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di Michele Paris
Nella giornata di martedì, gli elettori repubblicani dello stato americano dell’Indiana hanno con ogni probabilità posto fine alla carriera politica dell’autorevole e relativamente moderato senatore Richard Lugar. Nelle primarie del “Grand Old Party” per la scelta del candidato che si batterà per un seggio al Senato il prossimo novembre in rappresentanza di questo stato del Midwest, Lugar è stato travolto da un’ondata di malcontento alimentata dai sostenitori dei Tea Party, a loro volta manovrati da alcune sezioni dei poteri forti del paese che si stanno adoperando per un ulteriore spostamento a destra del baricentro politico statunitense.
Classe 1932, Dick Lugar era stato eletto per la prima volta al Senato degli Stati Uniti nel 1976 e, mentre alla Casa Bianca si alternavano ben sei presidenti, il delegato dell’Indiana in tre decenni non aveva praticamente mai dovuto affrontare rivali interni per il suo seggio, prevalendo inoltre sempre piuttosto comodamente nelle elezioni generali. Nell’ultima tornata elettorale che lo ha visto protagonista, nel novembre 2006, Lugar vinse con oltre l’87% dei consensi.
A sconfiggerlo martedì e ad ottenere la nomination repubblicana per un posto al Senato è stato invece l’oscuro Richard Mourdock, attuale Tesoriere dello stato dell’Indiana con alle spalle un paio di tentativi falliti di entrare alla Camera dei Rappresentanti negli anni Novanta, il quale ha raccolto il 61% dei voti espressi contro il 39% del suo più popolare rivale.
Sull’esito di queste primarie ha influito in maniera decisiva l’azione di comitati e finanziatori conservatori attivi a livello nazionale e che, in Indiana come in altri stati, stanno prendendo di mira i politici in carica, quasi sempre troppo moderati o accusati di essere eccessivamente disponibili al compromesso con il Partito Democratico. Tra le organizzazioni che più hanno speso contro Lugar ci sono, tra le altre, la NRA (National Rifle Association), la più potente lobby americana della armi, e FreedomWorks, una “Super PAC” presieduta dall’ex deputato repubblicano ultra-conservatore ed ex lobbista, Dick Armey.
Le pressioni e le campagne elettorali dispendiose ed aggressive messe in atto da questi gruppi ben finanziati hanno già mietuto parecchie vittime tra la vecchia guardia del Senato, sia tra le fila repubblicane che tra quelle democratiche. Molti senatori hanno infatti annunciato da tempo la loro intenzione di ritirarsi dalla politica una volta terminato il loro mandato a fine anno, preferendo evitare di doversi impegnare in una campagna logorante con rivali che li attaccano da destra. Gli addii al Senato, ad esempio, della repubblicana moderata Olympia J. Snowe del Maine o dei centristi democratici Kent Conrad del North Dakota e Jim Webb della Virginia, sono da intendersi in questo senso e lasceranno spazio con ogni probabilità a nuovi senatori attestati su posizioni decisamente più conservatrici.
Per coloro che hanno deciso al contrario di accettare la sfida, il destino potrebbe essere simile a quello di Lugar. Quest’ultimo ha subito una pesante batosta nonostante il suo curriculum di tutto rispetto e a causa proprio della sua disponibilità al dialogo con i democratici che nel passato gli aveva permesso di allargare la propria base elettorale. Il senatore uscente dell’Indiana è famoso soprattutto per i suoi sforzi negli anni Novanta per il disarmo nell’ex Unione Sovietica. Pur essendo mal visto dalla NRA ed essendo su posizioni vicine ai democratici sul tema dell’immigrazione, Lugar non è comunque un liberal, soprattutto in ambito economico.
Quando lo scorso anno i Tea Party hanno iniziato l’assalto nei suoi confronti, Lugar ha oltretutto cercato di spostarsi a destra, evidentemente senza successo. Questo tentativo di far proprio il messaggio dello sfidante conservatore di Richard Lugar sembra riflettere le conseguenze della presenza di candidati vicini ai Tea Party sull’intero sistema politico americano, nel quale i moderati, quando riescono ad essere confermati nei loro incarichi, vengono comunque spinti su posizioni sempre più reazionarie.
