di Michele Paris

In un’elezione speciale andata in scena martedì nello stato americano del Wisconsin, il governatore repubblicano Scott Walker è riuscito a conservare agevolmente il proprio incarico nonostante l’impopolarità di una serie di misure anti-sindacali approvate lo scorso anno e che avevano scatenato proteste senza precedenti negli ultimi trent’anni negli Stati Uniti. Il voto ha trovato ampio spazio sui media d’oltreoceano che lo hanno descritto, per le sue implicazioni nazionali, come l’appuntamento elettorale più importante del 2012 dopo le presidenziali di novembre.

Astro nascente dell’ala conservatrice del Partito Repubblicano, Scott Walker venne eletto nel novembre 2010 e, dopo poche settimane dall’inizio del suo primo mandato, introdusse una legislazione volta ad eliminare gran parte dei diritti dei dipendenti pubblici dello stato, comprimendo in particolare sia la facoltà di negoziare i loro contratti che le retribuzioni e i benefit. Queste iniziative, simili ad altre adottate in molti stati americani negli ultimi anni, erano state messe in atto ufficialmente per ridurre un deficit statale stimato in 3,6 miliardi di dollari.

Agli attacchi frontali del governatore, decine di migliaia di lavoratori e studenti nella primavera della scorso anno risposero scendendo in piazza in varie città dello stato per manifestare il proprio dissenso, giungendo anche ad occupare per alcuni giorni la sede del parlamento statale a Madison, la capitale del Wisconsin.

Le manifestazioni, proprio quando stavano per sfociare in uno sciopero generale, vennero però dirottate dalle organizzazioni sindacali verso una campagna a tutto beneficio del Partito Democratico tramite il ricorso ad uno strumento legale chiamato “recall election”. Raccogliendo un certo numero di firme, cioè, in Wisconsin come in altri stati è possibile forzare un nuovo voto per cercare di rimuovere dal proprio incarico il governatore o altre cariche elettive prima della scadenza naturale del loro mandato.

Sull’onda delle proteste e alla luce del malcontento diffuso nei confronti di Walker, i promotori dell’iniziativa già a gennaio di quest’anno riuscirono a raccogliere quasi un milione di firme, un numero di gran lunga superiore al minimo richiesto dalla legge, pari ad almeno un quarto dei votanti nella più recente tornata elettorale.

Al termine di una campagna in cui è stata spesa la cifra record di 63 milioni di dollari, Scott Walker ha raccolto circa il 54% dei consensi, contro il 45% del suo sfidante, Tom Barrett, sindaco democratico di Milwaukee, la principale città del Wisconsin. Quest’ultimo era già stato sconfitto da Walker nel 2010, significativamente con un margine minore rispetto all’esito del voto di martedì.

I promotori della “recall election” avevano cercato inoltre di rimuovere altri politici repubblicani che si erano battuti per l’implementazione delle misure anti-sindacali del governatore. Tra di essi spiccano la vice-governatrice, Rebecca Kleefisch, e il leader di maggioranza al Senato statale, Scott Fitzgerald. Come Walker, entrambi sono riusciti a conservare i rispettivi incarichi, permettendo al Partito Repubblicano di mantenere il controllo assoluto dello stato.

Secondo la versione sposata dai media liberal, la vittoria di Scott Walker sarebbe stata determinata principalmente dall’enorme quantità di denaro piovuta sulla sua campagna elettorale grazie ai generosi contributi di facoltosi donatori repubblicani di altri stati, interessati a mantenere la legislazione promossa dal governatore. Se gli oltre 45 milioni di dollari su cui ha potuto contare Walker, contro i quasi 18 di Barrett, hanno indubbiamente avuto un peso nel voto dell’altro giorno, la differenza nei finanziamenti andati ai due candidati dimostra quanto meno il sostanziale disinteresse dei vertici nazionali del Partito Democratico a mobilitare i proprio elettori in Wisconsin.

Più o meno apertamente schierato contro l’elezione speciale, infatti, il partito a Washington non ha praticamente partecipato alla campagna elettorale di Tom Barrett se non negli ultimi giorni prima del voto, quando nello stato è giunto ad esempio l’ex presidente Clinton. Lo stesso Barack Obama pare essere stato contrario agli sforzi per deporre Walker in questo modo, come dimostra il fatto che non ha messo piede in Wisconsin in questi mesi nonostante sia stato impegnato nelle prime battute della sua campagna per la rielezione negli stati confinanti.

