occasione di modellare un’immagine del tutto fittizia del loro partito, teoricamente portatore di valori diametralmente opposti. Così, ad esempio, laddove i repubblicani sono apertamente l’espressione dei settori privilegiati e più reazionari della società americana, i democratici rivendicano la difesa della classe media.
Allo stesso modo, mentre quello Repubblicano appare sempre più il partito dell’alta borghesia bianca, i democratici cercano di mostrare una realtà multirazziale, non solo attraverso la candidatura del primo presidente afro-americano della storia americana, ma anche con la presenza a Charlotte di numerosi delegati di colore o ispanici. Uno di questi ultimi è Julian Castro, il giovane sindaco di San Antonio, nel Texas, astro nascente democratico che martedì ha tenuto il discorso programmatico (“keynote speech”) di fronte alla convention, proprio come aveva fatto Obama nel 2004 a Boston.
A ben vedere, tuttavia, le differenze tra i due partiti sono in gran parte secondarie, dal momento che entrambi si sono ormai trasformati in organizzazioni ad esclusiva difesa degli interessi delle diverse sezioni delle élite economiche e finanziarie americane.
Se la campagna elettorale democratica di questi ultimi mesi, ribadita nel corso del raduno di Charlotte, cerca in tutti i modi di presentare quella di novembre come un’elezione nella quale le differenze tra i due candidati e i due partiti non sono mai state così marcate, dal prossimo mese di gennaio, chiunque entrerà alla Casa Bianca, a prevalere saranno gli elementi di continuità rispetto ai cambiamenti.
Questa prospettiva risulta tanto più probabile dal confronto con lo scenario seguito al voto del 2008, quando la candidatura e il successo schiacciante di Barack Obama avevano suscitato enormi entusiasmi ed aspettative di cambiamento al termine dei due mandati di un’amministrazione Bush che aveva lasciato la Casa Bianca con un livello di popolarità ai minimi storici.
Nonostante le premesse, Obama, il cui partito per due anni ha conservato una netta maggioranza in entrambi i rami del Congresso, ha rinnegato in fretta le promesse elettorali che prospettavano un’inversione di rotta radicale per il paese, abbracciando molte delle politiche del suo predecessore.
Sulle questioni della sicurezza nazionale, così, il presidente democratico ha fatto propri i metodi anti-democratici che avevano caratterizzato la prima fase della “guerra al terrore”, giungendo addirittura ad auto-proclamarsi unica e indiscussa autorità nel decidere della vita o della morte dei sospettati di terrorismo, cittadini americani compresi. Inoltre, se l’avventura in Iraq è stata segnata da un parziale disimpegno, peraltro più forzato che voluto, la guerra in Afghanistan ha fatto segnare un’escalation di violenze e abusi. In Libia, infine, è stato scatenato un conflitto sanguinoso unicamente per rovesciare un regime sgradito in nome della lotta per la democrazia, fissando un inquietante precedente che potrebbe essere ripetuto a breve in Siria e in Iran.
Sul fronte interno, la riforma sanitaria, altro cavallo di battaglia della propaganda democratica a Charlotte, si è risolta in un provvedimento che ha messo al centro dell’attenzione la riduzione dei costi e il profitto delle compagnie assicurative private invece del diritto alla salute di tutti i cittadini, due principi sui quali, nonostante le critiche a molti aspetti della legge, concordano pienamente anche i repubblicani.
Per quanto riguarda l’economia, questi anni di profonda crisi hanno visto l’amministrazione Obama piegarsi al volere delle grandi banche di Wall Street, la cui smisurata influenza sulla politica di Washington ha impedito l’adozione di un sistema di regolamentazione realmente efficace. Il propagandato salvataggio del settore automobilistico ha poi gettato le basi per i ripetuti attacchi ai diritti e alle retribuzioni dei lavoratori americani sia del settore pubblico che di quello privato. Il soccorso federale a General Motors e a Chrysler ha cioè comportato il dimezzamento degli stipendi dei nuovi assunti e la fine dei benefici conquistati in decenni di lotte sindacali e che avevano contribuito a creare quella classe media che i democratici pretendono oggi di difendere.
