di Michele Paris

Gli attesi colloqui sul nucleare iraniano, andati in scena nel fine settimana a Istanbul, sembrano aver fatto segnare qualche limitato passo avanti, con Teheran e i rappresentanti del gruppo dei P5+1 accordatisi per un nuovo vertice da qui a un mese. Quest’ultimo, da tenersi a Baghdad il 23 maggio prossimo, rappresenta praticamente l’unico risultato dell’incontro appena concluso, anche se per molti appare già un successo alla luce delle tensioni che avevano caratterizzato la vigilia.

Ad annunciare il modesto risultato è stata la responsabile della politica estera dell’Unione Europea, Catherine Ashton, secondo la quale “la discussione è stata utile e costruttiva” e ora sarà necessario “procedere ad un più sostenuto processo di dialogo”. Profonde divisioni rimangono comunque non solo tra l’Iran e i P5+1 ma anche tra Russia e Cina da una parte e Stati Uniti e i loro alleati europei dall’altra (Francia, Gran Bretagna e Germania). Il capo dei negoziatori iraniani, Saeed Jalili, in ogni caso, ha anch’egli ammesso i progressi, aggiungendo che nel prossimo summit dovranno essere decise misure per costruire maggiore fiducia tra le parti.

I colloqui erano stati anticipati dalle consuete minacce di attacchi militari e nuove sanzioni, nonché dall’imposizione di condizioni inaccettabili, soprattutto dagli USA e da Israele. Alla luce della situazione, dunque, l’impegno a mantenere aperto un canale di comunicazione appariva come l’unico obiettivo raggiungibile.

Da Istanbul, così, non è uscita alcuna proposta o soluzione concreta. La stessa Ashton ha tuttavia riconosciuto la disponibilità al dialogo da parte dei rappresentanti della Repubblica Islamica e ha ribadito lo sforzo per giungere ad un accordo che garantisca il diritto di Teheran a sviluppare un proprio programma nucleare a scopi civili. Proposte più specifiche per tentare di risolvere l’annosa questione del nucleare iraniano dovrebbero verosimilmente essere presentate a Baghdad a maggio, mentre nel frattempo sarà interessante verificare l’atteggiamento di Washington e Tel Aviv.

Già a Istanbul, infatti, la posizione americana è apparsa in parte differente da quella ufficiale espressa dalla Ashton. Un anonimo diplomatico statunitense citato dal New York Times, ad esempio, ha affermato che la disponibilità al dialogo di Teheran non è sufficiente e rimane perciò valido l’ultimatum lanciato nelle scorse settimane dal presidente Obama, secondo il quale “la finestra della diplomazia si sta chiudendo” e il nuovo round di negoziati sarebbe l’ultima occasione per evitare nuove e più pesanti sanzioni o un attacco militare.

Il summit di Istanbul era iniziato con una cena informale venerdì sera, mentre i colloqui ufficiali sono iniziati sabato e sono stati caratterizzati da un’atmosfera più distesa rispetto all’ultimo incontro del gennaio 2011 che si chiuse con un nulla di fatto. Da parte iraniana, nei giorni scorsi erano giunti segnali di una qualche apertura.

Lunedì, il capo del nucleare iraniano, Fereydoun Abbasi, aveva lasciato intendere una qualche flessibilità sulla richiesta occidentale di fermare l’arricchimento di uranio al 20%. Jalili, a sua volta, aveva invece annunciato “nuove iniziative” per risolvere la crisi.

Nonostante le questioni concrete siano rimaste fuori dalle dichiarazioni ufficiali, domenica la stampa internazionale ha riportato svariate indiscrezioni. Secondo alcuni media, durante una sessione con la Ashton, Saeed Jalili avrebbe chiesto senza successo la sospensione di tutte le sanzioni applicate al suo paese alla luce della collaborazione mostrata con l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA).

Ancora, per il quotidiano israeliano Haaretz, gli iraniani avrebbero chiesto agli USA e ai governi europei l’impegno a non attaccare militarmente le installazioni nucleari sul proprio territorio mentre sono in corso i colloqui. L’agenzia di stampa ufficiale iraniana ISNA aveva poi scritto di una richiesta di un incontro bilaterale fatta dagli americani a Jalili e che quest’ultimo si era mostrato disponibile. Più tardi, l’agenzia di stampa Fars ha invece riportato il rifiuto del numero uno del team di Teheran a Istanbul.

