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di Michele Paris
I colloqui per la formazione del nuovo esecutivo olandese si sono chiusi con successo questa settimana grazie al raggiungimento di un accordo all’insegna dell’austerity tra i due partiti che avevano ottenuto il maggior numero di seggi nelle elezioni per il rinnovo del Parlamento lo scorso mese di settembre. A capo della nuova coalizione di governo ci sarà ancora il premier uscente Mark Rutte del Partito Liberale (VVD), il quale sarà affiancato dal Partito Laburista (PvdA) guidato dall’ex attivista di Greenpeace Diederik Samsom.
Nella precedente legislatura, Rutte presiedeva un gabinetto di minoranza che era crollato nel mese di aprile in seguito al ritiro dell’appoggio garantito dal Partito per la Libertà (PVV) di estrema destra di Geert Wilders. Per timore di perdere ulteriore terreno tra gli elettori, quest’ultimo aveva infatti bocciato un pacchetto di tagli alla spesa pubblica pari a 16 miliardi di euro richiesto dalle autorità europee. La decisione di Wilders aveva portato allo scioglimento anticipato del Parlamento e al voto di settembre.
Entro la prossima settimana, Rutte tornerà così a capo dell’esecutivo olandese, mentre Samsom ha già annunciato di non volere accettare nessun incarico ministeriale, anche se i laburisti intendono mettere le mani su alcuni dicasteri chiave, come le Finanze e gli Esteri.
Per la gioia dei mercati finanziari e diversamente dalle precedenti coalizioni olandesi, costruite su numerose formazioni politiche, il nuovo governo si baserà soltanto su due partiti che, assieme, godono di una maggioranza relativamente ampia in Parlamento, grazie ai 79 seggi di cui dispongono sui 150 totali. Con questi margini, il gabinetto nascente dovrebbe avere la necessaria stabilità per portare a compimento le “riforme” chieste da Bruxelles, anche se l’impopolarità dei provvedimenti che attendono gli olandesi faranno con ogni probabilità scendere rapidamente il livello di gradimento del governo.
Mentre dunque il precedente esecutivo guidato da Rutte era caduto, in sostanza, per l’avversione diffusa nel paese nei confronti delle misure di austerity adottate, quello che sta vedendo la luce a L’Aia promette di riproporre le stesse ricette economiche.VVD e PvdA si sono infatti accordati per implementare gli stessi 16 miliardi di euro di tagli entro il 2017, così da portare il deficit olandese dal 2,6% del PIL previsto per il 2013 all’1,5% tra cinque anni. Le misure che si profilano minacciosamente all’orizzonte, come al solito, comprendono tagli alle pensioni, innalzamento dell’età pensionabile, riduzione dei rimborsi per le prestazioni sanitarie, delle deduzioni fiscali sui mutui e dei sussidi di disoccupazione, nonché l’immancabile “riforma” del mercato del lavoro con lo smantellamento dei diritti acquisiti.
All’indomani del voto di settembre, i risultati delle urne avevano spinto molti commentatori a prevedere difficili e prolungati colloqui per la formazione di un nuovo governo. La discussione tra VVD e PvdA è andata avanti invece solo per 47 giorni, una sorta di primato per gli standard olandesi, a conferma della sostanziale identità di vedute tra i due partiti in ambito economico nonostante il teoricamente diverso orientamento ideologico e una campagna elettorale, come quella laburista, nella quale era stato promesso un allentamento dell’austerity e un aumento della spesa pubblica.
Quello che i giornali profilano in questi giorni è piuttosto un semplice cambiamento di toni da parte del nuovo governo di un paese che fino a pochi mesi fa appariva totalmente allineato alla retorica tedesca del rigore assoluto.
