- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Nella serata di martedì è stata approvata in maniera definitiva una contestatissima legge anti-sindacale dal parlamento locale del Michigan, lo stato americano sede dei tre colossi dell’auto e tradizionalmente considerato il simbolo stesso della forza delle organizzazioni che dovrebbero difendere gli interessi degli operai. Tra le proteste di migliaia di iscritti al sindacato, la legislatura statale a maggioranza repubblicana della capitale, Lansing, ha così inviato la cosiddetta legge sul “diritto al lavoro” al governatore, l’ex uomo d’affari anch’egli repubblicano, Rick Snyder, che l’ha immediatamente firmata, consentendone l’entrata in vigore tra poco più di tre mesi.
Il provvedimento adottato martedì dallo stato del Michigan colpisce direttamente le organizzazioni sindacali dei lavoratori e le modalità del loro finanziamento. Esso infatti mette fuori legge a partire dal prossimo mese di aprile gli accordi collettivi che, come condizione per ottenere un impiego, prevedono un contributo automatico da versare ai sindacati da parte di tutti i lavoratori, compresi quelli non iscritti.
La mossa del Congresso statale e del governatore ha preso di sorpresa il Partito Democratico e i sindacati stessi, dal momento che Snyder aveva sempre sostenuto di non essere intenzionato a perseguire misure troppo controverse come quella appena approvata. Con la convinzione dei repubblicani di non incontrare un’eccessiva resistenza, la legge sul “diritto al lavoro” è stata però finalizzata in soli sei giorni e poi inserita in altri provvedimenti relativi allo stanziamento di fondi statali, così da rendere più complicato l’eventuale tentativo di abrogarla con un’eventuale futura iniziativa referendaria.
La legge ha suscitato non poco clamore poiché il Michigan è uno dei cinque stati americani con la quota più alta di lavoratori sindacalizzati - poco meno del 20% del totale - mentre ha ospitato, ad esempio, la nascita del potente sindacato degli operai del settore automobilistico (United Auto Workers, UAW), fondato a Detroit nel 1935. Il Michigan è diventato ora il 24esimo stato dell’Unione ad avere approvato una legge sul “diritto al lavoro” e il secondo nella regione industrializzata del Midwest, dopo l’Indiana.
Secondo i suoi sostenitori, la misura dovrebbe favorire l’occupazione attirando le imprese private alla ricerca di un ambiente “business-friendly”, ma anche consentire ai lavoratori di decidere più liberamente circa l’affiliazione ad una sigla sindacale. Al contrario di quanto suggerisce il nome, la legge, adottata senza un vero e proprio dibattito pubblico e da un Congresso statale al termine del proprio mandato, intende in realtà limitare il residuo potere rimasto ai lavoratori tramite la contrattazione collettiva, così da portare a termine nuovi assalti a diritti e retribuzioni.
Gran parte degli stati che hanno implementato leggi sul “diritto al lavoro” fanno segnare oggi i livelli più elevati di povertà del paese. Secondo uno studio dell’Economic Policy Institute, inoltre, i lavoratori in questi stati, sia quelli iscritti al sindacato che quelli non iscritti, guadagnano in media circa 1.500 dollari in meno all’anno rispetto al resto degli Stati Uniti.
In questo modo, con la scusa di facilitare la creazione di posti di lavoro, anche la classe dirigente del Michigan ha dunque fatto l’ennesimo regalo alle aziende dall’inizio della crisi economica in atto, nell’ambito di una drammatica ristrutturazione dei rapporti industriali negli Stati Uniti per cancellare progressivamente i diritti conquistati in decenni di durissime lotte sindacali.
La legge è stata criticata non solo dai vertici dei sindacati ma anche dal Partito Democratico e dallo stesso presidente Obama, il quale alla vigilia del voto aveva fatto un’apparizione proprio in Michigan, presso una fabbrica della tedesca Daimler a Detroit. Le loro proposte per rispondere agli attacchi lanciati contro i lavoratori, tuttavia, consistono in sterili iniziative, come la promozione di un referendum popolare per ottenere l’abrogazione della legge e soprattutto la subordinazione al Partito Democratico, così da garantire a quest’ultimo, considerato teoricamente più vicino agli interessi dei lavoratori, il successo nei prossimi appuntamenti con le urne, nel 2014 per il rinnovo della Camera bassa e nel 2015 per la carica di governatore.
Un percorso di questo genere tende sostanzialmente a sterilizzare l’opposizione e la resistenza dei lavoratori ed è una tecnica ben collaudata dalle associazioni sindacali americane. La stessa prospettiva fallimentare era stata avanzata in seguito alle massicce proteste esplose nel 2011 in Wisconsin dopo l’approvazione di una serie di assalti ai dipendenti pubblici. In questo stato, i leader democratici e sindacali avevano promosso, tra l’altro, una speciale elezione per cercare di rimuovere il governatore repubblicano Scott Walker, il quale è però riuscito a mantenere il proprio incarico.
