di Michele Paris

Giovedì scorso, con una maggioranza risicata e relativamente a sorpresa, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha confermato la sostanziale legittimità della cosiddetta riforma sanitaria voluta da Obama e approvata dal Congresso nel marzo 2010. La decisione presa dalla Corte riguarda il punto centrale della legislazione (“Patient Protection and Affordable Care Act”), cioè la costituzionalità dell’obbligo individuale per tutti gli americani, ad eccezione di quelli più poveri, di acquistare una polizza assicurativa sul mercato privato.

Il caso (“National Federation of Independent Business contro Sebelius”) era finito all’attenzione della Corte Suprema dopo che fin dal 2010 la legge era stata oggetto di vari procedimenti legali, avviati dai procuratori generali di numerosi stati e da alcune organizzazioni imprenditoriali, risultati in altrettante sentenze contrastanti da parte dei tribunali federali interpellati.

Il via libera alla riforma è stato possibile grazie alla convergenza sulle posizioni dei quattro giudici “liberal” della Corte Suprema (Stephen Breyer, Ruth Bader Ginsburg, Elena Kagan, Sonia Sotomayor) del presidente conservatore (“Chief Justice”), John Roberts, dopo che nel corso dei tre giorni di udienze nel mese di marzo sembrava invece essersi formata una chiara maggioranza contraria.

I sostenitori della legge si aspettavano tutt’al più che un’eventuale vittoria sarebbe potuta arrivare con il voto decisivo del giudice centrista Anthony Kennedy, le cui intenzioni risultano spesso difficili da prevedere. Quest’ultimo, al contrario, ha votato assieme ai rimanenti tre giudici ultra-conservatori (Samuel Alito, Antonin Scalia, Clarence Thomas) e ha affermato non solo che l’obbligo individuale è a suo parere illegittimo ma anche che l’intera legislazione avrebbe dovuto essere cancellata.

Per l’amministrazione Obama, l’obbligo individuale risulta essenziale ai fini della sopravvivenza dell’intera riforma. Soltanto l’acquisto di una polizza anche da parte dei cittadini sani permetterà alle compagnie private, su cui si basa gran parte della legge, di ammortizzare le perdite derivanti dal divieto di negare la copertura assicurativa ai clienti con patologie pregresse.

Il presidente Roberts, in ogni caso, ha redatto il verdetto espresso dalla maggioranza della Corte, affermando che “la condizione prevista dalla legge, per cui un gruppo di individui deve pagare una sanzione nel caso non acquisti un’assicurazione sanitaria, può essere ragionevolmente definita come una tassa”. Con questo presupposto, ha scritto Roberts, “dal momento che la Costituzione consente tale tassa, non è nostro compito proibirla”.

Tale interpretazione del punto nevralgico della riforma contrasta in realtà con quanto sostenuto di fronte alla Corte Suprema da parte dell’amministrazione Obama, la quale riteneva invece che l’obbligo individuale andava confermato poiché rientrava nei poteri assegnati dalla Costituzione al Congresso di regolare il commercio tra gli stati dell’Unione (“Commerce Clause”).

Se il risultato, cioè la legittimità della riforma, è alla fine risultato identico, la bocciatura da parte del supremo tribunale americano della tesi basata sull’allargamento della Commerce Clause a questo ambito potrebbe avere conseguenze pesanti. Infatti, la Corte ha in questo modo smentito decenni di giurisprudenza, restringendo virtualmente i poteri del governo federale, dal momento che la Commerce Clause, fin dagli anni Trenta del secolo scorso, ha costituito il fondamento legale per l’implementazione, ad esempio, di misure legate alla regolamentazione dell’economia, ma anche delle riforme sociali durante la de-segregazione razziale degli anni Sessanta, fino alla proibizione del lavoro minorile.

Un altro punto della riforma all’esame della Corte Suprema era poi l’espansione di Medicaid, il programma pubblico di assistenza sanitaria destinato agli americani a basso reddito. Costringendo gli stati a partecipare all’allargamento del programma a circa 17 milioni di cittadini senza copertura, pena il congelamento di tutti i fondi stanziati dal governo federale, la maggioranza dei giudici ha stabilito che il Congresso è andato oltre i propri limiti costituzionali. Dopo la sentenza, dunque, l’allargamento di Medicaid diventerà per gli stati un optional e non più un obbligo.

