di Michele Paris

Nella quasi totale indifferenza dei media e dei governi occidentali, da qualche giorno è in atto un sanguinoso assedio alla città libica di Bani Walid ad opera di alcune delle milizie armate che imperversano nel paese nord-africano. Nella località, situata a poco meno di 200 chilometri a sud-est di Tripoli, troverebbero rifugio fedelissimi del precedente regime di Gheddafi, presi di mira dagli ex ribelli in seguito alla morte di un loro membro che svolse un ruolo fondamentale nella cattura e nel brutale assassinio del rais quasi un anno fa a Sirte.

Il bilancio degli scontri nella sola giornata di mercoledì è stato di almeno undici morti tra la popolazione di Bani Walid, colpita, come ha riferito un residente della città all’agenzia di stampa AFP, da intensi bombardamenti provenienti da tre postazioni, con gravi danni inflitti ai quartieri residenziali.

Secondo i resoconti dei media occidentali, Bani Walid non sarebbe mai stata completamente “liberata” dai guerriglieri, nonostante la città fosse stata dichiarata libera dalle forze legate al regime il 17 ottobre dello scorso anno, tre giorni prima dell’esecuzione di Gheddafi.

Le tensioni a Bani Walid erano in ogni caso tornate a riaccendersi pericolosamente lo scorso 25 settembre, quando il parlamento di Tripoli (Congresso Generale Nazionale) aveva ordinato ai ministri della Difesa e degli Interni di trovare, anche con l’uso della forza, i responsabili del rapimento e dell’uccisione del 22enne Omran ben Shaaban.

Quest’ultimo era un ex ribelle che aveva individuato Gheddafi a Sirte dopo che il suo convoglio era stato colpito da un bombardamento NATO mentre cercava di lasciare la città sotto assedio. Shaaban era stato rapito a luglio a Bani Walid e, nel tentativo di fuggire ai suoi sequestratori, era stato raggiunto da due colpi di arma da fuoco. Successivamente Shaaban è stato liberato grazie all’intervento del presidente del Congresso, Mohamed Magarief, ma è comunque deceduto in un ospedale francese dove era stato trasferito.

Dai primi di ottobre, dunque, le milizie di Misurata e di altre località libiche hanno cominciato a circondare la città, mettendola sotto assedio dopo il fallito tentativo di trovare un accordo con i capi tribali. Le milizie hanno a lungo impedito le forniture di beni di prima necessità, così come l’evacuazione dei civili, mentre la Croce Rossa ha ottenuto il via libera per accedere agli ospedali solo il 10 ottobre scorso.

I toni minacciosi provenienti dai leader delle milizie e dal governo non promettono nulla di buono per Bani Walid. Come riportato dalla stampa locale nei giorni scorsi, infatti, le autorità di Misurata hanno lanciato un appello per una massiccia operazione militare contro la città, definita il “cancro della Libia”, che ospiterebbe i nostalgici di Gheddafi da “eliminare con la forza” per evitare che le forze anti-rivoluzionarie si propaghino in tutto il paese.

Nella giornata di giovedì, poi, la stampa locale ha riferito che l’esercito libico si sarebbe messo in marcia verso Bani Walid in seguito agli ordini del capo di Stato maggiore, generale Yusuf Mangush e in attuazione della già ricordata risoluzione del Parlamento.

La punizione indiscriminata inflitta alla popolazione di una città che ha rappresentato una roccaforte del regime di Gheddafi fino alla fine testimonia ancora una volta la natura delle forze sulle quali i paesi occidentali hanno fatto affidamento per rovesciare il rais. I presunti “liberatori” della Libia, come hanno messo in luce svariate ricerche sul campo condotte dalle più autorevoli organizzazioni umanitarie, si erano infatti ben presto distinti per le innumerevoli violazioni dei diritti umani commesse, comprese esecuzioni sommarie, torture e detenzioni di massa senza accuse né processi.