Lo stesso Haaretz ha citato infine proprie fonti secondo le quali una possibile bozza di accordo da discutere a Baghdad potrebbe includere l’OK da parte dei P5+1 all’arricchimento dell’uranio ad un livello del 3,5%, invece che al 20%, in cambio del mantenimento in attività dell’installazione sotterranea di Fordo, presso la città sacra di Qom, e del continuo monitoraggio delle operazioni nucleari, cosa che Teheran ha peraltro sempre accettato.

Lo stop all’arricchimento dell’uranio al 20% e lo smantellamento di Fordo, per obbligare Teheran a trasferire gli equipaggiamenti nucleari in un sito più facilmente esposto a eventuali bombardamenti, erano due delle principali richieste fatte da USA e Israele prima del summit di Istanbul. Tra le altre, vi erano la possibilità di ispezionare qualsiasi sito da parte dell’AIEA e di intervistare tutti gli scienziati nucleari iraniani, esclusi ovviamente quelli assassinati negli ultimi anni dalle operazioni clandestine del Mossad.

Le prospettive di un accordo sul medio e lungo periodo rimangono comunque tutt’altro che rosee, soprattutto perché Stati Uniti, Israele ed altri governi europei utilizzano la questione del nucleare per giungere ad un cambiamento di regime in Iran.

Come ha scritto il giornalista investigativo americano Gareth Porter su IPS News qualche giorno fa, inoltre, gli Stati Uniti sembrano interessati non tanto ad un accordo comprensivo quanto a tenere aperto un canale di dialogo con Teheran fino a dopo l’eventuale rielezione di Barack Obama, così da tenere a bada Israele ed evitare una nuova guerra in Medio Oriente e le inevitabili ripercussioni sulla campagna elettorale per la Casa Bianca.

di Michele Paris

Il Parlamento del Pakistan ha approvato giovedì all’unanimità un documento in quattordici punti che dovrebbe riorientare la politica estera del paese centro-asiatico e ripristinare i rapporti con gli Stati Uniti, dopo il gelo seguito alla strage di soldati pakistani ad opera di aerei americani lo scorso mese di novembre. L’incidente aveva determinato la chiusura ai convogli NATO dei valichi di frontiera con l’Afghanistan, la cui riapertura dovrebbe teoricamente essere ora vincolata ad una serie di richieste sottoposte alla Casa Bianca, tra cui lo stop agli attacchi condotti dalla CIA con i droni nelle aree tribali pakistane.

Le operazioni condotte con i velivoli senza pilota sono considerate dagli USA uno strumento fondamentale per colpire le reti terroristiche che trovano rifugio nelle province pakistane al confine con l’Afghanistan. Queste incursioni, notevolmente aumentate sotto l’amministrazione Obama, causano regolarmente vittime civili e sono perciò molto impopolari tra gli abitanti dei villaggi colpiti. La cessazione dei raid della CIA, peraltro più o meno tacitamente approvati dal governo di Islamabad, è stata chiesta dal Pakistan in più occasioni in passato ma non è mai stata presa in considerazione da Washington.

La cosiddetta Commissione Parlamentare per la Sicurezza Nazionale (PCNS) ha presentato alle due camere riunite in sessione congiunta la propria proposta di revisione della politica estera, basata sulla riaffermazione della sovranità del Pakistan e sul ristabilimento dei rapporti con gli Stati Uniti sulla base del mutuo rispetto per l’indipendenza e l’integrità territoriale dei due paesi.

Quella di porre fine agli attacchi fa parte di una serie di richieste fatte dall’opposizione, tra cui la Lega Musulmana del Pakistan (PML-N) dell’ex premier Nawaz Sharif e il partito islamico Jamiat Ulema-e-Islam (JUI-F), e inserite nel documento della Commissione per assicurarsi il maggior consenso possibile in parlamento in vista dei difficili e impopolari negoziati che si apriranno a breve con gli USA per la riapertura delle rotte di transito alle forniture NATO verso l’Afghanistan.

Tra gli altri punti più importanti usciti dal lavoro di oltre due settimane della Commissione c’è la raccomandazione che il territorio pakistano non venga utilizzato per il trasporto di armi e munizioni dirette in Afghanistan. Questo riferimento lascia intendere che i valichi di frontiera potranno appunto essere riaperti, dal momento che in questi anni da essi raramente sono transitate armi o munizioni. La riapertura, in ogni caso, non viene nominata esplicitamente, così che l’incombenza della decisione ufficiale viene lasciata al governo.

Inoltre, viene stabilito che tutti gli accordi o le intese verbali relative alla sicurezza nazionale cesseranno di avere valore con effetto immediato. Un passaggio, quest’ultimo, che si riferisce probabilmente agli accordi non ufficiali siglati nel passato tra gli Stati Uniti e i potenti vertici militari pakistani.