D’altra parte, la profonda impopolarità delle stesse organizzazioni sindacali tra i lavoratori, a causa del loro sostanziale allineamento ai vertici aziendali nell’estrazione di sempre maggiori concessioni dai propri affiliati, è il motivo principale non solo del loro costante declino ma anche, in definitiva, dell’implementazione di leggi come quella firmata dal governatore del Michigan martedì.
I sindacati, in America come altrove, agiscono infatti da decenni come strumenti in mano alle élite politiche e imprenditoriali per contenere le tensioni sociali e il crescente malcontento tra i lavoratori, facendo loro digerire condizioni di lavoro sempre più penalizzanti. Ciò ha causato il loro progressivo indebolimento, consentendo, nel caso del Michigan, ai repubblicani al potere di procedere, una volta presa la decisione di fare a meno della collaborazione dei sindacati, con l’adozione unilaterale di una legge come quella che viene definita in maniera a dir poco fuorviante sul “diritto al lavoro”.
A conferma della funzione ormai attribuita ai sindacati, alcuni loro dirigenti assieme a leader locali del Partito Democratico nei giorni scorsi avevano incontrato a porte chiuse il governatore Snyder per convincerlo a desistere dalla nuova legge, con ogni probabilità promettendo di continuare a collaborare per mettere in atto tutte le “riforme” del mondo del lavoro ritenute necessarie, salvando però il ruolo di facilitatore dei sindacati stessi, nonché le loro fonti di finanziamento.
Uno dei protagonisti di queste discussioni infruttuose è stato non a caso Bob King, il presidente del principale sindacato automobilistico (UAW), vale a dire l’organizzazione di categoria che ha contribuito in maniera decisiva alla ristrutturazione di General Motors dopo la bancarotta controllata voluta dall’amministrazione Obama.
Il presunto salvataggio del gigante dell’auto di Detroit, oltre a consegnare il controllo di un congruo pacchetto azionario della compagnia ai vertici di UAW, ha portato alla distruzione di migliaia di posti di lavoro, al dimezzamento delle retribuzioni per i nuovi assunti, a pesanti tagli ai benefit dei pensionati e alla soppressione di molti altri diritti acquisiti.
Se il ruolo insidioso dei sindacati e gli assalti alle condizioni di vita della maggior parte della popolazione da parte della classe politica americana, soprattutto repubblicana, fanno in modo che i lavoratori si ritrovino sempre più isolati e disorientati, è altrettanto vero che, con l’aggravamento della crisi economica in atto, la crescente opposizione sociale nel paese potrebbe in qualche modo convergere alla fine verso la creazione di strutture di lotta indipendenti.
Ciò significherebbe, per l’oligarchia che detiene il potere, rischiare di perdere il controllo sui lavoratori ed è, in sostanza, quanto teme maggiormente la classe dirigente d’oltreoceano, a cominciare precisamente dai vertici delle organizzazioni sindacali e del Partito Democratico.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Dopo settimane di accurate indagini e ricerche, il Dipartimento di Polizia della città di New York qualche giorno fa ha arrestato l’artista locale Essam Attia, al quale sono stati contestati ben 56 capi d’accusa. Lo sforzo messo in atto dalla polizia newyorchese sembrerebbe dover essere giustificato, ad esempio, dalle azioni di un pericoloso terrorista.
L’unico crimine compiuto dal 29enne originario del Maine è stato invece quello di avere affisso nelle strade della metropoli una serie di manifesti satirici che descrivono il possibile uso di droni da parte del Dipartimento di Polizia per monitorare il comportamento dei cittadini.
Tra il 14 e il 16 settembre scorso, Essam Attia si è finto un dipendente del municipio di New York e ha sostituito decine di manifesti pubblicitari situati nelle apposite teche cittadine con altri di sua creazione che raffiguravano, tra l’altro, una famiglia in fuga presa di mira da un missile lanciato da un velivolo senza pilota con la dicitura “Droni del Dipartimento di Polizia di New York: protezione quando meno te lo aspetti”.
Le forze di polizia hanno alla fine fermato Attia, infliggendogli un’autentica lezione che ha tutte le caratteristiche di una vera e propria vendetta per avere mosso loro delle critiche in maniera così clamorosa. Tra le numerose accuse a suo carico ci sono quelle di furto e possesso di arma da fuoco dopo che al momento dell’arresto è stata rinvenuta nel suo appartamento di Manhattan una vecchia pistola calibro 22 scarica. Dopo il fermo, Attia ha potuto lasciare il carcere su cauzione.
Fotografo, artista di strada e, secondo quanto riportato dall’Huffington Post, “ex analista geo-spaziale” per l’esercito americano in Iraq, Essam Attia aveva spiegato le ragioni del suo gesto in una video-intervista al sito animalnewyork.com il 24 settembre scorso, mascherando il proprio aspetto e la propria voce per evitare di essere riconosciuto dalla polizia.