Sostanzialmente, d’altra parte, i democratici condividono le politiche di riduzione dei benefici e dei diritti dei lavoratori messe in atto dal repubblicano Walker, tanto che anche molti governatori appartenenti al partito di Obama, dopo lo scoppio della crisi nel 2008, le hanno messe in atto in vari modi nei loro stati. A conferma di ciò, la questione che aveva scatenato le proteste dell’anno scorso portando alla “recall election”, vale a dire la cancellazione del diritto dei lavoratori a negoziare alcuni aspetti dei loro contratti, è stata volutamente tenuta fuori dalla campagna elettorale in Wisconsin.

Lo stesso candidato democratico, oltretutto, aveva già implementato parte dei provvedimenti adottati da Walker a livello statale in qualità di sindaco di Milwaukee, imponendo tagli ai salari dei dipendenti pubblici della città per quasi 20 milioni di dollari. Nelle primarie democratiche, inoltre, Tom Barrett l’aveva spuntata sulla candidata preferita dalle organizzazioni sindacali, Kathleen Falk, contribuendo ulteriormente a spegnere l’entusiasmo per il voto.

Più in generale, sia i sindacati che il Partito Democratico hanno basato l’intera battaglia contro Walker unicamente sull’opposizione alle misure che escludono i rappresentanti dei lavoratori dalle contrattazioni collettive relative ad alcuni aspetti dei contratti dei dipendenti pubblici. Il loro obiettivo è infatti quello di mantenere i sindacati al tavolo dei negoziati, così come di garantire a questi ultimi l’afflusso di denaro sotto forma di contribuzioni automatiche provenienti dalle buste paga dei lavoratori. Sulle questioni cruciali dei tagli alle retribuzioni o dell’aumento dei contributi individuali per il finanziamento dei piani sanitari e pensionistici, il loro punto di vista risulta invece fondamentalmente in sintonia con quello dei repubblicani.

Per questo motivo, l’intero sforzo dei promotori della speciale elezione del 5 giugno sembra essere stato un tentativo di canalizzare le tensioni sociali alimentate dalle politiche del governatore Walker verso il Partito Democratico in vista degli appuntamenti elettorali del 2012.

In questa prospettiva, la questione della effettiva forza dei sindacati nel mobilitare gli elettori, sollevata dai media mainstream d’oltreoceano, è mal posta. La “recall election” del Wisconsin solleva piuttosto importanti interrogativi sul ruolo dei sindacati stessi e, negli Stati Uniti come altrove, su quali interessi essi rappresentino realmente.

Se la conferma di uno dei politici più a destra del panorama americano alla carica di governatore del Wisconsin permetterà ai repubblicani di questo e di altri stati di mettere in atto con maggiore spregiudicatezza nuove misure contro i lavoratori, è altrettanto vero che anche dove sono i democratici a governare provvedimenti simili sono già stati o verranno implementati. La differenza risiede precisamente nel compito assegnato ai sindacati, la cui collaborazione con gli amministratori democratici risulta fondamentale nel far digerire queste stesse misure ai lavoratori e nel contenere le tensioni sociali che inevitabilmente producono.

Nel dibatto politico americano, in ogni caso, il voto di martedì avrebbe dovuto fornire anche qualche indicazione circa le presidenziali di novembre, dal momento che il Wisconsin è considerato da alcuni uno stato in bilico tra i due candidati alla Casa Bianca, nonostante Obama qui abbia vinto nettamente nel 2008. Gli exit poll rilevati durante il voto dell’altro giorno indicano un certo margine a favore di Obama su Mitt Romney, anche se la reale questione sembra essere l’assenza di alternative per gli elettori, visto che chiunque vincerà a novembre le politiche anti-sociali simili a quelle promosse da figure come Scott Walker continueranno con ogni probabilità ad essere adottate anche a livello nazionale.

Quella di martedì in Wisconsin è stata solo la terza “recall election” nella storia degli Stati Uniti riguardante un governatore in carica. Walker è stato il primo ad aver conservato il proprio incarico, mentre in precedenza i governatori di California - il democratico Gray Davis - e North Dakota - il repubblicano Lynn Frazier - erano stati rimossi rispettivamente nel 2003 e nel 1921.

di Michele Paris

L’ennesima incursione con i droni in Pakistan nella prima mattinata di lunedì ha alimentato sui media di mezzo mondo una serie di congetture sulla sorte del presunto numero due di Al-Qaeda, Abu Yahya al-Libi, il quale si sarebbe trovato in un’abitazione colpita dal fuoco USA nel Waziristan del nord, al confine con l’Afghanistan. A confermare la presenza del vice di Ayman al-Zawahri nel luogo bombardato sono state le stesse autorità pakistane, anche se la morte di Libi non è stata ancora confermata ufficialmente.

