di Michele Paris

Con il ritiro qualche giorno fa della candidatura a Segretario di Stato dell’attuale ambasciatrice USA alle Nazioni Unite, Susan Rice, il presidente Obama sembra vicinissimo ad assegnare la guida della diplomazia americana al senatore del Massachusetts, John Kerry. Il candidato alla Casa Bianca per il Partito Democratico nel 2004, vista la sua esperienza e il rispetto guadagnato tra i colleghi del Senato, appare come una scelta sicura per la successione a Hillary Clinton, anche se sarà da verificare fino a che punto il suo presunto pragmatismo nell’approccio alle questioni internazionali riuscirà a modellare la politica estera degli Stati Uniti nei prossimi quattro anni.

La prima scelta di Obama per la Segreteria di Stato era appunto la delegata di Washington presso il Palazzo di Vetro di New York, la quale però si è vista costretta giovedì scorso ad inviare una lettera alla Casa Bianca nella quale ha comunicato la propria rinuncia ad un eventuale incarico. Susan Rice è infatti da tempo sotto il fuoco incrociato del Partito Repubblicano per le dichiarazioni rilasciate subito dopo l’assalto al consolato americano di Bengasi, in Libia, l’11 settembre scorso, che costò la vita all’ambasciatore, J. Christopher Stevens, e ad altri tre cittadini statunitensi.

Le accuse alla Rice, rivolte in particolare dai senatori repubblicani John McCain e Lindsey Graham, erano iniziate dopo la sua apparizione in alcuni talk show televisivi nei giorni successivi ai fatti di Bengasi. Pubblicamente, la Rice aveva definito l’attacco al consolato e ad un annesso edificio segreto della CIA come la conseguenza spontanea delle proteste esplose nel mondo arabo in seguito alla diffusione sul web di un video amatoriale che irrideva il profeta Muhammad.

In realtà, ben presto divenne noto che l’episodio era una vera e propria azione terroristica studiata a tavolino e portata a termine da uno o più gruppi di ex “ribelli” libici legati ad Al-Qaeda, con i quali peraltro gli Stati Uniti e lo stesso ambasciatore Stevens avevano collaborato per rovesciare il regime di Gheddafi.

Secondo i repubblicani, la Rice aveva deliberatamente fuorviato l’opinione pubblica americana per favorire la rielezione di Obama, impegnato a propagandare i risultati della propria amministrazione nella lotta al terrorismo. Secondo la versione ufficiale del governo americano, invece, nelle sue dichiarazioni iniziali la Rice si era semplicemente basata su rapporti forniti dall’intelligence che avevano rimosso qualsiasi riferimento a possibili legami degli assalitori con Al-Qaeda.

Dal momento che il candidato ad assumere la guida del Dipartimento di Stato deve ottenere l’approvazione del Senato, e che anche un solo senatore può bloccare il processo di conferma, le polemiche seguite agli assassini di Bengasi minacciavano seriamente di ingolfare una nomina così importante e, soprattutto, di interferire con le già difficili trattative in corso tra democratici e repubblicani per raggiungere un accordo sul cosiddetto “fiscal cliff”.

Se fonti interne all’amministrazione Obama hanno assicurato che la Casa Bianca non ha avuto alcun ruolo nella rinuncia della Rice, è molto probabile al contrario che il presidente e il suo staff abbiano fatto pressioni sull’ambasciatrice all’ONU per farsi da parte volontariamente, così da evitare distrazioni e imbarazzi. Prolungate e accese audizioni per la conferma della Rice avrebbero potuto inoltre esporre particolari poco graditi sui torbidi rapporti intercorsi tra le milizie estremiste e gli Stati Uniti nel conflitto orchestrato per “liberare” la Libia e che si stanno ora riproponendo in Siria.

Oltre che dai repubblicani, la scelta di Susan Rice non era stata digerita nemmeno da molti nell’ala liberal del Partito Democratico a causa del suo atteggiamento all’insegna dell’arroganza nei rapporti con i diplomatici di altri paesi e per i legami che la ex funzionaria del Dipartimento di Stato durante la presidenza Clinton aveva instaurato con leader africani responsabili di crimini e repressioni varie, come il defunto premier dell’Etiopia, Meles Zenawi, o i presidenti di Ruanda e Uganda, Paul Kagame e Yoweri Museveni.

In questo scenario, la scelta di John Kerry, che salvo sorprese potrebbe essere annunciata ufficialmente già questa settimana, è sembrata essere la più logica, anche perché di fatto sponsorizzata apertamente da molti suoi colleghi repubblicani al Senato, i quali vedrebbero aprirsi così uno spiraglio per strappare un seggio ai democratici in rappresentanza dello stato del Massachusetts.

