di Michele Paris

Mentre la campagna elettorale per la Casa Bianca sta entrando stancamente nel vivo a poche settimane dalle convention dei due partiti, i più recenti sondaggi continuano ad indicare un sostanziale equilibrio su scala nazionale tra Barack Obama e il candidato repubblicano, Mitt Romney. Ad influire sull’esito del voto di novembre saranno in primo luogo le centinaia di milioni di dollari spesi dalle rispettive organizzazioni elettorali, ma anche le prospettive dell’economia americana e del livello di disoccupazione, il cui andamento non sembra promettere nulla di buono per il presidente democratico.

Tra gli ultimi sondaggi apparsi sui media d’oltreoceano, quello pubblicato martedì da Washington Post e ABC News indica come Obama e Romney raccolgano ciascuno circa il 47% dei consensi dei potenziali elettori interpellati lo scorso fine settimana. La situazione di pareggio tra i due contendenti, fa notare il Washington Post, è praticamente simile a quella rilevata alla fine di maggio e, da oltre un anno a questa parte, solo in due rilevamenti su tredici uno dei due candidati ha fatto segnare un vantaggio superiore al margine d’errore.

Le indagini statistiche, oltre a suggerire come i due candidati alla presidenza siano per molti versi virtualmente indistinguibili, indicano un chiaro malcontento nei confronti di Obama e della sua performance non solo nell’ambito economico ma anche sui temi della sanità e dell’immigrazione. Il livello di gradimento del presidente risulta stabile al 47%, mentre il 49% degli americani disapprova il suo operato.

I numeri per l’inquilino della Casa Bianca appaiono dunque tutt’altro che incoraggianti, anche se il suo rivale repubblicano non sembra finora in grado di approfittarne. Anche all’indomani dell’ultimo rapporto sulla disoccupazione nel paese, che ha disegnato un quadro tuttora allarmante, nel sondaggio di Washington Post e ABC News, ad esempio, Romney insegue Obama di ben dodici punti percentuali quando agli intervistati è stato chiesto quale candidato abbia il progetto più efficace per risolvere i problemi economici degli Stati Uniti.

Le perplessità e le risposte apparentemente contraddittorie degli elettori riflettono da un lato la sfiducia nei confronti di tutta la classe politica americana e dall’altro, il rifiuto della ricetta economica ultra-liberista avanzata da Mitt Romney. Quest’ultimo sembra infatti poter denunciare agevolmente l’incapacità di Obama di risollevare il paese ma il suo programma, che prevede tra l’altro un’ulteriore deregolamentazione dell’economia, tagli alle tasse per i più ricchi e riduzione della spesa pubblica, comporterebbe un nuovo aggravamento della situazione per la maggioranza degli americani.

I sondaggi sul gradimento a livello nazionale sono in ogni caso puramente indicativi, dal momento che le elezioni presidenziali saranno decise dai risultati in una manciata di stati perennemente in equilibrio tra democratici e repubblicani (“swing” o “tossup states”). Secondo la maggior parte dei media USA, quest’anno la sfida si giocherà sulla conquista dei “voti elettorali” di Colorado, Florida, Iowa, Nevada, New Hampshire, North Carolina, Ohio, Virginia e Wisconsin.

Questi nove stati, tutti vinti da Obama nel 2008 e in buona parte finora ancora favorevoli al presidente uscente, assegnano un totale di 125 voti elettorali e risultano perciò fondamentali per raggiungere la soglia dei 270 necessari per conquistare la Casa Bianca. I rimanenti stati americani sembrano essere invece già assegnati con un certo margine di sicurezza a Obama o a Romney, i quali senza i cosiddetti “tossup states” sono attestati rispettivamente a 217 e a 191 voti elettorali.

Esposto agli attacchi repubblicani sulle questioni dell’economia, il presidente democratico all’inizio della settimana ha cercato di cambiare l’argomento al centro del dibattito della campagna elettorale, rispolverando così la sua proposta del 2010 di prolungare i tagli alle tasse inizialmente decisi da George W. Bush solo per i redditi inferiori ai 250 mila dollari l’anno.