Sempre rivolte agli americani sono anche le questioni del nucleare e della sicurezza energetica del Pakistan. La prima va fatta risalire al desiderio di Islamabad di ottenere dagli Stati Uniti un accordo sulla cooperazione nucleare civile simile a quello garantito da Washington all’India nel 2005. Questo accordo speciale, promosso dall’amministrazione Bush, per il Pakistan ha infatti modificato gli equilibri strategici nella regione a vantaggio dell’India, anch’essa come il vicino non firmataria del Trattato di Non Proliferazione Nucleare.

La seconda questione riguarda invece l’esortazione a perseguire la costruzione di nuovi gasdotti che colleghino il Pakistan con il Turkmenistan e l’Iran. Quello con la Repubblica Islamica, come ovvio, è fortemente osteggiato dagli USA e rappresenta uno dei numerosi punti critici del rapporto tra i due paesi.

Infine, la risoluzione chiede anche la proibizione dell’ingresso in Pakistan di contractors privati o agenti di intelligence stranieri. Anche in questo caso ha pesato l’ostilità diffusa nel paese verso gli operativi soprattutto americani impiegati in territorio pakistano e che nel recente passato si sono resi protagonisti di incidenti spesso mortali.

L’intero processo di revisione della politica estera pakistana appare comunque come un’operazione puramente di facciata, messa in atto dalle élite politiche del paese per rispondere in qualche modo alla profonda avversione nutrita dalla maggioranza della popolazione sia verso di esse sia per gli americani e la loro condotta, esemplificata proprio dai raid operati con i droni nelle aree tribali.

La creazione di una speciale Commissione si è resa in sostanza necessaria in seguito alle crescenti proteste nel paese, sia contro le incursioni dei droni che dopo l’incidente del novembre 2011 che ha causato la morte di 24 soldati pakistani. Per quest’ultimo episodio la Commissione chiede ora le scuse ufficiali da parte degli USA, un processo ai responsabili e la promessa che incidenti simili non si ripeteranno nuovamente.

Le raccomandazioni, in ogni caso, non sono vincolanti ma toccherà al governo implementarle dopo una serie di colloqui con gli Stati Uniti. Il governo del premier, Yousaf Raza Gilani, e del presidente, Asif Ali Zardari, così come gran parte dell’opposizione, non vuole d’altra parte rompere con gli USA, da cui il Pakistan dipende economicamente. I segnali del desiderio di ristabilire i rapporti dopo un periodo difficile erano infatti già giunti nei mesi scorsi e il percorso verso la normalizzazione, secondo alcuni, era stato aperto un paio di settimane fa nel corso di un faccia a faccia tra Obama e Gilani a margine di un summit sul nucleare a Seoul, in Corea del Sud.

Allo stesso tempo, però, nessuna parte politica intende assumersi la responsabilità di aver dato il via libera al riavvicinamento con Washington a fronte dei malumori popolari. Da qui, dunque, la soluzione di creare una Commissione con l’incarico ufficiale di fissare dei paletti alla cooperazione con gli americani e di ridisegnare i termini dell’alleanza.

Che l’esito del lavoro della Commissione Parlamentare per la Sicurezza Nazionale sia in sostanza solo fumo negli occhi per l’opinione pubblica pakistana è confermato infine anche dalle reazioni di Washington. Dagli Stati Uniti si attendeva infatti con ansia il voto del parlamento sulla risoluzione, così da dare una parvenza di dibattito attorno alle questioni più delicate e tornare in fretta alle vecchie consuetudini che prevedono, tra l’altro, incursioni indiscriminate con i droni della CIA e l’utilizzo di rotte fondamentali sul territorio del Pakistan per rifornire le forze di occupazione nel vicino Afghanistan.

di Michele Paris

Qualche giorno fa, la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo ha stabilito la legalità dell’estradizione verso gli Stati Uniti di cinque accusati di terrorismo da tempo detenuti in Gran Bretagna. L’importante sentenza, oltre a segnare un precedente nefasto e ad assestare un colpo gravissimo ai diritti democratici dei cittadini, per i sospettati in questione apre la strada alla detenzione a vita in un carcere di massima sicurezza in territorio americano.

Tra i cinque accusati, il più famoso è Abu Hamza al-Masri, egiziano di nascita e già predicatore radicale a capo della famigerata moschea di Finsbury Park, a Londra, da dove prima dell’11 settembre sono passati numerosi estremisti islamici coinvolti in svariati attentati portati a termine o falliti.

