di Michele Paris

Al termine di un’inchiesta durata tre anni, il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti settimana scorsa ha deciso di non procedere con accuse formali nei confronti dei responsabili di alcuni degli abusi commessi dalla CIA nell’ambito della “guerra al terrore”. La chiusura dell’indagine, senza l’apertura di un solo procedimento legale per le torture e gli assassini che hanno segnato l’ultimo decennio di storia americana, segna la tappa finale di una strategia perseguita deliberatamente dall’amministrazione Obama per occultare i metodi criminali adottati dal governo dopo l’11 settembre e sui quali ha fatto ampio affidamento lo stesso presidente fin dal suo ingresso alla Casa Bianca.

Ad annunciare la decisione è stato il ministro della Giustizia (“Attorney General”), Eric Holder, lo stesso esponente del gabinetto Obama che qualche mese fa aveva descritto pubblicamente le basi pseudo-legali a cui la sua amministrazione fa riferimento per giustificare l’assassinio di cittadini americani accusati di terrorismo senza prove né processo. Per Holder, dopo tre anni di indagini, le prove raccolte “non sono sufficienti per chiedere ed ottenere una condanna al di là di ogni ragionevole dubbio”. A supporto di questa conclusione, Holder non ha presentato nessun’altra motivazione.

Degli innumerevoli abusi commessi, il Dipartimento di Giustizia si era alla fine limitato ad indagarne soltanto due che avevano portato al decesso di altrettanti detenuti sotto custodia della CIA. Nonostante il governo non abbia rivelato i nomi delle vittime, la stampa d’oltreoceano ha riportato le identità dei due sospettati di terrorismo. Il primo caso è quello di Gul Rahman, un afgano catturato a Islamabad, in Pakistan, nell’ottobre del 2002 e trasferito clandestinamente nel suo paese natale, dove morì di freddo il 20 del mese successivo in una prigione a nord di Kabul dopo essere stato sottoposto a ripetute torture.

Il secondo riguarda invece Manadel al-Jamadi, cittadino iracheno la cui vicenda emerse con lo scoppio dello scandalo degli abusi nel famigerato carcere di Abu Ghraib, in Iraq. Al-Jamadi morì per asfissia durante un interrogatorio il 4 novembre 2003, quando, con i polsi legati dietro la schiena e un sacco avvolto attorno alla testa, venne appeso alle sbarre di una finestra.

Ai responsabili di questi e altri episodi avvenuti sotto la presidenza Bush, il ministro di Obama ha voluto esprimere tutta l’ammirazione e la gratitudine del suo governo. Per Holder, gli “uomini e le donne della nostra comunità dell’intelligence…svolgono un servizio incredibilmente importante per il paese e lo fanno in circostanze difficili e pericolose”. Per questo, essi “meritano tutto il nostro rispetto”.

Anche il direttore della CIA, l’ex comandante delle forze di occupazione in Afghanistan e in Iraq, generale David Petraeus, si è unito al coro degli elogi, ringraziando l’agenzia che egli stesso dirige per la collaborazione mostrata verso gli investigatori del Dipartimento di Giustizia. Secondo i media americani, la CIA non avrebbe gradito l’indagine appena conclusa, anche se appare estremamente probabile che l’agenzia, se mai fosse stato necessario, abbia ricevuto rassicurazioni fin dall’inizio sul fatto che il procedimento non avrebbe portato a nulla di concreto.

Il messaggio lanciato da Holder con l’atteso epilogo dell’indagine è dunque chiaro. In primo luogo, coloro che hanno torturato e assassinato prigionieri accusati di terrorismo, così come quelli che hanno diretto e approvato tali metodi dall’alto - dal presidente Bush al suo vice, Dick Cheney, dall’ex direttore della CIA, George Tenet, ai consulenti del Dipartimento di Giustizia, John Yoo e Jay Bybee, i quali hanno redatto i pareri sulla legalità delle torture - non avranno nulla da temere per le loro azioni criminali. Inoltre, su queste stesse basi l’amministrazione Obama intende proseguire le medesime politiche relative alla sicurezza che calpestano ogni regola democratica e i più fondamentali diritti civili.

L’indagine che Holder ha dichiarato chiusa giovedì scorso era iniziata nel gennaio 2008, quando l’amministrazione Bush diede incarico al noto procuratore federale John Durham di fare luce sulla distruzione nel 2005 da parte della CIA delle registrazioni che documentavano l’uso di torture durante gli interrogatori di sospettati di terrorismo. Tra di essi spiccava quello di Abu Zubaydah, cittadino saudita rinchiuso a Guantanamo da dieci anni senza accuse formali e sottoposto per 83 volte a “waterboarding” in un solo mese e ad altre forme di “tecniche di interrogatorio potenziate”.