I tagli al carico fiscale per tutti i redditi, una delle cause principale dell’allargamento del deficit USA, erano stati prolungati per altri due anni nel 2010 dopo che i democratici avevano ceduto alle richieste repubblicane, nonostante detenessero la maggioranza sia alla Camera che al Senato. Il Partito Repubblicano e Mitt Romney continuano ad insistere per rendere permanenti i tagli fiscali per tutti gli americani e, anzi, il candidato alla presidenza propone un’ulteriore futura riduzione del 20% nell’ambito del suo appello a non alzare le tasse per i “creatori di posti di lavoro”.

La proposta di Obama fa parte di una strategia populista ostentata in questa fase della campagna nel tentativo di proporsi come il difensore dei lavoratori e della classe media, un blocco elettorale importante soprattutto in stati del Midwest come Pennsylvania, Michigan, Wisconsin e Ohio, dove il presidente ha appena concluso un tour elettorale.

Il suo atteggiamento è però puramente opportunistico, dal momento che il suo primo mandato è stato caratterizzato pressoché unicamente da politiche pro-business, mentre per quanto riguarda l’argomento tasse, Obama solo pochi mesi fa ha presentato una proposta di riforma fiscale che include un abbassamento dell’aliquota riservata alle corporation dall’attuale 35% al 28%.

Inoltre, come sa bene Obama, la proposta di lasciare scadere i tagli alle tasse solo per i redditi più alti non ha nessuna possibilità di ottenere i 60 voti necessari per superare l’ostacolo del Senato, per non parlare della Camera controllata dai repubblicani. Molti all’interno del suo partito, poi, vedono positivamente una nuova estensione di tutti i tagli fiscali o quanto meno per i redditi fino ad un milione di dollari.

In questo scenario, la soluzione più probabile appare, come nel 2010, un voto sui tagli dopo le elezioni di novembre, quando gli elettori avranno già deciso. Nelle ultime sessioni del Congresso, con ogni probabilità, i democratici daranno il via libera ad un rinnovo dei benefici fiscali per tutti i contribuenti, sostenendo che il compromesso con i repubblicani si sarà reso necessario per mantenere i tagli per i redditi più bassi, privando così le casse federali di centinaia di miliardi di dollari che dovranno inevitabilmente essere recuperati con nuove riduzioni della spesa pubblica.

Sul fronte dei finanziamenti alle campagne elettorali, infine, Mitt Romney continua a far segnare un maggiore successo rispetto a Obama. I dati ufficiali indicano come la campagna del candidato repubblicano abbia raccolto nel mese di giugno un totale di 106 milioni di dollari, contro i 71 milioni del rivale democratico.

Come ha scritto martedì il New York Times, le minori entrate di Obama rispetto al 2008 riflettono il voltafaccia di molti facoltosi finanziatori, soprattutto di Wall Street, che quest’anno sembrano orientati a schierarsi con l’ex governatore del Massachusetts. In effetti, quattro anni fa il Partito Repubblicano appariva screditato a tal punto che i maggiori donatori confluirono spontaneamente sul candidato democratico, certi che quest’ultimo avrebbe scrupolosamente difeso i loro interessi.

Ora, con la sostanziale riabilitazione dei repubblicani, i finanziatori più ambiti dai due partiti sembrano essere in buona parte tornati alla casa repubblicana, così da combattere anche le esili politiche di regolamentazione del settore finanziario messe in atto in questi anni.