A sollevare sospetti inquietanti sui metodi impiegati dagli ex ribelli a Bani Walid sono stati alcuni medici che operano negli ospedali della città, i quali hanno raccontato l’arrivo nelle loro strutture di feriti civili che presentavano sintomi tali da far pensare all’uso da parte delle milizie di armi con gas velenosi.

Le operazioni in corso a Bani Walid sono anche l’ennesima prova del caos che regna in Libia e la quasi totale assenza di controllo sulle milizie armate da parte del nuovo governo centrale, tanto che un paio di giorni fa, nel pieno dell’assalto alla città, un portavoce dell’esercito regolare affermava ancora che da Tripoli non era partito nessun ordine di assediare la città.

I governi occidentali che hanno appoggiato il cambio di regime a Tripoli per ragioni esclusivamente geo-strategiche continuano a mantenere un imbarazzante silenzio sui fatti di Bani Walid, consapevoli che un dibattito su quanto sta accadendo in questi giorni e, più in generale, sulle condizioni della Libia del dopo-Gheddafi corrisponderebbe a smascherare gli interessi che hanno portato all’intervento della NATO nel marzo 2011 in appoggio di forze reazionarie propagandate come combattenti per la democrazia.

Lo stesso governo italiano non sembra intenzionato a fare alcuna pressione su Tripoli, nonostante nei giorni scorsi ci siano stati contatti diretti con le autorità libiche. Martedì, ad esempio, il premier Monti si è congratulato telefonicamente con il neo-primo ministro, Ali Zidan, ribadendo la fiducia di Roma “nel futuro della Libia”. Un paio di giorni prima era stato invece il ministro degli Esteri, il fedelissimo di Washington Giulio Terzi di Sant’Agata, a felicitarsi con Zidan, esprimendo la speranza di un prossimo vertice bilaterale.

di Michele Paris

Con il sollievo generale dell’establishment liberal americano, nel secondo dibattito presidenziale andato in scena nella serata di martedì a Long Island, il presidente Obama ha in qualche modo riacquistato una certa combattività dopo l’opaca prestazione offerta a Denver nel primo faccia a faccia in vista del voto del 6 novembre. In uno scenario che ha dato solo l’impressione della spontaneità, i due contendenti per la Casa Bianca hanno ribadito nuovamente le rispettive posizioni, scambiandosi attacchi talvolta accesi, ma senza mai affrontare i reali problemi che affliggono il paese o le cupe prospettive che attendono decine di milioni di americani nei prossimi mesi.

Le regole scelte per il secondo dibattito presidenziale hanno ancora una volta mostrato tutta l’artificiosità di un simile evento che, nonostante abbia fatto registrare circa 70 milioni di telespettatori, è apparso l’ennesimo rituale privo di particolare significato se non per la cerchia di politici e commentatori mainstream d’oltreoceano.

Definita “town hall”, la formula del dibattito di martedì prevede che i due candidati siano liberi di muoversi in uno spazio circondato da un pubblico di presunti elettori indecisi, alcuni dei quali hanno la facoltà di sottoporre delle domande prima di vedere rapidamente chiudersi i loro microfoni.

I partecipanti, tuttavia, sono stati preventivamente selezionati con cura, così come le loro domande che, in ogni caso, vengono quasi sempre evase dai due pretendenti e servono solo come occasione per parlare più in generale dell’argomento in questione secondo il loro punto di vista.

Esemplare in questo senso è stata la domanda che ha aperto il dibattito, posta da uno studente universitario 20enne che, dopo avere sottolineato le difficoltà che dovrà affrontare per ottenere un impiego decente dopo la laurea, ha chiesto ai due candidati un qualche conforto circa il suo futuro. Non avendo nessuno dei due alcuna ricetta efficace per creare posti di lavoro stabili e ben pagati, Romney si è limitato a lasciare intendere che la sua esperienza nel mondo degli affari lo rende qualificato per mettere in atto misure che aumentino l’occupazione, anche se il suo passato nel “private equity” indica piuttosto una propensione a fare milioni di dollari smembrando aziende e licenziando senza scrupoli.