In realtà, solo nell’agosto del 2009 Eric Holder ampliò le competenze di Durham, affidandogli il compito di indagare su un centinaio di maltrattamenti di detenuti sotto custodia della CIA. Nel 2010, Durham decise che non sarebbe stato aperto alcun procedimento legale per la distruzione delle registrazioni e, nel giugno dello scorso anno, che sul fronte delle torture solo i due casi già ricordati sarebbero stati oggetto di indagine. Anche questa minima parte dei casi portati all’attenzione del Dipartimento di Giustizia ha però finito per essere archiviata, confermando come l’intera operazione non sia stata altro che un colpo di spugna per nascondere ogni prova di colpevolezza.

Sostenendo fin dall’inizio del suo mandato di voler “guardare avanti”, senza fare i conti con i crimini del suo predecessore, d’altra parte, il presidente Obama e il suo gabinetto hanno sempre posto il segreto di stato nelle cause intentate nei confronti dei responsabili materiali e dei mandanti delle torture.

Un certo zelo nell’avviare azioni legali, in realtà, l’amministrazione democratica l’ha dimostrato, ma nei confronti di coloro che hanno rivelato gli abusi del governo. Uno degli esempi più clamorosi è quello dell’ex analista della CIA, John Kiriakou, primo “insider” ad ammettere pubblicamente l’uso di metodi di tortura negli interrogatori e attualmente sotto processo secondo il dettato dell’Espionage Act per aver rivelato informazioni riservate.

Probabilmente non a caso, l’annuncio di Holder è giunto in concomitanza con il discorso di accettazione della nomination di Mitt Romney nell’ultimo giorno della convention repubblicana di Tampa, in Florida. Come ha fatto notare il New York Times, la decisione di archiviare ogni accusa contro gli agenti della CIA ha l’obiettivo di “rimuovere un possibile bersaglio per i repubblicani durante la campagna per le elezioni presidenziali”. Obama, cioè, ha voluto mandare un altro segnale di fiducia all’establishment della sicurezza nazionale, evitando allo stesso tempo di essere accusato di debolezza dai rivali repubblicani sulle questioni legate all’anti-terrorismo.

Come previsto, la decisione annunciata da Holder ha suscitato le critiche durissime delle associazioni a difesa dei diritti civili. L’American Civil Liberties Union, ad esempio, ha definito “vergognosa” la condotta dell’amministrazione Obama nella difesa dei responsabili dei crimini commessi in nome della guerra al terrore. Per Human Rights Watch, invece, la mancata apertura di un procedimento legale priva gli Stati Uniti “di qualsiasi credibilità nei confronti di altri paesi” chiamati a rispondere delle torture e dei maltrattamenti di cui si rendono responsabili i loro governi.

di Michele Paris

Qualche giorno fa, il Servizio di Ricerca del Congresso americano (CRS) ha pubblicato il suo rapporto annuale sul mercato delle armi nel mondo, evidenziando come le aziende statunitensi abbiano registrato una clamorosa impennata delle vendite durante l’anno 2011. Queste multinazionali hanno infatti triplicato la loro performance rispetto al 2010, in gran parte grazie agli sconvolgimenti che hanno attraversato il mondo arabo, minacciando gli interessi strategici di Washington e dei suoi alleati in Medio Oriente.

Nel solo 2011, i contratti per la vendita di armi conclusi dalle compagnie americane sono ammontati a 66,3 miliardi di dollari. L’enormità della cifra risulta evidente dal confronto con l’anno precedente, quando il totale fu di “appena” 21,4 miliardi. Il quasi monopolio delle armi USA risulta evidente poi dal fatto che esse nel 2011 hanno coperto addirittura il 77,7% del mercato mondiale, pari a 85,3 miliardi di dollari.

Secondo il CRS, la quantità di accordi di vendita siglati dai produttori di armi d’oltreoceano nel 2011 rappresenta un primato assoluto, dal momento che la cifra più alta per un singolo anno era stata fatta segnare nel 2008 con 38,2 miliardi di dollari. Lo strapotere americano in questo ambito risulta chiaro anche dal margine enorme sul più immediato rivale, la Russia, che l’anno scorso si è assicurata contratti per 4,8 miliardi, vedendosi quasi dimezzata la propria quota del mercato mondiale di armi (5,6%).

Oltre agli Stati Uniti, solo la Francia ha fatto segnare un aumento delle vendite nel 2011, mentre tutti gli altri esportatori sono risultati in flessione. Le aziende francesi si sono accaparrate accordi di vendita per 4,4 miliardi, contro un totale di 1,8 miliardi nel 2010. Complessivamente, tuttavia, i primi quattro esportatori europei di armi - Francia, Gran Bretagna, Germania e Italia - hanno visto la propria fetta di mercato scendere dal 12,2% del 2010 al 7,2% del 2011.