I manifesti esposti per le strade di New York, affermava Attia, sarebbero serviti per “stimolare un dibattito sull’uso dei droni nello spazio aereo americano”. A suo dire, “alcuni dipartimenti di polizia in Texas già ne hanno a disposizione ed è solo questione di tempo prima che arrivino anche a New York”. Attia ha poi ricordato che “in questo momento i droni vengono utilizzati per uccidere delle persone. Sono armati e lanciano missili. Stiamo combattendo una guerra illegale in Pakistan ma nessuno sembra volerne parlare”.
La provocazione di Essam Attia prefigura uno scenario che potrebbe diventare reale negli Stati Uniti in un futuro non molto lontano. Lo scorso mese di febbraio, infatti, il Congresso di Washington ha approvato una legge che dà il via libera all’impiego fino a 30 mila droni nello spazio aereo domestico entro il 2020, principalmente con funzioni di sorveglianza.
I velivoli che la CIA e i reparti speciali dell’esercito operano regolarmente in paesi come Pakistan, Yemen o Somalia, prendendo di mira presunti accusati di terrorismo, sono invece già in funzione da qualche tempo lungo il confine con il Messico per tenere sotto controllo l’immigrazione illegale. Autorità locali e federali hanno infine già in dotazione svariati droni, come ad esempio negli stati di California, North Dakota, Maryland, Florida e Nebraska.
Proprio a New York, poi, sono recentemente emerse le prove di discussioni tra il Dipartimento di Polizia e l’agenzia federale che sovrintende all’aviazione civile (FAA) nelle quali il primo ha affermato appunto di stare valutando il possibile uso di aerei senza pilota come strumenti di prevenzione del crimine.
La polizia dei New York ha peraltro già istituito un reparto speciale di intelligence al proprio interno dopo l’11 settembre 2001, deputato al monitoraggio e alla raccolta di informazioni su individui considerati potenziali minacce per la sicurezza nazionale, in particolare quelli di fede musulmana o appartenenti a gruppi di protesta come Occupy Wall Street.
La diffusione dei droni anche in territorio americano comporta inoltre la creazione di un mercato che può valere svariati miliardi di dollari e le aziende produttrici svolgono perciò da tempo un’intensa attività di lobby per ottenere nuove commesse da parte del governo federale e delle autorità statali e di polizia.
Alla Camera dei Rappresentanti è addirittura già stato creato un gruppo parlamentare (House Unmanned Systems Caucus) formato da una sessantina di deputati che si adoperano per la promozione dei droni sul suolo nazionale.
L’evoluzione dei droni e l’utilizzo capillare che ne verrà fatto anche internamente confermano dunque ancora una volta come le tecniche sviluppate per fronteggiare la cosiddetta guerra al terrore contro minacce esterne saranno sempre più utilizzate per controllare e reprimere il dissenso domestico negli Stati Uniti.
Un’arma quella dei droni che, assieme ad altre già consolidate, risulterà dunque fondamentale per la classe dirigente d’oltreoceano in un contesto storico caratterizzato dalla crisi strutturale del capitalismo e dall’aumento delle tensioni sociali in conseguenza delle politiche sempre più reazionarie messe in atto per salvare l’attuale sistema e i rapporti di classe esistenti.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Una serie di articoli apparsi negli ultimi giorni su alcuni giornali anglo-sassoni ha confermato per l’ennesima volta il ruolo fondamentale ricoperto da gruppi terroristici di matrice islamica sunnita nel conflitto in corso ormai da poco meno di due anni in Siria per rovesciare il regime alauita di Damasco. La formazione integralista Jebhat al-Nusra (Fronte Nusra), direttamente legata ad Al-Qaeda, rappresenta in questo scenario la forza d’urto principale utilizzata dall’opposizione ufficiale, dagli Stati Uniti e dai loro alleati in Europa e in Medio Oriente per dare la spallata al governo, senza scrupolo alcuno per le disastrose conseguenze che si prospettano in un ormai sempre più probabile futuro senza il presidente Assad e la sua cerchia di potere.
Sabato scorso, ad esempio, il New York Times ha pubblicato un lungo articolo nel quale descrive il Fronte Nusra come un’autentica succursale di Al-Qaeda in Iraq, l’organizzazione fondamentalista che durante l’occupazione americana ha insanguinato il paese che fu di Saddam Hussein. Questo gruppo attivo in Siria può contare, nonostante le riserve manifestate pubblicamente dall’Occidente, su ingenti somme di denaro, armi e l’afflusso di militanti provenienti dall’estero. I suoi affiliati, sia pure in minoranza rispetto al totale dei ribelli in armi, dispongono delle capacità e del coraggio necessari per mettere in atto rischiose operazioni contro le forze di sicurezza del regime, tanto che nelle ultime settimane avrebbero sottratto a queste ultime il controllo di basi militari e di alcuni pozzi petroliferi.