Nel 2006, Masri fu processato e condannato a sette anni di carcere in Gran Bretagna per aver incitato alla jihad nei suoi discorsi. Masri, il quale ha perso un occhio e l’avambraccio destro in un’esplosione in Afghanistan nel 1989, deve fronteggiare negli USA undici capi d’imputazione in relazione a rapimenti di turisti in Yemen nel 1998, incitamento alla guerra santa in Afghanistan nel 2001 e per il tentativo di istituire un campo di addestramento per militanti a Bly, in Oregon, tra il 2000 e il 2001.

Gli altri quattro, invece, non mai stati accusati formalmente né processati in Gran Bretagna ma rimangono incarcerati secondo le consuetudini pseudo-legali adottate anche in questo paese dopo l’11 settembre e il lancio della guerra al terrore.

Tra di essi vi è Babar Ahmad, cittadino britannico detenuto da otto anni durante i quali è stato sottoposto a ripetuti abusi psicologici e sessuali. Arrestato per la prima volta nel 2003, Ahmad ricevette dal governo di Londra svariate decine di migliaia di sterline come riparazione per il trattamento subito, anche se è rimasto in carcere in seguito alla richiesta di estradizione dagli Stati Uniti. Assieme a Seyla Talha Ahsan, Babar Ahmad è accusato di aver gestito in Inghilterra dei siti web radicali legati ad Al-Qaeda tra il 1997 e il 2004. La giustificazione per la richiesta di estradizione americana è la registrazione in Connecticut dei server utilizzati.

Gli ultimi due accusati - Adel Abdul Bary e Khaled al-Fawwaz, rispettivamente egiziano e saudita - sono detenuti senza processo da dodici anni e vennero arrestati per la loro presunta responsabilità negli attentati del 1998 contro le ambasciate americane di Dar es Salaam, in Tanzania, e di Nairobi, in Kenya, che fecero più di 200 morti. Il destino di un ultimo accusato, Haroon Rashid Aswat, resta ancora da stabilire, mentre gli altri cinque sui quali la Corte con sede a Strasburgo ha deciso martedì avranno tre mesi di tempo per presentare appello alla cosiddetta Grande Camera con ben poche probabilità di successo.

Le richieste di estradizione dagli Stati Uniti sono state emesse in base ad un trattato con la Gran Bretagna siglato all’indomani dell’11 settembre. Questo trattato concede ampi poteri alle autorità giudiziarie britanniche sulla sorte dei sospettati e afferma che chiunque abbia commesso reati che infrangono la legge americana, anche se commessi in Gran Bretagna, possa essere estradato negli USA. Inoltre, gli Stati Uniti non sono tenuti a presentare prove delle accuse, bensì soltanto “ragionevoli sospetti”.

Il caso di Masri e degli altri sospettati di terrorismo era finito davanti alla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo dopo che le autorità britanniche avevano dato l’OK alla loro estradizione. Per ottenere il parere positivo di queste ultime, da Washington erano stati costretti ad assicurare, come se fosse necessario per un paese civile, che gli accusati non sarebbero stati sottoposti a “rendition”, che avrebbero avuto processi in corti federali civili e non sarebbe stata chiesta per loro la pena capitale.

Il trasferimento negli Stati Uniti era stato comunque bloccato nel luglio 2010 in attesa di un parere della stessa Corte, la quale in quell’occasione aveva espresso il timore che gli accusati avrebbero potuto andare incontro negli USA a “punizioni inumane e degradanti”, proibite dalla legislazione europea. Tra le questioni che preoccupavano maggiormente la Corte vi erano l’eventualità di una detenzione prolungata in stato di isolamento e la prospettiva dell’ergastolo senza possibilità di libertà sulla parola.

Con la sentenza di martedì la stessa Corte ha invece stabilito che questi punti non rappresentano una violazione dei diritti umani degli accusati. L’isolamento, infatti, sarebbe “una modalità di vita normale” nelle prigioni di massima sicurezza come quella in Colorado che attende i cinque presunti terroristi. Inoltre, qui essi avrebbero a disposizione attività e servizi che “superano quelli offerti dalla maggior parte delle carceri europee”. La detenzione a vita e senza libertà sulla parola, secondo i membri della Corte, appare infine “proporzionata alla serietà delle accuse in questione”.

Prima di essere verosimilmente destinati al carcere di Florence, in Colorado, tre degli accusati - Masri, Bary e Fawwaz - finiranno con ogni probabilità sotto custodia in un carcere di Manhattan, dove contro di loro sono aperti dei procedimenti presso la Corte federale del distretto meridionale di New York.