Le cause dei cambiamenti prodotti nelle dinamiche del mercato delle armi durante l’anno 2011, cioè in primo luogo le necessità geo-strategiche di Washington, sono facilmente identificabili osservando i principali destinatari delle esportazioni. Infatti, a spingere verso l’alto le vendite sono stati soprattutto i contratti firmati dalle compagnie americane con l’Arabia Saudita (33,7 miliardi di dollari).

Il più repressivo regime mediorientale, stretto alleato degli Stati Uniti, ha dato il via ad una vera e propria corsa agli armamenti di fronte alla minaccia del contagio della Primavera Araba all’interno dei propri confini. Inoltre, il massiccio investimento in equipaggiamenti militari è la diretta conseguenza dell’aumento delle tensioni con il principale rivale regionale di Riyadh, l’Iran, contro il quale appare sempre più probabile un’aggressione da parte di Israele e Stati Uniti.

La lista della spesa saudita comprende 84 aerei da guerra F-15, decine di elicotteri e svariate attrezzature militari che faranno schizzare i profitti di aziende come Boeing e United Technologies. Altra miniera d’oro per le compagnie USA in Medio Oriente sono poi gli Emirati Arabi Uniti, la cui casa regnante, per gli stessi motivi che hanno animato lo zelo saudita nell’acquisto di armi, ha stanziato 4,5 miliardi, assicurandosi tra l’altro un sofisticato sistema di difesa missilistico realizzato da Lockheed Martin.

L’esplosione della vendita di armi americane nel Golfo Persico rivela anche l’ipocrisia delle accuse nei confronti del programma nucleare iraniano, continuamente dipinto come una minaccia contro i paesi della regione. Il totale degli armamenti USA venduti ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi nel 2011 supera infatti di quasi sei volte l’intero budget militare della Repubblica Islamica per lo stesso anno.

Le ragioni della politica estera americana giustificano anche la presenza di India e Taiwan in cima alla lista dei principali beneficiari di armi a stelle e strisce. Dopo l’Arabia Saudita, Nuova Delhi è il più importante mercato delle armi statunitensi con 6,9 miliardi di contratti già conclusi. L’India, non a caso, rappresenta per Washington uno dei baluardi della propria strategia di contenimento dell’espansionismo cinese nel continente asiatico. Una provocazione nei confronti di Pechino può essere considerata anche la tradizionale assistenza militare fornita dagli USA a Taiwan, concretizzatasi nel 2011 con l’acquisto di batterie anti-missili del valore di 2 miliardi di dollari.

La trama che emerge dalla ricerca del CRS conferma ancora una volta l’intreccio tra le motivazioni economiche delle multinazionale americane delle armi e gli obiettivi strategici del governo di Washington in ogni angolo del pianeta. Questa situazione comporta una profondissima influenza dell’industria bellica sulla politica statunitense, che si traduce a sua volta in un militarismo sempre più marcato a livello internazionale, ma anche in un drammatico restringimento dei diritti democratici sul piano domestico.

Nonostante l’impopolarità dell’apparato militare e delle scelte di politica estera di Washington, infine, l’industria bellica americana continua a godere anche di consistenti sussidi da parte del governo federale. Queste sovvenzioni, pagate dai contribuenti, consentono alle multinazionali statunitensi di dominare il mercato mondiale e di assicurarsi profitti da capogiro, proprio mentre i politici di entrambi gli schieramenti ripetono incessantemente che non esistono più fondi disponibili per finanziare programmi pubblici ormai ridotti all’osso.

di Michele Paris

La cancelliera Angela Merkel ha iniziato giovedì una visita di due giorni in Cina, dove, a conferma dei rapporti economici sempre più intensi con Pechino, è giunta assieme a una nutritissima delegazione politica e di uomini d’affari tedeschi. Di fronte ad un’area euro tuttora in grave affanno, le opportunità commerciali in Oriente sembrano giocare infatti un ruolo ormai fondamentale per la Germania e le proprie aziende, influendo in maniera significativa anche sulle scelte di politica estera del governo di Berlino.

Quella in corso è la seconda visita del 2012 in Cina per la Merkel e addirittura la sesta da quando ha assunto la guida del proprio paese. Nella due giorni cinese, il capo del governo tedesco incontrerà le massime autorità del regime di Pechino, inclusi il presidente, Hu Jintao, il premier, Wen Jiabao, e il suo vice, nonché prossimo successore, Li Keqiang. Proprio il primo ministro cinese, secondo quanto riportato da fonti tedesche, avrebbe chiesto esplicitamente la visita della Merkel, così da discutere delle più importanti questioni bilaterali prima dell’avvicendamento previsto a breve ai vertici del Partito Comunista.