Il denaro che affluisce direttamente nelle casse delle organizzazioni elettorali dei due candidati è peraltro solo una parte delle enormi somme in gioco. Dopo la storica sentenza della Corte Suprema del 2010, infatti, gruppi affiliati indirettamente ai candidati (“Super PAC”) possono raccogliere denaro senza limiti da donatori individuali o da corporation. Il risultato, ad esempio, è che questa settimana due delle Super PAC che sostengono Romney hanno dato il via ad altrettante campagne anti-Obama negli stati più in bilico che costeranno complessivamente qualcosa come 65 milioni di dollari.

di Michele Paris

Dopo appena un paio di giorni dall’accordo tra Washington e Islamabad sulla riapertura dei passi di frontiera tra il Pakistan e l’Afghanistan ai convogli NATO, i droni americani sono tornati a colpire duramente nelle aree tribali del paese centro-asiatico. Gli aerei senza pilota della CIA hanno fatto almeno 19 vittime nella giornata di venerdì, contribuendo con ogni probabilità ad alimentare ulteriormente il già diffuso malcontento popolare verso gli Stati Uniti nonostante l’apparente riconciliazione appena siglata tra i due governi alleati.

Il bilancio ufficiale, secondo le autorità locali, era stato inizialmente di 12 morti nel corso del più recente attacco nella regione di Dattakhel, nel Waziristan del Nord, un’area già più volte esposta ai blitz con i droni USA nel recente passato. Sabato, invece, il numero dei decessi è salito a 19, secondo gli Stati Uniti tutti sospetti militanti legati ai gruppi integralisti attivi oltre confine in Afghanistan.

La nuova operazione americana è giunta alla vigilia di un’importante conferenza sul futuro dell’Afghanistan a Tokyo, dove il Segretario di Stato, Hillary Clinton, ha incontrato il proprio omologo pakistano, Hina Rabbani Khar. Proprio una telefonata tra il ministro degli Esteri di Islamabad e la ex first lady aveva suggellato settimana scorsa la riapertura delle rotte di transito in territorio pakistano ai rifornimenti NATO diretti in Afghanistan.

Pur non scusandosi formalmente, come richiesto da tempo dal Pakistan, la Clinton si sarebbe detta dispiaciuta per la strage di 24 soldati di frontiera pakistani nel corso di un’incursione aerea USA lo scorso novembre. In cambio della riapertura dei valichi di frontiera, Washington ha dato il via libera a oltre un miliardo di dollari in aiuti alle forze armate pakistane, fondi fino ad ora congelati a causa dello stallo nelle trattative tra le due parti.

La volontà del governo pakistano di riappianare i rapporti con l’amministrazione Obama è risultata evidente anche dal fatto che, a differenza di quanto richiesto con insistenza negli ultimi mesi, il pedaggio imposto ai convogli NATO in transito sul proprio territorio è alla fine rimasto invariato alla quota di 250 dollari, mentre nel corso dei negoziati da Islamabad si era giunti addirittura a chiedere un aumento fino a 5.000 dollari per ogni automezzo.

In definitiva, a prevalere è stato il desiderio di Islamabad di veder normalizzati i rapporti con Washington, nonostante fosse evidente come la chiusura al transito delle forniture dirette verso l’Afghanistan in territorio pakistano stesse creando significativi problemi logistici e strategici agli Stati Uniti. Gli USA, inoltre, intendevano chiudere al più presto un accordo con il Pakistan, in modo da evitare che fosse la Cina a riempire il vuoto diplomatico prodotto dalla crisi dei rapporti tra i due paesi.

Una delle altre condizioni poste dal Pakistan agli Stati Uniti per la riapertura dei propri valichi di frontiera, e puntualmente messa da parte, era la fine delle operazioni con i droni. Quest’ultima richiesta faceva parte della serie di raccomandazioni partorite qualche mese fa da una speciale commissione parlamentare pakistana, istituita per rivedere integralmente i rapporti diplomatici con Washington.

Le condizioni chieste all’amministrazione Obama, in realtà, erano intese unicamente ad alleviare la profonda avversione tra la popolazione locale verso gli americani, dovuta in primo luogo proprio alle stragi compiute con i droni che, come hanno messo in luce ricerche di vari organismi internazionali, hanno già causato la morte di centinaia di civili innocenti.

