- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Fabrizio Casari
Con oltre il 60 per cento dei consensi, Rafael Correa è stato confermato alla guida dell’Ecuador, che avrà così altri quattro anni di “Rivoluzione dei cittadini” per completare l’ammodernamento e la democratizzazione del paese. E’ la sesta vittoria consecutiva in consultazioni popolari di varia natura dal 2006 ad oggi. Lo slogan della campagna elettorale di Correa “Abbiamo già un Presidente”, è risultato profetico quanto azzeccato.
Non c’erano molti dubbi sulla vittoria di Correa, dato che il suo mandato si è caratterizzato per la sostanziale realizzazione di quanto promesso quattro anni fa. Un programma di riforme sociali ed economiche che ha portato ad una sensibile riduzione della povertà estrema nel paese, e che attraverso opere sociali di straordinario impatto e di grande efficacia, ha scritto la parola fine alla storia dei governi che l’avevano preceduto.
Governi liberisti che avevano disegnato per il paese andino un ruolo da repubblica delle banane al servizio di Washington, senza che però potessero evitare rovesci popolari, dal momento che quattro sui cinque presidenti prima di lui vennero deposti prima della fine del loro mandato sull’onda delle sollevazioni popolari contro le politiche neoliberiste guidate dalla popolazione indigena (30 per cento del totale).
Ben altra storia ha caratterizzato l’Ecuador di Correa, che proprio delle lotte sociali e politiche della parte più umile della popolazione è stato l’espressione. Il segno politico più evidente è stato la modifica della Costituzione: convocò l’Assemblea Costituente e ruppe con il precedente ordinamento su base oligarchica, trasformando l’Ecuador in uno stato plurinazionale dove vengono riconosciute la specificità indigena. Un amalgama ben riuscita tra le radici e la storia millenaria da un lato e la proiezione futura dall’altro, un’irruzione democratica della tradizione storica di un paese che nel prefigurare la direzione verso la quale va, non occulta o dimentica da dove viene.
Il cambiamento radicale della politica nazionale ed estera del paese non è stato del tutto indolore: per aver rifiutato di sottoscrivere il TLC con gli USA, averli espulsi dalla base militare di Manta, essersi scontrato con la Banca Mondiale e il Fondo Monetario ed aver dato vita ad una cooperazione strettissima sia nel campo petrolifero che in quello politico con il Venezuela, Correa è stato vittima di complotti e tentativi di colpo di Stato concepiti a Washington, tutti miseramente falliti proprio grazie alla popolarità di cui ha goduto e gode presso la sua popolazione.Economista e accademico, giunto alla presidenza sull’onda delle lotte sociali che avevano scosso il paese dalle fondamenta, Correa ha decisamente azzerato le politiche neoliberiste che avevano piegato il Paese. Investimenti pubblici finanziati con la rendita petrolifera che hanno certificato il valore di una politica economica anticiclica e che hanno fornito i numeri ad una crescita a doppia cifra.
La decisa inversione di marcia, della quale hanno beneficiato le classi più povere, è stata appunto possibile grazie ad un ruolo sempre più centrale dello Stato nell’economia, nel solco di quanto le democrazie latinoamericane hanno concepito e realizzato in quest’ultima decade.
I dati parlano chiaro: riduzione della povertà costante (solo nel 2012 è passata dal 37,1 al 32,4 per cento), mentre sono state incrementate le quote di PIL destinate all’istruzione (dal 2,5 al 6 per cento) intestando così all’Ecuador il tasso più alto di investimenti in rapporto al PIL di tutta la regione. Le stesse Nazioni Unite hanno riconosciuto che l’Ecuador “ha ora nella missione nazionale nell’educazione una delle priorità di governo”. Stessa marcia anche nella salute: se nel 2006 si spendevano 561 milioni di dollari, Correa ha ampliato enormemente l’area di intervento dalla sanità pubblica e ne ha aumentato il gettito, portandolo a 1774 milioni e posizionandolo così al 6,8% del PIL.
Altrettanto è stato realizzato sul terreno dell’assistenza alla parte più povera della popolazione: basta dire che il “programma di sviluppo umano” decretato dal Presidente ha visto un investimento di centinaia di milioni di dollari e oggi, il “buono di sviluppo umano” prevede l’assegnazione di 50 dollari al mese come sostegno diretto dello stato a circa 2 milioni di cittadini su un totale di 15 milioni di abitanti. I crediti per l’acquisto della casa hanno visto investimenti per centinaia di milioni di dollari.
A queste politiche si sono sommate opere pubbliche di assoluta importanza come la grande rete stradale, che ha agevolato lo spostamento di parti intere del paese precedentemente prive di vie di comunicazione. Il tutto accompagnato da un livello di trasparenza nella comunicazione tra il governo e la popolazione mai conosciuto prima e che è diventato un esempio in tutto il continente latinoamericano.