I temi da trattare sono in primo luogo quelli economici, compresa la crisi del debito sovrano in Europa, e a farlo con la Merkel ci sono sette membri del suo governo e una ventina di dirigenti di grandi aziende tedesche alla ricerca di nuove opportunità d’affari in Cina. L’impegno di Berlino in questa visita riflette la consistenza dei rapporti bilaterali, evidenziati dai dati ufficiali che indicano come le esportazioni tedesche verso la Cina siano aumentate di oltre il 200 % tra il 2005 e il 2011. Per dare un’idea dell’aumentata importanza del mercato cinese per Berlino, basti ricordare che nello stesso periodo di tempo le esportazioni verso i paesi UE sono salite del 24% e verso gli Stati Uniti di appena il 6,3%.

Nel 2011, la Cina è risultata essere il quarto mercato in assoluto per l’export germanico, dopo Francia, Olanda e Stati Uniti. La Cina dovrebbe inoltre salire al secondo posto entro la fine del 2012, mentre nel 2010 era ancora al settimo. Il totale degli scambi commerciali tra Cina e Germania ha toccato i 145 miliardi di euro lo scorso anno, facendo segnare un aumento di quasi il 19% rispetto al 2010. I settori con la maggiore crescita sono quelli della chimica, delle macchine industriali e dell’automotive. A indicare una certa disparità nei rapporti tra Berlino e Pechino sono gli investimenti diretti, dal momento che quelli tedeschi in Cina ammontavano a 26 miliardi di euro nel 2011, contro appena 1,2 miliardi di quelli cinesi in Germania.

Le sempre più strette relazioni sino-germaniche hanno però creato, come in altri paesi, malumori e divisioni all’interno delle élite economiche tedesche, poiché tali sviluppi favoriscono alcuni settori  a discapito di altri. Per questo, ad esempio, alcuni manager tedeschi si sono lamentati con il loro governo per il vantaggio in termini di competitività di cui godrebbero le aziende cinesi, favorite dall’appoggio dello Stato.

Un’altra questione controversa è quella del rispetto dei brevetti e della proprietà intellettuale, avanzata soprattutto dalle aziende tedesche di medie dimensioni, le quali costituiscono peraltro i tre quarti delle circa 5.000 che operano in Cina. Queste ultime si sono lamentate anche del fatto che la cancelliera ha portato con sé a Pechino solo i rappresentanti delle grandi multinazionali (SAP, Siemens, ThyssenKrupp, Volkswagen), delle quali il governo di Berlino promuoverebbe gli esclusivi interessi e le possibilità di crescita in Cina.

Già nella giornata di giovedì, infatti, è stata annunciata la firma di un contratto di fornitura di 50 aerei Airbus del valore di 4 miliardi di dollari tra il governo cinese e il gruppo aerospaziale franco-tedesco EADS. Inoltre, è stato siglato un ulteriore accordo da 1,6 miliardi di dollari per ampliare la linea di assemblaggio degli Airbus A320 nella località di Tianjin, dove la stessa Merkel si recherà nel corso della sua visita.

La centralità del mercato cinese per l’economia tedesca fa in modo che le più scottanti questioni politiche e le divergenze tra i due paesi rimangano fuori dagli argomenti trattati in questi due giorni. Ugualmente ignorate dalla cancelliera saranno anche le violazioni dei diritti umani in Cina. Ben lontani sono d’altra parte i tempi in cui, come nel 2007, il Dalai Lama veniva ricevuto dalla Merkel a Berlino. Quest’ultima, in ogni caso, non sembra essere nella posizione di impartire lezioni di democrazia a nessun paese, visto il trattamento riservato dal suo governo alla Grecia, dove, nell’ambito della crisi del debito, sono state imposte condizioni durissime senza alcun riguardo per le regole democratiche o il volere della popolazione.

Come già ricordato, i legami economici tra Berlino e Pechino si traducono in un certo avvicinamento anche sul piano politico, come dimostra ad esempio il lancio, avvenuto nel 2011, delle prime consultazioni bilaterali tra i due governi. Quest’ultimo è un meccanismo di comunicazione diretta tra i due gabinetti che, al di fuori dell’Unione Europea, Berlino aveva fino ad allora creato solo con paesi come Israele e India.

Alleata di ferro degli Stati Uniti fin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, la Germania negli ultimi anni si trova a dover fronteggiare il dilemma - condiviso con molti altri paesi, soprattutto del sud-est asiatico - di aprirsi a rapporti più stretti con Pechino proprio mentre Washington sta mettendo in atto una politica sempre più aggressiva di contenimento dell’espansionismo cinese.