Le tensioni esplose tra USA e Pakistan in questi mesi non sono dovute peraltro ad una reale opposizione da parte di Islamabad all’impiego dei droni entro i propri confini. Il governo pakistano, infatti, non nutre riserve nei confronti di questo programma di morte se non nella misura in cui esso alimenta l’insofferenza della popolazione e lo espone all’accusa di essere un fantoccio al servizio di Washington.

La riapertura delle rotte di terra alla NATO e il piegarsi nuovamente al volere degli USA sono la diretta conseguenza della profonda crisi che il governo pakistano sta attraversando. Di qualche giorno fa è stata, ad esempio, la decisione presa dalla Corte Suprema di rimuovere dal suo incarico il primo ministro Yousuf Raza Gilani, il quale si era rifiutato di chiedere alle autorità svizzere di riaprire un vecchio caso di corruzione contro il presidente, Asif Ali Zardari. Il sostituto di Gilani, il fedelissimo del presidente, Raja Pervez Ashraf, rischia ora di andare incontro alla medesima sorte del suo predecessore se non si sottometterà al volere della Corte Suprema.

La crisi del sistema politico pakistano e le divisioni tra la propria classe dirigente rischiano così di precipitare il paese nel caos, spianando la strada ad un intervento dei militari, come spesso è accaduto nella propria storia. Proprio per scongiurare la minaccia di un colpo di stato militare, dunque, il governo del Partito Popolare Pakistano ha finito per riallinearsi con Washington, anche se le contraddizioni e le difficoltà con cui dovrà confrontarsi nel prossimo futuro appaiono tutt’altro che risolte.

di Michele Paris

Il terzo summit dei cosiddetti “Amici della Siria” si svolgerà oggi a Parigi e, come nelle precedenti occasioni, non vedrà la partecipazione delle due principali potenze effettivamente alleate di Damasco. Russia e Cina, infatti, hanno nuovamente deciso di disertare l’evento patrocinato dagli Stati Uniti per promuovere le opposizioni armate e un intervento esterno che porti alla fine del regime di Bashar al-Assad.

Mosca ha per prima annunciato di voler boicottare la conferenza nella capitale transalpina, mentre la conferma di Pechino è giunta giovedì, quando un portavoce del Ministero degli Esteri ha respinto ufficialmente l’invito a partecipare fatto dal governo francese.

Russia e Cina, d’altra parte, percepiscono correttamente questi incontri, modellati su quelli degli “Amici della Libia” dello scorso anno, come il tentativo occidentale di raccogliere consensi di fronte alla comunità internazionale per avanzare i propri interessi strategici.

Al vertice di Parigi parteciperanno più di 60 governi, tra cui la maggior parte di quelli europei e della Lega Araba. In precedenza, gli “Amici della Siria” si erano riuniti a Tunisi nel mese di febbraio e ad aprile a Istanbul.

Il summit giunge dopo l’assemblea dello scorso fine settimana indetta dall’ex Segretario Generale dell’ONU, Kofi Annan, a Ginevra e che ha visto la partecipazione sia della Russia che della Cina. In quell’occasione, i paesi convenuti avevano trovato un accordo, peraltro ininfluente, sul processo di transizione in Siria. Mosca ha però da subito accusato l’Occidente di averne distorto il significato, sostenendo l’esclusione da qualsiasi nuovo governo del presidente Assad, nonostante tale condizione non sia stata inclusa nel documento finale.

La vigilia della riunione di Parigi è stata segnata dalle consuete dichiarazioni volte a falsificare la realtà sul campo in Siria e a caratterizzare la conferenza stessa come un raduno di paesi intenzionati, in maniera disinteressata, a fermare la repressione del regime e a sostenere le aspirazioni democratiche della popolazione pacificamente in rivolta.

In realtà, l’aggravarsi della situazione nel paese mediorientale nelle ultime settimane, con il naufragio della missione degli osservatori ONU e l’innalzamento del livello di violenza, è dovuto soprattutto all’afflusso di ingenti quantità di armi ed equipaggiamenti militari, forniti ai gruppi di opposizione da paesi come Arabia Saudita, Qatar e Turchia con il coordinamento statunitense.