Secondo quanto riportato dalla Associated Press, militanti e residenti dell’area colpita, nel villaggio di Khassu Khel, avrebbero visto Libi entrare nell’edificio distrutto dai droni della CIA, mentre da Washington esponenti dell’amministrazione Obama si sono detti “ottimisti” circa la morte del leader di Al-Qaeda.

Al contrario, un capo talebano locale ha sostenuto che nel blitz sono stati uccisi l’autista e una guardia del corpo di Libi ma quest’ultimo non era presente al momento dell’attacco. Nato Mohamed Hassan Qaid in Libia, Libi era già sfuggito nel recente passato al fuoco dei droni americani. In particolare, nel dicembre 2009 la notizia della sua morte fece il giro del mondo, per essere poi smentita. Ad essere ucciso in quell’incursione aerea statunitense era stato invece un altro militante islamico, Saleh al-Somali.

L’attacco di lunedì ha suggellato un periodo di due settimane di intensa attività con i droni in territorio pakistano. I bombardamenti contro sospettati di legami con gruppi terroristici sono aumentati parallelamente allo stallo delle trattative tra Washington e Islamabad attorno alla riapertura delle rotte di fornitura NATO dirette in Afghanistan dal porto di Karachi. Il governo del Pakistan aveva deciso la chiusura dei propri valichi di frontiera ai convogli occidentali in seguito alla morte di 24 soldati in un area di confine per mano degli americani nel novembre 2011.

Oltre alle scuse ufficiali per l’accaduto, il Pakistan chiede un sensibile aumento del pedaggio a carico dei convogli NATO, condizioni entrambe respinte dagli Stati Uniti. Quando Obama, durante il summit della NATO di Chicago del 21 maggio scorso, ha dovuto prendere atto che i pakistani non erano intenzionati a cedere riaprendo le rotte di terra sul proprio territorio, si è rifiutato di incontrare il presidente Zardari nella metropoli dell’Illinois e, subito dopo, ha iniziato a inviare segnali di impazienza, a cominciare appunto dall’aumento delle operazioni con i droni, nonostante il governo di Islamabad ne chieda da tempo lo stop.

Tra sabato scorso e lunedì, soprattutto, gli USA hanno sferrato 3 attacchi mortali con i droni nel Pakistan nord-occidentale, causando 30 morti, tra cui 4 sospetti militanti sabato, 10 domenica e 15 lunedì con l’incursione che avrebbe ucciso Libi. Secondo la stampa locale, l’operazione di domenica ha colpito una cerimonia funebre nel distretto di Wana, uccidendo numerosi membri della famiglia di un comandante del gruppo islamista guidato da Maulvi Nazir, definito dall’intelligence e dai militari pakistani il “talebano buono”, poiché non si batte per il rovesciamento del governo di Islamabad ma contro l’occupazione straniera dell’Afghanistan.

Il bilancio ufficiale dei blitz è in ogni caso fuorviante. Come ha messo in luce un recente articolo del New York Times, infatti, il sistema di conteggio dei morti causati dai droni adottato da Washington considera militanti in armi tutti i maschi adulti uccisi in una zona dove è stata segnalata una qualche attività terroristica. Per questo motivo, è estremamente probabile che molte delle vittime del fine settimana appena trascorso siano civili e, in ogni caso, che i presunti militanti assassinati non rappresentassero una minaccia per gli Stati Uniti.

Da parte del governo pakistano continuano a moltiplicarsi le dichiarazioni di condanna per le operazione condotte con i droni entro i proprio confini. Martedì, le autorità pakistane hanno espresso una nuova protesta formale al vice-ambasciatore americano, Richard Hoagland. Secondo Islamabad, le incursioni con gli aerei senza pilota nelle aree tribali servono solo ad alimentare ulteriormente l’anti-americanismo e sono perciò controproducenti, visto che permettono ai gruppi militanti di reclutare un numero sempre crescente di nuovi adepti.

Gli Stati Uniti, da parte loro, ignorano puntualmente le richieste pakistane di mettere fine agli attacchi con i droni, considerati un’arma irrinunciabile per colpire i “terroristi” che pianificano attentati in Occidente, in Afghanistan e nello stesso Pakistan.

Su questi strumenti di morte senza pericolo di perdite tra le forze statunitensi ha fatto massiccio affidamento il presidente Obama fin dal suo ingresso alla Casa Bianca. Oltre al Pakistan, dove viene condotto dalla CIA, il programma di assassini mirati con i droni viene utilizzato almeno anche in Somalia e, soprattutto, in Yemen, dove la responsabilità delle operazioni è invece affidata al Pentagono.