La sentenza di giovedì influirà inevitabilmente sulla campagna elettorale per la presidenza degli Stati Uniti e, per la maggior parte dei media americani, dovrebbe favorire Barack Obama. La reazione di quest’ultimo è stata dunque trionfale. Dalla Casa Bianca, il presidente democratico ha affermato che “la decisione odierna rappresenta una vittoria per tutti gli americani le cui vite saranno ora più sicure grazie a questa legge”.

Lo sfidante repubblicano, Mitt Romney, si trova inoltre in una posizione scomoda relativamente alla riforma sanitaria. La legge a cui il miliardario mormone sostiene ora di opporsi si ispira infatti largamente a quella approvata dallo stato del Massachusetts quando lui ne era governatore.

Qualche giorno fa, oltretutto, un’organizzazione vicina ai democratici ha fatto circolare un video nel quale l’allora governatore Romney sosteneva l’importanza dell’obbligo individuale per il funzionamento della riforma sanitaria nello stato. I repubblicani e lo stesso Romney, in ogni caso, hanno promesso di continuare a battersi contro la legge e di cercare di revocarla nel caso dovessero prevalere nelle elezioni di novembre.

Nonostante l’entusiasmo manifestato dopo la sentenza dagli ambienti liberal, la Corte Suprema ha in definitiva confermato una riforma che poggia pressoché interamente sul settore privato ed è stata adottata soprattutto per ridurre la spesa sanitaria degli Stati Uniti. In altre parole, la Corte ha legittimato un obbligo per quasi tutti gli americani di acquistare, sia pure con sussidi per i redditi più bassi, una polizza da una delle compagnie private del paese che si ritroveranno così decine di milioni di nuovi clienti.

Su alcuni giornali d’oltreoceano sono apparsi poi commenti che hanno assurdamente paragonato la riforma di Obama a provvedimenti progressisti del passato, come i programmi sociali adottati dall’amministrazione Roosevelt durante il New Deal o Medicare sotto il presidente Johnson. In realtà, il Patient Protection and Affordable Care Act è un provvedimento sostanzialmente regressivo che ridurrà in maniera sensibile i servizi a disposizione delle classi più disagiate, lasciando ugualmente senza copertura sanitaria milioni di americani.

La decisione tutta politica del presidente della Corte Suprema, nominato dal presidente George W. Bush e considerato uno dei più conservatori della storia del tribunale, di dare il proprio appoggio alla riforma di Obama, infine, dimostra come negli ambienti della classe dirigente americana, nonostante una certa opposizione, prevalga la volontà di vedere sopravvivere una legislazione che porterà enormi benefici per il settore privato.

Non a caso, infatti, la stessa legge è nata in stretta collaborazione tra la Casa Bianca e le compagnie operanti nel settore assicurativo e sanitario, il cui scrupolo principale è stato quello di escludere da subito la possibilità di dover fronteggiare la concorrenza di un piano di assistenza pubblico e autenticamente universale.

di Michele Paris

La città di Stockton, in California, è diventata questa settimana il più grande centro urbano nella storia degli Stati Uniti a dichiarare bancarotta. La sorte della località situata nella Central Valley californiana, 130 chilometri a est di San Francisco, smentisce clamorosamente le pretese del presidente Obama di un’economia americana in ripresa e minaccia di diventare un pericoloso modello per numerose altre municipalità in affanno che cercheranno di chiudere i rispettivi buchi di bilancio con devastanti tagli ai servizi pubblici e ai benefici garantiti ai loro dipendenti.

Nonostante le accese proteste di centinaia di residenti, nella serata di martedì il consiglio comunale di Stockton ha votato con una maggioranza di 6 a 1 a favore della presentazione di un’istanza di fallimento presso la corte federale di Sacramento, sotto la protezione del Capitolo 9 della legge sulla bancarotta. Contemporaneamente, il consiglio ha approvato un bilancio provvisorio che congela il pagamento dei debiti della città, taglia i salari dei dipendenti comunali e riduce drammaticamente i loro programmi di assistenza sanitaria e quelli dei lavoratori già in pensione.