Uno degli scopi del meeting di venerdì è quello di dare un qualche impulso all’unità dei vari gruppi di opposizione, formati da islamisti, dissidenti secolari al servizio di Washington, estremisti, mercenari e affiliati ad organizzazioni terroristiche, tutti invariabilmente con scarso seguito nel paese.

Le fazioni coinvolte nella lotta contro il regime di Damasco sono uscite pochi giorni fa da un incontro promosso dall’Occidente al Cairo, dove sono emerse ancora una volta tutte le divisioni all’interno di raggruppamenti che concordano pressoché unicamente nell’obiettivo di rovesciare Assad.

Il tentativo di includere Russia e Cina nel vertice degli “Amici della Siria” va di pari passo con le pressioni diplomatiche su Mosca per spingere il Cremlino ad abbandonare il presidente Assad. Secondo quanto ha scritto questa settimana il quotidiano russo Kommersant, ad esempio, gli Stati Uniti e i loro alleati starebbero tentando di convincere il governo russo ad ospitare un eventuale esilio di Assad.

La rivelazione è stata smentita seccamente dal vice-ministro degli Esteri, Sergei Rybakov, anche se simili voci dimostrano con quale insistenza la Russia sia esposta alle sollecitazioni occidentali per abbandonare l’alleato mediorientale.

Nonostante le pressioni crescenti, in ogni caso, sia Mosca che Pechino continuano a respingere qualsiasi soluzione imposta dall’esterno alla crisi siriana. Per i due governi, dopo la vicenda libica con la deposizione e l’assassinio di Gheddafi, il prezzo da pagare per la perdita di Damasco sarebbe infatti troppo pesante e consentirebbe agli Stati Uniti di allargare pericolosamente la propria influenza a discapito degli interessi di entrambi nella regione.

di Michele Paris

L’escalation di minacce nei confronti dell’Iran da parte occidentale ha fatto registrare ulteriori passi avanti nei giorni scorsi con l’entrata in vigore delle più recenti sanzioni americane e dell’embargo petrolifero approvato dall’Unione Europea. Oltre a queste misure, destinate a farsi sentire in maniera pesante sull’economia iraniana, la vigilia del nuovo round di negoziati, in scena questa settimana a Istanbul, è stata segnata da provocazioni e avvertimenti reciproci che indicano un progressivo aggravarsi della crisi costruita attorno al programma nucleare della Repubblica Islamica.

Lo stop alle importazioni di petrolio iraniano per tutti i membri UE era stato deciso già lo scorso gennaio, ma Bruxelles ha atteso fino al primo luglio per implementarlo, così da permettere ai paesi maggiormente dipendenti dal greggio di Teheran (Grecia, Italia e Spagna) di trovare forniture alternative.

L’embargo costituisce una sorta di autogol da parte europea, nonché un chiaro cedimento alle richieste statunitensi, dal momento che il venir meno del petrolio dall’Iran potrebbe creare non poche difficoltà di approvvigionamento e far aumentare le quotazioni, aggravando ulteriormente la crisi economica in atto.

Oltre al divieto di importare petrolio, le misure UE prevedono anche la proibizione per le compagnie assicurative del vecchio continente di stipulare polizze per le petroliere che trasportano il greggio iraniano, anche verso paesi terzi. Questa disposizione risulta particolarmente minacciosa per Teheran, poiché le compagnie europee provvedono per la maggior parte dei contratti assicurativi in questo ambito.

Gli ostacoli riguarderanno soprattutto le esportazioni verso i paesi asiatici. Se, ad esempio, il Giappone ha da poco approvato coperture assicurative garantite dal governo, la Corea del Sud, quarto importatore di greggio dall’Iran, ha invece annunciato che, alla luce della nuova realtà, sarà costretta a interrompere del tutto le forniture provenienti da Teheran.