Secondo fonti interne alla Casa Bianca citate da alcuni giornali d’oltreoceano, le riserve che il presidente nutrirebbe tuttora nei confronti di Kerry deriverebbero esclusivamente dal fatto che con la nomina di quest’ultimo la sua amministrazione finirebbe per avere sempre meno donne o appartenenti a minoranze etniche al proprio interno. Al di là delle motivazioni puramente propagandistiche nella scelta di una donna di colore come Susan Rice al Dipartimento di Stato, è probabile che se riserve effettivamente sussistono da parte di Obama verso Kerry, esse dipendano piuttosto dalla relativa diversità di vedute tra i due candidati sulle questioni di politica estera.

Mentre la Rice, come Hillary Clinton, può essere ascritta alla categoria dei falchi della diplomazia a stelle e strisce, John Kerry viene considerato relativamente più moderato. In passato, ad esempio, pur affermando il legame indissolubile del suo paese con Israele, Kerry ha infatti criticato gli insediamenti illegali in Palestina, mentre relativamente all’Iran, nonostante abbia approvato tutte le sanzioni imposte dagli Stati Uniti, ha a volte evitato i toni estremisti di molti suoi colleghi riguardo alla questione del nucleare.

Quest’ultimo atteggiamento di Kerry, secondo i commentatori più ottimisti, potrebbe indicare perciò una certa volontà di dialogo con Teheran da parte di Obama. Un altro segnale in questo senso potrebbe essere la scelta dell’ex senatore repubblicano del Nebraska, Chuck Hagel, per sostituire Leon Panetta al Dipartimento della Difesa. Anche Hagel è noto per le sue posizioni decisamente più moderate in politica estera rispetto agli standard del Partito Repubblicano e, in particolare, sull’Iran ha frequentemente espresso profondi dubbi circa l’opportunità di un intervento militare, così come la necessità di risolvere la crisi con il dialogo.

Se le nomine di John Kerry e Chuck Hagel non sono ancora del tutto certe è dovuto forse anche a qualche timore che essi suscitano in Israele. Queste preoccupazioni sono state espresse chiaramente da un recente articolo del quotidiano conservatore israeliano, Jerusalem Post, secondo il quale Kerry e Hagel - rispettivamente al Dipartimento di Stato e al Pentagono - non sarebbero esattamente la scelta preferita dal governo di Tel Aviv.

Kerry, in ogni caso, è un sostenitore della prima ora di Barack Obama e il presidente democratico nel corso del suo primo mandato lo ha spedito varie volte all’estero per risolvere alcune situazioni spinose, bypassando il Segretario di Stato Clinton. Dopo le elezioni presidenziali del 2009 in Afghanistan, seguite da una valanga di accuse di brogli nei confronti di Hamid Karzai, Kerry si recò ad esempio a Kabul per convincere quest’ultimo ad acconsentire almeno ad un secondo turno di ballottaggio. Allo stesso modo, dopo il raid che portò all’assassinio di Osama bin Laden nel maggio 2011, il 69enne senatore democratico cercò di placare le proteste delle autorità del Pakistan durante una visita prolungata in questo paese.

Se l’insuccesso della candidatura a Segretario di Stato di Susan Rice, alla luce soprattutto della sua incessante campagna per la promozione degli interessi americani nel mondo dietro la retorica degli interventi “umanitari”, non può che essere accolto positivamente, l’eventuale conferimento della responsabilità della diplomazia USA a John Kerry non sarà in ogni caso garanzia di una svolta sostanziale nella politica estera dell’amministrazione Obama.

Oltre al fatto che la Rice continuerà per ora ad occupare il posto di ambasciatrice all’ONU e che, secondo indiscrezioni, potrebbe presto addirittura diventare la consigliera del presidente per la Sicurezza Nazionale, ad ispirare le decisioni del nuovo numero uno del Dipartimento di Stato continueranno ad essere sempre e comunque le ragioni dell’imperialismo americano.

di Michele Paris

Rispettando le previsioni fornite dai sondaggi nelle ultime settimane, le elezioni per il rinnovo della Camera bassa della Dieta (Parlamento) giapponese hanno fatto registrare domenica una umiliante sconfitta per il partito di centro-sinistra al governo dal 2009. La vera e propria disfatta del Partito Democratico (DPJ) dell’impopolare premier Yoshihiko Noda ha consentito così il trionfo e il ritorno al potere del Partito Liberal Democratico (LDP), il quale, nonostante l’appoggio tutt’altro che entusiastico degli elettori nipponici, potrà ora disporre di una vastissima maggioranza per imprimere una netta sterzata a destra delle politiche del paese, sia sul fronte domestico che su quello estero.