Dati che sono inseribili all’interno di una potente crescita economica determinata certo anche dall’aumento del prezzo del petrolio, di cui l’Ecuador è tra i primi produttori al mondo. Ma, come già in Venezuela prima di Chavez, anche in Ecuador prima dell’arrivo di Correa le ricchezze derivanti dalla vendita del petrolio non avevano significato null’altro che la messa all’ingrasso della borghesia nazionale mentre la distanza con la parte povera della popolazione diveniva ogni giorno maggiore. Proprio sull’utilizzo pubblico delle risorse energetiche Correa ha scelto politiche opposte a quelle dei suoi predecessori, indirizzando i proventi verso programmi sociali destinati al miglioramento delle condizioni di vita della parte più povera della popolazione.E certo non secondaria, ai fini del raggiungimento di questi obiettivi, è stata la scelta unilaterale di Correa di procedere ad una rivisitazione e ristrutturazione del debito estero, sfidando le ire del Fondo Monetario e della Banca Interamericana dello Sviluppo che ritenevano auspicabile continuare ad ingrassare le banche e i fondi speculativi del Nord che avevano contratto con i governi precedenti accordi a esclusivo vantaggio della depredazione costante delle ricchezze della nazione andina.
Coerentemente con i loro padroni, la grande borghesia imprenditoriale, che ha votato in massa per il suo principale oppositore, Guillermo Lasso, (giunto al 24% dei consensi) non ha riconosciuto l’avanzamento evidente delle condizioni generali dell’economia nazionale e, con essa, della democratizzazione del sistema paese. C’è da capirli: nel nuovo Ecuador i ricchi pagano le tasse, il doppio di quanto pagavano fino al 2006, e la maggior somma è stata quasi interamente destinata ai programmi di assistenza sociale. Una sorta di versamento costante da chi ha troppo verso chi ha troppo poco.
In obbedienza a quanto promesso, anche in politica estera Correa ha disegnato un cammino improntato alla fine della dipendenza dagli Stati Uniti (ai quali appunto ha negato la possibilità di usufruire della base militare di Manta e di mettere le loro manacce su Julian Assange, al quale ha offerto asilo politico nella sua ambasciata di Londra) e alla convinta adesione all’ALBA insieme a tutta l’America Latina di stampo socialista. Legato da profondi vincoli con Cuba, non esitò a disdire la sua partecipazione dal Vertice di Cartagena per protesta verso l’esclusione dell’isola socialista.
Correa si è quindi caratterizzato come uno dei leader più giovani e capaci della riscossa democratica dell’America Latina e nello scegliere per il suo paese la strada dell’indipendenza dagli Usa sostituendola con la stretta relazione di cooperazione economica e politica con i paesi latinoamericani - Venezuela, Cuba e Bolivia in primo luogo. La sua vittoria, che ha scelto di dedicare al suo fraterno amico Hugo Chavez, seppellisce da Quito il Washington consensus, rafforza ulteriormente il progetto d’integrazione latinoamericana e, proclamata nelle stesse ore in cui il Presidente Chavez rientrava a Caracas per continuare le sue cure, disegna uno straordinario, meraviglioso dipinto per la nuova America Latina, figlia della ribellione e madre della sua sovranità.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
In occasione del secondo anniversario dell’inizio della rivolta anti-regime in Bahrain, nella giornata di giovedì sono riesplose massicce proteste popolari nel piccolo paese del Golfo Persico. Come è puntualmente accaduto dal 14 febbraio 2011 ad oggi, le forze di sicurezza del regime guidato dal sovrano, Hamad bin Isa al-Khalifa, hanno ancora una volta risposto duramente alle manifestazioni di piazza, mettendo in grave pericolo i negoziati appena riaperti con le opposizioni ufficiali per trovare una qualche soluzione alla più lunga crisi finora registrata tra quelle ascrivibili alla cosiddetta Primavera Araba.
Già dalle prime ore di giovedì, dunque, centinaia di manifestanti sono scesi nelle strade dei quartieri a maggioranza sciita della capitale, Manama, e nelle altre principali città del paese. Secondo quanto affermato dal Ministero dell’Interno, i rivoltosi avrebbero bloccato numerose strade, costringendo la polizia e l’esercito a “ristabilire l’ordine”.
Gli scontri più recenti hanno fatto almeno un morto, un ragazzo di appena 16 anni colpito da un proiettile sparato dalle forze di sicurezza nella località di Diya, non lontano da Manama. La notizia della morte del giovane manifestante è apparsa sul sito web del principale partito sciita di opposizione, Al Wefaq, secondo i cui esponenti ci sarebbero stati anche decine di feriti, principalmente a causa dell’uso di gas lacrimogeni da parte della polizia.
Nuove dimostrazioni sono già state organizzate per la giornata di venerdì, mentre svariati gruppi dell’opposizione hanno invocato uno sciopero generale in tutto il paese per celebrare l’anniversario dell’inizio della rivolta.
Il caos in Bahrain era esploso nel febbraio del 2011 dopo che, almeno inizialmente, un movimento popolare formato sia da sciiti che da sunniti aveva marciato per le strade della capitale chiedendo la fine del regime dittatoriale della famiglia Al Khalifa. Facendo leva sulle divisioni settarie che caratterizzano da secoli questo paese, tuttavia, la casa regnante appoggiata dall’Occidente ha da subito manipolato con successo le proteste, riuscendo a dividere la popolazione.