In occasione della convention di questa settimana, si stanno moltiplicando gli sforzi di commentatori liberal, esponenti sindacali e gruppi di sinistra per spiegare come, nonostante i limiti del Partito Democratico, per classe media e lavoratori è necessario votare a favore di quest’ultimo, di gran lunga il male minore di fronte alla minaccia di un trionfo repubblicano. Questi ambienti della borghesia progressista, perfettamente integrati in un sistema che continua a produrre disoccupazione, precarietà e povertà, alimentano nella base elettorale democratica l’illusione che il partito di Obama possa essere spinto a sinistra dalle pressioni e da un’improbabile mobilitazione popolare.
La deriva del Partito Democratico appare però irreversibile, poiché prodotta da decenni di profondi cambiamenti economici e sociali che, con il progressivo indebolimento del capitalismo americano su scala globale, hanno portato ad un’offensiva dei grandi interessi economici che detengono ormai un assoluto monopolio sulle decisioni che vengono prese a Washington.
Sulla natura del partito, tuttavia, non vi sarà ovviamente alcuna riflessione durante la convention di Charlotte, dove, come al solito, è stata invece presentata una piattaforma programmatica che verrà regolarmente disattesa al termine del ciclo elettorale in corso. I democratici hanno diligentemente snocciolato i temi e le proposte care al liberalismo a stelle e strisce, come la lotta al cambiamento climatico, l’aumento del carico fiscale per i ricchi, la riforma finanziaria, il contenimento dell’influenza dei grandi interessi sulla politica, la difesa dei diritti civili, delle libertà individuali, dell’interruzione di gravidanza e così via.
Tutte questioni, queste ultime, sulle quali l’amministrazione Obama negli ultimi quattro anni si è però mossa in direzione opposta rispetto a quanto già promesso nel 2008. Una realtà ben compresa dalla maggioranza degli americani, i quali difficilmente potranno essere convinti dal palcoscenico di Charlotte che in un secondo mandato le cose andranno diversamente.
Se pure Obama dovesse riuscire a confermarsi presidente, come indicano i sondaggi a due mesi dal voto, le ragioni della vittoria andranno piuttosto ricercate nell’impopolarità delle posizioni repubblicane e, ancor di più, nella sclerotizzazione della realtà politica statunitense che impedisce qualsiasi alternativa ad un sistema bipartitico che non rappresenta in nessun modo la grande maggioranza della popolazione.
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di Emanuela Pessina
BERLINO. Si inasprisce in Germania il dibattito sulla parificazione dei matrimoni gay, sollevato la settimana scorsa dalla proposta di legge dei liberali per un aumento dei diritti fiscali delle coppie omosessuali. A riaccendere la discussione sono le parole del parlamentare cristiano-sociale Thomas Goppel (CSU), secondo cui le coppie gay non possono avere i diritti di un matrimonio legale perché “vivono in maniera anomala” e mostrano ”differenze di qualità” rispetto alle coppie etero. Argomentazioni che rasentano l’intolleranza e che riaprono lo scontro all’interno della Coalizione di Angela Merkel (CDU).
A 11 anni dalla prima considerazione legale delle coppie gay, per il ministro della Giustizia liberale Leutheusser-Schnarrenberger (FDP) è arrivato il momento di concedere ai compagni di vita omosessuali più diritti fiscali. La proposta di legge prevede la variazione di 40 singoli ordinamenti in diversi campi, dal diritto immobiliare al regolamento di insolvenze. Una modifica quasi insignificante, a un primo sguardo: vicino a “coniuge” si dovrebbe inserire il termine “compagno di fatto”. Per Leutheusser-Schnarrenberger le coppie di fatto sono state private troppo a lungo di numerosi diritti, senza che ve ne sia motivo.
Non sono tutti d’accordo nella coalizione di Angela Merkel, e qualcuno rinuncia persino alla usuale diplomazia svelando idee profondamente conservatrici. Come l’ex- ministro regionale della Ricerca Goppel (CSU, la consorella bavarese dei cristiano- democratici della Cancelliera), ha espresso di recente la sua opinione tramite Facebook, spiegando senza mezzi termini le sue ragioni: “L’equivalenza tra diversi tipi di vita di coppia in comune ha i suoi limiti naturali”. Le coppie gay conducono uno stile di vita “anomalo”, argomenta Goppel, e le “differenze di qualità” sono evidenti a chi analizza da vicino le situazioni quotidiane. Frasi che, sottolinea l’Organizzazione per i diritti degli omosessuali all’interno dell’Unione CDU/ CSU (LSU), sembrano riportare a settant’anni fa e alle problematiche della dignità umana nel periodo nazi.