I risultati finali del voto anticipato hanno assegnato al DPJ 294 seggi sui 480 in palio. Assieme al fedele alleato, il partito conservatore di ispirazione buddista Nuovo Komeito, il DPJ potrà contare su una super-maggioranza di due terzi dei seggi totali, con la possibilità di superare eventuali veti posti dalla Camera alta, per il cui rinnovo si voterà comunque a luglio, sulla legislazione approvata da quella bassa.

La prestazione del DPJ ha assunto al contrario le proporzioni di un tracollo, con appena 59 seggi conquistati contro i 308 del 2009. Il DPJ rimane il secondo partito in Parlamento ma con un margine di soli 4 seggi sul neonato Partito per la Restaurazione del Giappone, fondato dal giovane e populista sindaco di Osaka, Toru Hashimoto. Quest’ultima formazione nutriva in realtà ambizioni maggiori ma il poco tempo a disposizione per la campagna elettorale, assieme ad una certa confusione prodotta da un’alleanza siglata in extremis con l’ex governatore di estrema destra dell’area metropolitana di Tokyo, l’80enne Shintaro Ishihara, ha probabilmente finito per offuscare l’immagine di partito del cambiamento agli occhi di molti elettori.

In conseguenza di questi risultati, nei prossimi giorni l’ex premier ultra-nazionalista Shinzo Abe verrà incaricato di formare un nuovo governo, dopo che tra il 2006 e il 2007 aveva già presieduto un esecutivo impopolare segnato da scandali vari prima di rassegnare le proprie dimissioni, ufficialmente per motivi di salute.

Per ammissione dello stesso Abe, il voto di domenica non è stato tanto un attestato di fiducia dei giapponesi nei confronti del suo partito quanto una punizione inflitta al Partito Democratico. Interrompendo una serie quasi ininterrotta di governi liberal-democratici durata oltre cinque decenni, nel 2009 il DPJ aveva messo a segno una nettissima vittoria alle urne grazie a promesse di cambiamento che prospettavano un modesto aumento della spesa pubblica, il ridimensionamento della potente burocrazia statale e una politica estera svincolata dal rapporto esclusivo con Washington tramite aperture verso la Cina.

In seguito alle dimissioni già nel giugno 2010 del premier Yukio Hatoyama, a causa della mancata promessa di chiudere una base militare americana sull’isola di Okinawa, a Tokyo si sono poi susseguiti altri due governi - guidati da Naoto Kan e Yoshihiko Noda - che hanno subito riallineato il paese sulle posizioni degli Stati Uniti e fatto ricorso alle politiche di austerity adottate nel resto del pianeta con l’intensificarsi della crisi economica.

La pessima gestione della crisi nucleare di Fukushima e la recente approvazione di un aumento della tassa sui consumi hanno alla fine segnato definitivamente la sorte dell’esperienza di governo del DPJ. Proprio quest’ultima tassa, inoltre, ha anche spaccato il partito di centro-sinistra, costringendo il gabinetto Noda a ricorrere ai voti dell’LDP per la sua approvazione, in cambio però dello scioglimento anticipato della Camera bassa del parlamento.

A confermare la profonda ostilità degli elettori per tutta la classe politica giapponese c’è soprattutto il dato dell’astensionismo che ha toccato il 41%, vale a dire uno dei livelli più alti nella storia del paese e, in ogni caso, di dieci punti percentuali superiore rispetto al 2009. In assenza di reali alternative, dunque, il ritorno al Partito Liberal Democratico ha rappresentato l’unica scelta possibile per la maggioranza relativa di coloro che si sono recati alle urne.

Dopo essere stato nominato leader del proprio partito nel mese di settembre, il premier in pectore Shinzo Abe aveva condotto una campagna elettorale all’insegna del nazionalismo, assecondando una tendenza di tutta la classe politica nipponica per distogliere l’opinione pubblica dai reali problemi del paese. Sul fronte dei rapporti con la Cina, Abe ha fatto intendere di non nutrire alcuno scrupolo nel far salire le tensioni, promettendo di adottare misure più dure in risposta alla condotta di Pechino attorno alla disputa territoriale in corso per le Isole Senkaku (Diaoyu in cinese) nel Mar Cinese Orientale.

Inoltre, Abe propone apertamente alcune modifiche alla costituzione pacifista del 1947 per porre fine alle restrizioni imposte al ruolo delle forze armate giapponesi. Per apportare variazioni alla costituzione è necessario il voto dei due terzi di entrambi i rami del parlamento e un referendum popolare.

A partire dal primo giorno alla guida dell’esecutivo, Abe sarò tuttavia chiamato ad affrontare scelte economiche molto complicate per un paese in declino prolungato e che nel terzo trimestre del 2012 è scivolato nuovamente in recessione - la quinta negli ultimi 15 anni - così che potrebbe esserci ben poco entusiasmo, soprattutto nel Partito Nuovo Komeito, per una battaglia attorno alla modifica della costituzione.