Secondo la propaganda dei Tea Party, le sconfitte come quella incassata martedì da Lugar sarebbero il sintomo di un desiderio diffuso nel paese di vedere attuate una serie di misure per deregolamentare ancor di più l’economia, promuovere i valori conservatori in ambito sociale, ridurre drasticamente il deficit di bilancio, il carico fiscale, i programmi di assistenza, la spesa pubblica e il ruolo del governo, proprio mentre la maggior parte della popolazione sembra in realtà chiedere esattamente l’opposto.
Questo sconvolgimento degli equilibri nel Partito Repubblicano non è però altro che il risultato dell’impegno di una ristretta cerchia di super-ricchi che, soprattutto tramite le cosiddette “Super PACs”, possono investire cifre enormi per manipolare organizzazioni come i Tea Party e le frustrazioni parzialmente legittime su cui essi fanno leva. Questi ultimi sono così in grado di costruire una rete agguerrita di attivisti, finendo spesso per decidere i risultati di primarie locali nelle quali l’affluenza risulta solitamente ridotta.
L’agenda dei Tea Party, composti principalmente da settori della piccola borghesia bianca disorientati dalla globalizzazione e dalla crisi economica e sociale negli Stati Uniti, è dettata dunque dai facoltosi finanziatori che propagandano la necessità di nuove e più incisive riforme in senso ultra-liberista, poiché questa sarebbe la direzione indicata dagli elettori.
Lo sforzo di promuovere politiche conservatrici e candidati di estrema destra al Congresso è rivolto non solo contro il Partito Democratico ma, come dimostra la vicenda di Lugar, anche contro parlamentari repubblicani in carica da parecchi anni, i quali, in un clima di profonda ostilità verso tutta la classe politica di Washington, sono diventati facilmente identificabili come i responsabili della crisi politica, economica e di valori in corso.
La sconfitta di Richard Lugar è stata accolta ufficialmente con dispiacere da parte dei colleghi senatori democratici e dello stesso presidente Obama. L’inquilino della Casa Bianca ha ricordato l’impegno del senatore dell’Indiana soprattutto in politica estera e la sua costante predisposizione al dialogo con il partito rivale in un Congresso sempre più diviso.
Per i vertici democratici, tuttavia, l’uscita di scena di un candidato forte ed esperto, in grado di fare appello agli elettori moderati e indipendenti, apre uno spiraglio inaspettato per la conquista di un seggio al Senato in uno stato che i repubblicani sembravano avere saldamente in pugno. Perciò, subito dopo le primarie, i vari gruppi democratici impegnati in campagna elettorale hanno iniziato a mettere in risalto le posizioni troppo estreme per l’elettore medio dell’Indiana del neo-candidato repubblicano Richard Mourdock.
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di Michele Paris
Con una dichiarazione degna dei tempi della guerra fredda, qualche giorno fa il capo delle forze armate russe, Nikolay Makarov, ha minacciato apertamente un attacco militare preventivo contro i siti di difesa missilistici che la NATO intende installare nei prossimi anni in alcuni paesi dell’Europa Orientale. L’uscita del generale russo è giunta pochi giorni prima dell’inaugurazione ufficiale del terzo mandato presidenziale di Vladimir Putin e segnala un possibile ulteriore inasprimento delle tensioni tra Washington e Mosca.
Il progetto anti-missilistico nei paesi un tempo sotto l’influenza sovietica era stato provocatoriamente proposto dall’amministrazione Bush, per essere poi messo da parte da Obama e alla fine riesumato nel settembre 2009 con il nuovo nome di European Phased Adaptive Approach (EPAA). Il sistema NATO prevede il dispiegamento di missili intercettori in Romania e in Polonia, nonché di un radar in Turchia, e nelle intenzioni ufficiali dovrebbe proteggere i paesi europei da attacchi provenienti soprattutto dall’Iran.
La questione aveva da subito causato frizioni tra la Russia e gli Stati Uniti, dal momento che il sistema anti-missilistico, secondo Mosca, neutralizzerebbe il proprio deterrente nucleare. Mentre nel recente passato il Cremlino ha più volte minacciato l’abbandono del nuovo trattato START siglato con Washington per la riduzione delle testate nucleari dei due paesi, l’avvertimento lanciato mercoledì scorso dal generale Makarov, il quale è anche vice-ministro della Difesa, rappresenta una novità inquietante.
