di Carlo Musilli

I risultati delle elezioni politiche in Olanda realizzano in pieno i sogni di Bruxelles. Da un Paese che ha fatto del voto anticipato quasi uno sport nazionale (le ultime consultazioni erano le quinte in 10 anni) e in cui si contano più partiti che campi di tulipani, nessuno si aspettava un risultato così netto. Le due formazioni più gradite ai vertici europei hanno stravinto: il partito liberal-conservatore Vvd del premier uscente Mark Rutte ha conquistato 41 seggi dei 150 a disposizione (ne aveva 31 nella precedente legislatura), mentre i laburisti del PvdA, guidati dal giovane Diederik Samsom, hanno aumentato la loro quota da 30 a 39.

Il grande sconfitto è invece lo xenofobo e euroscettico Geert Wilders, che con la sua Pvv di estrema destra è crollato da 24 a 15 seggi. Mai strategia politica si rivelò più autolesionista, visto che lo scorso aprile era stato proprio Wilders a far cadere l'ultimo esecutivo. Dopo essere esploso alle precedenti legislative cavalcando l'onda anti-islamica, il Pvv puntava ad affermarsi in modo ancor più deciso spostando l'obiettivo sul più becero antieuropeismo. Ma non ha funzionato.

Quanto ai socialisti dell'Sp, la loro non è stata una debacle, ma un'enorme delusione. Nelle scorse settimane i sondaggi li davano addirittura per possibili vincitori, sostenendo che avrebbero potuto quasi raddoppiare i loro seggi in Parlamento, fino a quota 29. Il consenso di cui godevano si è però sgonfiato a poco a poco. Alla fine il partito di Emile Roemer non è andato oltre i 15 seggi già ottenuti alle ultime elezioni, senza nemmeno riuscire a distaccare i fanatici del Pvv.

Il buco nell'acqua dei socialisti è legato a una serie di fattori, ma un ruolo determinante lo ha giocato il pressing delle cancellerie di mezza Europa (Germania in testa) contro l'inquietante "pericolo rosso". Si è detto che l'Sp ricordava Siryza, il partito greco di estrema sinistra che ha sfiorato la vittoria ad Atene, ed è vero: stessa attenzione al welfare, stessa volontà di combattere la speculazione e di tassare i più ricchi per aumentare gli investimenti pubblici. Non stupisce quindi che le due formazioni abbiano ricevuto anche lo stesso trattamento mediatico: entrambe sono state presentate come pericolosissime fucine di euroscettici, quando in realtà né Siryza né l'Sp hanno mai predicato l'uscita dei rispettivi Paesi dall'euro. In particolare, il partito di Roemer è stato dipinto da tutti (e in malafede) come fosse una deriva populista uguale e contraria al Pvv.

C'è però anche una differenza macroscopica tra Olanda e Grecia. Se gli eretici vincono in un Paese moribondo, per Bruxelles è un grosso problema. Ma se la stessa cosa succede nella quinta economia dell'eurozona, la disgrazia è tale da compromettere gli equilibri politici del continente. Amsterdam non riceve aiuti, li concede. Difficile ricattarla. Allontanare lo spauracchio socialista era quindi ancora più importante.

E ora che la missione è compiuta, cosa succede? Quasi tutti danno per inevitabile l'alleanza fra liberali e laburisti, che da soli contano 80 seggi su 150. Per governare non avrebbero nemmeno bisogno del D66, partito di centrosinistra con cui già due volte in passato hanno formato la cosiddetta "Coalizione Viola".

Il problema è che Rutte e Samsom non hanno esattamente lo stesso programma in tema d'economia: il primo spinge per un rigore assoluto fatto di colpi d'ascia alla spesa pubblica (in primo luogo pensioni e sussidi), così da riportare il deficit al 3% entro il 2013 come vuole l'Europa (nel 2011 era arrivato al 4,7%); il secondo invece si attesta su posizioni più moderate e chiede anche provvedimenti per riattivare la crescita. Il disaccordo c'è, ma non dovrebbe rappresentare un ostacolo insormontabile. Secondo gli analisti, l'alleanza è ormai dietro l'angolo.