In particolare, il regime ha ripetutamente puntato il dito contro il vicino Iran, accusandolo senza alcuna evidenza di fomentare le proteste in Bahrain. Ben presto, così, ad animare la rivolta nel paese è rimasta pressoché esclusivamente la maggioranza sciita della popolazione.D’altra parte, il malcontento degli sciiti, che rappresentano circa il 70% degli abitanti del Bahrain, non è cosa nuova, dal momento che essi sono regolarmente discriminati dal regime sunnita ed esclusi dalle posizioni di potere, così come, ad esempio, dagli impieghi governativi, dall’assegnazione di alloggi pubblici e dall’accesso alle migliori strutture scolastiche.
Per bilanciare questa disparità nella composizione della popolazione, inoltre, il regime continua a garantire procedure accelerate per l’ottenimento della cittadinanza a decine di migliaia di persone di fede sunnita provenienti da altri paesi della regione, tanto che degli 1,2 milioni di abitanti attuali solo poco meno di 600 mila risultano essere nativi del Bahrain.
In ogni caso, di fronte ad una comunità internazionale che alla crisi del Bahrain ha dato una rilevanza nemmeno lontanamente paragonabile a quelle di Libia o Siria, la repressione del regime ha finora provocato decine di morti: 35 secondo le stime di una commissione d’inchiesta lanciata dal governo, più di 80 per le opposizioni ufficiali.
A questi numeri, con ogni probabilità sottostimati ma comunque consistenti per un paese delle dimensioni del Bahrain, vanno inoltre aggiunti gli arresti e le torture di migliaia di militanti sciiti e di medici colpevoli solo di avere prestato soccorso ai manifestanti feriti durante gli scontri, ma anche la privazione della cittadinanza per molti militanti che avevano preso parte alle manifestazioni.
La prima fase della rivolta era stata poi soffocata nel sangue già nella primavera del 2011 grazie al contributo decisivo di un contingente militare inviato dalle monarchie assolute del Golfo, in particolare l’Arabia Saudita, il cui regime continua a temere la possibilità di un contagio dell’insurrezione in Bahrain nelle proprie provincie a maggioranza sciita.
La repressione delle manifestazioni da parte della famiglia Al Khalifa è stata resa possibile principalmente grazie al più o meno tacito appoggio degli Stati Uniti, per i quali il Bahrain è un alleato strategico fondamentale, vista la sua posizione nel Golfo Persico a meno di 200 chilometri dalle coste iraniane. Qui, inoltre, si trova il quartier generale della Quinta Flotta della Marina americana, responsabile delle forze navali a stelle e strisce operanti nel Golfo Persico, nel Mare Arabico e al largo delle coste dell’Africa orientale.In seguito alle pressioni internazionali, l’amministrazione Obama ha talvolta emesso blande dichiarazioni di condanna nei confronti della casa regnante del Bahrain, giungendo nel settembre 2011 a sospendere un contratto di fornitura di armi da oltre 50 milioni di dollari a causa delle evidenti violazioni dei diritti umani. Le forniture di armi, tra cui equipaggiamenti utilizzati dalle forze di sicurezza contro i manifestanti, sono però state sbloccate già nel maggio successivo, secondo Washington grazie ai progressi registrati nel paese.
Anche dietro le pressioni degli Stati Uniti, preoccupati per il danno d’immagine causato dal ripetersi degli scontri nel Bahrain, già nel 2011 erano stati lanciati i primi colloqui tra il regime e le opposizioni. Il dialogo si è però quasi subito arenato di fronte alla totale mancanza di volontà del regime di rinunciare anche solo parzialmente al controllo assoluto delle leve del potere.
Le opposizioni, inoltre, risultano divise al loro interno, con il partito Al Wefaq che è attestato su posizioni moderate, mentre i movimenti della società civile, tra cui spicca la Coalizione 14 Febbraio, hanno progressivamente assunto atteggiamenti più radicali fino a chiedere la fine del regime Al Khalifa.
Proprio alla vigilia del secondo anniversario della rivolta, il governo ha invitato le opposizioni a tornare al tavolo delle trattative, così che domenica scorsa il dialogo era ripreso tra i rappresentanti del regime e di alcuni gruppi di opposizione, come Al Wefaq. Le richieste di questi ultimi sono però limitate, come la creazione di una monarchia costituzionale, e volte quasi esclusivamente ad ottenere un qualche ruolo nella gestione del potere.
Tra la popolazione, al contrario, il sentimento di avversione verso il regime ha superato ormai i livelli di guardia e, qualsiasi eventuale “riforma” su cui si accorderanno le due parti, le tensioni nel paese difficilmente potranno essere placate nell’immediato futuro.
Concessioni relativamente limitate da parte del regime erano infatti già state adottate negli anni Novanta del secolo scorso, sempre in risposta a sollevazioni popolari contro il regime. La natura dittatoriale della monarchia Al Khalifa, appartenente ad una tribù originaria del Qatar che invase il Bahrain sul finire del XVIII secolo, è rimasta però stanzialmente invariata, così come l’emarginazione della maggioranza della popolazione sciita, lasciando così intatte tutte le contraddizioni di questo minuscolo ma importante paese dove proteste e repressione hanno caratterizzato quasi ogni giorno degli ultimi 24 mesi.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Nel suo primo discorso sullo stato dell’Unione dopo avere ottenuto un secondo mandato alla Casa Bianca, Barack Obama ha parlato martedì di fronte ai due rami del Congresso USA facendo ancora una volta ricorso ai toni populisti che hanno caratterizzato le sue più recenti uscite. Come già accaduto nel discorso di inaugurazione dello scorso mese di gennaio, il presidente democratico ha infatti avanzato una serie di improbabili proposte che dovrebbero beneficiare la classe media d’oltreoceano, rivelando così un’apprensione crescente in alcune sezioni della classe dirigente di Washington per le resistenze diffuse nel paese nei confronti delle politiche messe in atto in questi anni esclusivamente a favore di una ristretta cerchia di privilegiati.