Il Fronte Nusra ha iniziato a rivendicare azioni terroristiche nei primi mesi del 2012, mettendo il proprio sigillo su esplosioni che hanno causato svariate vittime tra la popolazione civile, in particolare nei quartieri dove vivono minoranze cristiane, druse e alauite, percepite come sostenitrici del regime di Assad. Tra le vittime più recenti del gruppo qaedista vi sono probabilmente anche una trentina tra studenti e insegnanti morti all’inizio della settimana scorsa in seguito al bombardamento di una scuola in un sobborgo di Damasco.
All’interno dell’amministrazione Obama sembra esserci più di una preoccupazione riguardo la presenza del Fronte Nusra in Siria, sia per il possibile danno di immagine, proprio mentre si cerca di propagandare un conflitto nei termini di una feroce repressione del regime ai danni di un popolo inerme che chiede la democrazia, sia per il ruolo futuro che svolgerà questo gruppo estremista, con ogni probabilità ostile a qualsiasi ingerenza degli Stati Uniti.
Per queste ragioni, da qualche giorno i giornali parlano della possibile inclusione del Fronte Nusra alla lista nera statunitense delle organizzazioni terroristiche. L’aggiunta di questa formazione qaedista, se effettivamente verrà decisa, sarebbe però un atto di estrema ipocrisia e una manovra per confondere ulteriormente l’opinione pubblica internazionale con una presa di distanza ufficiale da coloro che rappresentano di fatto uno scomodo alleato nell’avanzamento degli interessi di Washington in Medio Oriente.
Da mesi, infatti, attraverso l’Arabia Saudita e il Qatar, gli Stati Uniti sostengono materialmente gruppi come il Fronte Nusra in Siria per condurre il lavoro sporco nella guerra contro Assad, con la speranza di emarginarli in futuro e installare un regime fantoccio attraverso la promozione dell’opposizione ufficiale nata a Doha poche settimane fa, su ordine di Hillary Clinton, al posto dell’ormai screditato Consiglio Nazionale Siriano.
Questa doppiezza americana è apparsa evidente anche venerdì scorso, quando in Turchia la nuova opposizione ufficiale (Coalizione Nazionale delle Forze della Rivoluzione Siriana e dell’Opposizione) ha creato un nuovo comando militare unificato da presentare al summit dei cosiddetti “Amici della Siria” di questa settimana in Marocco in cambio di nuovi fondi e armamenti.
Opportunamente, alla riunione non sono stati invitati i gruppi jihadisti che operano nel paese per non dare appunto un’impressione “sbagliata” alla comunità internazionale, anche se in realtà sul campo sono proprio queste formazioni che conducono con maggiore successo le operazioni militari contro il regime.
Quanto scritto dal New York Times nel fine settimana era stato sostanzialmente anticipato qualche giorno prima anche da un corrispondente in Siria dell’agenzia di stampa americana McClatchy, secondo la quale Jebhat al-Nusra “è diventato essenziale nelle attività di prima linea dei ribelli anti-Assad”. Il Fronte Nusra, inoltre, “non solo è responsabile di attentati suicidi che hanno ucciso centinaia di persone, ma svolge anche un ruolo cruciale per l’avanzata dei ribelli”.
Molti guerriglieri sono giunti in Siria direttamente dall’Iraq dove hanno combattuto gli occupanti statunitensi e hanno contribuito ad alimentare le violenze settarie negli anni passati. Secondo lo stesso reporter di McClatchy, che ha potuto constatare la presenza di militanti di Jebhat al-Nusra ad ogni fronte di battaglia visitato, anche molti leader delle varie cellule attive nel paese sarebbero iracheni legati ad Al-Qaeda.
Per quasi tutti i giornali americani, l’aggiunta del Fronte Nusra alla lista nera del Dipartimento di Stato potrebbe però trasformarsi in un boomerang per l’amministrazione Obama, visto il contributo fondamentale che il gruppo sta dando al conflitto in corso. La preoccupazione appena celata per l’eventuale venir meno del Fronte Nusra nella lotta contro Assad, così come l’appoggio più o meno esplicito ad esso garantito dagli Stati Uniti, conferma come l’intera guerra al terrore in atto da più di un decennio possa essere considerata, in definitiva, poco più di una tragica farsa.
Infatti, le guerre scatenate dagli Stati Uniti e quelle che sono in preparazione (Iraq, Libia, Siria) hanno avuto come obiettivo regimi secolari che avevano o hanno represso duramente le attività di Al-Qaeda, i cui affiliati sono giunti in questi paesi solo dopo l’intervento diretto o indiretto di Washington. In Libia e in Siria, poi, i gruppi jihadisti legati a quelli che hanno determinato l’invasione dell’Afghanistan nel 2001 sono diventati, almeno temporaneamente, alleati degli americani ed uno strumento determinante per rimuovere regimi che ostacolano i loro interessi imperialistici.