Si espone appena Angela Merkel, che rimanda alle decisioni della Corte costituzionale nel 2013. Perché la proposta di legge deve essere prima approvata da tutti i ministri per poi eventualmente passare dal Parlamento. Nonostante le parole sicure della liberale Leutheusser-Schnarrenberger, il ministro della Giustizia, i presupposti non lasciano intravedere segni positivi da parte dei partner di Governo cristiano- sociali e cristiano- democratici. E la Merkel fa capire chiaramente la sua posizione, seppur temporeggiando.
“Sono stati fatti numerosi passi in avanti per garantire alle coppie dello stesso sesso maggiori diritti, ma dubito che questo possa portare alla completa parificazione con i matrimoni legalmente riconosciuti”. In particolare, la Merkel si appella all’articolo 6 della Costituzione tedesca, in cui si garantisce al matrimonio e alla famiglia la particolare protezione dell'ordinamento statale. “Questo articolo è stato fatto per un motivo ben preciso”, spiega la Cancelliera. Senza forse considerare che tra una coppia di fatto e un matrimonio, in realtà, c’è una differenza arbitraria decisa dall’uomo e daalla società. E senza dare importanza alla volontà di ogni essere umano di assumersi le responsabilità del proprio altro, indipendentemente dal sesso, un’esigenza che lo Stato dovrebbe incoraggiare.
I liberali sono per l’applicazione rapida delle modifiche di legge a favore della parificazione delle coppie gay, Angela Merkel temporeggia, i cristiano- sociali rispondono più ostili che mai. La Coalizione della Cancelliera rischia ancora una volta di imbarcare acqua: alle porte delle elezioni del 2013 è un grosso punto a sfavore e l’unica via d’uscita è quella di rimandare a dopo l’appuntamento elettorale. Come la nostra Cancelliera, saggiamente, suggerisce di fare.
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di Michele Paris
Al termine di un’inchiesta durata tre anni, il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti settimana scorsa ha deciso di non procedere con accuse formali nei confronti dei responsabili di alcuni degli abusi commessi dalla CIA nell’ambito della “guerra al terrore”. La chiusura dell’indagine, senza l’apertura di un solo procedimento legale per le torture e gli assassini che hanno segnato l’ultimo decennio di storia americana, segna la tappa finale di una strategia perseguita deliberatamente dall’amministrazione Obama per occultare i metodi criminali adottati dal governo dopo l’11 settembre e sui quali ha fatto ampio affidamento lo stesso presidente fin dal suo ingresso alla Casa Bianca.
Ad annunciare la decisione è stato il ministro della Giustizia (“Attorney General”), Eric Holder, lo stesso esponente del gabinetto Obama che qualche mese fa aveva descritto pubblicamente le basi pseudo-legali a cui la sua amministrazione fa riferimento per giustificare l’assassinio di cittadini americani accusati di terrorismo senza prove né processo. Per Holder, dopo tre anni di indagini, le prove raccolte “non sono sufficienti per chiedere ed ottenere una condanna al di là di ogni ragionevole dubbio”. A supporto di questa conclusione, Holder non ha presentato nessun’altra motivazione.
Degli innumerevoli abusi commessi, il Dipartimento di Giustizia si era alla fine limitato ad indagarne soltanto due che avevano portato al decesso di altrettanti detenuti sotto custodia della CIA. Nonostante il governo non abbia rivelato i nomi delle vittime, la stampa d’oltreoceano ha riportato le identità dei due sospettati di terrorismo. Il primo caso è quello di Gul Rahman, un afgano catturato a Islamabad, in Pakistan, nell’ottobre del 2002 e trasferito clandestinamente nel suo paese natale, dove morì di freddo il 20 del mese successivo in una prigione a nord di Kabul dopo essere stato sottoposto a ripetute torture.
Il secondo riguarda invece Manadel al-Jamadi, cittadino iracheno la cui vicenda emerse con lo scoppio dello scandalo degli abusi nel famigerato carcere di Abu Ghraib, in Iraq. Al-Jamadi morì per asfissia durante un interrogatorio il 4 novembre 2003, quando, con i polsi legati dietro la schiena e un sacco avvolto attorno alla testa, venne appeso alle sbarre di una finestra.
Ai responsabili di questi e altri episodi avvenuti sotto la presidenza Bush, il ministro di Obama ha voluto esprimere tutta l’ammirazione e la gratitudine del suo governo. Per Holder, gli “uomini e le donne della nostra comunità dell’intelligence…svolgono un servizio incredibilmente importante per il paese e lo fanno in circostanze difficili e pericolose”. Per questo, essi “meritano tutto il nostro rispetto”.