Il procedimento di bancarotta in California era stato modificato nel 2009 quando, un anno dopo il fallimento della città di Vallejo, lo stato aveva adottato un provvedimento che impone l’intervento di un mediatore tra l’ente in crisi e i suoi creditori per cercare una soluzione concordata prima di poter avviare il processo legale di fronte ad un giudice. La città di Stockton, che conta poco meno di 300 mila abitanti, lo scorso marzo era entrata così in trattativa con i suoi 18 creditori ma il mancato accordo entro la mezzanotte di lunedì ha dato il via libera al voto del giorno successivo.

La mossa del consiglio comunale rimetterà dunque nelle mani di un giudice federale le decisioni necessarie per chiudere un passivo di bilancio pari a 26 milioni di dollari, con ogni probabilità attraverso nuovi attacchi agli stipendi e alle indennità di lavoratori e pensionati, per non parlare del ridimensionamento dei servizi pubblici cittadini.

D’altro canto, verranno invece garantite le minori perdite possibili per i principali creditori, a cominciare dalla banca Wells Fargo, prima detentrice dei titoli della città nel nord della California. Istituti finanziari come Wells Fargo sono tra i principali responsabili della crisi dei cosiddetti mutui sub-prime che ha innescato il tracollo del 2008, i cui effetti continuano a farsi sentire in tutto il paese. Il crollo del mercato immobiliare ha colpito in maniera particolarmente dura, tra le altre, proprio la città di Stockton, la quale ha dovuto fare i conti con un’improvvisa impennata dei livelli di povertà e disoccupazione, vedendosi restringere il gettito fiscale e precipitando in una grave crisi finanziaria.

Da tre anni a questa parte, Stockton è stata la seconda città americana con il maggior numero di pignoramenti di immobili, mentre il livello di disoccupazione è schizzato al 17,5% e il reddito medio annuo continua ad essere di circa 13 mila dollari al di sotto della media nazionale. Per cercare di sanare il bilancio, dal 2009 la città ha tagliato la spesa pubblica per qualcosa come 90 milioni di dollari, così come ha licenziato un quarto dei poliziotti, il 30% dei vigili del fuoco e il 43% degli altri dipendenti comunali.

Dopo che la città ha mancato una serie di pagamenti sui propri debiti, inoltre, la stessa Wells Fargo è rientrata in possesso di tre aree adibite a parcheggi e di un edificio che il comune aveva acquistato nel 2007 per 40 milioni di dollari e che doveva ospitare la nuova sede del municipio.

La vicenda di Stockton rappresenta un esempio tutt’altro che isolato negli Stati Uniti in questi anni, dal momento che nel solo 2011 sono state ben 13 tra città, contee ed altre entità a presentare istanza di fallimento, cioè il numero più alto negli ultimi due decenni.

Quel che è peggio, tuttavia, è che questi procedimenti di bancarotta verranno utilizzati come una minaccia dagli altri amministratori locali per costringere lavoratori e pensionati pubblici ad accettare ulteriori tagli ai loro salari e benefit, così da preservare una parvenza di servizi pubblici a favore delle rispettive comunità. Come ha affermato in un’intervista al New York Times il membro di uno studio legale californiano specializzato in diritto fallimentare, “tutti guardano a Stockton, visto che è nell’interesse di ogni città sull’orlo del baratro di rendere il suo procedimento di bancarotta il più breve ed economico possibile”.

Media e politici di entrambi gli schieramenti, inoltre, indicano puntualmente come cause dei buchi di bilancio salari di dipendenti pubblici, piani pensionistici e di assistenza sanitaria “troppo generosi” e che devono essere perciò tagliati senza scrupoli.

Come hanno fatto notare alcuni sparuti commentatori d’oltreoceano, però, le procedure di fallimento che coinvolgono città come Stockton mettono in luce il doppio standard adottato da una classe dirigente interamente devota alla salvaguardia degli interessi delle classi privilegiate.

Quando, infatti, nel 2009 scoppiò negli USA la polemica attorno ai bonus dei top manager degli istituti bancari salvati dalla crisi con denaro federale, l’amministrazione Obama concluse che nulla era in suo potere per mettere un tetto ai compensi, poiché i contratti firmati dalle banche erano sacri.