Sulla decisione presa dalla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo hanno pesato le pressioni di molti politici britannici, il quali alla vigilia avevano sostenuto che un verdetto contro l’estradizione avrebbe danneggiato gravemente i rapporti tra Washington e Londra. Per altri, addirittura, un parere a favore agli accusati avrebbe dovuto far considerare al governo il ritiro della Gran Bretagna dalla Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo, la quale ha appunto istituito la Corte nel 1959.

Tanto più che lo scorso gennaio la stessa Corte aveva respinto la richiesta di estradizione verso la nativa Giordania di Abu Qatada, un altro predicatore radicale accusato di essere uno dei leader di Al-Qaeda in Nord Africa, detenuto senza processo in Gran Bretagna dal 2005 e rilasciato solo nel mese di febbraio. Il caso Qatada aveva sollevato le proteste del premier David Cameron e del presidente francese, Nicolas Sarkozy, entrambi molto critici nei confronti della Corte Europea.

La nuova attitudine della Corte, confermata dalla sentenza di questa settimana, ha implicazioni che vanno ben al di là delle questioni relative al terrorismo. Solo qualche settimana fa, infatti, un’altra sentenza a dir poco discutibile aveva deliberato l’estradizione negli USA di uno studente britannico, Richard O’Dwyer, accusato di aver violato la legge sul diritto d’autore con il suo sito che proponeva dei link ad altri siti che offrivano il download di programmi televisivi protetti da copyright.

Soprattutto, la decisione di martedì sembra preannunciare la sorte del fondatore di WikiLeaks, Julian Assange, in attesa dell’imminente sentenza d’appello presso la Corte Suprema britannica circa la sua estradizione in Svezia - e da qui negli Stati Uniti - per fronteggiare accuse di stupro gonfiate e politicamente motivate. Se la Corte Suprema di Londra dovesse infatti negare il ricorso di Assange, la sua ultima speranza sarebbe appunto la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo.

di Michele Paris

Con un annuncio a sorpresa, martedì Rick Santorum ha improvvisamente abbandonato la corsa alla nomination per il Partito Repubblicano, lasciando via libera al già favoritissimo rivale interno, Mitt Romney. Le chances dell’ex senatore ultraconservatore della Pennsylvania di diventare il candidato repubblicano per la Casa Bianca erano in realtà svanite da tempo, anche se sembrava sussistere un’esile speranza di giocarsi il tutto per tutto in una convention “aperta” a fine agosto, uno scenario peraltro estremamente remoto nel panorama politico moderno degli Stati Uniti.

L’annuncio ufficiale del ritiro è andato in scena a Gettysburg, nella sua Pennsylvania, le cui primarie del prossimo 24 aprile erano viste fino a un paio di giorni fa come l’ultima spiaggia per la sua campagna, al termine di un mese complicato e in vista di stati più favorevoli che avrebbero dovuto invece votare a maggio. A fianco della moglie in lacrime e di quattro dei suoi sette figli, il figlio di immigrati italiani originari di Riva del Garda ha tenuto un discorso di pochi minuti in una sala conferenze di un piccolo hotel, affermando che la decisione di lasciare era stata presa già nel fine settimana e che, nonostante “questa corsa alla presidenza per noi è finita, non smetteremo di lottare”.

Come da copione per i candidati alla Casa Bianca, fino a lunedì Santorum e il suo staff avevano assicurato di voler rimanere in corsa ancora a lungo. Le indiscrezioni su un suo possibile ritiro erano però iniziate a circolare da qualche giorno dopo il ricovero in ospedale avvenuto venerdì scorso della sua ultima figlia di tre anni, Bella, affetta da una grave malattia genetica (Trisomia 18 o Sindrome di Edwards).

Il dramma familiare di Santorum ha forse fornito l’occasione all’ex senatore di abbandonare con onore la corsa ad una nomination che sembrava sempre più lontana. L’esito della competizione ha così evitato una disputa prolungata all’interno del partito che avrebbe potuto compromettere una già difficile sfida a Barack Obama il prossimo novembre. Per questo, gli stessi vertici repubblicani avevano progressivamente aumentato le pressioni su Santorum per interrompere la corsa, soprattutto dopo la decisiva sconfitta della settimana scorsa in Wisconsin.

La permanenza nella competizione fino ad aprile inoltrato, malgrado meno della metà dei delegati conquistati rispetto a Romney, è stata dovuta principalmente al consenso raccolto da Santorum tra le frange di estrema destra del partito, in particolare tra gli evangelici e gli affiliati ai Tea Party che, insieme, compongono una consistente fetta dell’elettorato repubblicano, in particolare nel sud del paese.

Questo successo, assieme allo scetticismo dei votanti più conservatori nei confronti di Romney, ha così permesso a Santorum di vincere inaspettatamente una serie di primarie, a cominciare dai caucus dell’Iowa che avevano aperto la stagione elettorale 2012 ai primi di gennaio.