Anche il direttore della CIA, l’ex comandante delle forze di occupazione in Afghanistan e in Iraq, generale David Petraeus, si è unito al coro degli elogi, ringraziando l’agenzia che egli stesso dirige per la collaborazione mostrata verso gli investigatori del Dipartimento di Giustizia. Secondo i media americani, la CIA non avrebbe gradito l’indagine appena conclusa, anche se appare estremamente probabile che l’agenzia, se mai fosse stato necessario, abbia ricevuto rassicurazioni fin dall’inizio sul fatto che il procedimento non avrebbe portato a nulla di concreto.
Il messaggio lanciato da Holder con l’atteso epilogo dell’indagine è dunque chiaro. In primo luogo, coloro che hanno torturato e assassinato prigionieri accusati di terrorismo, così come quelli che hanno diretto e approvato tali metodi dall’alto - dal presidente Bush al suo vice, Dick Cheney, dall’ex direttore della CIA, George Tenet, ai consulenti del Dipartimento di Giustizia, John Yoo e Jay Bybee, i quali hanno redatto i pareri sulla legalità delle torture - non avranno nulla da temere per le loro azioni criminali. Inoltre, su queste stesse basi l’amministrazione Obama intende proseguire le medesime politiche relative alla sicurezza che calpestano ogni regola democratica e i più fondamentali diritti civili.
L’indagine che Holder ha dichiarato chiusa giovedì scorso era iniziata nel gennaio 2008, quando l’amministrazione Bush diede incarico al noto procuratore federale John Durham di fare luce sulla distruzione nel 2005 da parte della CIA delle registrazioni che documentavano l’uso di torture durante gli interrogatori di sospettati di terrorismo. Tra di essi spiccava quello di Abu Zubaydah, cittadino saudita rinchiuso a Guantanamo da dieci anni senza accuse formali e sottoposto per 83 volte a “waterboarding” in un solo mese e ad altre forme di “tecniche di interrogatorio potenziate”.
In realtà, solo nell’agosto del 2009 Eric Holder ampliò le competenze di Durham, affidandogli il compito di indagare su un centinaio di maltrattamenti di detenuti sotto custodia della CIA. Nel 2010, Durham decise che non sarebbe stato aperto alcun procedimento legale per la distruzione delle registrazioni e, nel giugno dello scorso anno, che sul fronte delle torture solo i due casi già ricordati sarebbero stati oggetto di indagine. Anche questa minima parte dei casi portati all’attenzione del Dipartimento di Giustizia ha però finito per essere archiviata, confermando come l’intera operazione non sia stata altro che un colpo di spugna per nascondere ogni prova di colpevolezza.
Sostenendo fin dall’inizio del suo mandato di voler “guardare avanti”, senza fare i conti con i crimini del suo predecessore, d’altra parte, il presidente Obama e il suo gabinetto hanno sempre posto il segreto di stato nelle cause intentate nei confronti dei responsabili materiali e dei mandanti delle torture.
Un certo zelo nell’avviare azioni legali, in realtà, l’amministrazione democratica l’ha dimostrato, ma nei confronti di coloro che hanno rivelato gli abusi del governo. Uno degli esempi più clamorosi è quello dell’ex analista della CIA, John Kiriakou, primo “insider” ad ammettere pubblicamente l’uso di metodi di tortura negli interrogatori e attualmente sotto processo secondo il dettato dell’Espionage Act per aver rivelato informazioni riservate.
Probabilmente non a caso, l’annuncio di Holder è giunto in concomitanza con il discorso di accettazione della nomination di Mitt Romney nell’ultimo giorno della convention repubblicana di Tampa, in Florida. Come ha fatto notare il New York Times, la decisione di archiviare ogni accusa contro gli agenti della CIA ha l’obiettivo di “rimuovere un possibile bersaglio per i repubblicani durante la campagna per le elezioni presidenziali”. Obama, cioè, ha voluto mandare un altro segnale di fiducia all’establishment della sicurezza nazionale, evitando allo stesso tempo di essere accusato di debolezza dai rivali repubblicani sulle questioni legate all’anti-terrorismo.