Secondo i commenti ufficiali seguiti all’intervento di Obama, il punto centrale del discorso sarebbe stato il tentativo di rilanciare il ruolo del governo nella promozione della crescita economica e, ancor più, nella riduzione delle disuguaglianze di reddito prodotte da oltre tre decenni di deregolamentazione dell’economia e dell’industria finanziaria americana e ulteriormente aumentate dal 2009 a oggi.
Obama ha dunque invitato il Congresso ad innalzare per legge il livello infimo dello stipendio minimo negli Stati Uniti, attualmente fissato a 7,25 dollari l’ora. Per l’inquilino della Casa Bianca, la paga minima dei lavoratori americani dovrebbe salire progressivamente a 9 dollari l’ora entro la fine del 2015 e successivamente essere ancorata al livello di inflazione.
Questo provvedimento, fortemente avversato dagli ambienti conservatori, contrari a qualsiasi intervento che possa intaccare i profitti delle compagnie private, dovrebbe riguardare 15 milioni di lavoratori negli USA, anche se, ad esempio, un nucleo familiare monoreddito di tre persone con un salario a 9 dollari l’ora rimarrebbe comunque al di sotto dell’irrisoria soglia ufficiale di povertà.
Inoltre, la paga oraria minima proposta martedì da Obama risulta inferiore ai 9,5 dollari che l’allora senatore dell’Illinois aveva chiesto in campagna elettorale quasi cinque anni fa e, tenendo in considerazione l’inflazione, ben al di sotto anche dei livelli raggiunti negli anni Sessanta e Settanta.Assieme all’assurda affermazione che gli americani “uniti” hanno “spazzato via le macerie della crisi”, Obama ha poi elencato una lunga serie di provvedimenti da adottare in vari ambiti, dall’immigrazione alla riduzione delle emissioni in atmosfera, dal controllo sulla vendita delle armi all’educazione pubblica, ben consapevole però dell’improbabilità di vederli approvati da un Congresso diviso tra i due principali partiti.
Nel gioco delle parti di una politica americana totalmente al servizio dei poteri forti, la consueta replica al discorso sullo stato dell’Unione del presidente è stata affidata quest’anno al senatore repubblicano ultra-conservatore della Florida, Marco Rubio, da molti già considerato come un probabile candidato alla Casa Bianca nel 2016.
Il contro-intervento di Rubio ha prevedibilmente bocciato le misure avanzate da Obama, ispirate, a suo dire, dalla solita tendenza dei democratici ad aumentare le tasse e ad assegnare un ruolo eccessivo al governo federale. Una posizione quella esposta dai repubblicani che conferma l’impraticabilità politica del percorso tracciato da Obama, a parte forse sulla questione dell’immigrazione, vista da molti nel partito del senatore cubano-americano come un’occasione per conquistare qualche consenso tra l’elettorato ispanico.
Le parole di Obama hanno invece mandato quasi in delirio media e commentatori liberal, precipitatisi a scrivere di come il presidente democratico abbia delineato il futuro di un paese che non deve obbligatoriamente rimanere impantanato perennemente nelle politiche di austerity ma che abbia il coraggio di liberare risorse da investire nell’educazione o in un massiccio programma di lavori pubblici. Il tutto, ovviamente, senza aumentare un deficit già ben oltre i livelli di guardia.
Come ha recitato l’editoriale di mercoledì del New York Times, Obama avrebbe spiegato “ad una vasta platea quello che potrebbe essere realizzato se solo si raggiungesse un minimo di consenso a Washington”. Un’affermazione, quest’ultima, che rivela la solita fantasia liberal di come sia sufficiente trovare un punto d’incontro tra i politici dei due schieramenti per correggere le imperfezioni del sistema e raggiungere un livello accettabile di giustizia sociale nel paese, tralasciando deliberatamente di evidenziare la crisi strutturale del capitalismo americano, il cui tentativo di salvataggio è la ragione principale delle politiche anti-sociali implementate dopo il crollo dell’economia a partire dall’autunno del 2008.
Come hanno ampiamente dimostrato le principali iniziative intraprese dall’amministrazione Obama nel corso del suo primo mandato, inoltre, il ruolo attribuito al governo federale dall’attuale presidente difficilmente coincide con una visione progressista. Solo per citare uno degli esempi più lampanti, l’intervento deciso nel 2009 per “salvare” i giganti dell’auto di Detroit ha avuto infatti come scopo il ritorno all’accumulazione di profitti per questi ultimi tramite lo smantellamento dei diritti degli operai e il dimezzamento delle retribuzioni.Allo stesso modo, l’utilizzo degli strumenti a disposizione del governo per il vantaggio dei poteri forti è risultato evidente anche nell’ambito della cosiddetta riforma del sistema sanitario, il cui fine non è mai stato il diritto alle cure mediche di ogni cittadino, bensì la riduzione dei costi attraverso il razionamento dei servizi e la messa a disposizione di decine di milioni di nuovi clienti per le compagnie assicurative private.