Per dipendenti pubblici e pensionati, al contrario, i contratti di lavoro che garantiscono livelli di vita decenti sono carta straccia e, sia a livello locale che nazionale e quasi sempre con la connivenza delle organizzazioni sindacali, possono essere stravolti e ridimensionati per ridurre livelli di debito ormai fuori controllo.

di Michele Paris

Con un verdetto unanime, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha confermato la legittimità della sezione più controversa e anti-democratica della durissima legge sull’immigrazione approvata nel 2010 dallo stato dell’Arizona. Il più alto tribunale americano ha invece bloccato, perché incostituzionali, altre tre parti dello stesso provvedimento, contribuendo ad alimentare nel paese un dibattito sull’immigrazione che potrebbe avere importanti ripercussioni sulla campagna elettorale in corso per la Casa Bianca.

Il punto più problematico della cosiddetta legge SB (“Senate Bill”) 1070 era la disposizione secondo la quale gli agenti di polizia dell’Arizona sono tenuti a verificare la regolarità dei documenti in possesso di chiunque venga fermato o arrestato e che sia sospettato di essere un immigrato irregolare.

Su questo aspetto della legge, i tre giudici teoricamente assestati su posizioni progressiste (Stephen Breyer, Ruth Bader Ginsburg e Sonia Sotomayor) si sono uniti alla maggioranza dei cinque conservatori (Samuel Alito, Anthony Kennedy, Antonin Scalia, Clarence Thomas e il presidente della corte, John Roberts) stabilendone la costituzionalità. Il nono giudice, Elena Kagan, ha invece ricusato se stessa escludendosi dalla votazione, poiché prima di essere nominata alla Corte Suprema da Obama aveva collaborato alla presentazione del caso (“Arizona contro Stati Uniti”) in qualità di rappresentante del governo (“solicitor general”).

Le tre sezioni cassate dalla corte hanno invece raccolto maggioranze ristrette e i giudici si sono schierati secondo le consolidate linee ideologiche che caratterizzano il supremo tribunale. In un verdetto di 75 pagine, firmato dal giudice centrista Anthony Kennedy, la Corte Suprema ha bocciato le sezioni della legge che avrebbero criminalizzato la mancata registrazione degli immigrati presso le autorità e la semplice ricerca di un posto di lavoro, così come avrebbe facilitato l’arresto per violazioni della legge sull’immigrazione.

La decisione di annullare queste ultime disposizioni è stata presa unicamente sulla base del principio di supremazia che attribuisce priorità alla legge federale rispetto a quella dei singoli stati quando emergono conflitti tra di esse. Negli USA, infatti, il potere di legiferare sulle questioni legate all’immigrazione è attribuita al governo federale. Secondo le parole del giudice Kennedy, perciò, “l’Arizona può nutrire comprensibili frustrazioni circa i problemi causati dall’immigrazione illegale, ma gli stati non possono adottare politiche in conflitto con la legge federale”.

Durante il caso e nel contenuto della sentenza, la Corte Suprema non ha sollevato alcuna questione legata alla ben più grave violazione, ad esempio, del Quarto Emendamento, il quale proibisce perquisizioni e arresti senza un ragionevole motivo, o del Quattordicesimo Emendamento, che garantisce uguale protezione davanti alla legge. Ciò è dovuto al fatto che il caso, promosso dall’amministrazione Obama, si basava appunto sulla questione del conflitto di competenze tra il governo federale e le autorità statali.

Il via libera alla cosiddetta sezione “mostrami i documenti” permetterà così alle forze di polizia dell’Arizona di prendere di mira senza impedimenti singoli individui sulla sola base del loro aspetto fisico, portando con ogni probabilità a procedimenti discriminatori contro appartenenti a minoranze etniche, a cominciare dagli ispanici.

Nel confermare la costituzionalità di questa parte della legge, il giudice Kennedy ha assurdamente affermato che essa contiene garanzie contro possibili discriminazioni razziali, in quanto richiede alla polizia di non considerare l’appartenenza etnica o il paese di origine dei sospettati fermati per verificare la regolarità del loro status di immigrati.