Obama, invece, ha citato la bancarotta pilotata voluta dalla sua amministrazione per General Motors e Chrysler e i posti che avrebbe salvato, senza citare il conseguente dimezzamento degli stipendi per i nuovi assunti e la distruzione dei benefit e dei diritti dei lavoratori, imposti con la collaborazione delle associazioni sindacali. Un piano, quello implementato per i colossi dell’auto di Detroit dal presidente democratico, che ha fornito un modello regressivo per tutta l’industria americana e non solo.

A moderare il dibattito di martedì presso la Hofstra University di Hempstead, a Long Island, è stata la giornalista della CNN, Candy Crowley, protagonista di quella che i media USA hanno definito la principale gaffe della serata commessa dal candidato repubblicano. Nel discutere uno dei temi più caldi di queste ultime settimane negli Stati Uniti - l’assassinio dell’ambasciatore americano in Libia, J. Christopher Stevens - Obama ha affermato che il giorno successivo ai fatti di Bengasi era apparso nel Rose Garden della Casa Bianca per definire l’assalto come un “atto terroristico”.

Quando Romney ha ribattuto sostenendo che il presidente aveva in realtà atteso 14 giorni prima di definire l’attacco in questo modo, Candy Crowley è intervenuta confermando la versione di Obama, il quale ha immediatamente colto l’occasione per mettere in imbarazzo il rivale, chiedendo alla moderatrice di ripetere il suo intervento ad alta voce.

Gli scambi di battute, l’interazione a volte quasi fisica tra i due candidati, le ripetute interruzioni e le polemiche che hanno caratterizzato gli oltre 90 minuti di diretta televisiva hanno comunque fatto ben poco per nascondere la sostanziale identità di vedute di Obama e Romney sulle questioni più importanti all’ordine del giorno: dall’occupazione alle tasse, dalla politica energetica a quella dell’immigrazione.

Fuori dal dibattito, come dalla campagna elettorale in genere, è rimasta soprattutto la minaccia che incomberà sui lavoratori e sulla classe media americana a urne chiuse, quando cioè i due partiti, indifferentemente da chi si insedierà alla Casa Bianca, sigleranno un accordo per ridurre il deficit federale tramite tagli devastanti a programmi pubblici popolari come Medicare e Medicaid, nonché al sistema pensionistico, regalando nuovi sgravi fiscali a corporation e redditi più elevati.

Il presidente Obama, finito sotto pressione e chiamato a mostrare maggiore aggressività rispetto a Denver, aveva trascorso alcuni giorni in Virginia esercitandosi per il dibattito, così da arrestare un declino nei sondaggi che alla vigilia indicavano un sostanziale equilibrio a livello nazionale e un netto recupero di Romney nella manciata di stati in bilico che decideranno l’esito del voto.

Così, nella nottata tra martedì e mercoledì in Italia, Obama ha messo a segno gli attacchi diretti al rivale che in molti tra i suoi sostenitori chiedevano, come quello relativo all’ormai famosa uscita di Romney sul 47% degli americani che dipenderebbero dal governo, pronunciata durante una raccolta fondi in Florida nel mese di maggio. Inoltre, nel vano tentativo di presentarsi come il difensore della “middle-class” americana, il presidente ha fatto riferimento all’aliquota fiscale irrisoria pagata da Romney sui suoi redditi e agli investimenti di quest’ultimo in aziende cinesi che avrebbero sottratto posti di lavoro agli Stati Uniti.

Ignorate dai due candidati sono state anche altre questioni attorno alle quali la classe dirigente USA si trova d’accordo, come la preparazione di nuove guerre, con Siria e Iran ma anche, in prospettiva futura, con Russia e Cina, oppure l’ulteriore restringimento dei diritti democratici costituzionali in nome della guerra al terrore dopo quattro anni di politiche messe in atto dall’amministrazione democratica che per molti versi sono già andate ben oltre quelle adottate da George W. Bush.