Nonostante l’ampio spazio riservato da Obama alle questioni economiche, il momento probabilmente più significativo del suo discorso è giunto quando il presidente ha citato, sia pure velatamente, le manovre in corso attorno al programma di assassini mirati con i droni. Il pubblico americano ha infatti dovuto assistere allo spettacolo sconcertante di un presidente che, di fronte al Congresso di un paese considerato la culla della democrazia, ha proclamato, senza suscitare alcuna reazione, l’assunzione nelle mani dell’esecutivo di poteri di fatto da stato di polizia.
Parlando di sicurezza nazionale, Obama ha cioè spiegato che, “quando si renderà necessario, attraverso una serie di misure, continueremo ad agire in maniera diretta contro quei terroristi che rappresentano una grave minaccia per gli americani”. Il riferimento agli assassini extra-giudiziari tramite i velivoli senza pilota è risultato evidente a tutti i presenti nell’aula che ospita la Camera dei Rappresentanti.
Obama ha poi ribadito la volontà della sua amministrazione di “creare stabili fondamenta legali” per simili operazioni svincolate da ogni supervisione giudiziaria, così da istituzionalizzarle e dare un’impressione di trasparenza alla gestione di un programma criminale e palesemente contrario ai principi fondamentali della Costituzione.
L’assenza di obiezioni tra i politici o i giudici della Corte Suprema che hanno ascoltato queste affermazioni del presidente sono state seguite dalla stessa mancanza di commenti su questo punto nei media d’oltreoceano, impegnati piuttosto a celebrare la presunta sterzata progressista del presidente agli albori del suo secondo mandato. Un silenzio assordante quello a cui si è assistito martedì che la dice lunga sullo stato di decomposizione delle istituzioni democratiche dell’Unione nell’era Obama.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Dando seguito ad una minaccia lanciata sul finire dello scorso anno, nella giornata di martedì la Corea del Nord ha portato a termine il suo terzo test nucleare in violazione di svariate risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. L’esplosione controllata, condotta nel nord del paese, è stata immediatamente seguita da una valanga di condanne da parte dei governi di tutto il mondo, compreso quello dell’unico alleato di Pyongyang, la Cina, i cui spazi di manovra per contenere le tensioni nella penisola coreana rimangono però estremamente limitati vista la vitale rilevanza strategica del vicino nord-orientale.
L’azione intrapresa dal regime nordcoreano sarebbe la diretta conseguenza del nuovo round di sanzioni adottate dall’ONU nel dicembre scorso in risposta al lancio di quello che l’Occidente ha descritto come un missile balistico di lunga gittata, mentre per Pyongyang era soltanto la messa in orbita di un satellite ad uso civile. L’annuncio del test è stato dato dall’agenzia di stampa ufficiale della Corea del Nord, KCNA, secondo la quale sarebbe stato utilizzato “un dispositivo nucleare miniaturizzato e più leggero ma con un potenziale esplosivo maggiore rispetto ai precedenti… senza causare alcun impatto negativo sull’ambiente circostante”.
Dopo aver rilevato un evento sismico di magnitudo 5,1, pari a circa il doppio di quello provocato dall’esperimento del 2009, l’esplosione è stata successivamente confermata anche dagli Stati Uniti, così come dalla Corea del Sud e dall’agenzia con sede a Vienna che si occupa del monitoraggio dei termini del trattato che bandisce i test nucleari. Il primo test nordcoreano, anch’esso di portata inferiore rispetto a quello di martedì, era stato condotto invece nel 2006.Il test è stato subito sfruttato dagli Stati Uniti per esercitare ulteriori pressioni sulla Corea del Nord. La Casa Bianca ha infatti parlato di “un atto altamente provocatorio” che danneggia la stabilità della regione. Simili prese di posizioni sono giunte prevedibilmente anche dal neo-primo ministro conservatore giapponese, Shinzo Abe, e dal presidente-eletto sudcoreano, Park Geun-hye, per la quale il più recente test nucleare non farà che isolare ulteriormente un paese già sottoposto a pesanti sanzioni internazionali.
Proprio nuove sanzioni sono state minacciate da molti governi, anche se la Corea del Nord non ha praticamente legami commerciali con paesi esteri ad eccezione della Cina, mentre il suo principale alleato impedirebbe in ogni caso l’adozione di misure più incisive che potrebbero destabilizzare il regime stalinista di Pyongyang.
Nella giornata di martedì, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha emesso un comunicato di condanna che ha citato le sanzioni approvate nel mese di gennaio, promettendo inoltre nuove iniziative nella riunione di emergenza che è stata convocata.