Come previsto, la decisione annunciata da Holder ha suscitato le critiche durissime delle associazioni a difesa dei diritti civili. L’American Civil Liberties Union, ad esempio, ha definito “vergognosa” la condotta dell’amministrazione Obama nella difesa dei responsabili dei crimini commessi in nome della guerra al terrore. Per Human Rights Watch, invece, la mancata apertura di un procedimento legale priva gli Stati Uniti “di qualsiasi credibilità nei confronti di altri paesi” chiamati a rispondere delle torture e dei maltrattamenti di cui si rendono responsabili i loro governi.
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di Michele Paris
Qualche giorno fa, il Servizio di Ricerca del Congresso americano (CRS) ha pubblicato il suo rapporto annuale sul mercato delle armi nel mondo, evidenziando come le aziende statunitensi abbiano registrato una clamorosa impennata delle vendite durante l’anno 2011. Queste multinazionali hanno infatti triplicato la loro performance rispetto al 2010, in gran parte grazie agli sconvolgimenti che hanno attraversato il mondo arabo, minacciando gli interessi strategici di Washington e dei suoi alleati in Medio Oriente.
Nel solo 2011, i contratti per la vendita di armi conclusi dalle compagnie americane sono ammontati a 66,3 miliardi di dollari. L’enormità della cifra risulta evidente dal confronto con l’anno precedente, quando il totale fu di “appena” 21,4 miliardi. Il quasi monopolio delle armi USA risulta evidente poi dal fatto che esse nel 2011 hanno coperto addirittura il 77,7% del mercato mondiale, pari a 85,3 miliardi di dollari.
Secondo il CRS, la quantità di accordi di vendita siglati dai produttori di armi d’oltreoceano nel 2011 rappresenta un primato assoluto, dal momento che la cifra più alta per un singolo anno era stata fatta segnare nel 2008 con 38,2 miliardi di dollari. Lo strapotere americano in questo ambito risulta chiaro anche dal margine enorme sul più immediato rivale, la Russia, che l’anno scorso si è assicurata contratti per 4,8 miliardi, vedendosi quasi dimezzata la propria quota del mercato mondiale di armi (5,6%).
Oltre agli Stati Uniti, solo la Francia ha fatto segnare un aumento delle vendite nel 2011, mentre tutti gli altri esportatori sono risultati in flessione. Le aziende francesi si sono accaparrate accordi di vendita per 4,4 miliardi, contro un totale di 1,8 miliardi nel 2010. Complessivamente, tuttavia, i primi quattro esportatori europei di armi - Francia, Gran Bretagna, Germania e Italia - hanno visto la propria fetta di mercato scendere dal 12,2% del 2010 al 7,2% del 2011.
Le cause dei cambiamenti prodotti nelle dinamiche del mercato delle armi durante l’anno 2011, cioè in primo luogo le necessità geo-strategiche di Washington, sono facilmente identificabili osservando i principali destinatari delle esportazioni. Infatti, a spingere verso l’alto le vendite sono stati soprattutto i contratti firmati dalle compagnie americane con l’Arabia Saudita (33,7 miliardi di dollari).
Il più repressivo regime mediorientale, stretto alleato degli Stati Uniti, ha dato il via ad una vera e propria corsa agli armamenti di fronte alla minaccia del contagio della Primavera Araba all’interno dei propri confini. Inoltre, il massiccio investimento in equipaggiamenti militari è la diretta conseguenza dell’aumento delle tensioni con il principale rivale regionale di Riyadh, l’Iran, contro il quale appare sempre più probabile un’aggressione da parte di Israele e Stati Uniti.
La lista della spesa saudita comprende 84 aerei da guerra F-15, decine di elicotteri e svariate attrezzature militari che faranno schizzare i profitti di aziende come Boeing e United Technologies. Altra miniera d’oro per le compagnie USA in Medio Oriente sono poi gli Emirati Arabi Uniti, la cui casa regnante, per gli stessi motivi che hanno animato lo zelo saudita nell’acquisto di armi, ha stanziato 4,5 miliardi, assicurandosi tra l’altro un sofisticato sistema di difesa missilistico realizzato da Lockheed Martin.
L’esplosione della vendita di armi americane nel Golfo Persico rivela anche l’ipocrisia delle accuse nei confronti del programma nucleare iraniano, continuamente dipinto come una minaccia contro i paesi della regione. Il totale degli armamenti USA venduti ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi nel 2011 supera infatti di quasi sei volte l’intero budget militare della Repubblica Islamica per lo stesso anno.
