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di Carlo Musilli
L'Egitto ha un nuovo Presidente, ma il suo percorso verso la democrazia rimane un'incognita. L'ostacolo maggiore lungo la strada è il ruolo giocato dai militari, che con una serie di colpi di mano hanno svuotato di ogni legalità le ultime elezioni presidenziali, gettando un'ombra autoritaria sugli sviluppi politici dei prossimi mesi. Domenica è salito al potere il primo civile nell'intera storia della Repubblica. A quasi un anno e mezzo dalla caduta del "faraone" Hosni Mubarak, il nuovo leader ha finalmente un nome: Mohammed Morsi, membro dei Fratelli Musulmani, organizzazione islamica internazionale che in Egitto ha una ramificazione politica nel Partito Libertà e Giustizia. Morsi ha battuto alle urne Ahmed Shafik, uomo del passato regime, con il 51,73% dei voti contro il 48,27%. Uno scarto che vale quasi novecentomila schede.
"Sarò il presidente di tutti gli egiziani", ha promesso il neo-eletto dopo una settimana d'incertezza estenuante, in cui sia lui sia il suo avversario si erano a turno autoproclamati vincitori. Morsi è stato più volte schernito come "ruota di scorta", perché la sua candidatura è arrivata solo dopo l'esclusione di Khairat el Shater, il prediletto dell'organizzazione. Eppure, appena ottenuta l'investitura, il Presidente ha subito lanciato segnali d'indipendenza e buona volontà: come prima cosa si è dimesso dalle cariche nella Fratellanza, abbandonando anche la leadership del partito.
A quel punto sono arrivati gli annunci più importanti: Morsi ha garantito che rispetterà i trattati internazionali, compreso l'accordo di pace con Israele (firmato nel 1978 a Camp David da Sadat e Begin), e soprattutto ha promesso che "la rivoluzione continuerà". I Fratelli Musulmani hanno fatto sapere di non voler sgombrare Piazza Tahrir, simbolo della protesta scoppiata nell'inverno 2011 contro Mubarak. Anzi, Mohamed el Beltagui, uno dei massimi esponenti della Fratellanza, ha assicurato che il sit in proseguirà finché non saranno ritirate le modifiche alla Costituzione che attribuiscono enormi poteri ai militari. Un altro membro dell'organizzazione ha detto che il nuovo leader giurerà davanti al Parlamento appena sciolto. C'è però il forte timore che questo atteggiamento si riveli una posa opportunistica più che una vera contrapposizione.
Negli ultimi giorni sono circolate voci secondo cui l'annuncio della vittoria di Morsi sarebbe arrivato dopo una lunga trattativa proprio con i militari, che avevano sempre appoggiato esplicitamente il suo avversario. Il via libera al candidato musulmano sarebbe quindi frutto di un accordo in base al quale il Presidente non cercherà di porre rimedio alle ultime prove di forza che hanno sconvolto l'assetto istituzionale dell'Egitto.
In primo luogo la sentenza con cui la Corte costituzionale ha sciolto il Parlamento, giudicando non valida l'elezione di un terzo dei suoi componenti. La decisione ha reso vane le prime consultazioni democratiche nel Paese dopo le dimissioni di Mubarak, che avevano visto trionfare i partiti islamici, in particolare i Fratelli Musulmani. Risultato: il Consiglio superiore delle forze armate (Scaf) è tornato nuovamente padrone assoluto e ha formato un comitato per scrivere la nuova Costituzione.
Qui inizia il secondo tempo del colpo di Stato. Quando ormai avevano intuito che i musulmani avrebbero vinto anche le presidenziali, i militari hanno modificato la Carta in modo da accentrare nelle proprie mani il potere esecutivo e legislativo fino all'elezione del nuovo Parlamento, che comunque non potrà più metter bocca sulla Costituzione, perché nel frattempo la nuova Assemblea Costituente sarà nominata proprio dallo Scaf. Neanche a dirlo, è stata cancellata ogni forma di controllo delle istituzioni civili sull'operato dell'esercito.