Si chiuderà così un capitolo a suo modo sorprendente in questi anni bui. Da quando è cominciata la crisi dei debiti sovrani europei, nel 2009, i vecchi leader del continente hanno iniziato a cadere come mosche: Zapatero in Spagna, Berlusconi in Italia, Papandreou in Grecia. Forse chi è venuto dopo di loro ha ispirato prudenza agli olandesi: meglio non cambiare.

 

di Michele Paris

Le crescenti divergenze sulla questione del nucleare iraniano tra Israele e Stati Uniti stanno emergendo in tutta loro evidenza in questi ultimi giorni attorno ad un possibile ultimatum che Washington dovrebbe imporre per fermare la presunta corsa della Repubblica Islamica verso la realizzazione di un ordigno nucleare. Anche se lo scontro tra i due alleati ha raggiunto toni insolitamente elevati, le reali differenze tra il governo Netanyahu e l’amministrazione Obama appaiono puramente tattiche, dal momento che entrambi condividono in pieno l’obiettivo finale del cambio di regime a Teheran, anche con l’uso della forza.

La polemica tra i due governi ha fatto segnare il punto più critico nella giornata di martedì, quando il premier israeliano, nel corso di una conferenza stampa a Gerusalemme con il suo omologo bulgaro, ha affermato che i paesi che si rifiutano di “tracciare una linea rossa” nei confronti del programma nucleare iraniano non hanno “il diritto morale” di chiedere a Israele di aspettare prima di sferrare un attacco militare.

Lo sfogo di Netanyahu sembra essere giunto in risposta ad un’intervista rilasciata dal Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, il giorno precedente a Bloomberg Radio, durante la quale la ex first lady ha ribadito che gli USA non intendono considerare l’imposizione di alcuna “linea rossa” all’Iran e che esistono tuttora gli spazi per trovare una soluzione diplomatica alla crisi, evitando un intervento armato.

A questo scambio indiretto di battute si è aggiunta la notizia, apparsa martedì sera sul sito web dell’ambasciata israeliana a Washington, che l’amministrazione Obama ha respinto una richiesta del premier Netanyahu di incontrare il presidente democratico a margine dell’Assemblea Generale dell’ONU di questo mese. Per la Casa Bianca il rifiuto non comporterebbe nessuno sgarbo ma sarebbe dettato dal fatto che i due leader saranno a New York in date diverse.

La spiegazione non ha comunque placato le polemiche e i malumori, così che Obama si è visto costretto a contattare telefonicamente Netanyahu, con cui ha parlato per almeno un’ora nella serata di martedì. Dopo il colloquio, la Casa Bianca ha emesso un comunicato di circostanza nel quale è stata ribadita la collaborazione di USA e Israele nell’affrontare la crisi iraniana e la volontà americana di impedire alla Repubblica Islamica di ottenere un’arma nucleare. Nessun riferimento è stato fatto tuttavia alla questione della “linea rossa” chiesta da tempo da Netanyahu.

Il mancato incontro a New York tra Obama e Netanyahu indica indubbiamente l’impazienza della Casa Bianca nei confronti dell’atteggiamento sempre più aggressivo attorno al nucleare iraniano del governo ultra-conservatore di Israele. Washington si rende conto infatti che l’imposizione di un ultimatum, che l’Iran non potrebbe ovviamente accettare, aumenterebbe sensibilmente le possibilità di un conflitto a dir poco rischioso.

Sui calcoli di Obama pesano d’altra parte anche le preoccupazioni elettorali che gli impediscono, da un lato, di muoversi per il momento verso una nuova guerra in Medio Oriente e, dall’altro, di tenere un atteggiamento troppo duro nei confronti di Israele o troppo tenero verso l’Iran, esponendolo agli attacchi repubblicani.