Come già anticipato, quella che è stata descritta come una nuova provocazione da parte di Pyongyang ha spinto la Cina ad emettere una condanna insolitamente dura e a convocare l’ambasciatore nordcoreano a Pechino per manifestare il proprio malcontento. Apparentemente, infatti, il test condotto dal giovane leader nordcoreano, Kim Jong-un, sembra rappresentare uno schiaffo per Pechino, da dove nelle ultime settimane erano stati lanciati ripetuti inviti a non procedere con nuovi esperimenti nucleari. Nei giorni scorsi, inoltre, i giornali cinesi avevano apertamente avvertito la Corea del Nord che, in caso avesse scelto di procedere, il regime avrebbe “pagato a caro prezzo” la propria decisione.
Nonostante i toni piuttosto duri assunti da Pechino in risposta al test nordcoreano, appare comunque inverosimile che la Cina giunga ad adottare misure estreme nei confronti dell’alleato, come richiesto da più parti in Occidente. Se il regime della Corea del Nord deve la sua sopravvivenza in gran parte all’assistenza cinese, è altrettanto vero che la stabilità di questo paese risulta di estrema importanza per gli interessi di Pechino.
La Cina, inoltre, ha dato il proprio consenso a molte delle sanzioni finora approvate dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU ma ha respinto l’implementazione di provvedimenti più duri per evitare di destabilizzare Pyongyang. In ultima analisi, d’altra parte, un eventuale crollo del regime della famiglia Kim potrebbe materializzare uno scenario da incubo per Pechino, vale a dire una penisola coreana unificata e alleata degli Stati Uniti.Questa preoccupazione, con ogni probabilità, continuerà quindi a prevalere a Pechino, soprattutto alla luce del fatto che, come ha ricordato un’analista di stanza in Cina in un’intervista rilasciata martedì al New York Times, la politica nordcoreana viene in gran parte decisa ancora dai “tradizionalisti all’interno dell’Esercito e del Dipartimento Relazioni Internazionali del Partito Comunista”, le cui priorità relativamente alla penisola consistono, nell’ordine, nell’evitare un conflitto, ridurre al minimo l’instabilità e, solo da ultimo, impedire la proliferazione di armamenti nucleari.
Allo stesso tempo, tuttavia, la presunta mancanza di disciplina della Nord Corea non solo continua ad essere un motivo di grave imbarazzo per il regime di Pechino, ma fornisce anche la giustificazione agli USA per intensificare la propria presenza militare in Estremo Oriente. In questo scenario, la Cina deve perciò destreggiarsi in modo da mantenere in vita un regime che rappresenta un cuscinetto strategico fondamentale contro la rinnovata aggressività americana nella regione, ma anche cercando di esercitare un certo controllo su Pyongyang, evitando provocazioni eccessive che finiscano per innescare un confronto aperto con gli Stati Uniti e la Corea del Sud.
Il difficile equilibrio che la Cina sembra costretta a mantenere nei confronti di Pyongyang è risultato evidente dalle stesse reazioni al test nucleare di martedì. Oltre alle parole di condanna, infatti, il Ministero degli Esteri di Pechino ha invitato “tutte le parti ad abbassare i toni e a risolvere la questione della denuclearizzazione della penisola coreana attraverso il dialogo e le consultazioni” nel quadro dei cosiddetti “Colloqui a Sei” tra le due Coree, gli USA, la Cina, il Giappone e la Russia, lanciati nel 2003 e arenatisi nel dicembre del 2008.
Più in generale, alcuni giornali cinesi hanno cercato di mettere in luce le ragioni che hanno spinto la Corea del Nord a condurre tre test nucleari negli ultimi sette anni, mentre la maggior parte dei media occidentali continuano ad offrire motivazioni legate, ad esempio, ai cambiamenti ai vertici dei governi di Corea del Sud e Cina, alla transizione verso la seconda amministrazione Obama, al desiderio di Pyongyang di rimanere al centro dell’attenzione internazionale se non addirittura alla totale irrazionalità del regime di Kim Jong-un.
In questo senso, un editoriale apparso martedì sul quotidiano cinese filo-governativo Global Times ha affermato che, “in apparenza, Pyongyang ha ripetutamente violato le risoluzioni dell’ONU ed usato il proprio programma nucleare come un’arma per sfidare la comunità internazionale, mentre in realtà il comportamento della Corea del Nord ha profonde radici nel forte senso di insicurezza che pervade il regime dopo anni di duro confronto con Seoul, con il Giappone e con un paese molto superiore militarmente come gli Stati Uniti”.
“Agli occhi della Corea del Nord”, continua il pezzo dell’organo del Partito Comunista di Pechino, “Washington non ha risparmiato sforzi per contenere Pyongyang e mostrare ripetutamente i muscoli, tenendo esercitazioni militari nella regione assieme alla Corea del Sud e al Giappone”. Perciò, “l’ultimo test nucleare sembra essere un’altra manifestazione del tentativo da parte di una disperata Corea del Nord di allontanare questa minaccia”.In sostanza, mentre l’Occidente bolla puntualmente come propaganda le consuete dichiarazioni del regime stalinista, secondo cui il test di martedì sarebbe “un atto di auto-difesa nei confronti dell’ostilità degli Stati Uniti”, esse indicano al contrario la sensazione prevalente all’interno della cerchia di potere nordcoreana, isolata e accerchiata da decenni da una minacciosa superpotenza come quella americana.