A questo punto rimane da capire se e in che modo Morsi intenda opporsi a tutto questo. Anche volendo, i margini di manovra sono minimi: la sua presidenza è considerata "transitoria" proprio perché manca un Parlamento e un testo costituzionale definitivo. D'altra parte, ancora non è dato sapere quando saranno le prossime elezioni legislative, dal momento che la loro convocazione è subordinata proprio all'adozione della nuova Carta. Per il momento l'Egitto rimane in stallo. La "rivoluzione dell'11 febbraio" sembra già un ricordo lontano.
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di Michele Paris
Dopo l’abbattimento di un aereo da guerra turco al largo della costa siriana venerdì scorso, la tensione tra Damasco e Ankara continua a rimanere oltre i livelli di guardia. Inizialmente, la reazione del governo di Erdogan era stata in realtà contenuta ma i toni si sono fatti più accesi a partire dalla giornata di domenica, con ogni probabilità in seguito a consultazioni con gli Stati Uniti, tanto che la Turchia ha chiesto per oggi la convocazione d’urgenza di un meeting tra i membri della NATO a Bruxelles per decidere la risposta da adottare nei confronti della Siria.
Secondo la ricostruzione delle autorità di Damasco, l’aereo turco, un jet F-4 Phantom, aveva violato lo spazio aereo siriano volando a bassa quota a pochi chilometri dalla città costiera di Latakia, non lontano dalla località di Tartus che ospita l’unica base navale russa nel Mediterraneo. Per gettare acqua sul fuoco, la Siria aveva subito dichiarato che l’incidente non rappresenta un attacco contro la Turchia, bensì “un atto in difesa della nostra sovranità”.
Da Ankara, subito dopo l’abbattimento, era giunta l’ammissione di un possibile sorvolo “accidentale” dello spazio aereo siriano durante una ricognizione di routine, mentre i due paesi si erano subito impegnati congiuntamente con squadre di soccorso alla ricerca dei resti del velivolo e dei membri dell’equipaggio.
Domenica, invece, Ankara ha optato per una linea più dura nei confronti di Damasco, sostenendo che l’aereo da guerra è stato abbattuto mentre sorvolava acque internazionali a 21 chilometri dalla costa siriana. Il Phantom dell’aeronautica turca era entrato brevemente nello spazio aereo siriano ma è stato preso di mira e neutralizzato svariati minuti dopo esserne uscito. Per Ankara, inoltre, le autorità siriane sapevano che l’aereo era turco e non avrebbero fatto nulla per mettersi in contatto con l’equipaggio.
Il ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu, ha così fatto sapere di aver chiesto una riunione di urgenza della NATO secondo il dettato dell’Articolo 4 del Trattato, che prevede consultazioni tra i 28 paesi membri quando uno di questi ultimi ritiene che sia minacciata la sua integrità territoriale, la sua indipendenza politica o la sua sicurezza. Com’è evidente, nessuna di queste minacce incombe sulla Turchia dopo i fatti di venerdì. Davutoglu, peraltro, ha evitato alcun riferimento diretto all’Articolo 5, secondo il quale è previsto un intervento armato dell’Alleanza quando viene attaccato un paese membro.
Come hanno dimostrato numerosi resoconti giornalistici in questi mesi, a ben vedere, l’ospitalità fornita dalla Turchia ai gruppi “ribelli” anti-Assad e il traffico di armi verso il confine meridionale grazie al finanziamento di Arabia Saudita e Qatar con la supervisione americana, appare se mai Ankara a rappresentare una chiara minaccia alla sicurezza e all’integrità territoriale siriana.
C’è da chiedersi, inoltre, quali sarebbero state le reazioni dell’Occidente e dello stesso governo Erdogan a parti invertite, cioè se un aereo da guerra siriano avesse invaso lo spazio aereo turco o di un altro paese della regione alleato degli Stati Uniti. In ogni caso, non è emersa finora alcuna evidenza del fatto che i turchi abbiano informato i siriani, come sarebbe stato opportuno, nel caso quella in corso venerdì sulle acque del mediterraneo sia stata effettivamente un’esercitazione, come sostiene Ankara. Una mancanza grave e foriera di conseguenze alla luce della profonda crisi che caratterizza i rapporti tra i due paesi vicini fin dall’esplosione del conflitto in Siria.