I cambiamenti saranno perciò solo esteriori, come sembra testimoniare la probabile scelta del nuovo ministro delle Finanze. Questo dicastero era occupato dal cristiano-democratico Jan Kees de Jaeger e verrà assegnato ora al laburista Jeroen Dijsselbloem, definito ad esempio dal Wall Street Journal un falco in ambito fiscale come il suo predecessore ma con un temperamento più conciliante.La presenza al governo del Partito Laburista potrebbe determinare anche un certo avvicinamento alla Francia di François Hollande. Ciò non comporterà comunque alcun alleggerimento dell’austerity, come dimostra il fatto che il governo socialista di Parigi ha recentemente fatto ratificare al Parlamento senza modifiche il Patto di Stabilità europeo voluto da Berlino, a differenza di quanto aveva promesso Hollande in campagna elettorale.
L’evoluzione del quadro politico olandese ribadisce ancora una volta il ruolo decisivo giocato in questo frangente storico dai partiti ufficialmente di sinistra o di centro-sinistra, ai quali gli ambienti finanziari internazionali hanno assegnato il compito di contenere le tensioni sociali nei rispettivi paesi derivanti dalle politiche di rigore e di mascherare i provvedimenti più duri a danno delle classi disagiate con la retorica dell’equità dei sacrifici o con misure simboliche che dovrebbero colpire i redditi più elevati.
La continuità del governo de L’Aia guidato dal liberale Mark Rutte conferma infine anche come nell’attuale quadro politico europeo, sia con partiti di destra o di sinistra al potere, non esista alcuna via d’uscita dal rigore. A pagare la crisi saranno infatti sempre e comunque lavoratori, pensionati, disoccupati, giovani e classe media, nonostante la retorica di quanti, come i leader del Partito Laburista olandese, prospettano la necessità di una svolta con misure che favoriscano la crescita economica allentando la morsa dell’austerity.
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di Michele Paris
Anche se nel corso della campagna elettorale per la Casa Bianca il presidente Obama continua a ripetere che la strada della diplomazia e delle sanzioni contro l’Iran rimane quella preferita per cercare una soluzione alla crisi del nucleare di Teheran, i preparativi più o meno segreti per un possibile nuovo rovinoso e illegale conflitto in Medio Oriente nei prossimi mesi appaiono ben avviati. A confermarlo ulteriormente è stato un recente articolo del quotidiano britannico Guardian, il quale ha rivelato che gli Stati Uniti hanno chiesto al governo di David Cameron l’uso di basi militari di Londra situate in alcune isole strategiche in vista di un’aggressione contro l’Iran.
Nonostante gli USA e i loro alleati non manchino di sottolineare quasi ogni giorno la presunta minaccia che rappresenterebbe l’Iran per l’Occidente e per Israele, Washington sta portando a termine un vero e proprio accerchiamento del territorio della Repubblica Islamica con, tra l’altro, lo stazionamento di due portaerei nel Golfo Persico e l’invio di aerei da guerra, navi per la bonifica di mine in mare ed altri mezzi navali da impiegare nel momento in cui dovesse essere deciso il lancio di un’aggressione militare.
Oltre a tutto questo, reso possibile grazie alla disponibilità di regimi alleati nella regione come Emirati Arabi, Kuwait, Bahrain o Arabia Saudita, l’amministrazione Obama ha dunque chiesto alla Gran Bretagna l’accesso per le proprie forze armate alle basi che quest’ultimo paese conserva a Cipro e nelle isole di Ascensione, nell’Oceano Atlantico, e Diego Garcia, in quello Indiano. L’uso di queste strutture permetterebbe a Washington di avere un vantaggio logistico ancora maggiore in caso di guerra contro l’Iran.
Per il Guardian, in ogni caso, il governo di Londra avrebbe per il momento negato la concessione delle proprie basi all’alleato americano, sostenendo che un attacco non provocato contro Teheran sarebbe da considerarsi illegale secondo il diritto internazionale, dal momento che la Repubblica Islamica non rappresenta una chiara minaccia né per gli Stati Uniti né per altri paesi.
I funzionari del governo britannico citati dal Guardian hanno fatto riferimento al parere del Procuratore Generale, il quale sostiene che Londra sarebbe in violazione del diritto internazionale anche solo se dovesse facilitare un attacco contro l’Iran mettendo a disposizione le proprie basi. Il parere legale del Procuratore Generale è stato fornito all’ufficio del primo ministro, al Foreign Office e al Ministero della Difesa.