I rapporti tra Obama e Netanyahu, in ogni caso, sono apparsi complicati fin dal 2009, e quindi, secondo alcuni, il pressing di quest’ultimo avrebbe principalmente lo scopo di mettere in difficoltà il presidente americano in vista del voto di novembre, dal quale il premier israeliano preferirebbe di gran lunga vedere uscire vincitore Mitt Romney.

Di una strategia elettorale orchestrata da Tel Aviv potrebbero forse far parte anche la rivelazioni di settimana scorsa del deputato repubblicano Mike Rogers, presidente della commissione per i Servizi Segreti della Camera dei Rappresentanti americana. In un intervento radiofonico, Rogers ha infatti raccontato di aver partecipato ad una riunione in Israele nella quale Netanyahu avrebbe avuto un’accesa discussione con l’ambasciatore USA a Tel Aviv, Dan Shapiro, proprio sulla questione iraniana. Ad un certo punto, Netanyahu avrebbe perso la pazienza, criticando pesantemente gli Stati Uniti per non voler fissare una “linea rossa” all’avanzamento del programma nucleare di Teheran e per mantenere un atteggiamento troppo ambiguo che complica le scelte strategiche del suo paese.

Sulla questione della “linea rossa” - che potrebbe consistere nell’imposizione all’Iran di un limite alla percentuale di arricchimento o alla quantità di uranio arricchito - l’amministrazione Obama continua a ribadire la propria contrarietà. La Casa Bianca ha affermato ufficialmente di voler impedire che l’Iran ottenga un’arma nucleare ma non, come vorrebbe Netanyahu, che raggiunga le capacità tecniche per costruirne una. Quest’ultima situazione appare peraltro già una realtà che la Repubblica Islamica condivide con numerosi altri paesi.

Per convincere gli Stati Uniti e la comunità internazionale ad assumere posizioni ancora più dure nei confronti dell’Iran, Netanyahu, alla guida un paese che dispone di centinaia di testate nucleari non dichiarate senza aver mai sottoscritto il Trattato di Non Proliferazione, ricorre puntualmente ad una serie di affermazioni prive di fondamento.

Nel suo intervento di martedì a Gerusalemme, ad esempio, ha ripetuto che l’Iran sta continuando a muoversi senza interferenze verso la realizzazione di armi atomiche. In realtà, nessuna prova è stata finora presentata che il programma nucleare di Teheran sia diretto a fini militari, mentre il processo di arricchimento dell’uranio viene costantemente monitorato dai tecnici dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica.

Nonostante le recenti polemiche e l’evidente mancanza di sintonia tra Obama e Netanyahu, gli Stati Uniti non hanno mai escluso la possibilità di un’aggressione militare contro l’Iran. Sezioni dell’apparato della sicurezza e dell’intelligence americana ritengono però che un attacco non provocato sarebbe una mossa impopolare, oltre che illegale, e rischierebbe di essere controproducente, poiché con ogni probabilità compatterebbe la leadership iraniana e potrebbe danneggiare le relazioni con alcuni paesi mediorientali.

L’installazione di un regime più malleabile a Teheran per spezzare l’asse della resistenza anti-americana e anti-israeliana nella regione rimane tuttavia un punto condiviso sia da Washington che da Tel Aviv. Se il governo di Israele appare pronto a lanciare un’aggressione militare unilaterale, la strategia americana sembra piuttosto essere quella di provocare una reazione da parte dell’Iran per giustificare un intervento armato.