Ciononostante, dopo l’incontro di domenica con Davutoglu, il segretario di Stato USA, Hillary Clinton, ha emesso un comunicato ufficiale con il quale Washington ha condannato fermamente quello che è stato definito un “atto inaccettabile”. Sulla stessa linea d’onda è apparso anche il ministro degli Esteri britannico, William Hague, per il quale l’abbattimento del velivolo turco è stato un gesto “oltraggioso”. L’Unione Europea, a sua volta, ha condannato l’episodio e, nella giornata di lunedì, ha approvato una serie di nuove sanzioni contro Damasco nel corso di un vertice in Lussemburgo.
Anche se l’occasione è stata immediatamente sfruttata da alcuni governi per una nuova escalation dei toni contro il regime di Assad, la risposta di molti paesi è stata relativamente contenuta e si è risolta finora in un appello ad Ankara per mantenere la calma. Il meeting NATO di oggi contribuirà comunque a fare maggiore chiarezza su come i paesi membri intenderanno sfruttare l’incidente di venerdì per aumentare le pressioni su Damasco.
L’episodio del Phantom turco, secondo alcuni, potrebbe segnare una tappa importante nella crisi siriana e costituirebbe anche un messaggio esplicito lanciato alla Turchia, il cui governo islamista moderato è passato da poco più di un anno da una stretta partnership con Damasco - nell’ottica della cosiddetta politica di “zero problemi con i paesi vicini”, elaborata dallo stesso Davutoglu - alla dura condanna del regime di Assad.
Come ha scritto, ad esempio, la testata on-line Asia Times lunedì, l’abbattimento dell’aereo al largo di Latakia può mandare svariati segnali da Damasco verso la Turchia e i suoi alleati occidentali, tra cui quello che il sistema di difesa anti-aereo siriano è efficiente e letale, nel caso fosse nelle previsioni un’azione militare simile a quella riservata alla Libia lo scorso anno, e che Ankara sarà chiamata a pagare un prezzo se intende continuare a interferire negli affari della Siria.
A questo proposito, piuttosto esplicito è stato sabato il portavoce del ministero degli Esteri siriano, Jihad Makdissi, il quale, dopo aver smentito che il suo paese intende cercare un’escalation con il vicino settentrionale, ha affermato chiaramente che Damasco “vorrebbe che la Turchia cambiasse la propria posizione riguardo la Siria”.
Infine, l’azione della contraerea siriana di venerdì potrebbe essere stata sia una sommessa prova di forza da parte del regime di Assad, così da evidenziare i limiti della superiorità militare di Ankara, sia la dimostrazione di come la crisi in corso da oltre un anno in Siria potrebbe facilmente innescare un rovinoso conflitto regionale, con conseguenze pesanti per tutti i paesi vicini, a cominciare proprio dalla stabilità della Turchia.
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di Michele Paris
Nel conflitto siriano, gli Stati Uniti sono impegnati a livello ufficiale soltanto fornendo aiuti di natura umanitaria ai “ribelli” armati che da oltre un anno si battono per il rovesciamento del regime di Bashar al-Assad. Gli sforzi sul campo da parte di Washington, tuttavia, appaiono ben più significativi e, come ha rivelato un recente articolo del New York Times, comprendono il dispiegamento di operativi CIA con il compito di facilitare il trasferimento di ingenti quantità di armi all’opposizione, alimentando la violenza in un paese ormai piombato nella guerra civile.
Il pezzo pubblicato giovedì dal quotidiano newyorchese si basa sulle rivelazioni di anonimi esponenti dell’intelligence americana e di alcuni paesi arabi, i quali descrivono come nel sud della Turchia, al confine con la Siria, siano attivi da qualche settimana svariati agenti della CIA, incaricati appunto di coordinare il traffico di equipaggiamenti militari destinati ai guerriglieri anti-Assad.
Come è risaputo da tempo, i finanziamenti per l’acquisto e la fornitura di armi - tra cui fucili automatici, granate e missili anti-carro - provengono principalmente dalla Turchia e, soprattutto, da Arabia Saudita e Qatar, cioè dai due regimi che si stanno maggiormente adoperando per rimuovere Assad per ragioni geo-strategiche.