Sulla momentanea posizione di Londra ha pesato senza dubbio la vicenda dell’invasione dell’Iraq nel 2003, sostenuta dal governo laburista di Tony Blair a fronte della massiccia opposizione interna e della palese illegalità di un’operazione condotta per rovesciare il regime di Saddam Hussein sulla base di un’inesistente minaccia di armi di distruzione di massa. Ciononostante, la propaganda americana, israeliana e occidentale in genere contro l’Iran non conosce soste e il programma nucleare di Teheran, per il quale non c’è alcuna prova che sia indirizzato a scopi militari, continua ad essere utilizzato per giungere ad un cambio di regime a Teheran.
Londra, da parte sua, non esclude peraltro una nuova collaborazione militare per assecondare gli obiettivi dell’imperialismo statunitense. La posizione britannica è stata chiarita nei giorni scorsi da una portavoce del primo ministro Cameron, la quale, dopo avere ricordato come la Gran Bretagna nel recente passato ha già cooperato con gli USA per l’utilizzo delle proprie basi all’estero, ha affermato che “il governo crede che in questo momento un’azione militare contro l’Iran non sia la migliore opzione”, anche se “ogni ipotesi rimane sul tavolo”, compresa quella militare.
Infatti, a conferma di come Londra sia sostanzialmente allineata alle posizioni di Washington, anche la Gran Bretagna dispone di un forte contingente militare nel Golfo Persico, formato tra l’altro da dieci navi da guerra, compreso un sottomarino nucleare, ed ha partecipato ad una recente massiccia esercitazione organizzata dagli Stati Uniti.
Gli unici scrupoli del governo Cameron non dipendono tanto dall’illegalità di una simile operazione contro Teheran o, tanto meno, dall’elevatissimo numero di vittime che una nuova guerra comporterebbe, bensì dalle ripercussioni negative che essa potrebbe avere sul fronte interno e dalla pericolosa destabilizzazione dell’intero Medio Oriente.
Con la regione già in subbuglio per la Primavera Araba e la crisi siriana, una nuova guerra potrebbe cioè finire per coinvolgere addirittura Russia o Cina e, in ultima analisi, produrre anche l’effetto contrario a quello desiderato, che rimane l’allargamento dell’influenza e del controllo americano su un’area del globo strategicamente fondamentale per gli interessi di Washington.
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di Michele Paris
La durissima medicina somministrata a milioni di cittadini in questi anni dalle autorità europee e dai governi nazionali, dietro indicazione degli ambienti finanziari internazionali, avrebbe dovuto servire a mettere in ordine i bilanci dei paesi più in difficoltà e a ridurre il debito pubblico ufficialmente all’origine della crisi in atto. A smentire ancora una volta in maniera clamorosa questa teoria propagandata fino alla nausea da politici e media è stato questa settimana un rapporto dello stesso ufficio statistiche dell’Unione Europea (Eurostat), il quale ha confermato che i provvedimenti messi in atto da Dublino ad Atene non hanno fatto altro che deprimere ulteriormente la crescita economica e aumentare i livelli di indebitamento.
Le cifre diffuse mercoledì da Eurostat indicano, per il secondo trimestre del 2012, un debito in media pari al 90% del PIL nei 17 paesi che utilizzano la moneta unica, vale a dire il livello più alto dal 1999. Soprattutto, con l’intensificarsi degli attacchi a lavoratori, pensionati, giovani, disoccupati e classe media sotto forma di tasse e tagli alla spesa pubblica, il rapporto debito/PIL è aumentato rispetto sia al primo trimestre dell’anno (88,2%) sia al dato dell’intero 2011 (87,1%).