Una percezione non del tutto ingiustificata, quella di Pyongyang, che contribuisce a spiegare anche la persistente chiusura del regime e che andrebbe tenuta in qualche considerazione per aprire una qualsiasi ipotesi di dialogo.
Le politiche basate sulle pressioni, le minacce e le ripetute sanzioni, d’altra parte, non hanno fatto altro che irrigidire la posizione della Corea del Nord fino a provocare tre test nucleari, tralasciando puntualmente, e forse volutamente, di rimuovere le ragioni che hanno alimentato il clima di estrema diffidenza reciproca che caratterizza i rapporti con Seoul e Washington fin dall’armistizio che pose fine alla Guerra di Corea nel 1953.
In un clima di tensioni sempre più evidenti in Estremo Oriente, causate principalmente dalla cosiddetta “svolta” asiatica dell’amministrazione Obama e dal conseguente ricorso al nazionalismo più spinto da parte di tutti i governi della regione, la strategia degli Stati Uniti continua però andare esattamente in senso opposto, aggravando ulteriormente lo scontro nella penisola di Corea, con conseguenze che potrebbero andare ben oltre i confini dei due paesi divisi dal 38esimo parallelo.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
La settimana appena conclusa ha fatto registrare una serie di importanti annunci relativi alle trattative sulla questione del nucleare iraniano e alla possibile apertura di un qualche colloquio tra Washington e Teheran. Gli incerti passi avanti prospettati dalla stampa internazionale, tuttavia, sembrano essere contraddetti dall’atteggiamento sempre più intimidatorio degli Stati Uniti e dei loro alleati occidentali, tanto che a chiudere la porta a qualsiasi negoziato diretto per il prossimo futuro è stato alla fine il leader supremo della Repubblica Islamica in prima persona, l’ayatollah Ali Khamenei.
Un grande risalto era stato dato dai giornali americani una decina di giorni fa alla cosiddetta offerta di dialogo diretto avanzata dal vice-presidente, Joe Biden, nel corso dell’annuale Conferenza sulla Sicurezza di Monaco di Baviera, alla quale era presente anche il ministro degli Esteri iraniano, Ali Akbar Salehi. Tuttavia, non solo la proposta di Biden era giunta con i consueti ammonimenti al regime di Teheran per piegarsi al volere americano, ma le vere intenzioni degli USA sono state chiarite solo pochi giorni più tardi, quando il Dipartimento del Tesoro ha annunciato l’adozione di nuove pesanti sanzioni contro entità e organismi iraniani che non hanno praticamente nulla a che vedere con il discusso programma nucleare.
I più recenti provvedimenti prendono di mira infatti l’autorità delle telecomunicazioni IRIB e il suo direttore, Ezzatollah Zarghami, due agenzie che secondo le autorità di Washington gestiscono il traffico internet in Iran bloccando l’accesso ai siti web sgraditi al governo e le Industrie Elettroniche dell’Iran, un’azienda statale che produce, sempre secondo il Tesoro USA, apparecchiature destinate al monitoraggio e all’intercettazione delle comunicazioni elettroniche nel paese.
Per il sottosegretario al Tesoro, David Cohen, queste sanzioni colpiscono entità responsabili dell’abuso dei diritti umani, “in particolare negando al popolo iraniano le basilari libertà di espressione e di assemblea”. Singolarmente, l’implementazione di queste nuove misure è giunta più o meno in concomitanza con la pubblicazione negli Stati Uniti di un documento riservato del Dipartimento di Giustizia che stabilisce le basi pseudo-legali per assegnare al presidente l’autorità incontestata di assassinare cittadini americani sospettati di terrorismo ovunque nel mondo, facendo carta straccia della Costituzione e dei fondamentali diritti individuali in essa contenuti.Inoltre, gli scrupoli democratici che avrebbero spinto l’amministrazione Obama ad adottare le nuove sanzioni si scontrano sia con la pratica ormai ultra-decennale da parte del governo americano, nell’ambito della “guerra al terrore”, di intercettare le comunicazioni dei propri cittadini senza passare attraverso un tribunale, sia con il sostegno incondizionato garantito da Washington a regimi dittatoriali e repressivi nel mondo arabo, a cominciare dall’Arabia Saudita, come è noto il principale rivale di Teheran nella regione.
Le persone e gli enti così colpiti dalle sanzioni, in ogni caso, si vedranno confiscati tutti gli eventuali beni di cui dispongono in territorio statunitense e chiunque intratterrà rapporti con essi verrà escluso dal sistema finanziario americano.
In aggiunta ai provvedimenti annunciati mercoledì scorso, il Dipartimento del Tesoro ha anche ricordato l’entrata in vigore ufficiale di sanzioni adottate in precedenza e che avranno un impatto devastante sull’economia iraniana, dal momento che renderanno pressoché impossibile trasferire in patria i proventi derivanti dall’export petrolifero. Il denaro corrisposto per le vendite di petrolio iraniano dovranno cioè rimanere su un conto del paese acquirente e l’Iran lo potrà utilizzare solo per acquistare in questo stesso paese beni da importare.
Con simili premesse, è dunque facile prevedere quale sarà l’esito del nuovo round di negoziati sul nucleare tra la Repubblica Islamica e i cosiddetti P5+1 (USA, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania), previsto per il 25 febbraio ad Almaty, in Kazakistan.