Le fonti statunitensi del Times sostengono che il compito degli agenti della CIA sarebbe in particolare quello di evitare che le armi dirette in Siria finiscano nelle mani di gruppi integralisti o legati ad Al-Qaeda che negli ultimi mesi si sono già resi protagonisti di sanguinosi attentati nel paese.
In realtà, nonostante il sostegno pubblico al piano di pace promosso da Kofi Annan, fin dall’inizio della crisi l’amministrazione Obama ha cercato in tutti i modi di rafforzare militarmente i ribelli siriani, senza curarsi delle conseguenze in termini di violenza, e perciò il ricorso ai servizi della principale agenzia di intelligence a stelle e strisce appare come un modo più affidabile per assicurare l’afflusso di armi all’opposizione tramite i più fedeli alleati di Washington nella regione.
Quella rivelata giovedì dal New York Times è probabilmente una delle più importanti prove pubblicate finora da una testata “mainstream” del crescente impegno USA in Siria e conferma come gli americani intendano muoversi verso una qualche forma di intervento armato esterno per risolvere il conflitto.
Al di là delle dichiarazioni pubbliche, infatti, l’assistenza ai ribelli siriani da parte statunitense risulta sempre maggiore. Nello stesso articolo del Times, ad esempio, i membri dell’intelligence intervistati hanno aggiunto che la Casa Bianca sta valutando anche la fornitura ai ribelli di immagini satellitari e altre informazioni sulle posizioni e i movimenti delle forze di sicurezza di Damasco, nonché l’appoggio per creare un “rudimentale servizio di intelligence”.
Tali progetti dimostrano, se mai fosse necessario, come gli Stati Uniti abbiano da tempo preso le parti dell’opposizione in un conflitto che poco o nulla ha ormai a che vedere con la lotta per la democrazia in Siria e che appare invece sempre più uno scontro di natura settaria, sfruttato dalle potenze regionali e mondiali per avanzare i propri interessi strategici in Medio Oriente.
L’impegno degli USA in Siria, oltretutto, contraddice anche quanto sostengono gli ambienti delle Nazioni Unite responsabili della missione degli osservatori, sospesa qualche giorno fa proprio a causa dell’aggravarsi delle violenze. Annan, l’attuale segretario generale, Ban Ki-moon, e i vertici della missione in Siria si appellano infatti puntualmente a entrambe le parti del conflitto per porre fine alle violenze. Washington, invece, continua ad accusare unicamente Damasco per il deteriorarsi della situazione nel paese, dipingendo tutta l’opposizione al regime come civili disarmati sottoposti ad una spietata repressione.
L’articolo del Times che rivela la presenza della CIA in Turchia è apparso inoltre pochi giorni dopo la polemica sollevata dal Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, con il governo russo, accusato senza fondamento di fornire nuovi elicotteri da combattimento ad Assad. Le pressioni su Mosca sono proseguite anche questa settimana dopo l’incontro di lunedì tra Obama e Putin a Los Cabos a margine del fallimentare G20 messicano. Qui, il vice consigliere per la sicurezza nazionale, Benjamin Rhodes, ha infatti ribadito che gli USA “vogliono che la vendita di armi al regime di Assad abbia termine”, con un evidente riferimento alla Russia.
Dichiarazioni simili intendono alimentare una campagna mediatica volta ad isolare il Cremlino e indicarlo come il principale ostacolo alla risoluzione della crisi siriana. Nel frattempo, però, dietro le quinte gli Stati Uniti e i loro alleati continuano a fare in modo che i ribelli anti-Assad siano ben armati e intensifichino le loro operazioni, contribuendo così in maniera determinante a gettare il paese nel caos.
D’altra parte, a differenza di quanto riportato quotidianamente dai principali media occidentali, l’aumentato livello delle violenze in Siria da qualche mese a questa parte non è dovuto alla repressione da parte del regime di un movimento democratico dirompente, bensì appare la diretta conseguenza della maggiore intraprendenza dei gruppi di opposizione grazie alla disponibilità di armamenti letali, ottenuti con le modalità descritte ieri dal New York Times.