Il fattore finanziario ha anch’esso avuto un ruolo fondamentale nella decisione presa da Santorum. Costretto fin dall’inizio a gestire una complessa campagna con mezzi limitati, quest’ultimo ha visto a poco a poco scemare l’entusiasmo dei suoi più generosi donatori. La mancanza di fondi avrebbe inoltre determinato con ogni probabilità una sconfitta devastante in Pennsylvania - dove Romney aveva pianificato un massiccio investimento di denaro - determinando a sua volta un ulteriore calo delle entrate per finanziare la campagna del mese di maggio.

La conquista di fatto della nomination rappresenta invece per Romney il coronamento di un sogno perseguito almeno fin dal 2007, quando scese in campo per succedere a George W. Bush ma fu sconfitto precocemente da John McCain nonostante l’ampio vantaggio in termini di disponibilità finanziarie. La possibilità di correre per la Casa Bianca è costata a Mitt Romney in questi anni decide di milioni di dollari e lo ha costretto a rinnegare praticamente ogni opinione o iniziativa di stampo moderato che avevano caratterizzato la sua precedente carriera politica, così da accreditarsi come autentico conservatore.

Pur esponendosi alle accuse d’incoerenza e trasformismo, grazie soprattutto alle donazioni incassate da finanziatori in gran parte di Wall Street, con i quali aveva coltivato proficui rapporti durante i suoi anni alla guida di una compagnia operante nel “private equity”, Romney ha assistito fin dallo scorso anno all’ascesa e alla più o meno rapida caduta di uno sfidante dopo l’altro, da Rick Perry a Michele Bachmann, da Herman Cain a Newt Gingrich, fino a Rick Santorum.

Dal Delaware, dove il 24 aprile si terranno le primarie dello stato, Romney ha accolto la notizia del ritiro del suo principale rivale elogiandolo per “l’importante contributo portato al processo politico” e, già preannunciando un’offensiva per ingraziarsi i suoi sostenitori, ha ringraziato Santorum per aver sollevato una serie di questioni che gli stanno molto a cuore. Un riferimento, quest’ultimo, ai temi sociali che l’hanno messo in difficoltà fin da subito con gli elettori conservatori.

L’addio di Santorum consentirà a Romney di risparmiare parecchio denaro che avrebbe dovuto spendere nelle prossime primarie in calendario, a cominciare proprio dalla Pennsylvania, dove la sua organizzazione aveva preventivato un esborso di quasi 3 milioni di dollari in campagne pubblicitarie, cioè un importo pari a circa il 40% del denaro totale a disposizione alla fine di febbraio. Il nuovo scenario, oltretutto, eviterà al miliardario mormone un’altra serie di sconfitte umilianti negli stati del sud che andranno alle urne a breve, come Arkansas o North Carolina.

Per Romney, in ogni caso, rimane aperta la questione del voto conservatore tutto da conquistare, proprio mentre si sta per aprire una nuova fase della campagna elettorale nella quale in genere i candidati alla Casa Bianca tendono a spostarsi su posizioni più moderate per attrarre il consenso degli elettori indipendenti.

L’essersi scrollato di dosso Santorum segna comunque una tappa importante nella corsa di Romney, il quale potrà ora dedicarsi alla raccolta di fondi per l’elezione generale, ma anche parlare delle questioni economiche invece dei temi sociali e concentrare i propri attacchi sul presidente Obama, la cui organizzazione per la rielezione ha da poco iniziato a prendere di mira il suo prossimo sfidante.

Nelle restanti primarie rimarranno ancora in corsa gli altri due sfidanti, il deputato libertario del Texas, Ron Paul, e l’ex speaker della Camera, Newt Gingrich, la cui presenza sulle schede elettorali è però solo simbolica, dal momento che nessuno dei due ha nemmeno la possibilità di aggiudicarsi una sola competizione da qui a giugno.

Per quanto riguarda Santorum, invece, oltre all’eventualità di ottenere un qualche incarico in un’ipotetica amministrazione Romney in cambio del suo abbandono e di un possibile “endorsement” a breve, secondo alcuni osservatori si potrebbe aprire un percorso nuovo che lo condurrebbe ad un secondo tentativo nel 2016, potendo contare su una consolidata rete di sostenitori e finanziatori, nonché su un panorama politico americano che continua a spostarsi sempre più a destra.