I segnali inequivocabili di un qualche incrinamento del rapporto di fedeltà assoluta agli Stati Uniti sono giunti, tra l’altro, nel marzo del 2011, quando Berlino decise di astenersi durante il voto sulla risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che diede il via libera all’intervento militare NATO in Libia per rovesciare Gheddafi. In quell’occasione, la Germania si mostrò inizialmente contraria all’intervento militare, allineandosi di fatto con Cina e Russia.

Gli equilibri nel governo tedesco rimangono però tuttora precari su una questione così delicata, come dimostra l’approccio alla crisi siriana, attorno alla quale da Berlino sono giunte ripetute critiche all’utilizzo del potere di veto di Pechino e Mosca sulle varie risoluzioni presentate al Consiglio di Sicurezza per avallare una nuova aggressione militare in Medio Oriente in nome dei diritti democratici.

Al di là delle singole questioni, la classe dirigente tedesca appare dunque attraversata da profonde divisioni circa il posizionamento del proprio paese sullo scacchiere internazionale. Divisioni che, oltretutto, in una fase di grandi cambiamenti economici su scala globale diventeranno ancora più marcate man mano che la crescente rivalità tra Stati Uniti e Cina spingerà Berlino nella scomoda posizione di dover scegliere, senza ambiguità, da quale parte schierarsi.

di Michele Paris

In ritardo di un giorno a causa dell’arrivo dell’uragano Isaac, la convention repubblicana ha inaugurato martedì a Tampa, in Florida, la tre giorni che si chiuderà con il discorso di accettazione della nomination per la Casa Bianca da parte di Mitt Romney. Al di là delle celebrazioni ufficiali, il tradizionale evento quadriennale vivrà i suoi momenti più importanti in quella che il New York Times ha definito una “convention parallela”, nella quale “politici eletti, delegati e membri del partito offrono a corporation, gruppi di interesse e lobbisti la possibilità di promuovere i loro interessi”.

Il costo complessivo stimato per la convention repubblicana di quest’anno è di 73 milioni di dollari, mentre quella democratica, in programma settimana prossima a Charlotte, in North Carolina, sarà di 55 milioni. Le convention sono in parte finanziate dai versamenti volontari dei contribuenti americani, così che la Commissione Federale Elettorale per il 2012 ha versato ad ognuno dei due partiti più di 18 milioni di dollari in fondi pubblici. Il Congresso, a sua volta, di milioni ne ha stanziati 50 per far fronte alle spese legate alla sicurezza nelle due città che ospitano le convention. Il resto del denaro arriva infine da ricchi finanziatori, dal momento che la legge USA vieta per questo genere di eventi donazioni dirette da parte di corporation o organizzazioni sindacali.

Sul versante democratico, il partito del presidente Obama ha stabilito un codice di autoregolamentazione che fissa a 100 mila dollari il tetto per i contributi individuali durante la convention di Charlotte. Il Partito Democratico ha però creato un’apposita organizzazione “no-profit” (New American City) che, sfruttando le scappatoie permesse dalle regole elettorali, accetterà donazioni senza limiti anche dalle grandi aziende.

Le differenze tra i due partiti, d’altra parte, sono in gran parte solo apparenti. Mentre i repubblicani si presentano apertamente come il partito dei grandi interessi economici e finanziari, da cui accettano senza riserve il sostegno e i contributi, i democratici adottano invece una strategia all’insegna dell’ambiguità. Se da un lato, cioè, pretendono di volere tenersi alla larga dalle grandi corporation per non alienare una parte fondamentale del proprio elettorato, il Partito Democratico ne riceve il pieno appoggio, sia pure in maniera più discreta.

 Dal momento che, come ha scritto settimana scorsa il Wall Street Journal, le convention quadriennali hanno di fatto perso da tempo la propria funzione e i candidati alla presidenza vengono decisi molti mesi prima, gli eventi organizzati sul finire dell’estate dai due partiti servono allora per dare visibilità mediatica agli sfidanti per la Casa Bianca e, soprattutto, per offrire un’occasione ai rispettivi finanziatori di entrare in contatto con i membri del partito.

Quasi sempre lontano dai riflettori, così, a margine del programma ufficiale vanno in scena eventi esclusivi, durante i quali i ricchi finanziatori e le grandi aziende possono avanzare i propri interessi. Tra gli eventi sponsorizzati questa settimana dalle corporation che sostengono il Partito Repubblicano a Tampa spiccano ad esempio quelli di Anheuser-Busch, storica azienda del Missouri nota soprattutto per la birra Budweiser, del colosso farmaceutico Merck & Co., e dell’hedge fund Elliott Management Corporation, il cui fondatore, Paul Singer, ha già donato un milione di dollari ad un’organizzazione che sostiene la campagna di Romney.