Intervenendo nel corso di una conferenza nella capitale russa, Makarov ha affermato che, “considerando la natura destabilizzante di un sistema di difesa missilistico, se la situazione dovesse aggravarsi, potrebbe essere presa una decisione riguardo un attacco preventivo con le armi offensive a nostra disposizione”. Il capo di Stato Maggiore ha aggiunto poi che potrebbe essere preso in considerazione l’impiego di nuovi armamenti nelle regioni meridionali e nord-occidentali della Russia, a cominciare dall’enclave di Kaliningrad, da dove preparare la “distruzione dell’infrastruttura europea di difesa missilistica”. Makarov, infine, ha criticato la NATO per essersi rifiutata di mettere per iscritto la garanzia che il sistema di difesa non sarà diretto contro Mosca.
Le parole del generale russo sono state riportate senza particolare enfasi in Occidente e solo da alcuni giornali, mentre sono state minimizzate dai vertici della NATO e del governo americano. Il segretario generale del Patto Atlantico, Anders Fogh Rasmussen e il suo vice, Alexander Vershbow, si sono limitati a ribadire che il sistema di difesa non rappresenta alcuna minaccia per la Russia. Da Washington, l’inviata speciale del Dipartimento di Stato per le questioni di Difesa Missilistica, Ellen Tauscher, ha invece sostenuto che “non esiste nulla che possa fermarci dal creare il sistema entro i tempi stabiliti”.
Nonostante le rassicurazioni, secondo molti analisti, gli unici paesi che attualmente dispongono di missili teoricamente in grado di raggiungere l’Europa, oltre a Israele, sono la Russia e la Cina e, appunto, a questi ultimi due è diretto il piano di difesa della NATO.
L’escalation delle tensioni tra USA e Russia segnalata dalle dichiarazioni del generale Makarov si inserisce in una situazione già complicata dal disaccordo tra le due potenze su varie questioni internazionali, come la crisi in Siria e il nucleare iraniano.
Sui due temi caldi del Medio Oriente, Mosca sente infatti minacciati i proprio interessi nella regione dall’aggressività statunitense, rivolta principalmente al cambio di regime a Damasco e a Teheran.
Per questa ragione, il Cremlino continua ad opporsi strenuamente sia all’uso della forza contro il regime alleato di Assad che all’applicazione di nuove sanzioni o ad un attacco militare contro la Repubblica Islamica.
La concomitanza della minaccia di Makarov con l’insediamento di Putin non sembra inoltre casuale, visto che il ritorno al Cremlino dell’ex presidente preannuncia con ogni probabilità il ritorno ad un atteggiamento più bellicoso da parte della Russia nei confronti degli Stati Uniti dopo i quattro anni di relativo riavvicinamento sotto la guida di Dmitry Medvedev.
Un cambio di marcia, quello deciso da Putin e dalla classe dirigente russa, motivato quasi certamente anche da ragioni interne. Un diversivo utile, in sostanza, in una fase di crescente incertezza sul fronte dell’economia e con un malcontento tra la popolazione già esploso più volte in questi ultimi mesi.
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di Mario Braconi
Dopo una nottata al cardiopalma, Boris Johnson è sindaco di Londra per un altro mandato di quattro anni: benché dall’entourage dell’avversario Ken “il Rosso” Livingstone si ammettesse a mezza bocca la sconfitta sin dal primo pomeriggio di ieri, la vittoria del candidato conservatore è stata di misura. A Johnson sono andate, infatti, il 51,53% delle preferenze, contro il 48,47% totalizzate dall’avversario: il che comporta un margine di poco meno di 63.000 voti, il più ridotto nella storia delle elezioni amministrative di Londra.
A rendere più emozionante il finale della disfida, una paio di incidenti (sospetti?): dapprima i conteggi interrotti per ore a seguito del ritrovamento di due casse di voti non conteggiati nel collegio elettorale di Harrow e Brent (dove è forte il consenso per Livingstone); e poi problemi con i dispositivi elettronici conta-voti ed un centro di conteggio rimasto per qualche tempo senza corrente elettrica.
La vittoria del candidato conservatore non va però letta come un successo del suo partito: al contrario, i risultati del partito conservatore, al di là di quanto accaduto a Londra, non sono certo confortanti, e sono l’ovvia conseguenza di una serie di azioni politiche del governo assai poco gradite, perfino ai cittadini meno progressisti, quali l’introduzione di nuove tasse sulle pensioni, sulle donazioni alle onlus e perfino sui prodotti da forno.
Proiettando i dati delle elezioni a livello nazionale, il partito conservatore arriva oggi al 31% delle preferenze, mentre il Labour di Miliband tocca il 38;% dei consensi; i Liberaldemocratici devono accontentarsi invece di un magro 16%.