Che le cose stiano in questo modo lo confermano ormai apertamente anche gli stessi membri dell’opposizione, come ad esempio quelli del Consiglio Nazionale Siriano, alcuni dei quali hanno affermato allo stesso giornale americano che “i sempre più intensi assalti aerei e con l’artiglieria da parte del governo sono dovuti alla necessità di contrastare i progressi fatti dalle forze di opposizione in termini di coordinamento, tattica e disponibilità di armamenti”.
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di Emanuela Pessina
BERLINO. Si è tenuto in questi giorni il G20 di Los Cabos, in Messico, uno degli appuntamenti più importanti per la risoluzione della crisi della zona euro. Dopo la recente vittoria elettorale del partito pro-moneta unica in Grecia, i leader della zona euro potrebbero sentirsi finalmente tanto sicuri da prendere decisioni concrete.
Il summit di Los Cabos è il settimo dal fatidico settembre 2008, il mese in cui i leader delle 20 potenze mondiali si sono incontrati per la prima volta per affrontare la bancarotta della Lehman Brothers e prevenire così il collasso generale del mondo della finanza. E da allora, in realtà, di misure concrete se ne sono prese poche.
Ad aprire il secondo giorno di lavori a Los Cabos sono stati i buoni propositi: i leader europei hanno nuovamente ribadito all’unanimità l’intenzione di risolvere la crisi del debito attraverso uno sforzo per il consolidamento fiscale che tenga però conto anche della crescita.
Un impegno che, a quanto pare, ora mette idealmente d’accordo tutti, compresa la Cancelliera Angela Merkel. “La grande priorità del G20 è la crescita, con un piano d’azione coordinato” per promuovere lo sviluppo sostenibile, scrivo i primi comunicati. Manca ora di capire come verrà concretamente mantenuto questo doppio impegno consolidamento fiscale- crescita, i cui obiettivi sembrerebbero escludersi l’un l’altro.
Ed è proprio Mario Monti a fissare i paletti in questo senso: secondo il premier italiano, le misure concrete verranno definite a breve, forse già al vertice di Roma di questa settimana, che ospiterà il francese Francois Hollande, Angela Merkel e lo spagnolo Mariano Rajoy.
I leader della zona euro hanno anche puntato il dito al circolo vizioso fra titoli di Stato e banche sovraesposte al debito sovrano: l’intento del G20 è interrompere la struttura sregolata che si è venuta a creare. Lo si legge nelle dichiarazioni finali del G20, anticipata in questi giorni da alcune agenzie stampa. “Se le condizioni economiche dovessero peggiorare significativamente, quei Paesi che hanno sufficiente margine di manovra di bilancio saranno pronti a coordinare e realizzare misure fiscali discrezionali a sostegno della domanda interna”, continua la bozza.
Un vertice che sembra punire il piano di austerity sostenuto da sempre a gran voce dalla Cancelliera Angela Merkel, ormai completamente isolata tra i colleghi del G20, ma che non mostra segni di cedimento. La Merkel non demorde e vuole lanciare chiari messaggi ad Atene e al governo che verrà: "La Grecia deve attenersi alle regole, gli impegni vanno rispettati".
Il timore di Berlino è un qualsiasi allentamento degli impegni di riforma concordati per la Grecia in cambio degli aiuti, possibilità ormai da tenere in considerazione alla luce della prevalenza delle voci a favore della crescita tra i leder dell’Eurozona.
Eppure, secondo alcune voci di corridoio, la Cancelliera avrebbe già deciso di concedere ben altro ai colleghi della zona euro. Secondo The Guardian, Angela Merkel sarebbe disposta a permettere ai Fondi di salvataggio della zona euro di comprare i titoli di Stato dei Paesi in crisi: l’intento della Cancelliera sarebbe chiaramente quello di far abbassare i costi di indebitamento per i due Paesi più a rischio dopo la Grecia, e cioè l'Italia e la Spagna.