A Tampa sono accorsi anche i principali media d’oltreoceano, alcuni dei quali organizzeranno incontri assieme alle stesse corporation. Uno di questi è la testata on-line Politico.com che, come ha scritto l’Associated Press, per tutta la settimana della convention terrà una “Nightly Lounge”, da riproporre poi tra pochi giorni a Charlotte, co-sponsorizzata da compagnie come BAE Systems, Intel e Coca-Cola.

BAE Systems è una multinazionale britannica che opera nel settore aerospaziale e della difesa, nonché una delle dieci aziende che vantano il maggior numero di appalti pubblici ottenuti negli USA. Nel solo 2011, BAE Systems si è aggiudicata contratti con il governo di Washington per quasi 7 miliardi di dollari, nonostante sempre lo scorso anno abbia dovuto pagare una multa da 79 milioni per aver violato le leggi americane sull’esportazione di armi.

Intel, invece, ha già speso in questo ciclo elettorale 1,7 milioni di dollari in attività di lobby al Congresso per promuovere una legislazione fiscale che riduca le tasse che gravano sulle corporation. Allo stesso scopo anche Coca-Cola ha sborsato finora 2,8 milioni di dollari, denaro che dovrebbe servire anche a garantire che nelle mense scolastiche americane si continui a vendere la bevanda di propria produzione.

Tradizionalmente legata al Partito Repubblicano, anche l’industria petrolifera è molto attiva a Tampa, tramite l’associazione di categoria American Petroleum Institute, impegnata nel promuovere la propria campagna “Vote 4 Energy”. Quest’ultima è stata lanciata qualche mese fa per ottenere, tra l’altro, l’approvazione a Washington dell’oleodotto Keystone XL – che dovrebbe collegare il Canada al Texas passando attraverso una falda acquifera in Nebraska e Oklahoma – e l’espansione delle trivellazioni sul suolo americano.

L’influenza maggiore sulla politica d’oltreoceano è esercitata però dall’industria finanziaria. L’associazione che rappresenta le banche di Wall Street, Financial Services Roundtable, ha perciò un ricco programma di eventi questa settimana e la sua presenza indica il cambiamento dell’atmosfera politica negli USA rispetto al 2008, quando il malcontento popolare nei confronti dei colossi finanziari era tale da convincere i due partiti della necessità di prendere le distanze nei loro confronti.

Tra le altre potenti corporation che hanno deciso di sponsorizzare la convention repubblicana spiccano infine anche Chevron, Microsoft e Volkswagen. Tutti gli eventi che consentiranno l’incontro tra esponenti politici repubblicani, lobbisti e rappresentanti delle più grandi aziende statunitensi, vengono invariabilmente presentanti come occasioni per promuovere la crescita economica o le libertà democratiche.

Lo stesso candidato alla presidenza, Mitt Romney, secondo il Wall Street Journal, prima di accettare la nomination presiederà un club esclusivo di 1.500 finanziatori repubblicani che hanno raccolto per la campagna in corso almeno 250 mila dollari ciascuno. Altri lussuosi “benefit” sono previsti poi per un gruppo di finanziatori definito “Consiglio dei 100”, formato da coloro che si sono impegnati a raccogliere almeno un milione di dollari.

Come ha commentato il New York Times qualche giorno fa, le pratiche che vanno in scena durante le convention dei due partiti sono tutt’altro che aberrazioni o anomalie del sistema a cui si assiste ogni quattro anni, bensì riflettono quanto accade quotidianamente a Washington, dove l’influenza dell’élite economica e finanziaria sul sistema politico americano è ormai al di fuori di ogni controllo.

Nonostante corporation e grandi banche abbiano investito massicciamente su entrambi i partiti, la loro preferenza in questa tornata elettorale va decisamente a quello Repubblicano. A confermarlo sono anche le cifre relative ai finanziamenti raccolti finora dai due candidati. Al 31 luglio, infatti, Romney aveva a disposizione poco meno di 186 milioni di dollari, contro i 127 di Obama. Inoltre, circa il 71% delle donazioni andate finora al miliardario mormone sono state fatte da individui che hanno sborsato almeno mille dollari, una percentuale che scende significativamente al 30% per l’attuale inquilino della Casa Bianca.

 

di Michele Paris

Una serie di vertici ad alto livello e di dichiarazioni ufficiali negli ultimi giorni hanno prospettato un prossimo intervento militare esterno da parte degli USA o dei loro alleati in Medio Oriente per rovesciare il regime di Bashar al-Assad e, apparentemente, cercare di risolvere la crisi in Siria. I segnali più significativi in questo senso sono giunti nuovamente dalla Turchia, dove, dopo la recente visita di Hillary Clinton, l’amministrazione Obama ha inviato nei giorni scorsi l’assistente al Segretario di Stato per il Vicino Oriente, Beth Jones, e alcuni esponenti dell’intelligence per pianificare i dettagli di un’operazione militare contro Damasco.