Questo tema sull’agenda dell’LDP è però sollecitato più o meno apertamente dagli Stati Uniti che vedono con favore un impegno più attivo delle forze armate dell’alleato nel quadro della svolta dell’amministrazione Obama in Asia orientale per contenere l’espansionismo della Cina. Allo stesso tempo, il nazionalismo anti-cinese di Abe potrebbe però essere mitigato dal fatto che Pechino rimane il primo partner commerciale di Tokyo e che lo scontro diplomatico tra i due paesi ha già causato significativi danni economici per il Giappone.

Mentre Abe sarà così costretto a districarsi tra esigenze e pressioni contrastanti, è probabile comunque che alla fine a prevalere saranno le pressioni americane e la necessità di reagire ad una situazione interna che verosimilmente peggiorerà nel prossimo futuro, così che la retorica nazionalista e le azioni del governo entrante di centro-destra provocheranno un’ulteriore pericolosa escalation delle tensioni nell’intera regione.

Le preoccupazioni di Pechino per la vittoria di Abe sono d’altra parte apparse subito evidenti dopo la chiusura dei seggi. Ad esempio, l’agenzia di stampa ufficiale Xinhua ha pubblicato un editoriale per manifestare l’insoddisfazione del regime per i risultati annunciati da Tokyo. L’articolo ha messo in guardia dalle tendenze nazionaliste dei politici giapponesi che potrebbero peggiorare i rapporti con i vicini, minacciare le relazioni economiche e la stabilità della regione.

Il governo Abe, peraltro, potrebbe complicare i rapporti non solo con la Cina ma anche con un altro vicino con cui il Giappone condivide l’alleanza con gli Stati Uniti, vale a dire la Corea del Sud, dove si voterà il 19 dicembre per scegliere il nuovo presidente. A suggerirlo sono state le tendenze revisioniste ostentate in campagna elettorale dal futuro premier in relazione alle responsabilità del suo paese per i crimini di guerra commessi in Cina e nella penisola coreana negli anni precedenti la seconda guerra mondiale. Washington insiste da tempo per una partnership più stretta tra Tokyo e Seoul in funzione anti-cinese ma uno sforzo in questo senso è già naufragato in maniera clamorosa pochi mesi fa a causa del riemergere di rigurgiti nazionalisti in entrambi i paesi alla vigilia di delicati appuntamenti elettorali.

Le acque potrebbero diventare agitate infine anche nei rapporti con i competitori sui mercati internazionali, dal momento che sul fronte economico Shinzo Abe ha promesso, oltre ad un improbabile piano di opere pubbliche, una politica monetaria ispirata al cosiddetto “quantitative easing”, sulla linea di quanto fatto a più riprese dalla Fed americana, così da indebolire artificialmente lo yen e ridare fiato all’export nipponico, su cui si basa in gran parte la tenuta della terza economia del pianeta.

di Michele Paris

Il più recente episodio di efferata violenza compiuto da una singola persona negli Stati Uniti è avvenuto nella mattinata di venerdì presso una scuola elementare e materna di una ricca cittadina del Connecticut. La strage di bambini e insegnanti ha lasciato ancora una volta i media istituzionali e i politici di Washington senza parole, tutti come al solito incapaci di dare un senso ad un orrore che, per la sua serialità, non può che affondare le proprie radici nei mali che affliggono la società americana.

Come è ormai noto, il 20enne Adam Lanza ha sparato alla madre 52enne nell’abitazione di Newtown dove i due vivevano prima di recarsi in automobile alla Sandy Hook Elementary della città nella contea di Fairfield, a poco più di 100 km a nord-est di New York. L’assassino ha fatto irruzione con la forza nell’edificio ed ha sparato ai bambini presenti in due aule, inizialmente da lontano e poi da distanza ravvicinata. Secondo le ricostruzioni delle autorità di polizia, alcune vittime sarebbero state colpite fino a 11 volte. L’esito del massacro è stato così raccapricciante che molti genitori hanno riconosciuto i figli uccisi tramite fotografie.

Il bilancio complessivo è stato alla fine di 28 morti, inclusi l’autore della strage, che si è tolto la vita all’interno dell’edificio scolastico, e la madre. Delle altre 26 vittime, 20 erano bambini tra i 6 e i 7 anni e 6 dipendenti della scuola, tra cui la preside, 4 insegnanti ed una psicologa.

I racconti dei famigliari e delle persone che conoscevano Adam Lanza hanno descritto un giovane intelligente ma estremamente schivo, con problemi mentali, ma che mai aveva mostrato alcuna propensione alla violenza. I genitori si erano separati da qualche anno e il padre e il fratello di quattro anni più vecchio si erano trasferiti nel non lontano New Jersey.