La legislazione americana è entrata a sua volta in vigore il 28 giugno e prevede l’imposizione di sanzioni per qualsiasi entità o compagnia straniera che intrattenga rapporti d’affari con la Banca Centrale iraniana. L’amministrazione Obama ha però escluso temporaneamente dalle sanzioni una ventina di paesi, dopo che questi hanno ridotto più o meno sensibilmente le proprie importazioni di petrolio dall’Iran. In questa lista di paesi non figurava inizialmente la Cina, la quale è stata aggiunta solo all’ultimo momento per evitare il precipitare delle relazioni tra Pechino e Washington.

Fino allo scorso anno, i paesi dell’Unione Europea importavano poco meno di un quinto del greggio esportato da Teheran. Più in generale, le varie sanzioni unilaterali adottate in questi ultimi mesi sembrano aver ridotto le vendite di petrolio iraniano di circa il 40%.

Le conseguenze sull’economia del paese sono molto pesanti e colpiscono in particolare la classe media e i ceti più disagiati. Non solo la moneta iraniana (rial) ha visto il proprio valore crollare, ma l’inflazione ha subito una netta impennata fino ad arrivare, secondo i dati ufficiali, al 25%, anche se per i generi di prima necessità risulta di gran lunga superiore.

Secondo la versione ufficiale, le sanzioni farebbero parte di un approccio che, come sostengono gli Stati Uniti e i loro alleati, dovrebbe convincere Teheran a cedere alle richieste del gruppo dei cosiddetti P5+1 (USA, Gran Bretagna, Francia, Russia, Cina e Germania) sulla questione del nucleare.

In realtà, le intenzioni reali di Washington, la cui posizione prevale all’interno dei P5+1, sono quelle di indebolire il più possibile l’economia e il governo iraniani, così da preparare il campo ad un sempre più probabile intervento armato per rovesciare il regime.

Le manovre americane a questo scopo sono d’altra parte evidenti. A confermalo più recentemente è stato un articolo del New York Times di martedì, secondo il quale gli USA starebbero inviando “significativi” rinforzi militari nel Golfo Persico per impedire l’eventuale chiusura dello Stretto di Hormuz, da cui transita una buona parte delle esportazioni di petrolio proveniente dal Medio Oriente, e per avere a disposizione un maggior numero di aerei da guerra in grado di colpire obiettivi in territorio iraniano in caso di conflitto con Teheran.

Un simile dispiegamento di forze per accerchiare l’Iran avviene ovviamente in stretta collaborazione con le monarchie sunnite assolute riunite nel Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC), tutte alleate di Washington e fortemente ostili all’espansione dell’influenza della Repubblica Islamica sciita nella regione.

A questa escalation militare, che rappresenta una seria minaccia per la sicurezza iraniana, vanno aggiunte poi le altre tattiche impiegate da Stati Uniti e Israele per provocare la reazione di Teheran, così da giustificare un’aggressione armata.

Tra di esse spiccano gli assassini di svariati scienziati nucleari in territorio iraniano negli ultimi anni e un vero e proprio programma di guerra informatica - operazione “Giochi Olimpici”, avviata ai tempi di George W. Bush e ripresa da Obama - per colpire e danneggiare le installazioni nucleari di Teheran.

Con ogni probabilità in risposta a queste ed altre provocazioni occidentali e di Tel Aviv, lunedì da Teheran è circolata la notizia che il parlamento starebbe valutando un provvedimento per chiudere lo Stretto di Hormuz alle petroliere dirette verso quei paesi che hanno adottato l’embargo del greggio iraniano. Martedì, inoltre, il governo della Repubblica Islamica ha annunciato di aver testato con successo dei missili a medio raggio in grado di colpire Israele in caso di minaccia alla propria sicurezza.