Le sofferenze patite da decine di milioni di cittadini europei non sono inoltre servite a invertire la tendenza dell’economia, tanto che cinque paesi rimangono tecnicamente in recessione (Cipro, Grecia, Italia, Portogallo e Spagna), mentre la tendenza generale continua a rimanere negativa, come dimostreranno quasi certamente i dati relativi al terzo trimestre che verranno diffusi il mese prossimo.
A stare peggio tra i paesi dell’eurozona sul fronte dell’indebitamento è la Grecia, vittima delle più dure imposizioni da parte della cosiddetta troika (UE, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale), con un rapporto debito/PIL salito tra il primo e il secondo trimestre dell’anno dal 136,9% al 150,3%. Subito dietro Atene si trova l’Italia, dove le misure introdotte dal governo imposto dalle grandi banche e da Bruxelles hanno soffocato la crescita economica facendo passare il rapporto debito/PIL dal 123,7% al 126,1%.
Non molto meglio se la passano poi Irlanda e Portogallo, due paesi che, come la Grecia, hanno significativamente beneficiato, per così dire, dei piani di “salvataggio” pari a svariate decine di miliardi di euro erogati da UE e FMI in cambio di drastiche misure di austerity.
Un’altra tesi che fa parte della propaganda della classe dirigente europea è quella che negli scorsi decenni i governi hanno abusato della spesa pubblica, garantendo ai propri cittadini servizi e benefit che non si potevano permettere se non facendo appunto esplodere il problema del debito sul lungo periodo.
In realtà, ciò sarebbe dovuto principalmente agli interventi resi necessari a partire dal 2008 per salvare le banche sull’orlo del fallimento, in particolare in Spagna e in Irlanda. Il trasferimento di colossali somme di denaro nelle casse degli istituti responsabili della crisi, com’è ovvio, è stato poi compensato con tagli alla spesa e ai programmi di assistenza pubblici, ma anche con licenziamenti di massa e tasse che colpiscono invariabilmente le classi più disagiate.
Le ricette adottate ovunque in questo frangente storico, oltretutto, secondo molti economisti non eviteranno comunque una qualche forma di default da parte dei paesi più indebitati. Riferendosi alla Grecia e non solo, in una recente intervista al New York Times, l’economista Jörg Krämer, di Commerzbank, ha ad esempio affermato che per “rendere il peso del debito sostenibile, dovrà esserci una qualche ristrutturazione del debito stesso”.
I dati di Eurostat e la situazione in cui versano numerosi paesi europei confermano dunque che le misure draconiane fin qui implementate e che ancora attendono i cittadini non servono a diminuire il debito pubblico, come viene fatto credere, bensì lo fanno aumentare, causando un aggravamento della recessione e un’impennata dei livelli di disoccupazione.
Che le misure prolungate di austerity avrebbero finito per produrre effetti simili era d’altra parte risaputo, dal momento che economisti e politici ben conoscono, quanto meno, la lezione degli anni successivi alla crisi del 1928 negli Stati Uniti, in seguito alla quale l’applicazione prematura di misure come quelle attuali comportò un peggioramento della situazione, precipitando il paese nella Grande Depressione.
Anche per questo, appare più che legittimo affermare che lo scopo delle politiche di rigore adottate da una classe politica europea totalmente al servizio dei grandi interessi economici e finanziari, sia quello di utilizzare la crisi del debito per condurre attacchi senza precedenti alle condizioni di vita di centinaia di milioni di persone, facendo fronte alla crisi strutturale del capitalismo internazionale con il ridimensionamento permanente delle politiche di spesa pubblica dei governi, accompagnate da un virtuale azzeramento dei residui diritti conquistati dai lavoratori in decenni di lotte, così da creare un bacino di manodopera a basso costo e senza protezioni a disposizione delle aziende europee.
Un esempio di quello che attende i lavoratori europei - e non solo - viene dalla Grecia, vero e proprio laboratorio sul quale la troika da tempo esercita un potere dittatoriale, imponendo il volere degli ambienti finanziari internazionali che si traduce in sofferenze indicibili per la popolazione e nella distruzione del tessuto sociale. Proprio di questi giorni è la notizia dell’accordo raggiunto tra il governo di Atene e la troika per l’erogazione di una nuova tranche da 13,5 miliardi di euro, che andranno peraltro in gran parte nelle casse dei creditori della Grecia, in cambio di altre misure di austerity.