Le ragioni della politica estera americana giustificano anche la presenza di India e Taiwan in cima alla lista dei principali beneficiari di armi a stelle e strisce. Dopo l’Arabia Saudita, Nuova Delhi è il più importante mercato delle armi statunitensi con 6,9 miliardi di contratti già conclusi. L’India, non a caso, rappresenta per Washington uno dei baluardi della propria strategia di contenimento dell’espansionismo cinese nel continente asiatico. Una provocazione nei confronti di Pechino può essere considerata anche la tradizionale assistenza militare fornita dagli USA a Taiwan, concretizzatasi nel 2011 con l’acquisto di batterie anti-missili del valore di 2 miliardi di dollari.
La trama che emerge dalla ricerca del CRS conferma ancora una volta l’intreccio tra le motivazioni economiche delle multinazionale americane delle armi e gli obiettivi strategici del governo di Washington in ogni angolo del pianeta. Questa situazione comporta una profondissima influenza dell’industria bellica sulla politica statunitense, che si traduce a sua volta in un militarismo sempre più marcato a livello internazionale, ma anche in un drammatico restringimento dei diritti democratici sul piano domestico.
Nonostante l’impopolarità dell’apparato militare e delle scelte di politica estera di Washington, infine, l’industria bellica americana continua a godere anche di consistenti sussidi da parte del governo federale. Queste sovvenzioni, pagate dai contribuenti, consentono alle multinazionali statunitensi di dominare il mercato mondiale e di assicurarsi profitti da capogiro, proprio mentre i politici di entrambi gli schieramenti ripetono incessantemente che non esistono più fondi disponibili per finanziare programmi pubblici ormai ridotti all’osso.
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di Michele Paris
La cancelliera Angela Merkel ha iniziato giovedì una visita di due giorni in Cina, dove, a conferma dei rapporti economici sempre più intensi con Pechino, è giunta assieme a una nutritissima delegazione politica e di uomini d’affari tedeschi. Di fronte ad un’area euro tuttora in grave affanno, le opportunità commerciali in Oriente sembrano giocare infatti un ruolo ormai fondamentale per la Germania e le proprie aziende, influendo in maniera significativa anche sulle scelte di politica estera del governo di Berlino.
Quella in corso è la seconda visita del 2012 in Cina per la Merkel e addirittura la sesta da quando ha assunto la guida del proprio paese. Nella due giorni cinese, il capo del governo tedesco incontrerà le massime autorità del regime di Pechino, inclusi il presidente, Hu Jintao, il premier, Wen Jiabao, e il suo vice, nonché prossimo successore, Li Keqiang. Proprio il primo ministro cinese, secondo quanto riportato da fonti tedesche, avrebbe chiesto esplicitamente la visita della Merkel, così da discutere delle più importanti questioni bilaterali prima dell’avvicendamento previsto a breve ai vertici del Partito Comunista.
I temi da trattare sono in primo luogo quelli economici, compresa la crisi del debito sovrano in Europa, e a farlo con la Merkel ci sono sette membri del suo governo e una ventina di dirigenti di grandi aziende tedesche alla ricerca di nuove opportunità d’affari in Cina. L’impegno di Berlino in questa visita riflette la consistenza dei rapporti bilaterali, evidenziati dai dati ufficiali che indicano come le esportazioni tedesche verso la Cina siano aumentate di oltre il 200 % tra il 2005 e il 2011. Per dare un’idea dell’aumentata importanza del mercato cinese per Berlino, basti ricordare che nello stesso periodo di tempo le esportazioni verso i paesi UE sono salite del 24% e verso gli Stati Uniti di appena il 6,3%.
Nel 2011, la Cina è risultata essere il quarto mercato in assoluto per l’export germanico, dopo Francia, Olanda e Stati Uniti. La Cina dovrebbe inoltre salire al secondo posto entro la fine del 2012, mentre nel 2010 era ancora al settimo. Il totale degli scambi commerciali tra Cina e Germania ha toccato i 145 miliardi di euro lo scorso anno, facendo segnare un aumento di quasi il 19% rispetto al 2010. I settori con la maggiore crescita sono quelli della chimica, delle macchine industriali e dell’automotive. A indicare una certa disparità nei rapporti tra Berlino e Pechino sono gli investimenti diretti, dal momento che quelli tedeschi in Cina ammontavano a 26 miliardi di euro nel 2011, contro appena 1,2 miliardi di quelli cinesi in Germania.