Su questo aspetto, tuttavia, la Corte Suprema ha lasciato aperta la possibilità di futuri procedimenti legali. Lo stesso Kennedy ha scritto che la sentenza di lunedì non preclude future verifiche di costituzionalità dopo che la legge sarà entrata in vigore, cosa che le organizzazioni a difesa dei diritti civili hanno già promesso di fare.

La sentenza era attesa non solo dalle autorità dell’Arizona, ma anche dai due candidati alla presidenza e da numerosi altri stati, in particolare Alabama, Georgia, Indiana, Carolina del Sud e Utah, che hanno da poco approvato leggi simili sull’immigrazione, alcune delle quali congelate da tribunali federali in attesa del pronunciamento della Corte Suprema.

Il presidente Obama, da parte sua, ha salutato con sostanziale soddisfazione la sentenza, anche se ha espresso preoccupazione per le discriminazioni razziali che la sezione della legge confermata potrebbe comportare. Il repubblicano Mitt Romney, impegnato in campagna elettorale proprio in Arizona, si è invece limitato a ribadire che gli stati hanno il diritto e il dovere di rendere più sicuri i propri confini, lasciando intendere il suo appoggio integrale alla legge esaminata dalla corte. Significativa è stata poi la reazione della governatrice dell’Arizona, la repubblicana Jan Brewer, la quale ha definito un successo il verdetto di lunedì dopo due anni di battaglie legali.

Che l’amministrazione Obama, in ogni caso, non abbia particolarmente a cuore i diritti degli immigrati lo ha confermato lo stesso giudice Kennedy, il quale nel parere di maggioranza ha ricordato come “centinaia di migliaia di immigrati vengono deportati ogni anno dal governo federale”. Infatti, negli ultimi tre anni l’attuale amministrazione democratica ha rispedito nei propri paesi di origine un numero record di immigrati, cioè oltre un milione dall’inizio del 2009.

La sentenza sulla legge dell’Arizona ha visto poi una plateale quanto insolita esposizione di dissenso da parte di uno dei giudici più conservatori della Corte Suprema, Antonin Scalia. In quello che gli studiosi del tribunale americano hanno definito come un intervento senza precedenti, Scalia ha criticato non solo la maggioranza che ha bocciato le già ricordate sezioni della legge, ma è anche entrato nel merito di una questione politica al di fuori del caso in discussione.

Il giudice nominato dal presidente Reagan nel 1986 ha fatto riferimento, per condannarla, alla recente decisione annunciata da Obama di consentire un percorso, peraltro complicato, verso la cittadinanza americana per alcuni immigrati irregolari e che dovrebbe in teoria sanare la posizione di meno di un milione di persone.

Dando voce al pensiero di buona parte della classe dirigente conservatrice d’oltreoceano, nel suo discorso Scalia ha espresso posizioni al limite del razzismo, dipingendo lo stato dell’Arizona come irrimediabilmente in balia dei presunti effetti distruttivi dell’immigrazione clandestina.

La sentenza di lunedì rappresenta una sorta di anticipazione di quella che dovrebbe giungere giovedì sulla sorte della riforma sanitaria di Obama nell’ultima seduta della Corte Suprema per l’anno giudiziario in corso. Nel frattempo, oltre alla decisione sulla legge anti-immigrazione dell’Arizona, il supremo tribunale USA ha emesso questa settimana altri verdetti importanti, come quello che ha bollato come incostituzionale il carcere a vita per i detenuti condannati per crimini commessi quando erano minorenni.

Questa legge, per cinque dei nove giudici della corte, viola l’Ottavo Emendamento della Costituzione che proibisce “punizioni crudeli e inusuali” ed è ancora presente nel sistema giudiziario americano perché gli Stati Uniti non hanno mai ratificato la convenzione ONU sui diritti dei minori.

La Corte Suprema, infine, si è rifiutata di tornare sulla decisione presa nel 2010 attorno al caso “Citizens United contro Commissione Elettorale Federale”, in seguito alla quale corporation e individui hanno facoltà di spendere illimitatamente durante le campagne elettorali. La nuova causa era seguita ad una decisione della Corte Suprema del Montana che aveva fissato un tetto alle spese destinate a candidati a cariche elettive nello stato.