Il bilancio finale della sua corsa nelle primarie 2012 è stato di dieci vittorie in altrettanti stati con la conquista, secondo le stime della Associated Press, di 285 delegati, contro i 661 finora accumulati da Romney. Una parte dei delegati vinti, circa un terzo, erano cosiddetti “unbound” e cioè già liberi di votare qualsiasi candidato alla convention di agosto. Gli altri due terzi, al contrario, rimarranno vincolati a Santorum, costringendo Romney ad attendere ancora qualche settimana per raggiungere la soglia dei 1.144 delegati necessari per assicurarsi formalmente la nomination, a meno che l’ex senatore della Pennsylvania non dichiari in maniera ufficiale di lasciarli liberi di scegliere il candidato preferito.

di Michele Paris

I colloqui sul nucleare tra l’Iran e i cinque membri del Consiglio di Sicurezza ONU più la Germania riprenderanno nel fine settimana a Istanbul dopo lo stallo dell’ultimo round di negoziati nel gennaio 2011. La vigilia del summit è stata prevedibilmente animata dalle minacce di Stati Uniti e Israele verso Teheran e dall’imposizione di ultimatum e condizioni inaccettabili che già fanno presagire un nuovo fallimento dell’atteso vertice.

Negli ultimi giorni, da Washington e Tel Aviv sono giunte dichiarazioni nelle quali, in sostanza, in cambio della firma di un accordo, si chiede all’Iran di fermare l’arricchimento dell’uranio al 20%, il trasferimento di quello già arricchito a questo livello ad un paese estero “affidabile”, lo smantellamento dell’impianto sotterraneo di Fordo e l’apertura ad ispezioni a tappeto nel paese da parte dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA).

A ribadire le condizioni poste dall’Occidente e da Israele all’Iran per evitare ulteriori sanzioni, o un attacco militare, sono stati più recentemente il Ministro della Difesa israeliano, Ehud Barak, nel corso di un’intervista rilasciata domenica alla CNN e lo stesso Segretario di Stato americano, Hillary Clinton.

I rappresentanti iraniani dovrebbero incontrare quelli del gruppo dei cosiddetti P5+1 (USA, Gran Bretagna, Francia, Russia, Cina e Germania) a partire da sabato prossimo a Istanbul per trovare un punto di incontro sull’annosa questione del programma nucleare di Teheran. Le parti restano però molto lontane tra loro, come conferma la risposta alle imposizioni occidentali del Ministro degli Esteri iraniano. Secondo quanto riportato dalla stampa ufficiale, lunedì Ali Akbar Salehi ha infatti affermato che il suo paese non intende accettare le pre-condizioni stabilite dagli USA e dai loro alleati per la riapertura dei negoziati.

Che la Repubblica Islamica, o per lo meno alcuni settori all’interno del regime, intenda evitare l’ennesimo scontro frontale con l’Occidente in un momento in cui le sanzioni stanno danneggiando l’economia del paese, è apparso chiaro da altri segnali provenienti da Teheran. Sempre lunedì, il capo del nucleare iraniano, Fereydoun Abbasi, in un’intervista a una rete televisiva locale, ha lasciato intendere che Teheran potrebbe mostrare una certa flessibilità sullo stop all’arricchimento dell’uranio al 20%. Tutt’altro che chiara appare tuttavia al momento la posizione ufficiale che l’Iran terrà a Istanbul tra qualche giorno.

La gravità dello scontro tra Iran e Occidente era emersa nei giorni scorsi anche relativamente alla località prescelta per gli stessi colloqui. Da Teheran avevano cioè fatto sapere di non gradire Istanbul, verosimilmente a causa delle profonde divergenze con il governo turco su almeno due questioni: la Siria e la decisione di Ankara di ospitare sul proprio territorio un sistema di difesa anti-missile della NATO rivolto proprio contro l’Iran. Il premier turco Erdogan, recatosi a Teheran giusto qualche giorno prima, aveva reagito duramente alle polemiche su Istanbul, anche se alla fine il governo iraniano ha deciso di dare l’OK alla metropoli sul Bosforo.

Quanto alle già ricordate condizioni elencate dagli Stati Uniti e da Israele, invece, esse vengono poste precisamente per provocare una reazione negativa da parte iraniana, così da far naufragare i negoziati accusando Teheran e giustificare l’adozione di nuove pesanti sanzioni o un attacco militare contro le installazioni nucleari.

Oltre ad aver affermato ufficialmente in varie occasioni che il proprio governo non intende perseguire la costruzione di armi atomiche, l’Iran ha in ogni caso il diritto di sviluppare un programma nucleare a scopi civili, in quanto firmatario del Trattato di Non Proliferazione (TNP). L’impianto di Fordo, poi, è stato costruito in un ambiente più facilmente difendibile in seguito alle ripetute minacce di attacco militare da parte di USA e Israele.