Le durissime sanzioni che stanno mettendo in ginocchio l’economia iraniana, l’accerchiamento militare, le ingenti forniture di materiale bellico a paesi come Arabia Saudita ed Emirati Arabi, nonché gli assassini e la campagna di sabotaggio contro gli impianti nucleari della Repubblica Islamica sembrano avere precisamente quest’ultimo scopo e indicano perciò in maniera inequivocabile come l’obiettivo ultimo degli Stati Uniti sia ben lontano da una soluzione pacifica della crisi in corso.

di Michele Paris

La missione in Medio Oriente del nuovo inviato dell’ONU e della Lega Araba per la Siria, il diplomatico algerino Lakhdar Brahimi, prende il via questa settimana in un clima di crescenti tensioni e con le principali potenze occidentali che stanno moltiplicando i loro sforzi per cercare di rovesciare il regime di Bashar al-Assad. I governi che si adoperano per la fine di quest’ultimo continuano a sostenere materialmente i “ribelli” siriani nonostante si moltiplichino le prove di una massiccia presenza tra le loro fila di estremisti islamici, così come i resoconti di atrocità commesse contro civili e membri delle forze di sicurezza.

Il sostituto di Kofi Annan è giunto lunedì al Cairo per incontrare i vertici del governo egiziano e della Lega Araba ed ha annunciato che si recherà a Damasco nei prossimi giorni, dove incontrerà il presidente Assad. Le difficoltà che attendono il veterano algerino della diplomazia internazionale nel suo nuovo incarico sono tuttavia enormi ed egli stesso ha riconosciuto gli ostacoli che troverà sulla sua strada e che hanno portato alle dimissioni del suo predecessore.

Infatti, mentre Brahimi e il piano di pace che dovrebbe promuovere raccolgono il sostegno nominale degli Stati Uniti e dei loro alleati, questi ultimi stanno facendo tutto il possibile per soffocare sul nascere qualsiasi speranza di una risoluzione negoziata del conflitto.

La contraddizione è stata sottolineata qualche giorno fa anche dal governo di Damasco che ha risposto duramente alla precedente dichiarazione della Francia di voler aumentare gli aiuti diretti ai ribelli, ufficialmente sotto forma di assistenza umanitaria e di materiali per la ricostruzione, in cinque città sotto il loro controllo. Il portavoce del ministero degli Esteri siriano ha accusato l’ex potenza coloniale di “schizofrenia”, dal momento che essa afferma di volere una soluzione pacifica e contemporaneamente fornisce appoggio alla rivolta armata contro Assad, contribuendo di fatto ad alimentare le violenze nel paese.

Proprio il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, inoltre, assieme al suo omologo italiano, Giulio Terzi, la settimana scorsa hanno inviato una lettera alla responsabile della diplomazia europea, Catherine Ashton, sollecitando un maggiore impegno in Siria. Terzi e Fabius hanno anche chiesto un vertice straordinario dei ministri degli Esteri UE a margine dell’annuale riunione dell’Assemblea Generale dell’ONU, in programma questo mese a New York. Nel corso di un vertice UE andato in scena a Cipro, infine, i partecipanti hanno deciso di adottare ulteriori sanzioni contro Assad e la sua cerchia di potere.

Dietro la retorica dei diritti umani e la volontà di favorire la ricostruzione dell’economia e delle istituzioni siriane, i due ministri hanno manifestato dunque tutta la loro impazienza per il protrarsi di una crisi che essi stessi, assieme agli USA, alla Gran Bretagna e agli alleati nel mondo arabo, hanno contribuito in maniera determinante ad infiammare, così da far cadere un regime che rappresenta un ostacolo all’espansione dell’influenza occidentale in Medio Oriente.

A questo scopo, i governi e i principali media allineati alla posizione americana continuano incessantemente a dipingere la situazione in Siria come un conflitto che mette di fronte un regime sanguinario ad un’opposizione pacifica che si batte per un futuro democratico.