Se la morte di Abu Yahya al-Libi verrà confermata, sostengono gli americani, l’operazione di lunedì rappresenterà uno dei maggiori successi dell’anti-terrorismo a stelle e strisce dopo l’assassinio di Osama bin Laden nel maggio 2011.

Libi è una figura piuttosto popolare tra i militanti islamici per essere apparso in numerosi video di propaganda in cui incoraggia a colpire obiettivi occidentali. A contribuire alla sua notorietà, oltre all’essere scampato più volte al fuoco dei droni, è anche la clamorosa evasione dal carcere di Bagram, in Afghanistan, nel 2005, dove gli americani lo avevano rinchiuso dopo l’arresto a Karachi nel 2002. Libi era diventato il numero due di Al-Qaeda in seguito alla morte di bin Laden e alla designazione a suo successore del medico egiziano Ayman al-Zawahri.

Come quasi tutti i militanti islamici oggi bersaglio della “guerra al terrore” di Washington, anche Libi era sul libro paga degli USA tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, quando dalla Libia si trasferì in Afghanistan per combattere, grazie all’appoggio finanziario e militare americano, contro l’occupazione sovietica. Libi è successivamente entrato a far parte del cosiddetto Gruppo Combattente Islamico in Libia (LIFG), già affiliato ad Al-Qaeda e più recentemente attivo nel rovesciamento del regime di Gheddafi, ancora una volta con il sostegno degli Stati Uniti.

di Emanuela Pessina

BERLINO. Le riflessioni dei leader europei circa la questione del debito sovrano continuano a riempire le prime pagine dei quotidiani, ma ancora non si riesce a intravedere nessuna possibile soluzione finale. Con i loro ghirigori retorici, infatti, i politici continuano a eludere i nodi della questione, quasi a evitare quello scontro ormai necessario per intraprendere dei passi concreti. Questa volta è il premier italiano Mario Monti a esprimere il proprio parere, ovviamente a favore della crescita economica e contro la politica di austerità predicata da Berlino.

In una video conferenza con Bruxelles, Monti ha invitato la Germania a riflettere «velocemente e profondamente» sulle conseguenze delle misure di austerità, sulla necessità di evitare il contagio fra i Paesi più deboli e a fare maggiori sforzi per la crescita economica. Per Monti non ci sono dubbi: i mercati sono sotto pressione per la mancanza di un percorso orientato allo sviluppo economico dei Paesi europei stessi.

Fra le misure per combattere la crisi, Monti ha citato la diretta ricapitalizzazione delle banche, da intraprendere non attraverso gli Stati ma direttamente dal Fondo salva Stati permanente. Le sua parole hanno invece escluso l'espansione del mandato della Banca centrale europea (Bce), poiché il suo mandato attuale implica già la stabilità finanziaria e «una sua espansione potrebbe avere degli effetti controproducenti, come quello di ritardare l'adozione di riforme strutturali a livello nazionale». A non essere apertamente affrontato dal premier italiano è il tema degli eurobonds, il vero e proprio cruccio della politica del Vecchio continente e l’ostacolo reale all’unanimità di condotta dei leader europei. Monti, a quanto pare, preferisce prenderla larga.

Nessuna risposta diretta da Berlino all’appello di Monti, ma Angela Merkel, lo scorso week end, non ha perso un’ulteriore occasione per chiarire la sua posizione in materia fiscale, e questa volta lo ha fatto senza mezze parole, puntando dritto al nocciolo della questione. In un incontro con i segretari del partito cristianodemocratico (CDU), sabato scorso la Cancelliera ha ribadito che non accetterà «in nessuna circostanza» gli eurobond. Indebolita nella sua posizione europea dalla vittoria di Francois Hollande in Francia, che è andato a sostituire l’ex-presidente Nicolas Sarkozy rompendo la diarchia Berlino- Parigi, in precedenza la Merkel non aveva escluso la possibilità di introdurre le Titoli di Stato europei alla fine di un processo di riforme.

Certo, per la Cancelliera tedesca la cose sono un po’ cambiate in queste ultime settimane: dopo la sconfitta elettorale in Nord Reno-Vestfalia e il conseguente licenziamento del ministro dell’Ambiente Norbert Roettgen (CDU), che si era candidato proprio per quelle regionali, la Cancelliera si è vista ridurre la fiducia da parte dei suoi elettori e del suo partito, i cristianodemocratici. E i tre quarti dei tedeschi sono assolutamente contrari agli eurobond, uno strumento che costringerebbe l’operosa Germania nel ruolo di chi lavora per pagare i debiti degli Stati più indisciplinati e spendaccioni, quali Grecia, Portogallo, Italia e Spagna.