Nella loro abitazione di Newtown, Adam Lanza e la madre conservavano svariate armi, frutto della passione di quest’ultima che pare essere stata trasmessa al figlio minore. La legge del Connecticut consente la vendita di armi da fuoco solo a chi ha compiuto 21 anni ma Adam Lanza ha potuto comunque avere accesso senza difficoltà a due pistole - una Glock e una Sig Sauer - e ad un fucile semi-automatico Bushmaster calibro .223, simile a quelli in dotazione delle forze armate americane in Iraq e in Afghanistan.

Per la seconda strage più grave per numero di vittime della storia americana, avvenuta a pochi giorni da un’altra sparatoria mortale in un centro commerciale dell’Oregon, gli investigatori del Connecticut hanno fatto sapere di non avere ancora trovato alcun indizio che possa rivelare le ragioni del comportamento di Adam Lanza.

Nei resoconti dei media e nelle reazioni di politici e commentatori, i termini maggiormente  ricorrenti in relazione al massacro sono stati come sempre “inspiegabile” e “senza senso”. Recatosi immediatamente a Newtown dopo il massacro, il governatore del Connecticut, il democratico Daniel Malloy, ha parlato di “una tragedia indicibile”, mentre, ad esempio, il Washington Post ha ritenuto utile sentire il parere di un docente di teologia morale, il quale ha avvertito che la risposta iniziale all’accaduto “non deve essere il tentativo di individuarne le cause”, appellandosi perciò al silenzio.

Altri esperti hanno poi chiesto un maggiore impegno nello studio del disagio mentale, mentre l’argomento preferito soprattutto dai media liberal è stato prevedibilmente il controllo sulla vendita di armi da fuoco. Lo stesso presidente Obama, recatosi in Connecticut domenica sera, nella dichiarazione pubblica dalla Casa Bianca dopo il massacro ha fatto un vago accenno alla necessità di adottare regolamentazioni in questo ambito, dopo che la sua amministrazione in questi quattro anni ha sempre evitato di sollevare una delle questioni politicamente più delicate a Washington.

Quasi in lacrime, Obama ha affermato la necessità di “prendere provvedimenti significativi per prevenire altre tragedie simili, al di là delle differenze politiche”. In molti hanno rimproverato al presidente di non avere assunto toni più decisi nel sollecitare un dibattito sul controllo delle armi, ma è evidente che qualsiasi restrizione sarà pressoché impossibile da implementare una volta che la strage di Newtown sarà sparita dai titoli dei giornali vista la profonda influenza della lobby delle armi su praticamente tutti i politici repubblicani e su buona parte di quelli democratici.

Se l’accessibilità delle armi da fuoco ha indubbiamente un peso nelle stragi in America e, soprattutto, nel numero spesso elevato di vittime, è altrettanto vero che altri paesi, come ad esempio il vicino Canada, che hanno una diffusione di armi simile fanno segnare livelli di violenza nettamente inferiori. Allo stesso modo, se è evidente che i disturbi mentali dei responsabili dei massacri hanno un ruolo importante, queste patologie non sono limitate agli Stati Uniti né questo paese sembra averne il primato.

Ciò che appare evidente dal ripetersi ininterrotto di simili massacri di massa, e che rimane puntualmente al di fuori dai tentativi ufficiali di spiegarne le ragioni, è piuttosto un contesto sociale americano caratterizzato da profonde tensioni che non possono trovare alcuna espressione “sana” all’interno degli attuali rapporti di classe e di un sistema segnato dal grave deteriorarsi dell’ambiente democratico e da crescenti disuguaglianze.

A ciò si aggiunga una cultura della violenza imposta dalle classi dirigenti, alimentata sia dai conflitti imperialisti del dopo 11 settembre, condotti da una gigantesca macchina da guerra, che dall’innalzamento dell’accumulazione di ricchezze ad ogni costo a ideale assoluto, da raggiungere per le élite economiche e finanziarie attraverso l’impoverimento di milioni di persone appartenenti ad una classe media e lavoratrice sempre più disorientate e senza alternative politiche.

Un processo, questo, accelerato dalla crisi irreversibile del capitalismo americano e dalla risposta data ad essa dalle classi dominanti a partire almeno dagli ultimi tre decenni. Non a caso, infatti, delle dodici peggiori stragi della storia americana, ben dieci hanno avuto luogo a partire dalla metà degli anni Ottanta. Di queste, inoltre, addirittura sei si sono verificate negli anni 2000, un decennio segnato appunto dalla guerra al terrore e dall’apparato pseudo-legale anti-democratico creato dal governo americano dopo l’11 settembre, nonché dalla più pesante crisi economica dalla Grande Depressione.