Le conseguenze di questa politica statunitense si sono viste drammaticamente nell’Afghanistan uscito dall’occupazione sovietica e, più recentemente, in Libia, dove in seguito all’intervento NATO e alla fine di Gheddafi il paese è precipitato nel caos, con svariate milizie che controllano il territorio a fronte di un governo centrale del tutto inefficace. In Libia, i gruppi integralisti precedentemente appoggiati dagli Stati Uniti si sono anche resi protagonisti dell’assassinio a Bengasi dell’ambasciatore americano, J. Christopher Stevens, lo scorso 11 settembre.
Proprio la Libia appare, nonostante tutto, il modello seguito dalla Casa Bianca per operare il cambio di regime in Siria, il cui futuro si prospetta minacciosamente simile a quello del paese nord-africano. Mercoledì scorso, sempre il New York Times ha pubblicato un altro articolo basato su fonti diplomatiche estere e del governo americano, nel quale si afferma che le armi fornite ai ribelli libici principalmente dal Qatar, e che l’amministrazione Obama aveva approvato, sono successivamente finite nelle mani di gruppi terroristici di matrice islamica.
Se la rivelazione è tutt’altro che sorprendente, essa è però la conferma da parte di un giornale dell’establishment d’oltreoceano non solo delle apprensioni che pervadono sezioni della classe dirigente americana riguardo il futuro della Siria, ma anche dell’esistenza di legami oscuri tra il governo di Washington e il proprio nemico giurato di questo inizio secolo.
Secondo un rapporto dell’International Crisis Group, in ogni caso, non tutte le formazioni ribelli di ispirazione religiosa in Siria abbraccerebbero la visione legata alla jihad globale del Fronte Nusra, anche se il fondamentalismo sunnita rimane il dato caratterizzante dell’opposizione contro Assad. Ciò conferma l’agenda settaria della rivolta in corso, con buona pace di quanti continuano a credere in una lotta per la democrazia dell’intero popolo siriano, in grandissima parte invece ostile in egual misura sia al regime che ai ribelli.
Significativa in questo senso è un’intervista fatta ancora dal New York Times ad un militante secolare, diventato musulmano osservante dopo essersi unito ai ribelli. Secondo il 35enne siriano, l’obiettivo della formazione in cui milita sarebbe inequivocabilmente quello di “creare uno stato islamico guidato dai principi dell’Islam sunnita”. Per questo, il gruppo fondamentalista “lotterebbe contro qualsiasi governo secolare” e la sua missione “non terminerà con la caduta del regime” di Assad.
I venti di guerra in Siria, intanto, sono stati confermati anche dal Times di Londra, il quale nel fine settimana ha scritto che gli Stati Uniti stanno preparando un’operazione clandestina per fornire armi ai ribelli per la prima volta in maniera diretta e senza l’intermediazione di Arabia Saudita, Qatar o Turchia.
La rivelazione del quotidiano britannico si accompagna a numerosi altri segnali che negli ultimi giorni indicano un sempre più probabile intervento esterno, a cominciare dal dispiegamento di batterie di missili Patriot della NATO in territorio turco e da fantomatici rapporti di intelligence americani che indicherebbero il possibile utilizzo di armi chimiche da parte di un governo di Damasco animato da tendenze suicide.
Il contagio del caos siriano sta mettendo nel frattempo sempre più in crisi anche il delicato equilibrio settario del Libano, dove nella città settentrionale di Tripoli in questi giorni alcuni scontri tra sunniti e alauiti hanno fatto una ventina di morti. Sul fronte diplomatico, invece, l’inviato dell’ONU e della Lega Araba per la Siria, Lakhdar Brahimi, ha incontrato a Ginevra rappresentanti di USA e Russia, affermando che i due paesi ritengono ancora praticabile un processo politico per mettere fine alla crisi.
Le affermazioni del diplomatico algerino non sembrano però avere ormai alcun senso, dal momento che gli Stati Uniti hanno da tempo scartato anche nella retorica l’ipotesi di un’uscita pacifica dal conflitto siriano, puntando tutto su una soluzione militare violenta tramite l’appoggio ai gruppi di opposizione. La legittimazione ufficiale di questi ultimi da parte di Washington come rappresentanti unici del popolo siriano, dalle cui aspirazioni democratiche sono peraltro lontani anni luce, dovrebbe arrivare nei prossimi giorni, aggiungendosi ai riconoscimenti già garantiti dalle monarchie assolute del Golfo Persico, ma anche da Turchia, Gran Bretagna e Francia.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
A meno di un mese dalla scadenza prevista per l’attivazione del cosiddetto “fiscal cliff”, il dibattito politico negli Stati Uniti continua a registrare la mancanza di un accordo condiviso tra democratici e repubblicani. La trattativa per evitare l’implementazione automatica e immediata di tagli alla spesa federale, compresa quella militare, e aumenti alle tasse per 600 miliardi di dollari a partire dal primo gennaio prossimo, lascia però intravedere più di uno spiraglio, giustificato anche dalla sostanziale identità di vedute tra i due partiti sulla necessità di ristrutturare i principali programmi sociali garantiti a decine di milioni di persone e di riformare il sistema fiscale in modo da favorire ulteriormente i redditi più elevati.