Nel gioco degli “instant poll”, infine, i media americani hanno indicato una leggera preferenza degli spettatori del dibattito per Barack Obama, anche se con margini più ridotti rispetto al vantaggio per Romney registrato dopo il primo confronto in Colorado. Per verificare se la dinamica della sfida, tradizionalmente sempre più equilibrata con l’avvicinarsi dell’election day, verrà ancora una volta modificata bisognerà attendere però i prossimi giorni, anche se è probabile il persistere dell’incertezza fino all’ultimo, sintomo della virtuale indistinguibilità dei due pretendenti nonostante gli sforzi della stampa per presentare le proposte di Obama e Romney come diametralmente opposte.

Nel frattempo, la terza e, fortunatamente, ultima messa in scena in forma di dibattito presidenziale negli Stati Uniti si terrà lunedì prossimo alla Lynn University di Boca Raton, in Florida, dove i candidati del Partito Democratico e di quello Repubblicano, per l’ultima volta con a disposizione un pubblico così vasto, proveranno a convincere gli elettori ancora indecisi, cercando questa volta di fuorviarli sui soli temi legati alla politica estera.

di Massimiliano Ferraro

«Il governo dovrà tenere conto del parere della popolazione, ma poi dovrà anche prendere la decisione più vantaggiosa per la Lituania». L'ambiguo commento della presidente Dalia Grybauskait?, la dice lunga sul reale valore del referendum che domenica scorsa ha detto no al ritorno al nucleare nel paese baltico. Eppure i dati sono inequivocabili: il 62% degli elettori che si sono recati alle urne hanno espresso parere contrario alla costruzione di una centrale nucleare a Visaginas, nel nord-est della Lituania, mentre solo il 34% si è detto favorevole.

Alla consultazione hanno partecipato il 52% degli aventi diritto, superando così la soglia del 50% che nel 2008 aveva impedito il raggiungimento del quorum per il medesimo quesito. Questa volta il referendum è valido, tuttavia il risultato sembra non convincere ancora la presidente Grybauskait?, la quale ha fatto notare tramite un suo consigliere che «solo una parte della popolazione ha dichiarato la sua opinione sul nucleare e meno di un terzo degli elettori ne ha messo in dubbio l'utilità».

Dunque c'è il rischio che per gli anti-nuclearisti lituani il successo referendario si riveli una vittoria di Pirro. La maggioranza uscente di centrodestra (in Lituania si stanno svolgendo anche le elezioni politiche n.d.a.) ha infatti immediatamente sottolineato il carattere consultivo e quindi non vincolante della votazione. Rimane quindi in piedi la possibilità che la Lituania opti ugualmente per il ritorno all'atomo, abbandonato dopo la dissoluzione dell'URSS, anche contro il parere degli elettori. Un'ipotesi che di certo non sfugge al Giappone che tramite il gruppo Hitachi dovrebbe occuparsi di costruire l'impianto di Visaginas.

«Certo abbiamo più avversari che sostenitori, ma la decisione finale spetterà al nuovo governo e al parlamento e noi seguiremo da vicino la situazione», si è affrettata ad osservare l'ambasciatrice giapponese a Vilnius, Kazuko Shiraishi. Non nascondendo gli interessi milionari del suo paese nell'affare, la diplomatica ha però fatto capire che il parere della gente verrà tenuto in considerazione dalla Hitachi. Difficile per ora pensare ad un abbandono del progetto, anche se soggetti vicini alla multinazionale giapponese tendono a non escludere questa ipotesi: «Stanno considerando seriamente i pro e i contro e valutando se vale la pena di andare avanti».

Sembrerebbe quasi che, paradossalmente, l'esito del referendum lituano abbia assunto più valore all'estero che in patria, dove invece il sindaco di Visaginas non si rassegna all'esito del voto. «Questa consultazione elettorale, frettolosa e improvvisata, ha messo in cattiva luce la Lituania», è stato il commento pungente, e forse non del tutto disinteressato, del primo cittadino, «la gente non è stata informata a dovere e ha votato in maniera sbagliata, questo è il motivo per cui il risultato è quello che è».