Oltre alla recente strage di Newtown, i più gravi episodi di violenza in questi anni comprendono quelli della Virginia Tech (32 morti, aprile 2007), di Binghamton nello stato di New York (13 morti, aprile 2009), di Fort Hood in Texas (13 morti, novembre 2009), di Aurora in Colorado (12 morti, luglio 2012) e della Contea di Geneva in Alabama (10 morti, marzo 2009). Nel solo 2012, infine, i media d’oltreoceano hanno elencato ben 13 uccisioni di massa per un totale di 81 morti e svariate decine di feriti.

Oltre ai luoghi dove il disagio sociale appare più evidente, la violenza esplode ormai anche nelle località più insospettabili e apparentemente risparmiate dalle tensioni e dal degrado, come nella idilliaca e benestante cittadina di Newtown, Connecticut, fino ad ora considerata una delle città più sicure di tutti gli Stati Uniti.

di Michele Paris

Nella serata di martedì è stata approvata in maniera definitiva una contestatissima legge anti-sindacale dal parlamento locale del Michigan, lo stato americano sede dei tre colossi dell’auto e tradizionalmente considerato il simbolo stesso della forza delle organizzazioni che dovrebbero difendere gli interessi degli operai. Tra le proteste di migliaia di iscritti al sindacato, la legislatura statale a maggioranza repubblicana della capitale, Lansing, ha così inviato la cosiddetta legge sul “diritto al lavoro” al governatore, l’ex uomo d’affari anch’egli repubblicano, Rick Snyder, che l’ha immediatamente firmata, consentendone l’entrata in vigore tra poco più di tre mesi.

Il provvedimento adottato martedì dallo stato del Michigan colpisce direttamente le organizzazioni sindacali dei lavoratori e le modalità del loro finanziamento. Esso infatti mette fuori legge a partire dal prossimo mese di aprile gli accordi collettivi che, come condizione per ottenere un impiego, prevedono un contributo automatico da versare ai sindacati da parte di tutti i lavoratori, compresi quelli non iscritti.

La mossa del Congresso statale e del governatore ha preso di sorpresa il Partito Democratico e i sindacati stessi, dal momento che Snyder aveva sempre sostenuto di non essere intenzionato a perseguire misure troppo controverse come quella appena approvata. Con la convinzione dei repubblicani di non incontrare un’eccessiva resistenza, la legge sul “diritto al lavoro” è stata però finalizzata in soli sei giorni e poi inserita in altri provvedimenti relativi allo stanziamento di fondi statali, così da rendere più complicato l’eventuale tentativo di abrogarla con un’eventuale futura iniziativa referendaria.

La legge ha suscitato non poco clamore poiché il Michigan è uno dei cinque stati americani con la quota più alta di lavoratori sindacalizzati - poco meno del 20% del totale - mentre ha ospitato, ad esempio, la nascita del potente sindacato degli operai del settore automobilistico (United Auto Workers, UAW), fondato a Detroit nel 1935. Il Michigan è diventato ora il 24esimo stato dell’Unione ad avere approvato una legge sul “diritto al lavoro” e il secondo nella regione industrializzata del Midwest, dopo l’Indiana.

Secondo i suoi sostenitori, la misura dovrebbe favorire l’occupazione attirando le imprese private alla ricerca di un ambiente “business-friendly”, ma anche consentire ai lavoratori di decidere più liberamente circa l’affiliazione ad una sigla sindacale. Al contrario di quanto suggerisce il nome, la legge, adottata senza un vero e proprio dibattito pubblico e da un Congresso statale al termine del proprio mandato, intende in realtà limitare il residuo potere rimasto ai lavoratori tramite la contrattazione collettiva, così da portare a termine nuovi assalti a diritti e retribuzioni.

Gran parte degli stati che hanno implementato leggi sul “diritto al lavoro” fanno segnare oggi i livelli più elevati di povertà del paese. Secondo uno studio dell’Economic Policy Institute, inoltre, i lavoratori in questi stati, sia quelli iscritti al sindacato che quelli non iscritti, guadagnano in media circa 1.500 dollari in meno all’anno rispetto al resto degli Stati Uniti.

In questo modo, con la scusa di facilitare la creazione di posti di lavoro, anche la classe dirigente del Michigan ha dunque fatto l’ennesimo regalo alle aziende dall’inizio della crisi economica in atto, nell’ambito di una drammatica ristrutturazione dei rapporti industriali negli Stati Uniti per cancellare progressivamente i diritti conquistati in decenni di durissime lotte sindacali.