I più recenti sviluppi delle trattative in corso a Washington registrano la presentazione di una contro-proposta repubblicana firmata dallo speaker della Camera dei Rappresentanti, John Boehner, in risposta a quella sottoposta in precedenza dalla Casa Bianca. Il piano del leader repubblicano include un aumento delle entrate fiscali pari a 800 miliardi di dollari in dieci anni, senza aumentare però le aliquote più alte, e 1.200 miliardi di tagli alla spesa, cioè circa il doppio di quanto contiene la proposta democratica sul tavolo.
La scure repubblicana si abbatterebbe sui programmi Medicare e Medicaid (tagli per 600 miliardi), sui finanziamenti destinati ai buoni alimentari e ad altri ammortizzatori sociali (300 miliardi), su quelli per l’educazione e i trasporti pubblici (300 miliardi). Inoltre, l’età di accesso a Medicare - la copertura sanitaria pubblica riservata agli anziani - verrebbe innalzata da 65 a 67 anni e il popolare programma finirebbe progressivamente per essere destinato solo alla popolazione più povera, perdendo l’attuale carattere di universalità.
La precedente proposta di Obama, presentata settimana scorsa dal Segretario al Tesoro Tim Geithner, è invece un pacchetto da 2.200 miliardi di dollari, di cui 1.600 da ottenere con la cessazione a fine anno dei tagli alle tasse implementati da George W. Bush per i redditi superiori ai 250 mila dollari l’anno e il resto tramite tagli per 600 miliardi alla spesa destinata a Medicare, Medicaid e ad altri programmi sociali.
Sia l’amministrazione Obama che i leader democratici al Congresso insistono che un eventuale accordo sul “fiscal cliff” debba includere necessariamente il ritorno ai livelli di tassazione dell’era Clinton per i redditi più alti, mentre deve essere esclusa qualsiasi “riforma” dei programmi pubblici di assistenza.
Questi due presunti punti fermi fissati dai democratici sono però tutt’altro che inviolabili e servono unicamente a gettare fumo negli occhi dei cittadini americani, in particolare dei sostenitori liberal del presidente Obama, così da dare l’illusione che i democratici stiano perseguendo politiche a difesa di lavoratori, anziani e classe media mentre in realtà si stanno preparano assalti senza precedenti alle loro condizioni di vita.
In altre parole, la Casa Bianca, sull’onda del successo elettorale del mese scorso, intende puntare i piedi sul “fiscal cliff”, così da incassare una vittoria simbolica ai danni dei repubblicani per mezzo di un aumento a dir poco modesto delle tasse a carico degli americani più ricchi.
Un capitale politico, quello a disposizione di Obama in caso di raggiungimento di un accordo bipartisan secondo le proprie condizioni, che potrebbe poi spendere il prossimo anno quando si negozierà sulle “riforme” di fisco e spesa sociale, con provvedimenti che si tradurranno in un nuovo colossale trasferimento di ricchezza dalle classi più disagiate a quelle privilegiate.
Infatti, Obama e i leader democratici hanno lasciato intendere chiaramente in questi giorni di essere più che disponibili a trattare con i repubblicani su entrambe le questioni nei prossimi mesi. Lo stesso Geithner domenica scorsa è apparso a questo scopo in svariati programmi televisivi americani per ribadire che la Casa Bianca vuole “riformare” Medicare, Medicaid e Social Security. Questi programmi, ha avvertito il Segretario al Tesoro, non devono però essere inclusi nella discussione in corso sul “fiscal cliff”, ma saranno oggetto di trattative separate nel 2013.
L’amministrazione Obama, insomma, pur rifiutando la proposta di John Boehner di lunedì, ha fatto capire che tutto ciò che i repubblicani devono fare per ottenere la disponibilità democratica a mettere sul tavolo i tagli alla spesa federale nei prossimi mesi è accettare ora un lieve e momentaneo aumento delle tasse per i più ricchi.
Il concetto lo ha chiarito in prima persona e con il consueto cinismo anche il presidente Obama nel corso di una recente intervista a Bloomberg TV. L’inquilino della Casa Bianca ha spiegato che la sua proposta consiste appunto in un temporaneo innalzamento delle tasse per una ristretta cerchia di super-ricchi, poiché “alla fine del 2013 o il prossimo autunno potremmo avviare un processo nel quale lavorare ad una riforma fiscale… ed è possibile che le aliquote verranno abbassate allargando la base dei contribuenti”.
Allo stesso modo, il presidente americano ha ripetuto più volte di essere “pronto a lavorare con i leader democratici e repubblicani per tagliare gli eccessi della spesa sanitaria”. Quando poi gli è stato chiesto quale sia la sua posizione riguardo le proposte repubblicane di alzare l’età di accesso a Medicare e di ridurre gli adeguamenti legati all’inflazione per i benefit previsti da Social Security, Obama ha affermato di essere “disposto a valutare qualsiasi iniziativa che rafforzi (smantelli) il nostro sistema” sociale.