Il vero ago della bilancia sul futuro energetico della Lituania sarà a questo punto il secondo turno delle elezioni politiche in programma per il prossimo 28 ottobre. Solo una vittoria della sinistra potrebbe affossare definitivamente i sogni nucleari dell'attuale premier Kubilius.

 

di Michele Paris

A oltre un mese di distanza dall’assassinio a Bengasi dell’ambasciatore degli Stati Uniti in Libia, J. Christopher Stevens, le responsabilità e le circostanze relative alla morte del diplomatico americano rimangono al centro di un accesissimo dibattito che a Washington si è inserito prepotentemente nella campagna elettorale per la Casa Bianca. Nonostante le indagini in corso, le numerose audizioni ordinate dal Congresso e i quotidiani scambi di accuse tra democratici e repubblicani, la fondamentale questione politica riguardante il paese nord-africano continua rigorosamente a rimanere fuori dalla discussione, vale a dire la condizione in cui esso è precipitato dopo la “liberazione” dal regime di Muammar Gheddafi e che ha reso possibili i fatti dell’11 settembre scorso.

Al centro dello scontro tra i due principali partiti d’oltreoceano ci sono soprattutto le responsabilità dell’amministrazione Obama e la sua valutazione dell’assalto di Bengasi che ha causato la morte dell’ambasciatore e di altri tre cittadini americani incaricati del servizio di sicurezza presso il consolato. I repubblicani sostengono che il presidente non abbia garantito un adeguato livello di sicurezza dell’edificio, nonché sottovalutato l’assalto, considerato inizialmente una protesta spontanea contro la diffusione in rete di un filmato amatoriale che irrideva il profeta Muhammad.

Per i repubblicani l’attacco sarebbe stato invece una vera e propria operazione terroristica, attentamente pianificata e portata a termine da estremisti legati in qualche modo ad Al-Qaeda, verosimilmente affiliati al gruppo Ansar al-Shariah. I democratici, da parte loro, oltre a sostenere che la posizione presa dalla Casa Bianca al momento dei fatti si basava sulle informazioni disponibili in quel momento, accusano i repubblicani di cercare di politicizzare una tragedia dopo che essi stessi hanno contribuito ad implementare pesanti tagli alla sicurezza delle rappresentanze diplomatiche americane.

All’interno della stessa amministrazione Obama ci sono in ogni caso posizioni differenti. Il Segretario di Stato, Hillary Clinton, un paio di settimane fa all’ONU aveva infatti dichiarato che esistevano possibilità concrete che i giustizieri di Stevens avessero legami con Al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM), mentre proprio lunedì, nel corso di un’intervista alla CNN, la ex senatrice di New York si è assunta la piena responsabilità per non avere adeguatamente protetto il consolato di Bengasi.

Le parole della Clinton, secondo alcuni commentatori, sarebbero state pronunciate per cercare di limitare gli attacchi di Romney al presidente Obama su questo argomento nel secondo dibattito presidenziale di martedì a Long Island. L’ammissione segue però anche le polemiche sollevate dalle dichiarazioni rilasciate settimana scorsa di fronte ad un’apposita commissione della Camera dei Rappresentanti dall’ex responsabile della sicurezza per l’ambasciata USA in Libia, Eric Nordstrom. Quest’ultimo aveva sostenuto che il Dipartimento di Stato aveva negato la sua richiesta di estendere le misure di sicurezza esistenti e che prevedevano l’impiego di un team di soldati americani.

Al di là delle falle nei sistemi di sicurezza, la questione più rilevante, come già anticipato, è legata alle condizioni in cui versa la Libia dopo un anno dalla vittoria dei “ribelli” e dal barbaro assassinio di Gheddafi, avvenuto a Sirte il 20 ottobre 2011. Le operazioni militari NATO, scatenate grazie alla manipolazione della risoluzione 1975 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU del marzo 2011, hanno cioè gettato uno dei paesi più stabili e relativamente floridi del continente africano nel caos, lasciandolo di fatto nelle mani di numerose milizie armate che si fronteggiano per il controllo del territorio mentre il governo centrale e le forze di sicurezza restano paralizzate e incapaci di imporre la propria autorità.