Oltretutto, indiscrezioni di vari diplomatici occidentali nei giorni scorsi hanno lasciato intendere che la proposta che i P5+1 metteranno sul tavolo tra due settimane sarà sostanzialmente identica a quella dei precedenti incontri e che non ha fatto muovere alcun passo verso un possibile accordo. Gli Stati Uniti e i loro alleati intendono cioè imporre all’Iran, tra l’altro, lo stop all’arricchimento dell’uranio al 20% e l’invio in un paese terzo di quello già arricchito perché venga trasformato in combustibile per i propri reattori, così da non poter essere utilizzato a scopi militari.
Inoltre, Teheran dovrebbe garantire accesso illimitato agli ispettori internazionali ad un sito militare dove, secondo più che dubbi rapporti di intelligence occidentali, sarebbero stati condotti in passato esperimenti su armi nucleari. In cambio, l’Iran riceverebbe contropartite insignificanti, come la fornitura di parti di ricambio per la propria flotta aerea e, solo se verranno soddisfatte le imposizioni dei P5+1, un graduale allentamento delle sanzioni meno gravose.In questo scenario, l’ayatollah Khamenei ha alla fine riportato con i piedi per terra quanti si erano illusi di assistere ad un possibile cambio di prospettiva dell’amministrazione Obama dopo le elezioni del novembre scorso. Nella giornata di giovedì, infatti, la guida suprema della Rivoluzione ha pubblicamente affermato che “l’Iran non intende negoziare sotto pressione”, visto che “gli Stati Uniti tengono un’arma puntata contro di noi e pretendono che noi parliamo con loro”. “La nazione iraniana”, ha poi concluso Khamenei, “non si farà intimidire da simili azioni”.
La stessa posizione di Khamenei è stata ribadita lunedì anche dal capo delle Forze Armate iraniane, generale Hassan Firouzabadi. Quest’ultimo, secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa semi-ufficiale Fars, ha sottolineato che “l’offerta di dialogo degli Stati Uniti in contemporanea con l’intensificarsi delle sanzioni è una contraddizione” e dimostra “la mancanza di sincerità” da parte di Washington.
La questione del nucleare e dei rapporti con gli Stati Uniti si è però inevitabilmente innestata sullo scontro politico interno in Iran tra le fazioni di potere che fanno capo a Mahmoud Ahmadinejad e allo stesso Khamenei, complicando la situazione, tanto che il presidente domenica scorsa ha invece ribadito la sua disponibilità ad aprire un dialogo diretto con Washington se cesseranno le pressioni sul suo paese.
Intervenendo nel corso di una cerimonia per festeggiare l’anniversario della rivoluzione del 1979, Ahmadinejad ha comunque fatto ricorso alla stessa immagine utilizzata qualche giorno prima da Khamenei, invitando gli Stati Uniti a togliere la loro “arma dal volto degli iraniani” se desiderano realmente avviare un negoziato bilaterale.
In ogni caso, per il momento entrambe le parti sembrano intenzionate a prendere tempo in attesa dell’esito delle elezioni presidenziali in Iran del giugno prossimo. Al di là dell’inevitabile atteggiamento inflessibile adottato pubblicamente dalle autorità di Teheran, infatti, come ha scritto domenica la Reuters, l’Iran ha ripreso la conversione di modeste quantità di uranio ad alto livello di arricchimento in combustibile per i reattori nucleari, riducendo così la quantità di materiale teoricamente utilizzabile per costruire un’arma atomica.
Questo piccolo segnale distensivo proveniente dalla Repubblica Islamica è stato confermato dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), la quale a fine febbraio dovrebbe inoltre rendere noto il proprio rapporto sullo stato dell’attività nucleare iraniana.Come dimostrano le nuove sanzioni, però, le settimane che precederanno le presidenziali in Iran saranno utilizzate con ogni probabilità dagli Stati Uniti per aumentare ulteriormente le pressioni su Teheran e cercare di destabilizzare un sistema già attraversato da gravi tensioni in vista del voto. Washington, d’altra parte, utilizza da tempo i negoziati con i P5+1 per lanciare ultimatum inaccettabili alla Repubblica Islamica, al preciso scopo di suscitare inevitabili reazioni negative e giustificare ulteriori minacce, compresa quella di una possibile aggressione militare.
A questo scopo, infatti, i preparativi per un eventuale conflitto sono apparsi evidenti nel fine settimana scorso, quando ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti, gli USA hanno organizzato un’esercitazione militare con una trentina di altri paesi, ufficialmente per impedire il transito di “armi di distruzione di massa” nel Golfo Persico.
Infine, il Comando Centrale americano - responsabile delle operazioni militari in Medio Oriente - ha annunciato qualche giorno fa una nuova esercitazione multinazionale nelle stesse acque per il mese di maggio, con lo scopo di addestrare la propria marina e quella di altri venti paesi alleati per neutralizzare qualsiasi tentativo di chiusura dello Stretto di Hormuz, da cui transita circa un quinto della produzione petrolifera globale. Un’azione, quest’ultima, più volte minacciata dall’Iran come ritorsione per un eventuale attacco degli Stati Uniti o di Israele.