Per questa ragione, suonano del tutto vuoti gli avvertimenti e le critiche che rimbalzano sui giornali di tutta Europa di quanti fanno notare come le autorità UE e i governi nazionali siano eccessivamente fissati su quello che, ad esempio, giovedì sul Sole24Ore Marco Fortis ha definito il “totem” del rapporto debito/PIL. Tale “ossessione” non è da attribuire ad una volontà cieca di burocrati di Bruxelles o Francoforte, ma è una politica messa in atto deliberatamente per portare a termine una contro-rivoluzione sociale (e politica) in nome e per conto dei grandi interessi finanziari.
Una realtà, questa, confermata anche dal fatto che “gli sforzi fiscali eccessivi”di cui parla lo stesso Fortis sono arrivati, per quanto riguarda l’Italia, nonostante la situazione del paese fosse di “assoluta sostenibilità finanziaria” e con “un’economia solida”.
Simili politiche hanno già causato e continueranno a causare fortissime tensioni sociali in molti paesi, tenute però finora sotto controllo grazie agli sforzi nel far digerire alle popolazioni le misure di austerity e gli assalti ai diritti del lavoro di partiti nominalmente di centroinistra che, come in Grecia e in Italia, sostengono governi politici o tecnici agli ordini della finanza internazionale. Le organizzazioni sindacali, invece, hanno in questo scenario il compito di contenere i malumori ampiamente diffusi tra i lavoratori tramite occasionali proteste e scioperi innocui che servono solo come valvola di sfogo temporanea.
Nel caso dell’Italia, poi, il sostegno alle politiche anti-sociali dettate dall’UE per salvare gli interessi di banche e speculatori è giunto in maniera ferma anche dalle più alte autorità dello Stato, come il presidente della Repubblica Napolitano, il quale ha svolto un ruolo decisivo sia nel garantire l’applicazione dei diktat della finanza internazionale con il passaggio di poteri da Berlusconi a Monti, sia nel frenare le tensioni nel paese con ripetuti appelli all’unità in un momento di crisi.
Lo stesso presidente proprio l’altro giorno ha inoltre invitato “gli italiani, votando ad aprile, a tenere conto della importantissima esperienza del governo Monti”, prospettando la necessità di continuare sulla strada seguita in questo ultimo anno. Un’esperienza quella che ha avuto come protagonista l’ex consulente di Goldman Sachs che è stata effettivamente importantissima ma, al contrario di quello che afferma pubblicamente Napolitano, solo per la devastazione sociale che ha portato e che porterà in Italia come altrove per salvare il sistema finanziario internazionale.
Un’esperienza, infine, che gli italiani terranno bene a mente di qui a pochi mesi, quando le elezioni politiche, come indicano le previsioni, faranno segnare con ogni probabilità un’esplosione del voto di protesta e dei livelli di astensionismo.
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di Michele Paris
Nel terzo e ultimo dibattito presidenziale prima del voto del 6 novembre, Barack Obama è sembrato conservare qualche traccia dell’aggressività mostrata nei confronti del suo rivale repubblicano la settimana scorsa a Long Island. Il presidente ha potuto così raccogliere i favori degli elettori che hanno seguito il faccia a faccia in diretta TV dedicato quasi per intero alle questioni di politica estera, attorno alle quali entrambi i pretendenti alla Casa Bianca hanno prevedibilmente assicurato, in caso di successo, una sostanziale continuità delle politiche volte alla difesa degli interessi dell’imperialismo a stelle e strisce nel mondo.
Il dibattito di lunedì sera è andato in scena presso la Lynn University di Boca Raton, cittadina sulla costa atlantica della Florida, ed è stato moderato dal veterano della CBS, Bob Schieffer. Le impressioni raccolte dai media d’oltreoceano hanno indicato un chiaro e rapido deterioramento dell’interesse degli spettatori, in buona parte interessati per lo più ai match di baseball e di football in onda in contemporanea sulle reti nazionali.