Il quotidiano britannico spiega che la proposta è stata discussa a margine del summit: alcuni funzionari del G20 citati dal quotidiano ritengono che l’annuncio ufficiale arriverà a giorni. Anche qui rimangono ancora da chiarire i dettagli concreti dell'intervento dei leader dell'Eurozona. Il quotidiano aggiunge inoltre che sarebbero sia il Fondo salva Stati temporaneo (Efsf) che quello permanente (Esm) a comprare direttamente il debito spagnolo. E la giostra riparte.
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di Michele Paris
Come logica conclusione del clima di crescente diffidenza delle ultime settimane, il terzo vertice dell’anno sul nucleare iraniano si è chiuso senza nemmeno l’ombra di un accordo tra Teheran e il gruppo dei cosiddetti P5+1 (USA, Gran Bretagna, Francia, Russia, Cina e Germania). A testimonianza del punto morto raggiunto dai negoziati andati in scena questa settimana a Mosca, i partecipanti al summit non sono riusciti a fissare neanche un nuovo incontro per proseguire i colloqui, un obiettivo minimo che aveva rappresentato l’unico relativo successo del precedente incontro di Baghdad nel mese di maggio.
I rappresentanti delle due parti dovrebbero ora vedersi il 3 luglio prossimo a Istanbul per verificare se sussistano le condizioni per un nuovo vertice ad alto livello, da tenersi questa volta, secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa iraniana Fars, a Pechino o ad Astana, la capitale del Kazakistan. La decisione di mantenere aperto un minimo canale di comunicazione sembra essere stata presa solo dopo un faccia a faccia tra la Russia e l’Iran nella giornata di martedì.
La stessa data stabilita, tuttavia, indica il sostanziale fallimento della due giorni nella capitale russa e la volontà dell’Occidente di non fare alcuna concessione, dal momento che al 3 luglio saranno già entrate in vigore le nuove sanzioni da tempo approvate dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea. Il 28 giugno, infatti, scatteranno le sanzioni USA contro quelle compagnie che faranno affari con la Banca Centrale iraniana, mentre il primo luglio toccherà all’embargo petrolifero europeo.
Come già fatto a Istanbul ad aprile e a Baghdad un mese più tardi, l’Iran ha confermato anche a Mosca le aperture su una delle richieste cruciali dei P5+1, cioè lo stop all’arricchimento dell’uranio ad un livello del 20%. Come aveva ricordato lunedì il presidente Ahmadinejad, appunto, “fin dall’inizio la Repubblica Islamica ha affermato che non arricchirà l’uranio al 20% se i paesi le europei forniranno combustibile a questo livello”. Un diplomatico occidentale citato dalla stampa ha poi anch’egli ribadito la disponibilità degli iraniani, definendoli “molto più aperti a discutere dell’arricchimento al 20% in modo dettagliato e franco rispetto alle precedenti occasioni”.
Le aperture di Teheran in questo ambito, in ogni caso, comportano com’è ovvio la necessità di ricevere segnali concreti da parte dei P5+1, a cominciare dal riconoscimento del diritto, sancito dal Trattato di Non Proliferazione, di arricchire l’uranio per scopi pacifici, dall’allentamento delle sanzioni economiche già in vigore e dalla cancellazione di quelle che scatteranno a breve.
Gli USA, che dettano in gran parte la linea di condotta dei P5+1, si sono però nuovamente rifiutati di andare al di là di modestissime contropartite, come la ripresa delle forniture di pezzi di ricambio per aerei civili, e di vaghe promesse di alleggerire progressivamente le sanzioni nel prossimo futuro.
Secondo le testimonianze di alcuni negoziatori presenti a Mosca, l’unico segnale positivo del meeting sarebbe stata la risposta ufficiale che gli iraniani hanno fornito alle proposte presentate dai P5+1 a Baghdad. Un riscontro dettagliato, anche se inevitabilmente negativo, quello fornito da parte di Teheran che rappresenta una assoluta novità nei negoziati sul nucleare e che, se possibile, conferma ulteriormente l’insuccesso pressoché totale dell’incontro.
Le proposte dei P5+1 presentate nella capitale irachena includevano, oltre alla sospensione delle attività di arricchimento, l’invio all’estero del combustibile già arricchito al 20% e lo smantellamento dell’impianto nucleare sotterraneo di Fordow, così da facilitare un eventuale attacco militare di USA o Israele. L’offerta così formulata e senza contropartite significative intendeva peraltro suscitare precisamente un rifiuto da Teheran, in modo da aumentare ancora di più le pressioni sul governo iraniano.