A dispetto della sconfitta del Rosso, i nemici interni di Miliband, che attendevano una sua disfatta alle elezioni di Londra per regolare i conti in sospeso, debbano attendere un’altra occasione. Anche nel 2012 Livingstone si è rivelato un mal di testa per la dirigenza laburista: Miliband si è assunto un notevole rischio politico, candidando il sessantaseienne ed alquanto indigesto Ken all'incarico di sindaco di Londra.
A sua discolpa si può dire che non avesse molta scelta, almeno a dar credito alle voci di corridoio riferite da Jon Craig su SkyNews, secondo cui Red Ken, rientrato nei ranghi laburisti nel 2004, anche questa volta avrebbe ricattato la dirigenza del partito, rendendo più convincente la sua candidatura sventolando lo spauracchio di una sua possibile corsa da indipendente. Lo stesso copione visto alle elezioni del 2000, quando Livingstone, indispettito dal veto di Blair sul suo nominativo, corse e vinse da solo, ma umiliando la leadership.
Ma Miliband esce comunque vincitore dall’agone elettorale delle amministrative: innanzitutto tradizionalmente le elezioni per il sindaco di Londra sono guidate più dal confronto delle personalità che dalle idee politiche. E Livingston, se da un lato è un candidato simpatico e poco incline al compromesso, va anche detto che alcune sue uscite velatamente anti-semite, e il sospetto di movimenti non chiarissimi di milioni di sterline che coinvolgono la sua amministrazione della capitale, ne hanno depauperato non poco il capitale politico. Inoltre, a causare la sconfitta laburista di Londra è stato un numero limitato di voti.
Ma soprattutto ad incoronare Ed Miliband è il grande successo ottenuto dal partito nel Paese, al di là dell’incidente di Londra. Come ricorda il commento politico del Guardian, il 38% dei consensi, pur lontanto dal 43% dei tempi di Blair, non è poi troppo lontano da quel 40% che viene considerato la garanzia di vittoria alle elezioni generali nazionali. Sembra funzionare, insomma, la strategia del nuovo capo del partito del lavoro britannico, che ha abbandonato la deleteria strada di sorpassare a destra i conservatori.
In effetti, anche la composizione del consiglio comunale della Capitale del Regno dopo le elezioni conferma una situazione politica contraddittoria rispetto alla vittoria di facciata del candidato conservatore: i Tory perdono due seggi, passando da 11 a 9; i laburisti ne guadagnano ben quattro, che, sommati agli otto pre-esistenti, portano il loro numero a 12, cosa che ne fa il gruppo in maggioranza relativa; débacle per i liberaldemocratici, che perdono uno dei loro tre seggi. Al momento, insomma, le opposizioni non sono in grado di bloccare la legge di spesa di Johnson, ma perfino gli elettori di Londra hanno dato un segnale chiaro.
I conservatori potranno anche festeggiare il successo di Johnson, ma le cose non vanno certo bene per il partito. Pare infatti che gli elettori conservatori più destrorsi abbiano letto l’indebolimento dei consensi dei Tories come la conseguenza della strategia centrista adottata da Cameron, dettata da questioni di opportunismo in generale e dalla contingenza dell’alleanza con i Liberaldemocratici in particolare: basta insomma, con queste sciocchezze come i diritti delle persone omosessuali, cari agli alleati liberal-democratici. E' possibile perciò che i conservatori tentino ora un rilancio con politiche più chiaramente reazionarie.
Insomma, guai in vista per Cameron, che peraltro si potrebbe trovare un nuovo nemico in casa: Boris Johnson, indubbiamente rafforzato dall rinnovato mandato a Londra. Il sindaco Tory, peraltro, deve già fronteggiare la prima grana: le dimissioni, date ormai per certe, del suo numero due Guto Harri, che avrebbe accettato un nuovo incarico nell’alta dirigenza a News International di Murdoch, che, dopo una stagione segnata da gravissimi scandali, suicidi ed arresti tenta disperatamente di risollevare la sua immagine.
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di Carlo Musilli
In Serbia si è chiuso un weekend di bulimia elettorale: sette milioni di persone chiamate alle urne per scegliere un nuovo presidente, nuovi parlamentari e perfino nuovi amministratori locali. Sulla carta sarebbe possibile un vero sconvolgimento, ma la sensazione è che il destino del piccolo Paese balcanico sia già legato alla volontà di Bruxelles. Lo scorso primo marzo è arrivato il via libera alla candidatura per l'ingresso nell'Ue e, comunque siano andate le ultime consultazioni, il cammino della Serbia verso l'Europa non dovrebbe più essere in discussione.