Per i nove giudici di Washington, tuttavia, quest’ultima sentenza deve essere annullata, poiché contrasta con quanto stabilito nel procedimento del 2010, con il quale il Primo Emendamento della Costituzione è stato in definitiva distorto fino a far rientrare nella definizione di “libertà di parola” la possibilità garantita alle corporation di spendere senza limiti a favore del candidato preferito.

di Fabrizio Casari

Si chiamano USAID, NED, IRI e con tanti altri nomi, non è la fantasia che manca. Sono gli enti nordamericani che erogano fondi destinati alla destabilizzazione interna di paesi  che non dipendono dagli USA. Vengono venduti alle opinioni pubbliche come enti umanitari, ma sono una delle armi preferite dagli Usa nelle ingerenze interne ai paesi terzi. Travestiti da aiuti allo sviluppo, mascherati da sostegno alle ONG, tramite questi enti milioni e milioni di dollari provenienti dalle casse delle istituzioni statunitensi vengono destinati alle opposizioni nei paesi i cui governi risultano ostili a Washington.

Che poi ostili lo siano effetivamente (vedi Paraguay) è sempre dato da relativizzare, giacché per gli Usa il concetto di ostilità risulta decisamente esteso, abbracciando tutto ciò che non è la cieca obbedienza ai voleri della Casa Bianca. Non c’entra niente la democrazia, anzi: i migliori amici di Washington in tutto il pianeta, sono i governi autoritari e privi di legittimazione democratica. E non c’entrano niente nemmeno i diritti umani, dal momento che chi più li viola appare decisamente schierato tra  quei stessi regimi, fidi sostenitori del Washington consensus.

A ridurre il peso specifico sullo scacchiere internazionali dei cosiddetti paesi ostili vengono destinate risorse d’ogni tipo: dalle guerre ai blocchi economici, dal terrorismo alla fornitura di armi agli oppositori, dall’isolamento diplomatico alla negazione dei prestiti internazionali.

Ma dove per qualsivoglia ragione questi elementi non risultassero applicabili o, comunque, non sufficienti a determinare il risultato sperato, da diversi anni il governo degli Stati Uniti ha scoperto l’utilità e la percorribilità della sovversione interna ai paesi ostili tramite azioni di diversa natura e utilizzando strumenti, tecniche e risorse destinate alla bisogna. Il cyberspazio e i programmi cosiddetti di “aiuto” sono due elementi decisivi di queste strategie.

E se per quanto riguarda l’utilizzo della Rete le attività sono principalmente svolte dall’interno del territorio statunitense, per quanto attiene al sostegno delle opposizioni interne gli strumenti utilizzati sono ormai di consuetudine l’invio di denaro e di funzionari travestiti da ONG con lo scopo di alzare il livello della conflittualità interna ai paesi che si vogliono attaccare.

Dall’Europa dell’Est all’America latina, dai paesi del Maghreb all’Asia, la destabilizzazione socio-politica dei regimi ostili vede il dispiegarsi di miriadi di fondazioni, Ong, associazioni tutte formalmente all’opera per allargare la democrazia, ma tutte sostanzialmente fondate, finanziate e dirette da Washington.

Le ambasciate statunitensi sono infatti il collante operativo e la copertura diplomatica per la maggior parte di queste organizzazioni é il mantello che le copre. Le loro attività - sulle quali amano romanzare gli adepti nelle redazioni dei giornali amici - sono spacciate in chiave umanitaria dalla potenza di fuoco mediatica statunitense, che si adopera per venderle come indipendenti, disinteressate e al servizio delle istanze democratiche.

Nessuna di queste, ovviamente, opera in forma visibile nei paesi amici di Washington; sono tutte allocate nei cosiddetti paesi ostili, dal momento che la scacchiera sulla quale gli Usa muovono le pedine è comunque, sempre, quella avversaria.

Nei bilanci pubblici di molte delle istituzioni pubbliche e delle associazioni private statunitensi impegnate nella sovversione interna ai paesi ostili emergono con chiarezza cifre e flussi di investimenti che dagli Stati Uniti vengono destinati allo scopo e leggendo con attenzione tra i bilanci si possono trovare le tracce della diplomazia parallela della Casa Bianca.