I negoziati, intanto, sono ripresi nella capitale turca ma l’incontro è stato esclusivamente tra personale tecnico di entrambe le parti e senza diplomatici di alto livello. Dopo il sostanziale fallimento dei vertici di Baghdad e di Mosca, l’obiettivo del summit di Istanbul riflette la crescente distanza tra le posizioni e prevede soltanto la verifica della possibilità di tenere aperto un qualche canale di comunicazione tra l’Iran e i P5+1.

Gli Stati Uniti, su richiesta di Israele, continuano d’altra parte a chiedere condizioni inaccettabili a Teheran senza promettere nulla di sostanziale in cambio. Che le trattative in corso e sull’orlo del tracollo, così come l’intera questione del nucleare, fabbricata ad arte dall’Occidente con la complicità dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), siano solo un pretesto per fare pressioni sull’Iran in vista di un futuro cambio di regime viene ormai confermato più o meno apertamente anche dal governo americano.

Infatti, una fonte anonima interna al Pentagono ha ammesso martedì in un’intervista al New York Times che il dispiegamento di forze USA nel Golfo “non ha a che fare solo con le ambizioni nucleari di Teheran”, peraltro legittime, bensì anche “con le ambizioni egemoniche regionali” della Repubblica Islamica.

In altre parole, a guidare la politica aggressiva di Washington nei confronti dell’Iran non sono tanto le preoccupazioni, del tutto infondate, per la possibile produzione di armi atomiche, quanto le aspirazioni di questo governo a svolgere un ruolo di primo piano nella regione. Aspirazioni, quelle iraniane, che ostacolano l’espansione e il controllo assoluto da parte americana di un’area strategica cruciale che si estende dal Medio Oriente fino all’Asia centrale.

di Michele Paris

Il terremoto politico che sta scuotendo il Giappone da qualche mese a questa parte è sembrato aggravarsi nella giornata di lunedì, quando il Partito Democratico (DPJ) di governo ha registrato un vero e proprio esodo dalle proprie file da parte di decine di parlamentari facenti capo alla fazione di Ichiro Ozawa, il principale rivale interno del premier, Yoshihiko Noda. Il nuovo scompiglio nel partito di centro-sinistra è scaturito dalla recente approvazione alla Camera bassa nipponica dell’aumento della tassa sui consumi, fortemente voluta dal primo ministro e dagli ambienti finanziari internazionali per contenere il colossale debito pubblico di Tokyo.

L’impopolare imposta verrà raddoppiata gradualmente, dall’attuale 5% all’8% nel 2014, fino al 10% nel 2015, e dovrebbe generare 170 miliardi di dollari l’anno, a fronte di un deficit assestato attorno ai 530 miliardi. Il passaggio della nuova legislazione la scorsa settimana era stato possibile solo grazie al sostegno offerto alla maggioranza dall’opposizione del Partito Liberal Democratico (LDP) e dell’alleato di quest’ultimo, il partito Nuovo Komeito, in seguito a trattative con il premier Noda.

Contro l’aumento della tassa hanno votato 57 deputati DPJ, più 15 tra astenuti e assenti, privando di fatto il partito di governo della maggioranza assoluta dei seggi nella Camera dei Rappresentanti della Dieta giapponese. Il provvedimento dovrà ora ottenere il via libera della Camera dei Consiglieri, il che appare scontato visto che a controllarla è l’opposizione guidata dall’LDP.

Con l’avanzamento dell’aumento dell’imposta sui consumi, dunque, le divisioni all’interno del DPJ si sono approfondite e ieri è arrivato l’annuncio ufficiale che 40 deputati della Camera bassa e 12 di quella alta hanno rassegnato le dimissioni dal partito. Successivamente, l’agenzia di stampa Kyodo ha portato il numero totale a 50, dal momento che due parlamentari sembrano essere tornati sui propri passi. Il numero dei fuoriusciti è inferiore rispetto ai dissidenti del voto in aula di martedì scorso, consentendo così a Noda di mantenere, almeno per il momento, la maggioranza alla Camera dei Rappresentanti.