La legge è stata criticata non solo dai vertici dei sindacati ma anche dal Partito Democratico e dallo stesso presidente Obama, il quale alla vigilia del voto aveva fatto un’apparizione proprio in Michigan, presso una fabbrica della tedesca Daimler a Detroit. Le loro proposte per rispondere agli attacchi lanciati contro i lavoratori, tuttavia, consistono in sterili iniziative, come la promozione di un referendum popolare per ottenere l’abrogazione della legge e soprattutto la subordinazione al Partito Democratico, così da garantire a quest’ultimo, considerato teoricamente più vicino agli interessi dei lavoratori, il successo nei prossimi appuntamenti con le urne, nel 2014 per il rinnovo della Camera bassa e nel 2015 per la carica di governatore.

Un percorso di questo genere tende sostanzialmente a sterilizzare l’opposizione e la resistenza dei lavoratori ed è una tecnica ben collaudata dalle associazioni sindacali americane. La stessa prospettiva fallimentare era stata avanzata in seguito alle massicce proteste esplose nel 2011 in Wisconsin dopo l’approvazione di una serie di assalti ai dipendenti pubblici. In questo stato, i leader democratici e sindacali avevano promosso, tra l’altro, una speciale elezione per cercare di rimuovere il governatore repubblicano Scott Walker, il quale è però riuscito a mantenere il proprio incarico.

D’altra parte, la profonda impopolarità delle stesse organizzazioni sindacali tra i lavoratori, a causa del loro sostanziale allineamento ai vertici aziendali nell’estrazione di sempre maggiori concessioni dai propri affiliati, è il motivo principale non solo del loro costante declino ma anche, in definitiva, dell’implementazione di leggi come quella firmata dal governatore del Michigan martedì.

I sindacati, in America come altrove, agiscono infatti da decenni come strumenti in mano alle élite politiche e imprenditoriali per contenere le tensioni sociali e il crescente malcontento tra i lavoratori, facendo loro digerire condizioni di lavoro sempre più penalizzanti. Ciò ha causato il loro progressivo indebolimento, consentendo, nel caso del Michigan, ai repubblicani al potere di procedere, una volta presa la decisione di fare a meno della collaborazione dei sindacati, con l’adozione unilaterale di una legge come quella che viene definita in maniera a dir poco fuorviante sul “diritto al lavoro”.

A conferma della funzione ormai attribuita ai sindacati, alcuni loro dirigenti assieme a leader locali del Partito Democratico nei giorni scorsi avevano incontrato a porte chiuse il governatore Snyder per convincerlo a desistere dalla nuova legge, con ogni probabilità promettendo di continuare a collaborare per mettere in atto tutte le “riforme” del mondo del lavoro ritenute necessarie, salvando però il ruolo di facilitatore dei sindacati stessi, nonché le loro fonti di finanziamento.

Uno dei protagonisti di queste discussioni infruttuose è stato non a caso Bob King, il presidente del principale sindacato automobilistico (UAW), vale a dire l’organizzazione di categoria che ha contribuito in maniera decisiva alla ristrutturazione di General Motors dopo la bancarotta controllata voluta dall’amministrazione Obama.

Il presunto salvataggio del gigante dell’auto di Detroit, oltre a consegnare il controllo di un congruo pacchetto azionario della compagnia ai vertici di UAW, ha portato alla distruzione di migliaia di posti di lavoro, al dimezzamento delle retribuzioni per i nuovi assunti, a pesanti tagli ai benefit dei pensionati e alla soppressione di molti altri diritti acquisiti.

Se il ruolo insidioso dei sindacati e gli assalti alle condizioni di vita della maggior parte della popolazione da parte della classe politica americana, soprattutto repubblicana, fanno in modo che i lavoratori si ritrovino sempre più isolati e disorientati, è altrettanto vero che, con l’aggravamento della crisi economica in atto, la crescente opposizione sociale nel paese potrebbe in qualche modo convergere alla fine verso la creazione di strutture di lotta indipendenti.

Ciò significherebbe, per l’oligarchia che detiene il potere, rischiare di perdere il controllo sui lavoratori ed è, in sostanza, quanto teme maggiormente la classe dirigente d’oltreoceano, a cominciare precisamente dai vertici delle organizzazioni sindacali e del Partito Democratico.

di Michele Paris

Dopo settimane di accurate indagini e ricerche, il Dipartimento di Polizia della città di New York qualche giorno fa ha arrestato l’artista locale Essam Attia, al quale sono stati contestati ben 56 capi d’accusa. Lo sforzo messo in atto dalla polizia newyorchese sembrerebbe dover essere giustificato, ad esempio, dalle azioni di un pericoloso terrorista.