In una intervista al New York Times nel 1991, Allen Weinstein, uno dei fondatori della NED, disse che “quello che fa la NED oggi è quello che un tempo veniva fatto in maniera clandestina da venticinque anni dalla CIA”. E Marc Plattner, un vice-presidente della NED, spiegò a sua volta così il ruolo dell’organizzazione: “Le democrazie liberali favoriscono chiaramente gli accordi economici che fomentano la globalizzazione e l’ordine internazionale che sostiene la globalizzazione si basa nel predominio militare americano”.

Ogni bel gioco, però, dura poco e i primi segnali dell’inversione di tendenza arrivano proprio dall’America Latina, dove i Ministri degli Esteri dei paesi dell’ALBA (Bolivia, Venezuela, Ecuador, Repubblica Dominicana, Nicaragua, Cuba), riuniti in Brasile, hanno proposto ai rispettivi governi l’espulsione dai loro paesi del personale in forza all’Usaid.

Nel comunicato diramato al termine del vertice, i capi della diplomazia del blocco democratico latinoamericano propongono il provvedimento di espulsione: “In ragione dei progetti che destabilizzano i governi, esercitando una indebita interferenza nelle questioni politiche interne” i paesi dell’ALBA “considerano che la loro presenza costituisce un elemento di perturbazione che attenta contro la stabilità e la sovranità dei paesi”.

L’USAID è accusata di finanziare giornali, ONG, partiti e organizzazioni sindacali - spesso inesistenti negli stessi paesi - in una chiara e sfacciata intromissione negli affari interni, con il proposito di cospirare ed elevare il conflitto politico interno. Nessuna opera caritatevole, nessun aiuto disinteressato, nessun beneficiario e men che mai anonimo: denaro copiosamente inviato a organismi anti-governativi che proprio in ragione del dichiararsi tali percepiscono quote significative. E il business gira: tanto più elevata sarà la capacità di questi di dimostrarsi attivi, tanto più alto, percentualmente, saranno le somme che arriveranno dall'USAID.

Quanto alla storiella degli aiuti disinteressati dell’USAID, i ministri degli Esteri latinoamericani affermano  di non avere “nessuna necessità di organizzazioni tutelate da potenze straniere che, in pratica, usurpano e debilitano la presenza degli organi dello Stato impedendogli di sviluppare il ruolo che gli corrisponde nello sviluppo economico e sociale delle nostre popolazioni”, conclude il documento.

Nelle stesse ore nei quali il documento veniva diramato, il governo di Washington negava il via libera ai crediti internazionali per il Nicaragua, a dimostrazione di come gli aiuti siano solo la faccia pubblica di politiche cospirative. I prossimi giorni diranno come si evolverà la questione, ma per quanti sforzi di maquillage la Casa Bianca metterà in campo, i suoi funzionari, anche se travestiti da volontari, dovranno fare le valigie.

di Mariavittoria Orsolato

E' finita nel peggiore dei modi l'avventura politica di Fernando Armindo Lugo Mendez, l'ex vescovo e teologo della liberazione che il 20 aprile 2008 venne eletto alla presidenza del Paraguay, imponendo una svolta a sinistra dopo 35 anni di feroce dittatura e dopo 17 di quella che i paraguayani definirono “democradura”, ovvero la lunga transizione ultra-conservatrice che seguì la fine di Alfredo Stroessner. Lo scorso venerdì il Senato di Asuncion ha ratificato l'impeachment del presidente, destituendolo dalla carica in quanto “responsabile politico” della morte di 17 persone.

Con 39 voti di condanna, appena 4 di assoluzione e due astenuti, il giudizio dei senatori ha seguito a tempo di record quello della Camera, estromettendo coattamente Lugo dalla presidenza e ponendo alla guida del Paese il vicepresidente in carica Federico Franco, esponente del Partido Liberal Radical Autentico, il più a destra tra i partiti dell'Alianza Patriotica para el Cambio.

Un politico che già agli albori dell’alleanza con Lugo, nel 2008, aveva destato sospetti sulla bontà e sull'onesta del suo impegno con l'ex monsignore e che in questi 4 anni di governo ha fomentato ben 22 tentativi di impeachment, riuscendoci solo al 23esimo. Ma andiamo per ordine.