La presunta “liberazione” del paese e il propagandato arrivo della democrazia grazie all’intervento degli Stati Uniti e dei loro alleati, oltre ad avere causato decine di migliaia di morti per prevenire la minaccia del regime di massacrare i propri cittadini in rivolta, ha permesso il proliferare sia di gruppi armati che si sono resi responsabili di gravissime violazioni dei diritti umani sia di formazioni con legami ad Al-Qaeda che operano nel paese nella pressoché completa impunità, spesso contro gli stessi “liberatori” stranieri che li hanno sostenuti.

Estremamente significativo della situazione libica è poi l’assedio dei giorni scorsi posto dagli ex ribelli alla città di Bani Walid, dove rimarrebbero alcuni fedeli di Gheddafi. Nel silenzio dell’Occidente, i nuovi padroni della Libia hanno bombardato la città, hanno impedito per giorni l’ingresso di cibo e medicinali e, secondo quanto riferito dai medici che vi operano, hanno impiegato armi con gas velenosi come il Sarin anche contro quartieri residenziali.

La situazione dei diritti umani, in difesa dei quali sarebbe stata combattuta la guerra contro il precedente regime, è stata ad esempio descritta dalla ONG britannica International Center for Prison Studies, secondo la quale l’attuale popolazione carceraria della Libia, che ammonta a circa 9 mila detenuti, è alloggiata in gran parte in strutture improvvisate e, soprattutto, viene sottoposta regolarmente a torture. La Libia ha poi la più elevata percentuale di detenuti senza accuse formali o processo (89%), di cui una parte stranieri, per lo più lavoratori emigrati sub-sahariani di colore arrestati durante e dopo la guerra perché sospettati di essere sostenitori di Gheddafi solo per il colore della loro pelle.

In questo scenario, gli stessi gruppi estremisti che gli Stati Uniti hanno sostenuto e finanziato per rovesciare il regime hanno potuto organizzarsi liberamente e, grazie alle armi provenienti dai loro benefattori occidentali e arabi, hanno finito per mettere a segno operazioni come quella in cui ha perso la vita l’ambasciatore Stevens, egli stesso inviato precocemente nel paese lo scorso anno proprio per stabilire contatti più intensi con i ribelli e le formazioni jihadiste simili a quelle che lo hanno assassinato.

A Washington, però, si continua accuratamente ad evitare di sollevare il punto cruciale della crisi libica nel post-Gheddafi, poiché farlo in maniera seria comporterebbe con ogni probabilità mettere in discussione l’intera strategia anti-terrorismo americana lanciata dopo gli attacchi al World Trade Center. Inoltre, tale discussione porterebbe alla luce il vero motivo che ha portato alla pianificazione dell’operazione NATO in un paese ricco di risorse energetiche come la Libia, cioè la rimozione di un regime poco malleabile e troppo disponibile nei confronti di Russia e Cina.

Soprattutto, come dimostrano i dubbi che stanno attraversando la classe dirigente statunitense, ammettere il nuovo colossale errore di valutazione in Libia significherebbe dover ripensare l’approccio alla crisi in Siria, dove l’amministrazione Obama sta per molti versi replicando la strategica libica, appoggiando, armando e finanziando forze terroristiche per rovesciare Bashar al-Assad.

La situazione in Libia potrebbe infine subire un ulteriore drammatico cambiamento nel prossimo futuro, sia con possibili bombardamenti americani per punire i colpevoli della morte dell’ambasciatore Stevens, sia tramite un intervento con forze di terra che renderebbe ancora più esplosiva la realtà sul campo.

La conferma di quest’ultima ipotesi è giunta da un articolo di lunedì del New York Times, nel quale si afferma che il Pentagono e il Dipartimento di Stato hanno già concordato con il governo di Tripoli l’invio in Libia di reparti delle Forze Speciali americane per addestrare un forza anti-terrorismo indigena composta da 500 soldati.