Il leader dei parlamentari in rivolta è il già ricordato Ozawa, discussa eminenza grigia del DPJ e protagonista dietro le quinte della storica vittoria elettorale del 2009 che ha posto fine a decenni di monopolio LDP sulla vita politica giapponese. La fazione pro-Ozawa favorisce, oltre a rapporti più stretti con la Cina, politiche di aumento della spesa pubblica rispetto a quelle votate all’austerity e all’incremento delle tasse del premier Noda.

Su tali basi, il DPJ e il suo candidato premier nel 2009, Yukio Hatoyama, avevano impostato la loro campagna elettorale in un frangente nel quale molti paesi avevano risposto alla crisi finanziaria da poco esplosa con momentanee politiche di stimolo all’economia.

Per questo, Ozawa e i suoi si sono opposti da subito all’aumento della tassa sui consumi, indicata come un tradimento delle promesse elettorali. Dopo l’estromissione di Hatoyama, tuttavia, i nuovi governi nipponici - guidati dapprima da Naoto Kan e successivamente da Noda - si sono adeguati all’adozione su scala planetaria di misure di austerity e di riduzione del debito, così da far pagare le conseguenze della crisi alle classi più deboli.

La situazione del debito pubblico di Tokyo, inoltre, appare particolarmente grave, dal momento che esso risulta di gran lunga maggiore rispetto a quello degli altri paesi industrializzati, Grecia compresa, e cioè superiore al 200% del proprio PIL. Negli ultimi due anni, così, le pressioni sul governo nipponico sono aumentate, con svariati declassamenti da parte delle agenzie di rating e il Fondo Monetario Internazionale e gli ambienti di cui è espressione che continuano a chiedere altre “riforme” e provvedimenti più incisivi per ridurre la spesa pubblica.

Il timore di Ozawa e dei parlamentari usciti dal partito è che il raddoppio della tassa sui consumi, che colpirà maggiormente la classe media e i redditi più bassi, danneggi ulteriormente la popolarità del DPJ, peraltro già ampiamente compromessa sia dal mancato mantenimento delle promesse elettorali sia dalla pessima gestione della crisi nucleare seguita al terremoto del marzo 2011.

La crescente avversione per i governi democratici succedutisi dopo il voto del 2009 aveva già portato, nel 2010, alla perdita della maggioranza nella Camera alta. Nonostante l’avvertimento, il premier Noda ha deciso comunque di puntare tutto sul provvedimento fiscale approvato settimana scorsa. Di fronte alla frangia interna contraria all’aumento della tassa, però, è stato necessario trovare un accordo con l’LDP, i cui vertici in cambio hanno chiesto, tra l’altro, la rimozione di alcuni ministri vicini ad Ozawa, cosa che Noda ha diligentemente fatto con un rimpasto di governo nel mese di giugno.

La disputa interna su quest’ultima questione ha contribuito in maniera decisiva alla frattura nel partito, già messo a dura prova dall’incriminazione e dal successivo proscioglimento di Ozawa nell’ambito di uno scandalo legato a finanziamenti illegali al DPJ.

Per alcuni commentatori, l’uscita dal partito della fazione pro-Ozawa, con il mantenimento di una maggioranza ancora intatta, sarebbe addirittura benefica, poiché, oltre a scongiurare il rischio di elezioni anticipate, consentirebbe al primo ministro Noda di avere mano libera per trovare altri accordi con l’LDP, così da favorire il passaggio di nuove misure, soprattutto di austerity, nella Camera dei Consiglieri. La Camera alta del parlamento giapponese ha infatti il potere di bloccare la legislazione approvata dalla Camera dei Rappresentanti.

La resa dei conti nel Partito Democratico, tuttavia, indica un inequivocabile intensificarsi della crisi politica in Giappone sulla spinta della crisi economica internazionale e delle conseguenti divisioni all’interno della classe dirigente locale, mentre le politiche impopolari del governo sembrano assicurare una ancora più rapida perdita di consensi e un inevitabile tracollo del DPJ nella prossima tornata elettorale.


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