La rinuncia a questa struttura appare perciò difficilmente accettabile, poiché significherebbe trasferire tutte le attrezzature operanti a Fordo in un sito più vulnerabile ai bombardamenti americani o israeliani. Le ispezioni dell’AIEA, infine, sono definite dallo stesso TNP e le richieste di visitare strutture non incluse dagli accordi già presi non sono mai state ratificate dall’Iran.

Ciononostante, le manipolazioni delle missioni AIEA e dei resoconti giornalistici seguiti alle ispezioni sono pratica corrente. A questo proposito, un articolo datato 20 marzo del giornalista investigativo americano Gareth Porter per l’agenzia IPS News ha smentito quanto riportato dai media occidentali e cioè che l’Iran si sarebbe rifiutato di collaborare con l’AIEA dopo la missione di quest’ultima a fine gennaio.

Basandosi su quanto rivelato dal rappresentante iraniano presso l’AIEA a Vienna, Ali Asghar Soltanieh, Porter scrive che durante l’ultima ispezione, l’agenzia aveva chiesto di recarsi alla base militare di Parchin - dove, secondo un rapporto della stessa AIEA del novembre 2011, erano emersi possibili indizi di un test nucleare a scopi militari - sconfessando un accordo con il governo iraniano che prevedeva una tale visita di lì a qualche settimana. Al comprensibile rifiuto di Teheran, il direttore generale dell’AIEA, Yukia Amano, con ogni probabilità dopo essersi consultato con Washington, ha ordinato il ritiro degli ispettori, respingendo l’invito fatto dall’Iran di rimanere per un altro giorno nel paese.

Inoltre, sempre secondo Soltanieh, durante la stessa visita, l’AIEA avrebbe preteso di riaprire una serie di questioni legate al programma nucleare alle quali l’Iran aveva già dato risposta. Per la Repubblica Islamica, accettare queste condizioni e tornare su argomenti già chiariti avrebbe innescato un “processo infinito”. La vicenda descritta da Gareth Porter rappresenta un perfetto esempio di come le missioni di un’agenzia ONU vengano manipolate dai suoi stessi vertici, dai governi occidentali e dai media per fabbricare accuse di mancata collaborazione con l’AIEA nei confronti dell’Iran, dove, di conseguenza, esisterebbe un programma nucleare militare da nascondere a tutti i costi.

Con questi pretesti, dunque, è possibile continuare ad alimentare le tensioni e ad esercitare pressioni sull’Iran, in primo luogo da parte di Israele, un paese che con il pieno appoggio degli Stati Uniti ha ammassato centinaia di testate nucleari non dichiarate pur non essendo firmatario del TNP e non accettando alcuna ispezione di organi internazionali sul proprio territorio.

Veri responsabili della destabilizzazione del Medio Oriente, Washington e Tel Aviv intendono assicurarsi che l’Iran non raggiunga nemmeno la capacità teorica di costruire un’arma nucleare, così da mantenere la propria supremazia militare nella regione e intraprendere campagne di aggressione senza incorrere in ritorsioni significative.

In ultima analisi, l’obiettivo rimane quello di piegare il governo di Teheran con sanzioni economiche e, eventualmente, un’aggressione militare per giungere a un cambio di regime che, una volta caduto anche Assad in Siria, consentirebbe di espandere l’egemonia statunitense dal Mediterraneo all’Afghanistan, un territorio sconfinato che conserva la maggior parte delle risorse energetiche del pianeta.

Oltre alle sanzioni implementate o annunciate nelle ultime settimane, gli Stati Uniti continuano a preparare il terreno anche per una possibile operazione militare, come conferma il recente invio di altre due portaerei (USS Abraham Lincoln e USS Enterprise) nel Golfo Persico. Altre provocazioni e attività illegali contro l’Iran sono state poi documentate da due recenti articoli apparsi su altrettanti media d’oltreoceano.

Settimana scorsa, sul New Yorker, Seymour Hersh ha citato fonti anonime di intelligence e degli ambienti militari, secondo le quali le forze speciali a stelle e strisce (JSOC) hanno regolarmente addestrato membri del gruppo terroristico Mujahedin-e-Khalq (MEK) - già impiegati dal Mossad per compiere attentati in territorio iraniano - per condurre operazioni sotto copertura. Il Washington Post, infine, ha pubblicato domenica scorsa una lunga indagine che descrive come i servizi segreti americani da oltre tre anni a questa parte utilizzino una flotta di droni per sorvolare l’Iran e raccogliere preziose informazioni nel paese mediorientale.


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