di Michele Paris

In un’atmosfera profondamente diversa da quella che aveva caratterizzato la vigilia elettorale del 2008, il Partito Democratico ha aperto martedì la propria convention nazionale a Charlotte, in North Carolina, per candidare ufficialmente Barack Obama ad un secondo mandato alla Casa Bianca. In tre giorni dominati dalla consueta retorica, il partito del presidente cercherà di presentarsi compatto nella difesa degli interessi della classe media americana, così da provare a rianimare un elettorato deluso da quattro anni caratterizzati da un costante spostamento a destra.

La prima giornata alla Time Warner Cable Arena ha visto gli interventi, tra gli altri, della first lady Michelle Obama, del leader di maggioranza al Senato Harry Reid e, in collegamento video, dell’ex presidente Jimmy Carter, mentre lobbisti e rappresentanti delle corporation a stelle e strisce hanno tenuto i loro incontri con i delegati democratici lontani dai riflettori. Anche se il partito di Obama aveva promesso ufficialmente di rifiutare i contributi delle grandi aziende, come ha rivelato martedì Bloomberg News, compagnie come Bank of America e Wells Fargo hanno sborsato almeno 20 milioni di dollari per finanziare la convention dopo che il comitato organizzatore ha faticato a reperire i 52 milioni necessari per coprire i costi.

A tenere banco questa settimana, in ogni caso, sarà innanzitutto la difesa dei presunti successi del presidente uscente in questi quattro anni alla guida del paese, nonché lo sforzo nel dipingere un eventuale successo elettorale del Partito Repubblicano come un pericolo mortale per la sorte di programmi pubblici come Medicare e Medicaid, di cui beneficiano decine di milioni di americani. Un ticket Romney-Ryan, secondo i democratici, porterebbe inoltre un ulteriore taglio alle tasse per i redditi più elevati, con un conseguente assottigliamento dei servizi pubblici per quelli più bassi, ma anche un attacco ai diritti delle minoranze etniche, degli omosessuali e all’aborto.

La strategia messa in campo a Charlotte dai democratici è d’altra parte consolidata e prevede il rispolveramento della retorica populista e l’agitazione dello spettro di una vittoria repubblicana, in modo da motivare la propria base elettorale, per poi svoltare puntualmente a destra una volta al potere.

La natura stessa del Partito Repubblicano, che ha chiuso la propria convention giovedì scorso con uno scoraggiante discorso di Mitt Romney, offre d’altra parte ai democratici l’occasione di modellare un’immagine del tutto fittizia del loro partito, teoricamente portatore di valori diametralmente opposti. Così, ad esempio, laddove i repubblicani sono apertamente l’espressione dei settori privilegiati e più reazionari della società americana, i democratici rivendicano la difesa della classe media.

Allo stesso modo, mentre quello Repubblicano appare sempre più il partito dell’alta borghesia bianca, i democratici cercano di mostrare una realtà multirazziale, non solo attraverso la candidatura del primo presidente afro-americano della storia americana, ma anche con la presenza a Charlotte di numerosi delegati di colore o ispanici. Uno di questi ultimi è Julian Castro, il giovane sindaco di San Antonio, nel Texas, astro nascente democratico che martedì ha tenuto il discorso programmatico (“keynote speech”) di fronte alla convention, proprio come aveva fatto Obama nel 2004 a Boston.

A ben vedere, tuttavia, le differenze tra i due partiti sono in gran parte secondarie, dal momento che entrambi si sono ormai trasformati in organizzazioni ad esclusiva difesa degli interessi delle diverse sezioni delle élite economiche e finanziarie americane.

Se la campagna elettorale democratica di questi ultimi mesi, ribadita nel corso del raduno di Charlotte, cerca in tutti i modi di presentare quella di novembre come un’elezione nella quale le differenze tra i due candidati e i due partiti non sono mai state così marcate, dal prossimo mese di gennaio, chiunque entrerà alla Casa Bianca, a prevalere saranno gli elementi di continuità rispetto ai cambiamenti.

Questa prospettiva risulta tanto più probabile dal confronto con lo scenario seguito al voto del 2008, quando la candidatura e il successo schiacciante di Barack Obama avevano suscitato enormi entusiasmi ed aspettative di cambiamento al termine dei due mandati di un’amministrazione Bush che aveva lasciato la Casa Bianca con un livello di popolarità ai minimi storici.