La posizione sempre più aggressiva di Washington è stata poi ribadita lunedì dallo stesso presidente Obama, il quale in una conferenza stampa alla Casa Bianca ha affermato per l’ennesima volta che Assad ha perso ogni legittimità a governare il proprio paese e deve quindi andarsene al più presto, poiché ormai non sussistono più le condizioni per una transizione politica concordata con le forze di opposizione.

Per Obama, l’impegno americano per il momento rimarrà di natura “umanitaria”, vale a dire che gli Stati Uniti continueranno a sostenere, finanziare e armare i ribelli anti-Assad. Secondo il presidente democratico, tuttavia, c’è una “linea rossa” che la Siria non deve oltrepassare e, cioè, l’utilizzo contro i civili delle armi chimiche di cui disporrebbe. Quest’ultimo scenario, così come l’eventualità in cui tali armi cadessero nelle mani sbagliate, costringerebbe gli USA a intervenire militarmente.

In sostanza, dal momento che Washington non riuscirà ad ottenere il via libera ad un attacco militare contro la Siria dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU a causa delle resistenze di Russia e Cina, le parole di Obama confermano come si stia studiano una soluzione che permetta di agire anche senza il mandato delle Nazioni Unite. L’occasione che permetterebbe tale scorciatoia sembra essere sempre più la necessità di mettere al sicuro il presunto arsenale di armi chimiche del regime di Damasco, oppure di prevenirne l’uso.

I piani di Washington sono stati in parte confermati recentemente da fonti del Dipartimento della Difesa citate dal Los Angeles Times. Il Pentagono avrebbe infatti già redatto un piano d’azione per inviare sul campo in Siria le proprie forze speciali con il compito di rispondere ad “una effettiva minaccia di guerra chimica”. L’operazione non verrebbe in ogni caso intrapresa dagli USA unilateralmente, riporta il quotidiano californiano, ma farebbe parte di uno “sforzo internazionale” coordinato con gli alleati europei e mediorientali.

Secondo i servizi di intelligence occidentali, come hanno riportato i media in questi mesi, la Siria disporrebbe di un certo numero di armi chimiche, come quelle al gas nervino (Sarin e VX) o all’iprite, stoccate in cinque depositi, situati anche in località gravemente colpite dagli scontri di questi mesi, come Hama e Homs. Nel sito di Cerin, inoltre, sorgerebbe un centro di ricerca e produzione di armi biologiche.

Il programma siriano per la costruzione di armi chimiche sarebbe iniziato negli anni Ottanta, grazie alla collaborazione con l’Unione Sovietica, per ridurre parzialmente il divario con il potenziale militare di Israele. Le notizie sono però incerte, dal momento che la Siria non è firmataria della Convenzione sulle Armi Chimiche del 1993 e perciò non è tenuta a dichiararne l’eventuale possesso.

La posizione di Damasco è stata finora quella di negare più o meno apertamente il possesso di queste armi, attribuendo le varie indiscrezioni alla propaganda occidentale. Il 23 luglio scorso è arrivata tuttavia una dichiarazione ufficiale che è stata universalmente interpretata come un’ammissione indiretta dell’esistenza di un arsenale chimico in Siria. Quel giorno, infatti, il portavoce del ministero degli Esteri, Jihad Makdissi, ha affermato che eventuali armi di distruzione di massa (WMD) della Siria non verrebbero mai usate contro i propri cittadini bensì solo in caso di invasione esterna.

L’accusa da parte di Washington ad un governo sgradito di possedere o voler utilizzare WMD non è d’altra parte nuova e il precedente più importante e rovinoso è ovviamente quello dell’invasione dell’Iraq del 2003 dopo una deliberata campagna di disinformazione orchestrata dall’amministrazione Bush. Ironicamente, Barack Obama vinse le elezioni presidenziali del 2008 proponendosi come il candidato che più si era opposto alla guerra contro il regime di Saddam Hussein, mentre ora è ad un passo dallo scatenare un nuovo conflitto in Medio Oriente sulla base di quelle stesse menzogne diffuse più di nove anni fa dal suo predecessore per operare un cambio di regime a Baghdad.

Inoltre, Obama e gli uomini a lui vicini, anche grazie ai media, parlano come se l’opinione pubblica fosse all’oscuro dei fatti che stanno accadendo in Siria. Quando cioè il presidente sostiene di voler evitare che le armi chimiche siriane finiscano nelle mani sbagliate si riferisce ai gruppi estremisti attivi da tempo in Siria. Questi stessi gruppi legati ad Al-Qaeda, tuttavia, sono sostenuti direttamente o indirettamente proprio dagli Stati Uniti e dai loto alleati, i quali li ritengono utili in questa fase della crisi per dare una spallata ad Assad che, di fronte alle sole forze ribelli sunnite, in gran parte disorganizzate e indisciplinate, avrebbe garantita una lunga permanenza al potere.