L’indifferenza diffusa nei confronti del dibattito testimonia anche della relativa secondarietà dei temi legati alla politica estera americana in un momento di grave disagio economico e, più in generale, della distanza abissale che separa i due candidata alla presidenza, così come tutta la classe politica USA, dalla maggioranza della popolazione.
Inoltre, lo scarso interesse del pubblico è da attribuire anche al fatto che, nonostante gli scambi di battute vivaci tra Obama e Romney, i due hanno mostrato una piena identità di vedute sulle questioni di politica estera, rivelando come le differenze di natura puramente strategica tra le élite economiche e finanziarie sul fronte domestico vengono puntualmente ricomposte quando si tratta di proiettare il potere e gli interessi della classe dirigente americana nel mondo.
Anche i media mainstream, impegnati nello strenuo tentativo di propagandare il voto di novembre come una scelta epocale tra due opposte visioni, hanno perciò dovuto ammettere che i candidati hanno finito per concordare su quasi tutti i temi trattati durante la serata. Entrambi hanno così confermato piena fedeltà a Israele, mentre si sono detti d’accordo sull’uso dei droni, sulla strategia da adottare verso l’Iran e la Siria, sull’approccio agli eventi della Primavera Araba, sulla gestione della crescente rivalità con la Cina, sulla questione palestinese e sul ritiro dall’Afghanistan.
Mitt Romney ha inoltre elogiato Obama per l’assassinio di Osama bin Laden in Pakistan e, dopo la gaffe della scorsa settimana durante il dibattito alla Hofstra University, ha evitato di attaccare il presidente sulla questione che ha monopolizzato il dibattito politico negli Stati Uniti nell’ultimo mese, cioè la risposta data dalla sua amministrazione all’assalto al consolato USA di Bengasi dello scorso 11 settembre che ha causato la morte dell’ambasciatore J. Christopher Stevens e di altri tre cittadini americani.
Sul Washington Post, ad esempio, l’editorialista David Ignatius ha parlato martedì di una doppia affermazione per Obama, dal momento che il presidente non solo avrebbe espresso le proprie posizioni in maniera più convincente, ma queste ultime hanno anche ricevuto una sorta di approvazione da parte di Romney. L’articolo principale dedicato dal New York Times all’evento di Boca Raton ha invece fatto notare come il dibattito abbia evidenziato differenze prevalentemente di toni e di stile attorno alla politica estera piuttosto che nei contenuti.
Alcuni commentatori si sono poi interrogati sui motivi per cui Romney, come ha fatto fin qui in campagna elettorale, non abbia espresso posizione più estreme, visto anche che tra i suoi consiglieri di politica estera figurano numerosi “neo-con” legati all’amministrazione Bush jr. Tale atteggiamento è dovuto in primo luogo all’estrema impopolarità di queste politiche guerrafondaie, che quindi non possono essere espresse apertamente, ma anche al fatto che le decisioni prese da Obama in questi quattro anni hanno già rappresentato una netta svolta a destra fino ad andare oltre, per molti versi, il suo stesso predecessore.
La relativa reticenza di Obama e Romney non deve tuttavia far dimenticare che, chiunque si insedierà alla Casa Bianca a gennaio, il governo americano proseguirà i preparativi già in atto per nuove e rovinose guerre - contro Siria o Iran - dietro le spalle della popolazione americana.
In sostanza, al di là della retorica di lunedì, ciò che è stato comunicato agli elettori con il dibattito è che Obama e Romney continueranno a mettere in atto una politica estera fatta di guerre illegali, spesso con pretesti di natura umanitaria, di assassini senza giustificazioni legali sul territorio di paesi sovrani che non sono in guerra con gli Stati Uniti, di appoggio od opposizione a regimi autoritari a seconda che essi servano od ostacolino gli interessi delle élite americane.