Osteggiare gli eurobond è quindi per la Cancelliera il primo passo per riconquistare l’elettorato in vista delle elezioni generali del 2013. Sotto elezioni l’opinione pubblica conta più che mai: e la Merkel non può deludere i propri elettori. Di tutt’altra parrocchia Mario Monti, che, al termine della video conferenza con Bruxelles, si è sentito di commentare: «Il nostro Governo può sopportare l'impopolarità dell'opinione pubblica, ma deve pensare alla sostenibilità fiscale e procedere come vuole Bruxelles».

E per piacere a Bruxelles non si può certo non piacere a Berlino, la capitale che, per la risoluzione della questione del debito sovrano, per il momento fa la voce più grossa di tutti. Costi quel che costi, un Governo tecnico ha degli obiettivi e non è tenuto a piacere ai propri cittadini.

Tutto viene rimandato, ancora una volta, al prossimo vertice, indetto proprio da Mario Monti a Roma il prossimo 22 giugno, cui sono invitati i leader delle prime quattro economie della zona euro. Il primo, fra l’altro, di una serie di vertici che coinvolgeranno tutte le potenze europee. Ma la speranza di arrivare a una soluzione è sempre più debole: fra conferme, smentite, cambi di direzione e commenti, sembra quasi che la strategia europea per uscire dalla crisi sia diventata quella di prender tempo e rinviare. Aspettando che qualcosa cambi.

 

 

 

di Michele Paris

Un agghiacciante articolo apparso settimana scorsa sul New York Times ha descritto esaustivamente le modalità con cui la Casa Bianca autorizza l’assassinio mirato di presunti terroristi islamici in paesi come Pakistan, Yemen e Somalia. Il lungo resoconto del quotidiano americano fa luce su un programma palesemente illegale e condotto nella quasi totale segretezza, nel quale il presidente Obama si assume l’intera responsabilità di decidere della vita e della morte di individui che quasi mai rappresentano una reale minaccia per la sicurezza degli Stati Uniti.

Con cadenza settimanale, un centinaio di membri dell’apparato anti-terrorismo americano si riuniscono in videoconferenza per valutare le biografie di sospettati di terrorismo che vengono poi raccomandati al presidente per entrare in una apposita “kill list”. Questo processo segreto di “nomination”, scrive macabramente il Times, si risolve nella decisione finale di Obama, il quale stabilisce personalmente chi debba essere assassinato con un’incursione dei droni impiegati oltreoceano.

Secondo le parole del consigliere per la sicurezza nazionale, Thomas Donilon, il presidente “è determinato nello stabilire fin dove debbano arrivare queste operazioni”, cioè in sostanza si attribuisce il potere di uccidere chiunque sia sospettato di far parte di organizzazioni terroristiche e si trovi sul territorio di paesi sovrani non in guerra con gli USA, senza passare attraverso un procedimento legale. Nelle sue decisioni, Obama è costantemente assistito dal capo dei consiglieri per l’anti-terrorismo, John Brennan, veterano della CIA profondamente implicato nelle torture dei detenuti durante l’amministrazione Bush.

I reporter del Times, Jo Becker e Scott Shane, hanno potuto contare su decine di interviste con esponenti del governo americano, alcuni dei quali descrivono quella che appare come un’evoluzione senza precedenti nella condotta di un presidente che, già docente di diritto costituzionale, è passato dalle promesse di chiudere Guantanamo e di porre fine agli eccessi che avevano caratterizzato i due mandati del suo predecessore all’approvazione senza battere ciglio di operazioni letali.

In seguito ad un bombardamento sferrato all’inizio del 2009 dai droni in Pakistan, che fece un elevato numero di vittime civili, la Casa Bianca emise una direttiva per chiedere maggiore precisione ai vertici della CIA. In realtà, il programma non sembra essere cambiato in maniera significativa. L’amministrazione Obama si è semplicemente limitata ad adottare un diverso metodo nel conteggio dei morti causati dai droni, considerando tutti i maschi adulti assassinati come “nemici in armi”, a meno che non emergano prove della loro innocenza, ovviamente dopo il loro decesso.

Secondo la logica dell’antiterrorismo USA, d’altra parte, tutte le persone che si trovano in un’area conosciuta per le attività terroristiche, o dove sono stati individuati operativi di Al-Qaeda, sono esse stesse militanti che meritano di essere eliminati sommariamente.

Una delle operazioni che secondo il Times ha maggiormente diviso l’amministrazione Obama è stata quella che ha portato all’uccisione di Baitullah Mehsud, leader dei Talebani del Pakistan le cui attività non rappresentavano una minaccia imminente per Washington, dal momento che erano rivolte in gran parte al governo di Islamabad. Obama, dietro insistenza delle autorità pakistane che volevano Mehsud morto, prese la decisione di eliminarlo poiché era una minaccia per il personale americano in Pakistan.