In realtà, nulla potrebbe essere più lontano dal vero. L’Occidente e paesi come Turchia, Arabia Saudita e Qatar sono ben consapevoli che quello in corso in Siria è ormai un conflitto settario e che la rivolta contro Assad è condotta da gruppi armati di varia natura, poco o per nulla popolari nel paese, tra cui svolgono un ruolo fondamentale numerosi guerriglieri fondamentalisti sunniti affiliati a gruppi terroristici come Al-Qaeda.

Se pure Washington sembra manifestare qualche dubbio o timore circa la presenza di terroristi tra i ribelli, l’amministrazione Obama utilizza senza troppi scrupoli queste formazioni estremiste per dare un spallata al regime di Damasco. Tale politica, va ricordato, viene messa in atto dopo che per più di un decennio la lotta senza quartiere al terrorismo di matrice islamica ha rappresentato la motivazione ufficiale per giustificare gli abusi e le guerre lanciate dagli Stati Uniti su scala planetaria in seguito agli attentati dell’11 settembre.

A confermare il profilo inquietante dell’opposizione siriana è stata, tra l’altro, anche una recente intervista rilasciata alla Reuters da un medico francese di ritorno dal paese mediorientale. Il 71enne Jacques Bérès fa parte di "Medici Senza Frontiere" ed ha svolto opera di volontariato in un ospedale controllato dai ribelli ad Aleppo. Bérès si è detto sorpreso dal numero di militanti islamici provenienti dall’estero e che si sono uniti alla battaglia contro Assad.

Secondo il medico transalpino, costoro non sarebbero tanto interessati alla caduta del regime, quanto al modo con cui “prendere il potere e creare uno stato islamista in cui viene applicata la Sharia”. Da quanto ha potuto osservare sul campo, poi, dei circa 40 pazienti curati ogni giorno, il 60% erano combattenti armati, la metà dei quali stranieri.

Il New York Times ha inoltre pubblicato un’intervista ad un giovane libanese che, al confine con la Siria, facilita l’ingresso in questo paese di guerriglieri estremisti. Secondo il giovane, tra coloro che vanno ad ingrossare le fila della rivolta ci sono moltissimi stranieri - sauditi, americani ed europei - e tutti invariabilmente sostengono di volersi battere per la “jihad”.

Negli ultimi giorni sono stati caricati in rete anche svariati filmati che documentano vere e proprie esecuzioni di soldati dell’esercito regolare per mano di gruppi ribelli. Queste testimonianze si aggiungono ad altre delle scorse settimane che avevano mostrato come a cadere vittima della giustizia sommaria dei guerriglieri anti-Assad erano civili accusati di aver collaborato con le forze del regime.

Simili episodi hanno spinto lunedì l’alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Navi Pillay, ad affermare nel corso di un suo intervento a Ginevra che anche i membri dell’opposizione armata potranno essere perseguiti per gli abusi di cui si stanno rendendo protagonisti. L’ex giudice della Corte Penale Internazionale ha ricordato che in Siria sono in aumento le violazioni dei diritti umani da parte dei ribelli, inclusi rapimenti ed esecuzioni sommarie, perciò “le forze di opposizione non devono illudersi di poter rimanere immuni dai processi”.

In realtà, in caso di caduta di Assad e con l’instaurazione di un nuovo regime più docile al volere dell’Occidente, i ribelli non avranno nulla da temere dalla giustizia internazionale, proprio come è accaduto in Libia, dove i crimini dei “rivoluzionari” appoggiati dalla NATO sono tuttora impuniti, nonostante le abbondanti prove di violenze e assassini ai danni di presunti sostenitori del regime, di immigrati di colore e dello stesso Gheddafi durante l’assedio di Sirte.

In questo scenario, ben poche possibilità di riuscita sembra avere la più recente iniziativa diplomatica per risolvere la crisi siriana, cioè quella lanciata dal governo islamista egiziano. Il presidente, Mohamed Mursi, ha ricevuto lunedì al Cairo alcuni diplomatici di Iran, Arabia Saudita e Turchia, con i quali dovrebbe gettare le basi per colloqui di alto livello da tenere nei prossimi giorni con i rispettivi ministri degli Esteri.