In definitiva, leggendo attraverso i resoconti dei media ufficiali, si comprende come un eventuale accordo che eviti il “fiscal cliff” entro la fine dell’anno, che in ogni caso comprenderebbe già importanti tagli alla spesa sociale, sarebbe solo un antipasto dei cambiamenti strutturali che verranno negoziati nel 2013 e che rimetteranno indietro di qualche decennio le lancette degli orologi per quanto riguarda l’estensione delle coperture garantite da programmi pubblici come Medicare, Medicaid e Social Security.
Sul fronte delle trattative, intanto, la parte relativamente moderata del Partito Repubblicano sembra essere vicina ad accettare il compromesso con Obama, tanto che nei giorni scorsi alcuni deputati hanno apertamente invitato i loro colleghi a dare il via libera all’aumento temporaneo delle tasse per il 2% dei contribuenti al vertice della piramide sociale negli Stati Uniti.
Secondo costoro, porre fine in questo modo allo scontro in atto consentirebbe ai repubblicani di presentarsi in una posizione di vantaggio in vista del confronto di più ampio respiro con i democratici nel 2013 e che, come si è visto, potrebbe portare anche ad un abbassamento del carico fiscale per i più ricchi.
Già a fine gennaio o a febbraio, poi, scatterà una nuova scadenza, quando cioè verrà raggiunto il tetto massimo dell’indebitamento americano e il Congresso sarà chiamato ad autorizzarne l’innalzamento. Questo appuntamento già viene preannunciato da media e politici con toni apocalittici e sarà dunque nuovamente sfruttato per far digerire alla popolazione altri “necessari” tagli alla spesa sociale.
L’ala più conservatrice del Partito Repubblicano continua però a respingere qualsiasi minimo provvedimento che minacci di intaccare la ricchezza delle classi privilegiate che rappresenta, tenendo perciò ancora lontano un possibile accordo. Tra i più fermi oppositori figura ad esempio il senatore ultra-conservatore della Carolina del Sud, Jim DeMint, il quale l’altro giorno ha criticato senza mezzi termini lo speaker John Boehner per avere proposto nuove entrate per 800 miliardi di dollari, anche se da ottenere senza aumenti di tasse ma soltanto riducendo alcuni rimborsi fiscali ed eliminando qualche scappatoia legale che permette ai più ricchi e alle aziende di abbattere il proprio carico fiscale.
Alla luce di queste persistenti divisioni, toccherà ai leader repubblicani raggiungere un qualche equilibrio all’interno del proprio partito, così da evitare possibili rotture ma anche le conseguenze politiche di avere fatto naufragare un’intesa che, in definitiva, entrambi gli schieramenti sono ansiosi di raggiungere al più presto.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Il 19 dicembre prossimo, gli elettori della Corea del Sud si recheranno alle urne per scegliere il nuovo presidente in un clima di crescenti tensioni in Asia nord-orientale. L’appuntamento sarà animato principalmente dalla sfida tra la favorita, la leader del partito conservatore Saenuri (“Nuova Frontiera”), Park Geun-hye, e il numero uno del Partito Democratico Unito (DUP) di centro-sinistra, Moon Jae-in, le cui quotazioni sono state rilanciate dal recente ritiro di un popolare candidato indipendente.
L’imprenditore informatico milionario ed ex insegnante Ahn Cheol-soo aveva infatti annunciato la propria rinuncia alla corsa alla presidenza lo scorso 23 novembre dopo settimane di discussioni per giungere ad una possibile fusione della sua campagna elettorale con quella del candidato del DUP. Alla fine, il 50enne Ahn ha dato il proprio appoggio tutt’altro che appassionato a Moon, sottolineando lunedì nel corso di un raduno con i propri sostenitori a Seoul che, in ogni caso, il voto “andrà contro le aspirazioni popolari per un nuovo tipo di politica” e criticando entrambi i candidati per una campagna all’insegna degli insulti e degli attacchi personali.
La sua ascesa politica è stata resa possibile d’altra parte dalla capacità di capitalizzare la profonda ostilità diffusa tra la popolazione sudcoreana nei confronti di tutto l’establishment politico, correttamente ritenuto responsabile della corruzione in aumento, del ristagno economico e soprattutto delle crescenti disuguaglianze sociali nel paese. Come il candidato progressista Moon, anche Ahn si era presentato inoltre agli elettori come un acceso critico dei cosiddetti “chaebol”, i giganteschi conglomerati dell’industria che dominano l’economia della Corea del Sud.
Con l’uscita di scena di Ahn, così, la competizione per la presidenza è diventata improvvisamente incerta. Park Geun-hye, figlia 60enne dell’ex dittatore sudcoreano Park Chung-hee, rimane comunque in vantaggio anche se il rivale sembra essersi notevolmente avvicinato grazie al probabile sostegno di quanti intendevano votare per Ahn. Secondo un recente sondaggio di Gallup Corea, alla vigilia del primo dei tre dibattiti televisivi, andato in onda martedì, Park avrebbe un margine di circa due punti percentuali su Moon, mentre un’altra rilevazione dell’istituto Realmeter le assegna un vantaggio di poco inferiore al 5%.