Inoltre, quando nell’agosto 2009 l’allora direttore della CIA, l’attuale Segretario alla Difesa Leon Panetta, informò Obama che il bersaglio era in vista, avvertì che un attacco avrebbe causato danni collaterali significativi, dal momento che Mehsud si trovava presso un’abitazione assieme alla moglie e ad alcuni familiari. Senza alcuno scrupolo, il presidente diede l’ordine di colpire, causando la morte dei civili innocenti presenti sul posto.

A dare un impulso decisivo al programma dei droni in Yemen fu poi il fallito attentato del giorno di Natale del 2009, quando un giovane nigeriano addestrato nel paese della penisola arabica cercò di fare esplodere un aereo diretto all’aeroporto di Detroit. La stagione delle stragi in Yemen sotto la direzione di Obama era peraltro già iniziata poco prima. Il 17 dicembre 2009, infatti, un’incursione aerea uccise, assieme al bersaglio stabilito, anche due intere famiglie del tutto innocenti, mentre le “cluster bombs” rimaste sul terreno fecero poco più tardi ulteriori vittime civili, provocando le violente proteste della popolazione locale.

Il nuovo giro di vite che la Casa Bianca avrebbe deciso dopo questi fatti non portò ad una maggiore cautela nell’uso dei droni, tanto che oggi il Pentagono può condurre attacchi in Yemen contro sospettati di cui non conosce nemmeno il nome.

I presunti “principi” a cui si ispirerebbe Obama nell’autorizzare gli assassini mirati, per il Times sono stati messi alla prova nella vicenda di Anwar al-Awlaki, il predicatore estremista con cittadinanza americana trasferitosi in Yemen. Secondo gli americani, Awlaki era coinvolto non solo nel già ricordato attentato del Natale 2009, ma anche nella sparatoria di Fort Hood del mese precedente, nella quale un maggiore dell’esercito USA uccise 13 persone.

Di fronte all’eventualità di uccidere un cittadino statunitense in un paese sovrano con un procedimento segreto e senza processo spinse Obama a chiedere il parere dell’Ufficio Legale del Dipartimento di Giustizia. Quest’ultimo, calpestando il dettato del Quinto Emendamento della Costituzione, stabilì in maniera sconcertante che la garanzia di un giusto processo per Awlaki poteva essere assicurata da una semplice deliberazione interna di un organo dell’esecutivo. Con questa copertura pseudo-legale, scrive il Times, il presidente democratico sostenne che il via libera all’assassinio di un sospetto con passaporto americano diventò “una decisione semplice”.

Lo scopo dell’articolo non è in ogni caso quello di smascherare uno degli aspetti più oscuri del governo degli Stati Uniti, ma sembra piuttosto essere stato realizzato con la collaborazione stessa dell’amministrazione Obama per propagandare un’immagine forte del presidente sulle questioni della sicurezza nazionale, prevenendo gli attacchi da destra dei repubblicani in campagna elettorale.

Il ritratto di Obama che ne esce è comunque quello di un presidente che appare perfettamente in sintonia con l’apparato militare e dell’intelligence a stelle e strisce, le cui politiche criminali intende portare avanti senza scrupoli o esitazioni. Tutto ciò nonostante la sua elezione nel 2008 sia stata dovuta in gran parte alla repulsione diffusa nel paese per gli abusi commessi sotto l’amministrazione Bush. Significativo nel delineare la personalità di Obama, a cui, va ricordato, nel 2009 è stato assegnato il Nobel per la Pace, è il commento del consigliere per la sicurezza nazionale, Thomas Donilon, che lo definisce perfettamente “a suo agio con l’uso della forza”.

Ancora più allarmante è però lo scenario politico americano che il Times contribuisce a descrivere. Dopo oltre un decennio di “guerra al terrore”, ogni organo dello stato dimostra un progressivo disinteresse, se non aperto disprezzo, per i più elementari diritti democratici.

L’autorità autoassegnatasi da Obama di decidere gli assassini mirati condotti dalla CIA e dal Pentagono sancisce infatti la legittimità di un programma criminale senza precedenti per un paese civile, con profonde e inquietanti implicazioni per gli Stati Uniti e non solo.