In sostanza, il dato principale emerso dal vertice di Mosca sembra essere stata soltanto la volontà di discutere delle questioni più delicate senza pregiudiziali. A confermarlo è stato lo stesso capo dei negoziatori iraniani, Saeed Jalili, il quale ha definito i negoziati “più seri, realistici e ben al di là di una semplice esposizione di punti vista e posizioni”. Jalili ha anche ribadito l’ipotesi che il suo paese potrebbe considerare l’invio all’estero dell’uranio già arricchito in Iran in vista di un futuro accordo. Ciononostante, Jalili ha ripetuto chiaramente che il diritto all’arricchimento non è negoziabile e che le sanzioni che colpiscono il settore petrolifero iraniano rischiano di far saltare le trattative in corso.
Il sostanziale stallo è testimoniato anche dalle dichiarazioni finali rilasciate a Mosca da Jalili e dalla responsabile della politica estera UE, Catherine Ashton. Per entrambi, infatti, dopo tre incontri tocca ora alla rispettiva controparte fare la prossima mossa e prendere le necessarie decisioni per consentire ai negoziati di continuare. Nella serata di martedì, la Ashton ha ammesso poi che “le due posizioni rimangono distanti” nella sostanza dei temi trattati.
Un altro punto controverso è inoltre la natura stessa dei negoziati, se essi debbano cioè includere pure questioni tecniche, come desiderano i P5+1, o essere allargati a più ampie questioni politiche e di sicurezza regionale, come chiede Teheran. La chiusura anche a queste richieste iraniane rafforza la sensazione di una totale mancanza di disponibilità da parte delle potenze impegnate nel dialogo ad avviare con la Repubblica Islamica un confronto serio che riconosca il legittimo ruolo di quest’ultima in Medio Oriente e in Asia centrale.
L’atteggiamento che prevale, al contrario, è quello della linea dura di Washington e di Israele che intende utilizzare i negoziati come quello appena terminato a Mosca per imporre condizioni inaccettabili e mettere all’angolo l’Iran senza offrire nulla in cambio. Una condotta che rivela come da parte occidentale, nonostante i proclami ufficiali, non ci sia alcun desiderio di giungere ad un accordo ma piuttosto di continuare a sfruttare la questione del nucleare per isolare progressivamente Teheran e giungere alla rimozione di un regime sgradito.
La stampa internazionale già da mercoledì ha perciò offerto ampia eco alle posizioni degli Stati Uniti e dei loro alleati, i quali continuano ad affermare che senza progressi durante i negoziati dovranno per forza di cose essere adottate altre sanzioni per piegare l’Iran e, alla luce delle prospettive sempre più cupe sul fronte diplomatico, risulterà sempre più difficile convincere Israele ad astenersi da un’aggressione militare per fermare la fantomatica minaccia del nucleare iraniano.
Della disponibilità USA e di Israele al dialogo con l’Iran, però, ne ha offerto testimonianza un articolo pubblicato martedì dal Washington Post, nel quale anonimi funzionari del governo americano confermano come Washington e Tel Aviv abbiano sviluppato congiuntamente il più recente virus che ha colpito il sistema informativo iraniano.
Denominato “Flame”, il nuovo e distruttivo malware è il successore di “Stuxnet”, che fece seri danni alle centrifughe iraniane qualche anno fa, e servirebbe a raccogliere le necessarie informazioni per avviare un vero e proprio cyber-sabotaggio del programma nucleare della Repubblica Islamica, del quale non esiste una sola prova che sia diretto a scopi militari.
Come se non bastasse, il Wall Street Journal ha dato notizia di un’audizione tenuta mercoledì alla commissione Forze Armate della Camera dei Rappresentanti americana per discutere delle opzioni militari da impiegare contro l’Iran. Dopo il nulla di fatto di Mosca, infine, il Congresso di Washington sembra già pronto a discutere ulteriori sanzioni che prendano di mira la già indebolita economia iraniana.