Le sempre più strette relazioni sino-germaniche hanno però creato, come in altri paesi, malumori e divisioni all’interno delle élite economiche tedesche, poiché tali sviluppi favoriscono alcuni settori a discapito di altri. Per questo, ad esempio, alcuni manager tedeschi si sono lamentati con il loro governo per il vantaggio in termini di competitività di cui godrebbero le aziende cinesi, favorite dall’appoggio dello Stato.
Un’altra questione controversa è quella del rispetto dei brevetti e della proprietà intellettuale, avanzata soprattutto dalle aziende tedesche di medie dimensioni, le quali costituiscono peraltro i tre quarti delle circa 5.000 che operano in Cina. Queste ultime si sono lamentate anche del fatto che la cancelliera ha portato con sé a Pechino solo i rappresentanti delle grandi multinazionali (SAP, Siemens, ThyssenKrupp, Volkswagen), delle quali il governo di Berlino promuoverebbe gli esclusivi interessi e le possibilità di crescita in Cina.
Già nella giornata di giovedì, infatti, è stata annunciata la firma di un contratto di fornitura di 50 aerei Airbus del valore di 4 miliardi di dollari tra il governo cinese e il gruppo aerospaziale franco-tedesco EADS. Inoltre, è stato siglato un ulteriore accordo da 1,6 miliardi di dollari per ampliare la linea di assemblaggio degli Airbus A320 nella località di Tianjin, dove la stessa Merkel si recherà nel corso della sua visita.
La centralità del mercato cinese per l’economia tedesca fa in modo che le più scottanti questioni politiche e le divergenze tra i due paesi rimangano fuori dagli argomenti trattati in questi due giorni. Ugualmente ignorate dalla cancelliera saranno anche le violazioni dei diritti umani in Cina. Ben lontani sono d’altra parte i tempi in cui, come nel 2007, il Dalai Lama veniva ricevuto dalla Merkel a Berlino. Quest’ultima, in ogni caso, non sembra essere nella posizione di impartire lezioni di democrazia a nessun paese, visto il trattamento riservato dal suo governo alla Grecia, dove, nell’ambito della crisi del debito, sono state imposte condizioni durissime senza alcun riguardo per le regole democratiche o il volere della popolazione.
Come già ricordato, i legami economici tra Berlino e Pechino si traducono in un certo avvicinamento anche sul piano politico, come dimostra ad esempio il lancio, avvenuto nel 2011, delle prime consultazioni bilaterali tra i due governi. Quest’ultimo è un meccanismo di comunicazione diretta tra i due gabinetti che, al di fuori dell’Unione Europea, Berlino aveva fino ad allora creato solo con paesi come Israele e India.
Alleata di ferro degli Stati Uniti fin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, la Germania negli ultimi anni si trova a dover fronteggiare il dilemma - condiviso con molti altri paesi, soprattutto del sud-est asiatico - di aprirsi a rapporti più stretti con Pechino proprio mentre Washington sta mettendo in atto una politica sempre più aggressiva di contenimento dell’espansionismo cinese.
I segnali inequivocabili di un qualche incrinamento del rapporto di fedeltà assoluta agli Stati Uniti sono giunti, tra l’altro, nel marzo del 2011, quando Berlino decise di astenersi durante il voto sulla risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che diede il via libera all’intervento militare NATO in Libia per rovesciare Gheddafi. In quell’occasione, la Germania si mostrò inizialmente contraria all’intervento militare, allineandosi di fatto con Cina e Russia.
Gli equilibri nel governo tedesco rimangono però tuttora precari su una questione così delicata, come dimostra l’approccio alla crisi siriana, attorno alla quale da Berlino sono giunte ripetute critiche all’utilizzo del potere di veto di Pechino e Mosca sulle varie risoluzioni presentate al Consiglio di Sicurezza per avallare una nuova aggressione militare in Medio Oriente in nome dei diritti democratici.
Al di là delle singole questioni, la classe dirigente tedesca appare dunque attraversata da profonde divisioni circa il posizionamento del proprio paese sullo scacchiere internazionale. Divisioni che, oltretutto, in una fase di grandi cambiamenti economici su scala globale diventeranno ancora più marcate man mano che la crescente rivalità tra Stati Uniti e Cina spingerà Berlino nella scomoda posizione di dover scegliere, senza ambiguità, da quale parte schierarsi.