Venerdì 15 giugno un gruppo di poliziotti che stava eseguendo un ordine di sgombero nella zona di Canindeyú alla frontiera con il Brasile, viene attaccato da tiratori scelti dell’esercito mimetizzati fra i campesinos che reclamavano terre per sopravvivere. L’ordine di procedere arriva direttamente da un giudice e da un pubblico ministero per proteggere un latifondista. Risultato: sul suolo di Curuguaty, la frazione interessata dal blitz, rimangono 17 morti, di cui 6 poliziotti e 11 contadini, e decine di feriti gravi.

Il “fattacio” viene immediatamente strumentalizzato dalla destra dell'oligarchia e dei latifondisti - in Paraguay, è bene ricordarlo, l'89% dei terreni è nelle mani del 2% della popolazione - che vede in esso un'irripetibile occasione per sferrare un duro colpo alla sinistra corporativa, di cui Lugo si fece a suo tempo alfiere, accusandola di fomentare l'odio sociale tra i campesinos e di minare così la sicurezza interna.

L'obiettivo, come scrive il giornalista paraguayo Idilio Méndez Grimaldi, è semplice: “avanzamento del commercio agricolo estrattivista per mano di multinazionali come la Monsanto mediante la persecuzione dei contadini e alla confisca delle loro terre e, infine, l’installazione di una platea conveniente all’oligarchia e ai partiti di destra per il loro ritorno trionfale al potere esecutivo nelle elezioni del 2013”.

Una chiara strategia di delegittimazione da parte di forti poteri esogeni - leggi: grandi multinazionali dell'agricoltura e i governi primomondisti che le assecondano - per riguadagnare il terreno perduto nell'onda socialista che ha travolto il Sudamerica durante gli anni zero e che ha riposizionato le priorità produttive e sociali dei maggiori esportatori di materi prime.

Il modus operandi con cui queste entità internazionali agiscono sul continente latinoamericano sono ben note (golpe e imposizioni di governi fantoccio ma assolutamente autoritari, accondiscendenti con le elites e sanguinari con il popolo) e il sospetto che il piano Condor non sia ancora stato archiviato non può avere in questo caso una matrice complottista.

Dati questi elementi, la manovra del parlamento paraguayano non può essere quindi vista altrimenti se non nei termini di un golpe. E poco importa che quest'ultimo sia stato portato avanti seguendo, a livello procedurale, tutti i crismi dell'iter costituzionale. Lo stesso Lugo nella sua prima apparizione pubblica dopo il voto del Senato, ha definito la sua estromissione un “golpe parlamentare”.

L'ex vescovo ha spiegato a una folla di circa 500 suoi sostenitori, radunati ad Asuncion e pronti a protestare, di aver accettato la sua estromissione pur ritenendola ingiusta per non creare problemi di sicurezza. Ha quindi invitato tutti a manifestare in maniera decisa ma pacifica, in modo da evitare nuovi scontri sanguinosi con la polizia.

Nella serata di venerdì le proteste di piazza sono infatti montate velocemente e ma sono state represse con l'usuale violenza nel giro di poche ore. Mentre da Argentina, Brasile, Venezuela, Uruguay, Bolivia ed Ecuador arriva immediata la condanna a quello che le rispettive voci presidenziali definiscono senza timore un colpo di stato. I primi quattro paesi ritirano i propri ambasciatori dal territorio paraguayano “finché non si ristabilisca la democrazia nel paese”, e lo stesso Venezuela di Hugo Chavez ha ordinato il blocco dei rifornimenti di petrolio al paese.

A venire messa in discussione è anche la stessa partecipazione del Paraguay alle comunità di Unasur e Mercosur; il provvedimento dell’espulsione da questi organismi è stato proposto dai paesi membri, in quanto sarebbero venuti a mancare i “principi che caratterizzano una democrazia”. La vigilanza da parte delle democrazie latinoamericane é quindi comprensibilmente alta. Lo spettro di una nuovo periodo di instabilità è infatti nuovamente calato sul Paraguay e il timore che i fatti di Curuguaty siano solo la miccia della polveriera che potrebbe spazzar via gli importanti traguardi raggiunti dalle democrazie sudamericane è tutt'altro che infondato.

 


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