Una deriva quella raccontata dal New York Times che risulta ancora più preoccupante alla luce del sostanziale silenzio non solo dell’intera classe politica ma anche di intellettuali e commentatori liberal, da tempo ormai quasi interamente allineati alla causa dell’anti-terrorismo, così come della “guerra umanitaria”, e disposti ad accettare qualsiasi eccesso per assicurare la permanenza alla Casa Bianca di un presidente democratico.

di Michele Paris

Il moderato ottimismo che la settimana scorsa aveva segnato la vigilia dei colloqui di Baghdad sul nucleare iraniano ha lasciato spazio in fretta ad un nuovo deterioramento dei rapporti tra la Repubblica Islamica e l’Occidente. Le tensioni riemerse negli ultimi giorni indicano così un imminente fallimento dei negoziati, ancora una volta a causa principalmente dell’atteggiamento ambiguo e provocatorio tenuto dagli Stati Uniti e dai loro alleati.

Già nel corso del vertice tra l’Iran e i cosiddetti P5+1 (USA, Gran Bretagna, Francia, Russia, Cina e Germania) nella capitale irachena le trattative erano giunte in prossimità del punto di rottura, per essere poi apparentemente salvate nel secondo giorno di discussioni, al termine del quale le parti coinvolte hanno finito per fissare un nuovo summit, in programma il 18 giugno a Mosca. Alla luce della posizione assunta dai P5+1, a molti è già apparso un successo l’essere riusciti a stabilire un’altra data per proseguire i colloqui.

Lo scontro tra le delegazioni presenti a Baghdad è avvenuto sulla proposta avanzata dalla responsabile della politica estera UE, Catherine Ashton, con la quale i P5+1 chiedono all’Iran, tra l’altro, lo stop all’arricchimento dell’uranio ad un livello del 20%, l’invio all’estero di quello già arricchito a questo livello e la chiusura dell’installazione nucleare di Fordow. Se pure da Teheran erano giunti segnali di disponibilità al compromesso anche sul congelamento dell’arricchimento dell’uranio al 20%, qualsiasi ipotesi di accordo è crollata di fronte ai modesti incentivi promessi in cambio dall’Occidente.

Come gesto di buona volontà, l’Iran si aspettava infatti un allentamento delle sanzioni già in atto e che colpiscono il proprio settore petrolifero, nonché la cancellazione di quelle adottate dall’Unione Europea che entreranno in vigore il primo luglio prossimo. Riguardo a Fordow, poi, su richiesta di Israele gli USA ne hanno chiesto la chiusura in quanto esso è un sito sotterraneo e quindi praticamente impossibile da distruggere con bombardamenti mirati. La pretesa occidentale comporta perciò il trasferimento degli equipaggiamenti situati in questa struttura in un sito in superficie, dove diventerebbero un facile bersaglio di un’eventuale incursione aerea americana o israeliana.

Comprensibilmente, la posizione dell’Iran si è irrigidita e qualche giorno più tardi il capo dell’Agenzia per l’Energia Atomica, Fereydoon Abbasi, ha affermato che il suo paese “arricchisce l’uranio in base ai propri bisogni [al 20%] senza chiederne il permesso a nessuno”. Perciò, “i negoziatori iraniani non si muoveranno dalle loro posizioni se la controparte continuerà a mantenere un simile atteggiamento”. Abbasi ha poi annunciato che l’Iran intende costruire due nuove centrali nucleari nel 2013.

Di conseguenza, da Teheran è stato rimesso in discussione anche l’accordo con l’AIEA per ispezionare il sito militare di Parchin che sembrava a portata di mano prima del vertice di Baghdad. In seguito alla visita a Teheran del direttore dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), Yukiya Amano, un’intesa sembrava essere a portata di mano ma lo stesso Abbasi ha successivamente indicato la nuova posizione di Teheran, secondo la quale l’AIEA dovrà presentare prove concrete di presunte attività illegali a Parchin per ottenerne l’accesso. Le accuse dell’Agenzia dell’ONU si basano su discutibili e datati rapporti di intelligence occidentali e israeliani.

Il cambiamento dell’atmosfera attorno alla questione del nucleare iraniano nell’arco di pochi giorni rivela come i P5+1, con gli Stati Uniti in prima fila, intendano strumentalizzare i colloqui in corso per esercitare altre pressioni su Teheran e inviare ultimatum inaccettabili ai vertici della Repubblica Islamica. A dimostrazione di ciò, vi è il fatto che i rappresentanti dei governi occidentali a Baghdad hanno per l’ennesima volta deciso di ignorare le aperture e la disponibilità al dialogo mostrata dagli iraniani, i quali durante il vertice avevano anche presentato una loro proposta che comprendeva, oltre al nucleare, altre questioni relative alla sicurezza in Medio Oriente.