Se di questi scenari non si è parlato apertamente nel corso del faccia a faccia tra Obama e Romney, il dibattito è comunque poggiato su una premessa implicita ugualmente inquietante e condivisa sia dai candidati che dal moderatore e da tutta l’intellighenzia mainstream, cioè la presunta indiscutibile superiorità morale che permette agli Stati Uniti di mettere in atto le proprie strategie imperialiste senza rendere conto a niente e a nessuno, calpestando i diritti di civili e di paesi sovrani, nonché infliggendo morte e distruzione in ogni angolo del pianeta dove i loro interessi sono in gioco.
Una simile politica estera, così come quella economica che favorisce unicamente i poteri forti, è in realtà fermamente osteggiata dalla maggior parte della popolazione, soprattutto dai lavoratori, dai disoccupati e dai giovani americani, tra i quali si registrano comprensibilmente i più elevati tassi di astensione. Ciononostante, i principali media d’oltreoceano non provano nemmeno a mettere in discussione l’autoproclamata supremazia USA, evitando accuratamente di porre qualsiasi domanda scomoda ai candidati di entrambi i partiti.
Un esempio di tale atteggiamento durante il dibattito di lunedì è stato l’argomento dell’assassinio di bin Laden, un atto illegale condotto contro un uomo disarmato e nel disprezzo di un paese sovrano, considerato al contrario interamente legittimo e utilizzato dal presidente per ostentare le proprie credenziali nell’ambito della sicurezza nazionale.
Ancora, nel discutere l’impatto delle sanzioni imposte in questi anni a Teheran, Obama ha descritto con orgoglio e, nuovamente, come del tutto legittimo il crollo dell’economia iraniana provocato, considerando le sofferenze e i disagi inflitti alla popolazione come trascurabili effetti collaterali.
Per quanto riguarda gli equilibri nella corsa alla presidenza, in ogni caso, anche se Obama avrebbe “vinto” due dibattiti su tre, il bilancio complessivo dei faccia a faccia ha comunque favorito Romney. Il miliardario mormone, infatti, è riuscito ad azzerare nei sondaggi nazionali il vantaggio accumulato dal rivale democratico dopo le convention della scorsa estate, soprattutto grazie all’inaspettata prestazione nel primo dibattito di Denver.
Il percorso di Romney verso la vittoria nell’election day rimane comunque in salita, dal momento che Obama sembra mantenere per il momento un certo margine in alcuni stati chiave, a cominciare dall’Ohio, che risulteranno decisivi per assicurarsi l’ingresso alla Casa Bianca.
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di Michele Paris
La macchina dell’FBI per la fabbricazione di presunte minacce terroristiche in territorio americano ha puntualmente partorito l’ennesima cospirazione, debitamente sventata, a meno di tre settimane dalle elezioni presidenziali. A cadere nella rete dell’anti-terrorismo a stelle e strisce è stato qualche giorno fa uno studente 21enne del Bangladesh, accusato di avere progettato un attentato con un autobomba contro la sede della Federal Reserve di New York.
Arrestato mercoledì scorso in una stanza dell’Hotel Millenium di Manhattan, Quazi Mohammad Rezwanul Ahsan Nafis è subito apparso di fronte ad un giudice federale di Brooklyn prima di essere tradotto in carcere senza possibilità di cauzione. Nafis era giunto negli Stati Uniti a gennaio con un visto studentesco e dopo un semestre in un college del Missouri si era trasferito a New York, dove aveva trovato un lavoro a tempo pieno in un hotel della città.
Secondo l’FBI, il giovane cittadino del Bangladesh intendeva far saltare un veicolo con quasi 500 chili di esplosivo a bordo di fronte alla sede di New York della Banca Centrale americana. Le accuse a suo carico potrebbero portare ad una condanna fino all’ergastolo.
Come già accaduto in numerose altre occasioni nel recente passato, tuttavia, l’intero progetto terroristico attribuito a Nafis non è in realtà altro che una messa in scena delle forze di polizia federali, senza la cui istigazione e assistenza la minaccia non avrebbe mai visto la luce. Inoltre, sul furgone scelto per l’attentato era stato caricato del finto esplosivo, così come inutilizzabile era il dispositivo a distanza fornito al giovane bengalese per innescare la detonazione.