Questo ovviamente significherà un surplus di austerity per una popolazione già ridotta alla fame. Fra i compiti del Parlamento in arrivo - ad esempio - ci sarà la riduzione del rapporto deficit-Pil fino al 4,25%, come già concordato con il Fondo Monetario Internazionale.
E' praticamente certo che il prossimo presidente serbo non ostacolerà questo percorso. I candidati alla poltrona più prestigiosa sono ben 12, ma i grandi favoriti al primo turno sono solo due, gli stessi di quattro anni fa: il riformista filoeuropeo Boris Tadic, presidente uscente, e il conservatore nazionalista Tomislav Nikolic, capo dell'opposizione. A meno di miracoli, saranno loro a contendersi lo scettro nel ballottaggio in programma fra due settimane. Fondamentali saranno i voti dei socialisti guidati da Ivica Dacic, nella scorsa legislatura alleato di Tadic e ministro degli Interni, in passato portavoce di Slobodan Milosevic.
Nel corso della campagna elettorale, per la prima volta l'adesione all'Ue non è stata un argomento centrale. I due super favoriti hanno anche evitato di toccare con troppa enfasi il tasto più incandescente a livello internazionale, quello del Kosovo. Sulla ex provincia proclamatasi indipendente nel 2008 i serbi si esprimeranno con un voto organizzato dall'Ocse. Ma anche su questo fronte sembra che a Bruxelles dormano sonni tranquilli: qualunque sia la composizione del nuovo governo, nessuno oserà tornare ai vecchi toni delle rivendicazioni territoriali.
Alle elezioni di quattro anni fa l'Europa aveva appoggiato apertamente Tadic. Il voto arrivava ad appena quattro mesi dalla secessione dei kosovari e il timore era che il Paese potesse ripiombare nel nazionalismo.
La vera novità di oggi è lo sdoganamento internazionale di Nikolic: pur continuando a preferire l'ex presidente, l'Ue non ritiene più che il suo avversario rappresenti una minaccia. Questo non toglie che l'ok alla candidatura per l'ingresso nell'Unione sia stata letta da molti come un indiretto sostegno al vecchio amico Tadic, che non ha mancato di esaltare il fatto come un successo personale.
Quanto alla battaglia per i seggi in Parlamento, è un'altra storia. Da questo punto di vista le parti sono invertite rispetto alle presidenziali: prima del voto era dato in vantaggio il partito di Nikolic (Sns), che secondo i sondaggi potrebbe staccare i democratici di Tadic di ben cinque punti (33% a 28%). A quel punto la strada più probabile dovrebbe essere l'alleanza con i nazionalisti di Vojislav Kostunica per creare la coalizione di governo.
Ma si tratterebbe di un matrimonio problematico, perché Kostunica è rimasto l'unico vero spauracchio euroscettico. Non è poi da escludere che i socialisti prendano abbastanza voti da compensare il gap e che il trucchetto di Tadic dia i suoi frutti: l'ex presidente ha scelto le dimissioni proprio per far in modo che tutte le elezioni si svolgessero lo stesso giorno, nella speranza che questo gli consenta di recuperare un po' di terreno alle legislative.
Intanto i serbi hanno altro a cui pensare. La disgregazione sociale del Paese è grave e ad approfittarne potrebbe essere Dveri, un nuovo partito di estrema destra, intollerante e xenofobo, che rischia di entrare in Parlamento superando la soglia di sbarramento al 5%.
Non è sbagliato parlare di euroscetticismo diffuso (anzi, il 70% della popolazione si dice contrario perfino all'ingresso nella Nato). Il malcontento dei cittadini è però legato in primo luogo alla pesantezza della crisi economica. La disoccupazione è arrivata al 23% (+10% negli ultimi quattro anni) e per i fortunati che ancora hanno un lavoro lo stipendio medio è di 360 euro al mese.
L'economia sommersa è pari a un terzo del Pil, per un valore di quattro miliardi l'anno. Solo nell'ultimo quadriennio la moneta serba, il dinaro, ha perso il 30% del suo valore e il debito pubblico è cresciuto del 16%, a 14,4 miliardi di euro. Chi è andato a votare ieri lo ha fatto sperando in migliori prospettive di lavoro, in un salario più dignitoso, in uno Stato meno corrotto. Difficile che tutto questo possa arrivare dalla grande famiglia Ue.