A questo scopo sono già stati stanziati 8 milioni di dollari e il progetto ricalcherebbe quelli già messi in atto in Pakistan o in Yemen, due paesi, come la Libia, di grande importanza strategica per gli interessi americani e che perciò negli ultimi anni hanno visto aumentare l’impegno di Washington all’interno dei loro confini, come sempre in nome della lotta al terrorismo e in difesa della democrazia e dei diritti umani.

di Michele Paris

Le tensioni tra Siria e Turchia, aumentate pericolosamente la settimana scorsa in seguito all’esplosione di un missile in territorio turco che ha fatto cinque vittime civili, continuano a rimanere ben oltre il livello di guardia anche in questi ultimi giorni. Ad aggravare ulteriormente la situazione è stata l’intercettazione nel pomeriggio di mercoledì di un aereo di linea siriano da parte delle autorità turche, le quali lo hanno costretto ad atterrare ad Ankara mentre era in volo tra Mosca e Damasco perché sospettato di trasportare materiale bellico destinato al regime di Bashar al-Assad.

Il governo del premier Erdogan ha ordinato ad un jet F-16 della propria flotta di scortare un Airbus 320 della Syrian Air con una trentina di passeggeri a bordo sulla pista d’atterraggio dell’aeroporto Esenboga della capitale turca. Secondo la rete televisiva NTV, gli addetti all’ispezione avrebbero confiscato il carico, anche se le autorità turche non hanno rilasciato dichiarazioni ufficiali in proposito. Il quotidiano Zaman ha però riportato il ritrovamento di equipaggiamenti per le comunicazioni militari e componenti per la fabbricazione di un missile.

L’iniziativa di Ankara è giunta in un momento già estremamente delicato nei rapporti tra i due ex alleati e ha comprensibilmente sollevato la dura reazione di Damasco, da dove il ministro dei Trasporti, Mahmoud Said, ha definito lo stop del velivolo siriano un atto di “pirateria aerea”. Il governo di Mosca, a sua volta, ha chiesto spiegazioni a quello turco, visto che l’aereo della Syrian Air trasportava 17 cittadini russi, e ha negato che a bordo dell’Airbus vi fossero armi o altro materiale bellico.

Che quella di Ankara sia una provocazione intesa a fomentare la reazione della Siria per scatenare un conflitto vero e proprio appare evidente anche dal commento rilasciato all’agenzia di stampa Interfax da un anonimo funzionario governativo russo. Quest’ultimo ha fatto notare che la Russia non ha mai sospeso le forniture militari e tecnologiche alla Siria, perciò Mosca non ha alcuna necessità di effettuare spedizioni di questo genere in maniera segreta e per mezzo di un aereo civile, dal momento che esse continuano tuttora tramite i canali ufficiali.

In ogni caso, lo scrupolo turco per evitare l’afflusso di armi alle forze del regime e quindi l’aumento del livello di violenza nel paese appare quanto meno ipocrita, dal momento che Ankara è in prima linea nel facilitare le forniture di armi agli stessi ribelli anti-Assad, tra cui operano svariati gruppi terroristi, alimentando gli scontri e contribuendo al moltiplicarsi del numero delle vittime.

Nei giorni scorsi, intanto, sono proseguiti gli scambi di artiglieria tra Siria e Turchia nelle zone di confine dove infuria la battaglia tra le forze regolari e l’opposizione al regime che trova rifugio oltre il confine settentrionale. Anche se appare estremamente improbabile che Damasco abbia volutamente lanciato missili in territorio turco, Ankara ha risposto duramente con ripetuti bombardamenti contro postazioni dell’esercito siriano.

L’ipotesi più probabile è che i missili siano atterrati per errore oltre confine nell’ambito dei combattimenti contro i ribelli, anche se è non da escludere del tutto che la responsabilità sia proprio di questi ultimi nel tentativo di trascinare la Turchia nel conflitto. Da Ankara sono comunque arrivate dichiarazioni bellicose e, allo stesso tempo, altre forze aeree e di terra sono state inviate verso il confine con la Siria in preparazione di una possibile escalation dello scontro. Il governo turco, d’altra parte, settimana scorsa si era assicurato l’approvazione in Parlamento di una misura che consente l’uso della forza per fronteggiare minacce alla sicurezza del paese.