Tutto il materiale necessario per l’attentato, compreso il trasporto dell’automezzo nel luogo prescelto, è stato fornito a Nafis da agenti sotto copertura facenti parte della cosiddetta “Joint Terrorism Task Force” di New York, un reparto speciale che prevede la collaborazione tra l’FBI e le forze di polizia della città.
Anche in questa operazione, per la quale l’FBI ha tenuto a precisare che ovviamente la popolazione newyorchese non ha mai corso alcun rischio, gli agenti americani si sono con ogni probabilità imbattuti in un giovane musulmano che potrebbe avere espresso opinioni critiche nei confronti delle politiche anti-terroristiche dell’amministrazione Obama, decidendo di incastrarlo in una cospirazione fabbricata ad arte da offrire ai media e all’opinione pubblica.
La notizia dell’arresto di Nafis è stata accolta con incredulità dai suoi famigliari in Bangladesh, i quali hanno denunciato senza mezzi termini la trappola preparata dal governo americano per il giovane studente. Nel fine settimana, le autorità del Bangladesh hanno annunciato di avere interrogato parenti, ex insegnanti e compagni di scuola di Nafis, senza trovare traccia di un suo coinvolgimento nelle attività di gruppi estremisti.
Gli stessi agenti dell’FBI hanno affermato infatti che al giovane è stato fatto credere di agire per conto di Al-Qaeda ma che non è emerso alcun suo legame con organizzazioni radicali. Secondo i documenti ufficiali, Nafis avrebbe iniziato a stabilire contatti con possibili complici durante l’estate, finendo per imbattersi in un informatore sotto copertura. A supporto di questa tesi non è stata però presentata alcuna prova ed è al contrario molto probabile che sia stato l’FBI a sollecitare Nafis, proponendogli un progetto di attentato già studiato a tavolino.
Le cosiddette “sting operations”, come quella in cui è caduto lo studente bengalese, ammontano ormai a svariate decine da quando Obama si è insediato alla Casa Bianca. Queste operazioni sono interamente organizzate dall’FBI o da altre agenzie governative, i cui informatori o agenti sotto copertura sfruttano la fragilità di giovani appartenenti a minoranze etniche, quasi sempre di fede musulmana, per coinvolgerli in improbabili trame terroristiche.
Queste operazioni in alcuni casi si sono già trasformate in pesantissime condanne, come quella di ben 30 anni inflitta recentemente all’immigrato marocchino Amine El Khalifi, arrestato lo scorso febbraio per avere pianificato un attentato suicida, con finto esplosivo rigorosamente fornito dall’FBI, nella sede del Congresso di Washington.
Nella categoria delle “sting operations” rientra anche l’assurda cospirazione per assassinare l’ambasciatore saudita negli Stati Uniti attribuita ad un iraniano-americano, a processo a New York proprio in questi giorni, con il beneplacito delle autorità di Teheran e attraverso i servizi di membri di un cartello nel narcotraffico messicano che erano in realtà uomini dell’FBI sotto copertura.
Il governo americano ha iniziato da qualche tempo ad utilizzare questo sistema anche per colpire gli oppositori interni, come dimostrano gli arresti di cinque giovani anarchici lo scorso mese di maggio durante il vertice della NATO a Chicago. Fermati a Cleveland, nell’Ohio, costoro erano stati accusati di avere progettato l’esplosione di un ponte, un’idea avanzata proprio da infiltrati dell’FBI che avrebbero anche fornito il decisivo appoggio logistico.
La lista di simili operazioni è ancora molto lunga ed esse vengono talvolta annunciate in concomitanza con importanti appuntamenti elettorali o eventi politici di rilievo, così da mantenere un elevato stato di allerta tra la popolazione americana e giustificare l’adozione di misure di polizia per combattere una minaccia terroristica in gran parte fabbricata.