Nonostante le premesse, Obama, il cui partito per due anni ha conservato una netta maggioranza in entrambi i rami del Congresso, ha rinnegato in fretta le promesse elettorali che prospettavano un’inversione di rotta radicale per il paese, abbracciando molte delle politiche del suo predecessore.

Sulle questioni della sicurezza nazionale, così, il presidente democratico ha fatto propri i metodi anti-democratici che avevano caratterizzato la prima fase della “guerra al terrore”, giungendo addirittura ad auto-proclamarsi unica e indiscussa autorità nel decidere della vita o della morte dei sospettati di terrorismo, cittadini americani compresi. Inoltre, se l’avventura in Iraq è stata segnata da un parziale disimpegno, peraltro più forzato che voluto, la guerra in Afghanistan ha fatto segnare un’escalation di violenze e abusi. In Libia, infine, è stato scatenato un conflitto sanguinoso unicamente per rovesciare un regime sgradito in nome della lotta per la democrazia, fissando un inquietante precedente che potrebbe essere ripetuto a breve in Siria e in Iran.

Sul fronte interno, la riforma sanitaria, altro cavallo di battaglia della propaganda democratica a Charlotte, si è risolta in un provvedimento che ha messo al centro dell’attenzione la riduzione dei costi e il profitto delle compagnie assicurative private invece del diritto alla salute di tutti i cittadini, due principi sui quali, nonostante le critiche a molti aspetti della legge, concordano pienamente anche i repubblicani.

Per quanto riguarda l’economia, questi anni di profonda crisi hanno visto l’amministrazione Obama piegarsi al volere delle grandi banche di Wall Street, la cui smisurata influenza sulla politica di Washington ha impedito l’adozione di un sistema di regolamentazione realmente efficace. Il propagandato salvataggio del settore automobilistico ha poi gettato le basi per i ripetuti attacchi ai diritti e alle retribuzioni dei lavoratori americani sia del settore pubblico che di quello privato. Il soccorso federale a General Motors e a Chrysler ha cioè comportato il dimezzamento degli stipendi dei nuovi assunti e la fine dei benefici conquistati in decenni di lotte sindacali e che avevano contribuito a creare quella classe media che i democratici pretendono oggi di difendere.

In occasione della convention di questa settimana, si stanno moltiplicando gli sforzi di commentatori liberal, esponenti sindacali e gruppi di sinistra per spiegare come, nonostante i limiti del Partito Democratico, per classe media e lavoratori è necessario votare a favore di quest’ultimo, di gran lunga il male minore di fronte alla minaccia di un trionfo repubblicano. Questi ambienti della borghesia progressista, perfettamente integrati in un sistema che continua a produrre disoccupazione, precarietà e povertà, alimentano nella base elettorale democratica l’illusione che il partito di Obama possa essere spinto a sinistra dalle pressioni e da un’improbabile mobilitazione popolare.

La deriva del Partito Democratico appare però irreversibile, poiché prodotta da decenni di profondi cambiamenti economici e sociali che, con il progressivo indebolimento del capitalismo americano su scala globale, hanno portato ad un’offensiva dei grandi interessi economici che detengono ormai un assoluto monopolio sulle decisioni che vengono prese a Washington.

Sulla natura del partito, tuttavia, non vi sarà ovviamente alcuna riflessione durante la convention di Charlotte, dove, come al solito, è stata invece presentata una piattaforma programmatica che verrà regolarmente disattesa al termine del ciclo elettorale in corso. I democratici hanno diligentemente snocciolato i temi e le proposte care al liberalismo a stelle e strisce, come la lotta al cambiamento climatico, l’aumento del carico fiscale per i ricchi, la riforma finanziaria, il contenimento dell’influenza dei grandi interessi sulla politica, la difesa dei diritti civili, delle libertà individuali, dell’interruzione di gravidanza e così via.

Tutte questioni, queste ultime, sulle quali l’amministrazione Obama negli ultimi quattro anni si è però mossa in direzione opposta rispetto a quanto già promesso nel 2008. Una realtà ben compresa dalla maggioranza degli americani, i quali difficilmente potranno essere convinti dal palcoscenico di Charlotte che in un secondo mandato le cose andranno diversamente.

Se pure Obama dovesse riuscire a confermarsi presidente, come indicano i sondaggi a due mesi dal voto, le ragioni della vittoria andranno piuttosto ricercate nell’impopolarità delle posizioni repubblicane e, ancor di più, nella sclerotizzazione della realtà politica statunitense che impedisce qualsiasi alternativa ad un sistema bipartitico che non rappresenta in nessun modo la grande maggioranza della popolazione.

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