Il capo di stato maggiore turco, generale Necdet Ozel, nel corso di una visita alla città di Akçakale, dove il missile proveniente dalla Siria aveva fatto cinque vittime civili, ha poi minacciosamente ribadito che se gli attacchi proseguiranno, Ankara “risponderà ancora con maggiore forza”, dimostrando che la Turchia è pronta a sfruttare qualsiasi occasione per scatenare una guerra che si prospetta a dir poco rovinosa.

Le manovre turche procedono in piena sintonia con i vertici della NATO, che ha espresso solidarietà ad Ankara in una recente riunione di emergenza seguita al lancio del missile dal territorio siriano, e degli Stati Uniti, i cui piani in preparazione di un intervento militare sono stati confermati da un articolo pubblicato martedì dal New York Times.

Il quotidiano americano ha rivelato che da qualche tempo Washington ha inviato segretamente una task force di oltre 150 militari in Giordania e che essi sono alloggiati presso una struttura a nord della capitale, Amman. La “missione” statunitense trae origine da un’esercitazione militare andata in scena a maggio, in seguito alla quale i soldati sono rimasti nel paese mediorientale.

Questo contingente, la cui presenza in Giordania è stata confermata mercoledì dal Segretario alla Difesa, Leon Panetta, secondo la versione ufficiale avrebbe l’incarico di aiutare le autorità locali nella gestione della crisi prodotta dall’afflusso nel territorio del piccolo regno Hashemita di 180 mila rifugiati provenienti dalla Siria. La competenza degli americani in questo ambito è d’altronde risaputa, dal momento che le invasioni di Afghanistan e Iraq di rifugiati nell’ultimo decennio ne hanno creati a milioni.

Un'altra ragione sarebbe la necessità di intervenire tempestivamente in Siria nel caso il regime di Assad dovesse perdere il controllo del proprio arsenale di armi chimiche e biologiche. Tale questione era già stata sollevata qualche mese fa dal presidente Obama, secondo il quale l’impiego di armi chimiche contro i civili siriani o il pericolo che esse possano cadere nelle mani di gruppi estremisti spingerebbe immediatamente gli Stati Uniti ad intervenire. Come per l’Iraq nel 2003, pertanto, la presunta minaccia delle armi di distruzione di massa viene di nuovo usata da Washington per giustificare un cambio di regime con la forza in Medio Oriente.

Il New York Times sottolinea inoltre che i militari americani in Giordania sono dislocati a poco meno di 60 km dal confine siriano e “potrebbero svolgere un ruolo importante nel caso la politica degli Stati Uniti nei confronti della crisi in Siria dovesse cambiare”. In altre parole, nel momento in cui l’amministrazione Obama dovesse valutare che le condizioni internazionali permettono un intervento militare contro Assad, il contingente inviato in Giordania sarà una delle basi d’appoggio per le operazioni. Allo stesso scopo è già stato istituito da mesi un centro operativo della CIA presso la base americana di Incirlik, in Turchia, da dove vengono coordinati i finanziamenti e i trasferimenti di armi ai ribelli provenienti da paesi come Arabia Saudita e Qatar.

Anche in questo caso, l’occasione per lanciare un attacco potrebbe essere rappresentata da uno degli scontri che già da tempo si registrano tra l’esercito siriano e quello giordano nelle zone di confine tra i due paesi.

Stati Uniti e Turchia, dunque, da un lato e con il supporto decisivo dei principali media occidentali stanno cercando di preparare l’opinione pubblica internazionale ad un nuovo conflitto in Medio Oriente utilizzando le consuete ragioni umanitarie, mentre dall’altro operano più o meno apertamente per provocare una reazione da parte di Damasco, da sfruttare come pretesto per un intervento unilaterale che porti al rovesciamento del regime di Bashar al-Assad.


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