La linea dura di Washington e il sostanziale fallimento dei negoziati va dunque al cuore della crisi del nucleare iraniano, in buona parte fabbricata dall’Occidente e da Israele. Il nodo cruciale che impedisce una risoluzione pacifica della questione è stato messo in luce chiaramente qualche giorno fa da Flynt e Hillary Leverett sul loro blog Race for Iran.

I due ex membri del Consiglio per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti hanno scritto che “la determinazione a dominare la regione mediorientale distorce gravemente l’approccio diplomatico dell’amministrazione Obama, dal momento che essa utilizza i negoziati sul nucleare con Teheran per convincere la Repubblica Islamica a cedere alle richieste americane”, mentre i colloqui dovrebbero piuttosto essere “uno strumento importante per giungere al riallineamento delle relazioni USA-Iran”.

In altre parole, per Washington la questione del nucleare iraniano è semplicemente un pretesto per fare pressioni su Teheran con l’obiettivo di spingere l’Iran ad allinearsi agli interessi americani in Medio Oriente o, vista l’impraticabilità di questa opzione, per giungere ad un cambio di regime.

Infatti, aggiungono i Leverett, “non esistono argomenti seri per non riconoscere il diritto dell’Iran all’arricchimento dell’uranio”. L’amministrazione Obama, perciò, non vuole un accordo poiché ciò comporterebbe il riconoscimento della “Repubblica Islamica come un attore importante con legittimi interessi nazionali”, limitando l’espansione dell’egemonia USA nella regione.

La relativa disponibilità mostrata dagli Stati Uniti in queste settimane per tenere in piedi un tavolo di trattative con l’Iran è dovuta a svariati fattori secondo i Leverett, come la necessità di contenere l’aumento del costo del petrolio in un periodo di crisi economica e di frenare le tendenze guerrafondaie di Israele che potrebbero mettere a repentaglio la rielezione di Obama a novembre. Questa decisione, tuttavia, è di natura puramente tattica e “non comporta alcuna riconsiderazione della strategia generale della Casa Bianca”.

L’atteggiamento di Washington, in ogni caso, oltre a creare un nuovo scontro con i rappresentanti iraniani che hanno immediatamente smascherato la doppiezza americana, rischia di creare più di un malumore anche a Tel Aviv, da dove si spinge insistentemente per un’azione militare.

A confermalo è stato ad esempio il commento sibillino del vice-primo ministro israeliano, Moshe Yaalon, durante una recente intervista rilasciata alla radio dell’esercito. Dopo aver ribadito che i colloqui di Baghdad sono serviti solo a dare più tempo all’Iran per “perseguire il suo progetto nucleare”, Yaalon ha aggiunto che, “con dispiacere, non vedo nessun senso di urgenza e forse è addirittura nell’interesse di alcuni paesi occidentali prendere tempo” attraverso i negoziati.

Le attività per destabilizzare l’Iran e per colpire il suo programma nucleare, intanto, non sembrano conoscere sosta. Lunedì, infatti, è apparsa sui giornali di mezzo mondo la notizia della scoperta di un nuovo virus devastante che avrebbe colpito i sistemi informatici iraniani. Dopo Stuxnet, che nel 2010 fece seri danni agli impianti iraniani, ora è la volta di Flame, il quale sarebbe di gran lunga più distruttivo del suo predecessore. Pur senza conferme né smentite, è opinione condivisa che tali virus siano stati creati dagli Stati Uniti o da Israele.

Ad aggiungersi alle pressioni su Teheran è arrivata infine mercoledì anche la rivelazione da parte dell’AIEA dell’esistenza di nuove immagini satellitari che evidenzierebbero come gli iraniani stiano ripulendo il sito militare di Parchin, in modo da rimuovere ogni prova di test nucleari in vista dell’arrivo degli ispettori internazionali.

Le accuse sono state immediatamente respinte dal rappresentante dell’Iran presso l’AIEA, Ali Asghar Soltanieh, il quale le ha definite “senza fondamento”. I presunti esperimenti su detonazioni di armi nucleari, secondo rapporti di intelligence occidentali e israeliani, sarebbero stati condotti a Parchin nel 2000. Oltre al fatto che gli iraniani avrebbero stranamente atteso dodici anni per ripulire il sito, gli esperti avvertono che difficilmente le tracce di uranio potrebbero essere rimosse.

A sostenerlo, tra gli altri, è stato l’ex membro dell’AIEA Robert Kelly, il quale ha affermato alla Reuters che “se l’Iran sta ripulendo l’edificio e gli equipaggiamenti all’aperto, nel caso ci fosse la presenza di uranio, lasciare che l’acqua contaminata scorra all’esterno significa che gli ispettori dell’AIEA avranno il 100% di probabilità di trovarne traccia”.


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