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di Michele Paris
Come ampiamente previsto, i due principali partiti greci hanno subito una pesante sconfitta nelle elezioni anticipate di domenica. La Nuova Democrazia (ND) e il Partito Socialista (PASOK), secondo le proiezioni, avrebbero ottenuto complessivamente circa il 33% dei consensi, un risultato che rende incerta la creazione di un governo di unità nazionale, anche con il premio di maggioranza assegnato al partito con il maggior numero di voti.
ND e PASOK avevano dominato le elezioni del 2009, nelle quali si erano aggiudicati il 77% dei voti totali. Il partito di centro-destra guidato da Antonis Samaras è diventato il primo partito greco, ma il 20% circa raccolto si traduce in una perdita di almeno 13 punti percentuali rispetto a tre anni fa.
Decisamente più grave è stata la punizione inflitta al PASOK, crollato dal 44% al 14%, dietro addirittura alla Coalizione della Sinistra Radicale (SYRIZA) che ha più che triplicato il risultato del 2009, conquistando oltre il 16%. Meglio del 2009 ha fatto anche il Partito Comunista Greco (KKE), il quale, dopo una campagna elettorale nella quale ha chiesto apertamente l’uscita di Atene dall’eurozona, è salito attorno al 9%.
Se pure l’ND e il PASOK dovessero riuscire a continuare l’alleanza di governo che da qualche mese sostiene il primo ministro tecnico Lucas Papademos, la loro maggioranza sarebbe estremamente ridotta e, anche includendo un terzo partito in un’eventuale coalizione, tutt’altro che stabile. In caso di mancato accordo o senza una chiara maggioranza, si renderanno invece necessarie nuove elezioni a breve, come molti avevano previsto nei giorni scorsi.
Dopo avere ammesso il tracollo del suo partito, il leader del PASOK, Evangelos Venizelos, già domenica sera ha fatto appello ad un governo di unità nazionale per continuare l’implementazione delle misure di austerity richieste dagli ambienti finanziari internazionali. Gli stessi vertici dell’ND, alla vigilia del voto poco propensi ad un accordo di governo con il PASOK, hanno a loro volta ammorbidito le loro posizioni visto la deludente prestazione del loro partito.
In quello che si prospetta come il più frammentato parlamento greco dal ritorno alla democrazia, il partito neo-nazista Alba Dorata otterrà per la prima volta dei seggi dopo essere passato dall’irrilevanza del recente passato ad un risultato compreso tra il 6 e l’8%. L’altro partito di estrema destra, il Raggruppamento Popolare Ortodosso (LAOS), è invece sceso dal 5,6% al 3% circa, pagando il sostegno garantito al governo Papademos.
Oltre alle formazioni di sinistra e di estrema destra, a beneficiare del voto di protesta è stato anche il partito dei Greci Indipendenti recentemente creato da fuoriusciti ND, in grado di superare il 10% grazie ad un messaggio di stampo nazionalista. Il suo leader, Panos Kammenos, ha già escluso di voler entrare in una coalizione con l’ND o il PASOK.
Ciò che è emerso chiaramente dal voto di ieri è dunque il chiarissimo rifiuto da parte della grande maggioranza degli elettori greci delle politiche di rigore profondamente anti-democratiche adottate negli ultimi tre anni e che hanno prodotto una crisi economica e sociale dai contorni drammatici. La maggioranza del voto è andata infatti alle forze politiche contrarie totalmente o in parte ai termini dell’accordo siglato tra la troika (UE, FMI, BCE) e Atene sul pacchetto di aiuti al paese.
Ciò che si prospetta, in ogni caso, è un periodo di instabilità durante il quale aumenteranno le pressioni dell’Europa e dei mercati finanziari affinché qualsiasi governo si installerà ad Atene mantenga gli impegni presi nel recente passato in cambio dell’erogazione della seconda tranche del prestito negoziato lo scorso marzo. In particolare, la Grecia è attesa da un appuntamento delicato a giugno, quando dovrà trovare altri 11 miliardi di euro di tagli alla propria spesa pubblica.
Secondo la costituzione greca, il presidente, Karolos Papoulias, chiederà ora al leader del primo partito uscito dal voto di provare a formare un nuovo governo. Nel caso il tentativo dovesse fallire, l’incarico verrà assegnato ai leader delle altre formazioni con più seggi e, in assenza di una maggioranza adeguata, nuove elezioni dovranno essere indette in circa tre settimane.