Nonostante le conseguenze delle politiche liberiste implementate in questi cinque anni dall’amministrazione dell’attuale presidente - l’ex CEO del colosso delle costruzioni Hyundai Engineering and Construction, Lee Myung-bak - il Partito Saenuri aveva ottenuto una netta vittoria nelle elezioni parlamentari dello scorso mese di aprile, infliggendo una pesante sconfitta al Partito Democratico Unito.
Questo risultato e le difficoltà mostrate dai sondaggi per il candidato del DUP indicano quindi il persistente discredito di un partito che, con i presidenti Kim Dae-jung e Roh Moo-hyun, ha governato per dieci anni tra il 1998 e il 2008, durante i quali sono state ugualmente adottate misure di liberalizzazione dell’economia e sostanzialmente smantellati i diritti dei lavoratori.Queste politiche sono state messe in atto in risposta alla crisi economica asiatica del 1997-98 e, tra l’altro, hanno trasformato la Corea del Sud in uno dei paesi avanzati con il maggior numero di lavoratori assunti con contratti temporanei. La retorica del DUP, che si presenta con un programma volto a spezzare il monopolio dei grandi interessi del paese e a rafforzare lo stato sociale sudcoreano, non sembra perciò convincere troppo la maggioranza degli elettori, ben consapevoli che il partito di Moon Jae-in rappresenta in realtà soprattutto la piccola e media borghesia del paese penalizzata dalla concentrazione del potere economico nelle mani dei “chaebol”.
Il disprezzo ampiamente diffuso verso questi ultimi è stato cavalcato anche dalla conservatrice Park, nonostante il suo partito sia tradizionalmente il punto di riferimento dei giganti dell’economia sudcoreana. Per dare un’impressione di cambiamento e di rottura con il passato, il più importante partito sudcoreano di centro-destra lo scorso febbraio ha anche portato a termine un’operazione puramente cosmetica, cambiando il proprio nome da Grande Partito Nazionale a Partito Saenuri.
Park Geun-hye, inoltre, sta cercando in tutti i modi di prendere le distanze dai vertici del suo partito e dal presidente Lee, sposando anche svariate proposte elettorali avanzate dal suo rivale, in particolare riguardo la riduzione dei privilegi di cui gode la classe politica della Corea del Sud e la promozione di una maggiore trasparenza dei partiti.
In merito ai rapporti con la Corea del Nord, invece, Moon Jae-in e il suo partito si caratterizzano per un atteggiamento più conciliante e per la ricerca di un dialogo incondizionato, sull’esempio dei defunti presidenti Roh e Kim, il quale nel 2000 fu protagonista di una storica visita a Pyongyang, dove fu accolto da Kim Jong-il.
Moon auspica dunque un allentamento delle tensioni nella penisola coreana, mettendo fine alla linea dura perseguita da Lee Myung-bak in questi anni, così come propone un riassetto delle relazioni diplomatiche di Seoul, puntando ad un certo avvicinamento alla Cina, il principale partner commerciale della Corea del Sud, senza compromettere il rapporto privilegiato con gli Stati Uniti, tradizionalmente il principale alleato del paese.Il presidente conservatore Lee, nel corso del suo mandato, è stato invece un fedele sostenitore della svolta asiatica dell’amministrazione Obama in funzione anti-cinese, anche se ha sollevato qualche malumore a Washington per avere fatto naufragare il progetto per una più stretta partnership - diplomatica e militare - con il Giappone, alimentando piuttosto il sentimento nazionalista e anti-nipponico per sfruttare a fini domestici la storica rivalità con un paese che ha occupato in maniera brutale la penisola di Corea per oltre tre decenni nella prima metà del secolo scorso.
Un fattore importante nelle presidenziali del 19 dicembre sarà come al solito proprio la Corea del Nord, con la quale le tensioni sono nuovamente aumentate in questi giorni in seguito alla decisione del regime stalinista del giovane leader Kim Jong-un di programmare il lancio di un missile a lungo raggio. Secondo Pyongyang il lancio servirebbe per mandare in orbita un satellite nordcoreano, mentre per Seoul e Washington sarebbe al contrario un’esercitazione per testare un missile balistico proibito.
Se il messaggio proveniente dalla Corea del Nord appare ben coordinato con il voto nel vicino meridionale, il lancio confermato tra pochi giorni, nonostante gli inviti a fermare le operazioni giunti anche da Russia e Cina, annuncia un possibile ulteriore deterioramento dei rapporti con Pyongyang e consente al partito di governo a Seoul di innalzare i toni nazionalistici, sfruttando la nuova crisi a tutto favore della propria candidata alla guida del paese.