Le profonde divisioni e gli interessi in gioco in Siria, con l’Iran da una parte e l’Egitto, l’Arabia Saudita e la Turchia dall’altra, trasformeranno però con ogni probabilità il vertice del Cairo nell’ennesimo sterile tentativo di fermare le violenze, tanto che, secondo la maggior parte degli osservatori, l’incontro sembra essere soltanto un tentativo da parte del presidente Mursi di risollevare l’immagine del proprio paese nella regione.

di Carlo Musilli

C'è un filo sottile che lega Atene e Amsterdam. Oggi gli olandesi tornano alle urne per le elezioni legislative (le quinte in 10 anni), e lo fanno in un clima simile a quello che tre mesi fa ha consegnato il governo della Grecia ad Antonis Samaras. In sostanza, lo scontro fra i partiti è presentato come una sorta di referendum sull'euro: da una parte i conservatori alfieri del rigorismo, sostenuti da Bruxelles nonostante abbiano già dato prova di malgoverno; dall'altra la sinistra radicale, polemica con il modo in cui l'Europa sta affrontando la crisi e quindi liquidata a livello internazionale come un'accolita di populisti euroscettici (il riferimento ellenico in questo caso è Syriza, non certo il finto socialismo del Pasok).

Partiamo dai nomi. I principali attori sulla scena olandese sono tre: Mark Rutte, premier uscente e numero uno del partito liberale (Vvd), Diederik Samsom, giovane leader dei laburisti (PvdA), e Emile Roemer, capo dei socialisti (Sp).

Stando agli ultimi sondaggi, ai liberali dovrebbero andare 33/34 seggi dei 150 a disposizione, mentre i laburisti dovrebbero incassarne fra i 29 e i 32. Un trend in risalita, visto che solo pochi giorni fa erano dati a 26. Il vero exploit è atteso però dai socialisti, che rispetto alle ultime consultazioni potrebbero quasi raddoppiare, passando da 15 a 26 seggi. Sembrano invece fuori dai giochi gli estremisti di destra del Pvv, guidati dall'euroscettico e islamofobo Geert Wilders. Dopo l'appoggio esterno prima concesso e poi sottratto all'ultimo esecutivo, la speranza è che vengano ricordati solo come una buia parentesi nella storia politica olandese.

La prospettiva più verosimile è che alla fine Vvd e PvdA siano costretti a coabitare, probabilmente non da soli. I problemi però non mancheranno, visto che i due schieramenti classificati come "moderati" non sembrano d'accordo su quale sia il modo migliore di gestire la crisi economica. Il contrasto ricorda alla lontana quello originario fra la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese François Hollande. Se i conservatori puntano all'austerità draconiana, con ampie sforbiciate alla spesa pubblica, i laburisti si mantengono su posizioni assai meno drastiche e chiedono misure per riattivare la crescita.

Fino a pochi giorni fa, Rutte non era per nulla disponibile all'alleanza con i laburisti, che è arrivato a definire "un pericolo per l'Olanda". Samsom invece ha fatto bene i suoi calcoli, dimostrandosi molto più possibilista: "Mercoledì vedremo con chi governeremo - ha detto -. Ci dovrà essere per forza una coalizione di governo. Dal giorno dopo lavoreremo con tutti. Non escludiamo nulla".

Arriviamo così ai socialisti. Vero spauracchio nella corsa a due fra Rutte e Samsom, Roemer dovrebbe arrivare in terza posizione, ma per qualche giorno è stato indicato addirittura come possibile vincitore. La sua popolarità si è impennata grazie ad un programma dichiaratamente nemico dell'austerity e strenuo difensore dello Stato sociale, da sempre fiore all'occhiello dell'Olanda. Il suo progetto lo avvicina molto ad Alexis Tsipras, leader greco di Syriza, e prevede di aumentare le tasse ai ricchi e alle imprese, così da poter incrementare gli investimenti pubblici.