L’unico crimine compiuto dal 29enne originario del Maine è stato invece quello di avere affisso nelle strade della metropoli una serie di manifesti satirici che descrivono il possibile uso di droni da parte del Dipartimento di Polizia per monitorare il comportamento dei cittadini.

Tra il 14 e il 16 settembre scorso, Essam Attia si è finto un dipendente del municipio di New York e ha sostituito decine di manifesti pubblicitari situati nelle apposite teche cittadine con altri di sua creazione che raffiguravano, tra l’altro, una famiglia in fuga presa di mira da un missile lanciato da un velivolo senza pilota con la dicitura “Droni del Dipartimento di Polizia di New York: protezione quando meno te lo aspetti”.

Le forze di polizia hanno alla fine fermato Attia, infliggendogli un’autentica lezione che ha tutte le caratteristiche di una vera e propria vendetta per avere mosso loro delle critiche in maniera così clamorosa. Tra le numerose accuse a suo carico ci sono quelle di furto e possesso di arma da fuoco dopo che al momento dell’arresto è stata rinvenuta nel suo appartamento di Manhattan una vecchia pistola calibro 22 scarica. Dopo il fermo, Attia ha potuto lasciare il carcere su cauzione.

Fotografo, artista di strada e, secondo quanto riportato dall’Huffington Post, “ex analista geo-spaziale” per l’esercito americano in Iraq, Essam Attia aveva spiegato le ragioni del suo gesto in una video-intervista al sito animalnewyork.com il 24 settembre scorso, mascherando il proprio aspetto e la propria voce per evitare di essere riconosciuto dalla polizia.

I manifesti esposti per le strade di New York, affermava Attia, sarebbero serviti per “stimolare un dibattito sull’uso dei droni nello spazio aereo americano”. A suo dire, “alcuni dipartimenti di polizia in Texas già ne hanno a disposizione ed è solo questione di tempo prima che arrivino anche a New York”. Attia ha poi ricordato che “in questo momento i droni vengono utilizzati per uccidere delle persone. Sono armati e lanciano missili. Stiamo combattendo una guerra illegale in Pakistan ma nessuno sembra volerne parlare”.

La provocazione di Essam Attia prefigura uno scenario che potrebbe diventare reale negli Stati Uniti in un futuro non molto lontano. Lo scorso mese di febbraio, infatti, il Congresso di Washington ha approvato una legge che dà il via libera all’impiego fino a 30 mila droni nello spazio aereo domestico entro il 2020, principalmente con funzioni di sorveglianza.

I velivoli che la CIA e i reparti speciali dell’esercito operano regolarmente in paesi come Pakistan, Yemen o Somalia, prendendo di mira presunti accusati di terrorismo, sono invece già in funzione da qualche tempo lungo il confine con il Messico per tenere sotto controllo l’immigrazione illegale. Autorità locali e federali hanno infine già in dotazione svariati droni, come ad esempio negli stati di California, North Dakota, Maryland, Florida e Nebraska.

Proprio a New York, poi, sono recentemente emerse le prove di discussioni tra il Dipartimento di Polizia e l’agenzia federale che sovrintende all’aviazione civile (FAA) nelle quali il primo ha affermato appunto di stare valutando il possibile uso di aerei senza pilota come strumenti di prevenzione del crimine.

La polizia dei New York ha peraltro già istituito un reparto speciale di intelligence al proprio interno dopo l’11 settembre 2001, deputato al monitoraggio e alla raccolta di informazioni su individui considerati potenziali minacce per la sicurezza nazionale, in particolare quelli di fede musulmana o appartenenti a gruppi di protesta come Occupy Wall Street.

La diffusione dei droni anche in territorio americano comporta inoltre la creazione di un mercato che può valere svariati miliardi di dollari e le aziende produttrici svolgono perciò da tempo un’intensa attività di lobby per ottenere nuove commesse da parte del governo federale e delle autorità statali e di polizia.

Alla Camera dei Rappresentanti è addirittura già stato creato un gruppo parlamentare (House Unmanned Systems Caucus) formato da una sessantina di deputati che si adoperano per la promozione dei droni sul suolo nazionale.

L’evoluzione dei droni e l’utilizzo capillare che ne verrà fatto anche internamente confermano dunque ancora una volta come le tecniche sviluppate per fronteggiare la cosiddetta guerra al terrore contro minacce esterne saranno sempre più utilizzate per controllare e reprimere il dissenso domestico negli Stati Uniti.

Un’arma quella dei droni che, assieme ad altre già consolidate, risulterà dunque fondamentale per la classe dirigente d’oltreoceano in un contesto storico caratterizzato dalla crisi strutturale del capitalismo e dall’aumento delle tensioni sociali in conseguenza delle politiche sempre più reazionarie messe in atto per salvare l’attuale sistema e i rapporti di classe esistenti.


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