In altre parole, mentre è stata precisamente la politica americana di destabilizzazione nei confronti di Damasco a gettare le basi per l’afflusso in Siria di operativi di Al-Qaeda dai paesi vicini, gli USA affermano ora che il timore che questi stessi estremisti possano entrare in possesso di armi di distruzione di massa potrebbe spingerli ad intervenire militarmente.

Una simile posizione, oltretutto, fornisce credito a quanto ripetuto fin dallo scorso anno da Assad, secondo il quale le sue forze di sicurezza stanno combattendo dei terroristi armati e non civili siriani che si battono per la democrazia. Rigorosamente allineati alla propaganda dei governi occidentali e dei regimi sunniti del Golfo, però, i media “mainstream” si astengono dal sottolineare tale contraddizione.

La retorica di Obama e degli altri leader impegnati sul fronte anti-Assad nasconde a malapena la vera ragione che li spinge ad appoggiare i ribelli siriani, anche se pesantemente infiltrati da membri di Al-Qaeda, e cioè la volontà di rimuovere con la forza il regime di Damasco, tassello fondamentale per l’asse di resistenza mediorientale che comprende anche l’Iran e Hezbollah in Libano. Ciò che guida la politica statunitense sono dunque esclusivamente i propri interessi nella regione, da perseguire anche con una nuova guerra, senza alcun riguardo per gli effetti devastanti che avrebbe su una popolazione civile già duramente provata o per la quasi certa esplosione di un conflitto settario le cui avvisaglie si stanno da qualche tempo osservando drammaticamente in Libano.

La questione delle armi chimiche, possibile casus belli per giustificare un’aggressione contro Assad, è stata discussa intanto anche mercoledì nel corso di un colloquio telefonico tra Obama e il premier britannico, David Cameron. La conversazione è stata ben propagandata dai media che stanno contribuendo allo sforzo dei governi occidentali di preparare l’opinione pubblica per un prossimo attacco contro la Siria.

I due leader hanno concordato nell’affermare che l’uso o la minaccia dell’uso di WM da parte di Damasco è “del tutto inaccettabile”, perciò una tale mossa da parte di Assad li “obbligherebbe a rivedere l’approccio mantenuto finora” sulla crisi siriana.

Queste dichiarazioni allarmate si scontrano con quanto riportato invece dal quotidiano russo Kommersant, secondo il quale il Cremlino ritiene che la Siria non abbia alcuna intenzione di usare armi chimiche nel conflitto interno e che il governo è in grado di proteggere adeguatamente il proprio arsenale.

Rassicurazioni in questo senso la Russia le avrebbe ricevute nel corso di “colloqui confidenziali” con le autorità di Damasco. Lo stesso punto lo ha ribadito poi venerdì anche il vice-ministro degli Esteri russo, Gennady Gatilov, in un’intervista alla Associated Press. Quest’ultimo ha affermato che le autorità siriane stanno collaborando con Mosca per mantenere le armi chimiche al sicuro ed esse rimarranno negli attuali siti che le ospitano.

Il pretesto delle armi chimiche ha come previsto provocato l’ulteriore irrigidimento dei governi vicini a Damasco, a cominciare dalla Cina, aumentando le probabilità di un coinvolgimento delle principali potenze del pianeta in un eventuale conflitto. Nella giornata di mercoledì, infatti, l’agenzia di stampa di Pechino, Xinhua, ha pubblicato un duro editoriale che sembra riflettere il pensiero dei vertici del regime.

L’articolo critica apertamente Obama, accusato di aver utilizzato la presunta pianificazione da parte della Siria dell’uso di WMD come giustificazione per intervenire militarmente. Per Xinhua le parole di Obama sono “pericolosamente irresponsabili”, poiché potrebbero causare un aggravamento della situazione in Siria e allontanare ulteriormente le residue possibilità di trovare una soluzione pacifica alla crisi.

Le accuse cinesi all’amministrazione Obama si allargano fino a comprendere l’intera strategia americana in Medio Oriente e altrove, dal momento che gli Stati Uniti, “con il pretesto dell’intervento umanitario, hanno sempre cercato di rovesciare governi considerati come una minaccia ai propri interessi nazionali per rimpiazzarli con altri meglio disposti” nei loro confronti. Questo, avverte Pechino, è il copione che Washington sta seguendo anche in Siria, dove l’obiettivo ultimo è il cambio di regime, da ottenere con o senza il via libera della comunità internazionale.


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