Una ricetta lontana anni luce da quella più gradita ai palati di Bruxelles, ma questo non significa affatto che Roemer predichi l'uscita dall'eurozona, magari con tanto di fantascientifico ritorno al fiorino. Per quanto riguarda i conti pubblici, i socialisti ritengono che sia possibile risanarli senza necessariamente affossare la qualità di vita dei propri cittadini e senza inseguire affannosamente l'obiettivo del deficit al 3%, stabilito a Maastricht nel (troppo) lontano 1992. Si potrebbe iniziare, ad esempio, da una lotta senza quartiere alla speculazione finanziaria.

A livello economico, l'Olanda è il quinto Paese dell'eurozona e non naviga in acque tranquille. Quest'anno il Pil segnerà una recessione dello 0,9%, mentre il deficit viaggerà oltre il 4%. Il debito pubblico non è particolarmente alto (70% del Pil), in compenso quello privato è alle stelle (250% del Pil). Il tasso di disoccupazione (al 9%) rimane molto alto per gli standard nordeuropei. A tutto questo si aggiungono serie preoccupazioni legate al mercato immobiliare, gravato da una bolla speculativa che minaccia di esplodere da un momento all'altro. Le conseguenze sarebbero le stesse che l'Europa ha già visto avverarsi prima in Irlanda e poi in Spagna.

 

 

 

di Michele Paris

Il presidente francese, François Hollande, ha presentato in un’intervista televisiva trasmessa domenica in prima serata una serie di misure all’insegna dell’austerity e dell’aumento delle tasse per cercare di far fronte ad un’economia in affanno e per risollevare un indice di gradimento già in declino dopo appena quattro mesi dal suo ingresso all’Eliseo. Nonostante le promesse elettorali, gli interventi minacciati dal presidente socialista non si discostano di molto da quelli già implementati altrove in Europa per rassicurare i mercati, anche se includono la tanto propagandata tassa speciale del 75% sui redditi più elevati.

In 25 minuti di diretta sulla rete TF1, Hollande ha anticipato il suo piano di bilancio che verrà presentato questo mese e che prevede circa 20 miliardi di euro in nuove tasse e 10 miliardi di tagli alla spesa pubblica. A giustificare l’adozione di provvedimenti molto pesanti per gran parte della popolazione francese sarebbe il peggiorato clima economico che ha spinto il governo di Parigi a ridimensionare le stime di crescita per il prossimo futuro. L’economia transalpina dovrebbe cioè far segnare una crescita praticamente pari a zero per quest’anno e attorno allo 0,8% nel 2013.

Le misure si rendono necessarie inoltre per mantenere la promessa di Hollande di riportare il deficit di bilancio francese al 3% del PIL nel 2013, dopo che quest’anno toccherà il 4,5%. Il presidente, però, domenica non ha raccolto l’osservazione della sua intervistatrice sulla più che probabile necessità di intervenire con ulteriori tagli alla spesa per raggiungere il promesso pareggio di bilancio nel 2017 a fronte di una crescita così anemica.

Una delle questioni più delicate è poi la riforma del lavoro, che Hollande e le aziende francesi vogliono naturalmente rendere più flessibile. Il modello a cui queste ultime guardano con interesse è quello della Germania, dove una serie di riforme iniziate con il governo socialdemocratico del cancelliere Gerhard Schroeder ha progressivamente ridotto le retribuzioni e smantellato le protezioni di cui godevano i lavoratori.

In questo ambito, Hollande ha lanciato un appello al dialogo ai sindacati e agli imprenditori per giungere ad una riforma condivisa. In caso di mancato accordo, tuttavia, il presidente ha affermato che il governo procederà unilateralmente.

Sul fronte fiscale, i circa 20 miliardi di euro di nuove entrate dovrebbero giungere da 10 miliardi di aumenti delle tasse e altrettanti dall’abolizione di scappatoie legali che consentono soprattutto alle grandi aziende di abbattere il loro carico fiscale.

Grande attenzione sta suscitando in particolare la già ricordata tassa con un’aliquota del 75% sui redditi superiori al milione di euro. Se i giornali hanno prospettato una possibile fuga all’estero dei francesi più ricchi, lo stesso Hollande ha in qualche modo rassicurato circa la portata limitata di una proposta che appare poco più di una mossa ad effetto per dare l’impressione che il governo intende imporre sacrifici a tutti i francesi mentre vengono messi in atto pesanti assalti contro i lavoratori e la classe media.

La tassa, se sarà adottata, graverà infatti esclusivamente sui redditi da lavoro dipendente e non sui redditi da capitale. Dal momento che la classe privilegiata, in Francia come altrove, deriva la maggior parte della propria ricchezza proprio da investimenti e attività speculative, la tassa andrà a colpire, secondo alcune stime, solo circa 2 mila contribuenti e verosimilmente una quota minima dei loro guadagni.

Uno studio del quotidiano Le Monde ha evidenziato che l’imponibile complessivo su cui andrà a pesare la tassa del 75% ammonta ad appena qualche centinaio di milioni di euro, a fronte di una ricchezza di oltre 5 mila miliardi di euro detenuta dal 10% della popolazione francese più ricca. Inoltre, essa avrà una durata di soli due anni poiché, secondo Hollande, dopo tale periodo l’economia francese si sarà ripresa a sufficienza e tale imposta non sarà più necessaria.

Anche se l’impatto sarà dunque minimo, alcune sezioni delle élite economiche d’oltralpe stanno comunque alimentando un serie di polemiche nei confronti di questo provvedimento. Svariate testate stanno perciò mettendo in guardia il governo socialista dai pericoli di tassare i cittadini più facoltosi, i quali potrebbero comportarsi come Bernard Arnault, l’uomo più ricco di Francia e d’Europa. Quest’ultimo, presidente e amministratore delegato di LVMH (Louis Vuitton - Moët Hennessy), nel fine settimana ha infatti annunciato di voler chiedere la cittadinanza belga.

L’argomento è stato affrontato nel corso dell’intervista a Hollande, il quale ad una domanda sul nervosismo dei francesi benestanti per la tassa del 75% ha risposto con un patetico elogio degli imprenditori transalpini - che minacciano di lasciare il paese per non pagare le tasse - e con un appello al patriottismo in tempi di crisi.

Secondo i giornali, l’intervento di domenica di Hollande sarebbe stato dettato dalla necessità di fronteggiare le accuse di inerzia lanciate contro il suo governo che, assieme alle promesse non mantenute e agli attacchi dei mercati per spingere verso un ridimensionamento della spesa pubblica, hanno fatto precipitare la popolarità del presidente.

Un sondaggio pubblicato domenica dal quotidiano Le Parisien, ad esempio, indica come il 60% degli intervistati sia insoddisfatto della performance del governo socialista, contro il 34% che aveva espresso questa opinione alla fine di maggio. Secondo un’altra recente rilevazione, invece, l’approvazione popolare per Hollande sarebbe attestata al 46%, identica a quella del primo ministro Jean-Marc Ayrault.

Con la luna di miele con gli elettori finita già da tempo, nei prossimi mesi François Hollande si troverà così a fare i conti con un probabile aggravamento della situazione economica, con le pressioni dei mercati e con crescenti tensioni sociali in seguito alla prossima approvazione di impopolari misure di austerity. Un peggioramento facilmente prevedibile quello della realtà francese, già segnata oltretutto da un tasso di disoccupazione superiore al 10% e da una lunga serie di annunci di imminenti tagli di posti di lavoro da parte delle maggiori compagnie francesi, a cominciare da Air France e PSA Peugeot Citroën.


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