di Michele Paris

Nonostante la quasi totale censura imposta dalle autorità militari americane, le poche notizie provenienti in queste settimane dal lager di Guantánamo continuano ad indicare l’esistenza di una situazione esplosiva, dovuta fondamentalmente all’illegalità della struttura detentiva sull’isola di Cuba e ai metodi repressivi regolarmente adottati dal personale di guardia.

Il centro di detenzione extra-territoriale statunitense, inaugurato dall’amministrazione Bush poco dopo il lancio della “guerra al terrore” su scala planetaria, era tornato qualche settimana fa a riempire le pagine dei giornali in seguito all’attuazione di uno sciopero della fame da parte di un numero imprecisato di prigionieri. Questo ennesimo atto di protesta, secondo i vertici militari, coinvolgerebbe attualmente una quarantina di detenuti, mentre per gli avvocati difensori sarebbe ormai messo in atto dalla gran parte dei 166 “ospiti” di Guantánamo.

Il motivo scatenante la protesta sarebbe l’applicazione di regole detentive estremamente rigorose e, in particolare, la profanazione da parte delle guardie delle copie del Corano che i prigionieri hanno a disposizione nelle loro celle. Più in generale, l’ennesimo sciopero della fame a Guantánamo è dovuto però alla situazione legale in cui si trovano i detenuti, quasi tutti rinchiusi in condizioni estreme da un decennio senza essere mai stati accusati formalmente di alcun crimine e senza avere affrontato un qualsiasi procedimento penale.

Addirittura, oltre 80 di essi sono già stati da tempo scagionati dallo stesso governo americano ma non sono ancora stati autorizzati a lasciare il carcere, sia a causa dei disaccordi politici a Washington sia perché i loro paesi d’origine vengono giudicati troppo instabili o in una situazione politica precaria.

Ad aggravare la situazione nell’angolo di territorio cubano amministrato dagli Stati Uniti è stato un grave episodio di violenza accaduto, secondo le ricostruzioni dei media, nella prima mattinata di sabato scorso. Le guardie del lager, cioè, hanno fatto irruzione in uno spazio comune condiviso dai detenuti, alcuni dei quali si sono difesi utilizzando bastoni e armi improvvisate, prima di essere forzatamente trasferiti in celle singole.

Alcuni ufficiali hanno inoltre ammesso che le guardie hanno sparato proiettili di gomma sui detenuti, anche se ufficialmente non ci sarebbe nessun ferito in modo grave. Secondo il comunicato emesso dai militari americani, l’intervento si sarebbe reso necessario dopo che i detenuti avevano oscurato le telecamere di sorveglianza delle aree comuni, così come i vetri divisori e le finestre, impedendo al personale di guardia di monitorare le loro attività.

Le proteste e gli scontri registrati nel fine settimana sono in realtà il risultato di abusi e frustrazioni di lunga data, come ha in sostanza confermato domenica ai giornali americani un anonimo funzionario del governo USA, il quale ha rivelato che i detenuti hanno iniziato ad oscurare telecamere e finestre da parecchi mesi, verosimilmente in segno di protesta contro i metodi utilizzati dalle guardie nei loro confronti.

Inoltre, la stessa fonte citata da alcuni media d’oltreoceano ha lasciato intendere che l’episodio avvenuto sabato è stato più grave rispetto alla ricostruzione ufficiale, dal momento che il raid ordinato dal comando del carcere sarebbe iniziato svariate ore prima e alle guardie sarebbe servito molto più tempo per riprendere il pieno controllo della struttura.

La più recente protesta è andata in scena il giorno dopo la fine di una visita a Guantánamo di una delegazione del Comitato Internazionale della Croce Rossa per valutare la situazione nel carcere dopo l’inizio dello sciopero della fame nel mese di febbraio. Come di consueto, la Croce Rossa, unico ente non governativo autorizzato da Washington a visitare la prigione, ha evitato di rilasciare commenti di condanna nei confronti delle autorità americane ma ha anch’essa sottolineato la drammaticità delle condizioni dei detenuti, le cui manifestazioni di protesta sono “il risultato degli effetti dell’incertezza legale sulla loro salute mentale ed emotiva”.

Qualsiasi forma di resistenza messa in atto dai detenuti, in ogni caso, costituisce un motivo di grave imbarazzo per il governo americano che, inevitabilmente, adotta qualsiasi mezzo per soffocare ogni accenno di rivolta e per tenere lontani giornalisti e osservatori scomodi.

Attraverso il silenzio che avvolge la sorte di questi detenuti, quasi del tutto ignorati o dimenticati dall’opinione pubblica e dalla comunità internazionale, è giunto però proprio in questi giorni un atto d’accusa devastante contro il governo americano, in seguito alla pubblicazione sul New York Times della drammatica testimonianza di un prigioniero di Guantánamo che sta partecipando allo sciopero della fame in corso.

Il detenuto in questione è il cittadino yemenita 35enne Samir Naji al Hasan Moqbel, rinchiuso “da 11 anni e tre mesi” nonostante non sia “mai stato accusato di nessun crimine” né “sottoposto a processo”. Moqbel aveva lasciato lo Yemen nel 2000 dopo che un amico gli aveva assicurato che in Afghanistan avrebbe potuto guadagnare qualcosa in più dei 50 dollari al mese che gli garantiva il suo lavoro in fabbrica, così da poter mantenere dignitosamente la sua famiglia.

Pur non avendo mai viaggiato e non sapendo nulla del nuovo paese, Moqbel decise di partire per l’Afghanistan, dove ben presto si sarebbe trovato di fronte una situazione ben diversa da quella che si era augurato. Senza soldi né lavoro fu costretto a rimanere fino a che, in seguito all’invasione americana nel 2001, fuggì in Pakistan, “come chiunque altro”.

Qui sarebbe andato incontro alla sorte di molti sospettati di terrorismo sottoposti a “rendition”. Le autorità pakistane, infatti, lo arrestarono mentre stava cercando di raggiungere l’ambasciata dello Yemen. Affidato agli americani, Moqbel venne prima rispedito in Afghanistan - a Kandahar - e poi “messo sul primo aereo per Gitmo [Guantánamo]”.

L’accusa nei suoi confronti era quella di essere stato una guardia del corpo di Osama bin Laden, cosa che gli stessi americani “non sembrano credere ormai più”. Disperato come gli altri detenuti senza via d’uscita, il 10 febbraio scorso Moqbel ha così iniziato lo sciopero della fame, giungendo a perdere quasi 14 chili. Secondo il suo racconto, alcuni compagni a Guantánamo sarebbero in condizioni anche più gravi, come un detenuto che pesa ormai soltanto 35 chili.

Rifiutando il cibo, Moqbel è stato ricoverato nell’ospedale della prigione e lo scorso 15 marzo una squadra speciale formata da otto uomini della polizia militare ha fatto improvvisamente irruzione nella sua stanza. Dopo che gli sono stati legati mani e piedi al letto, è stato sottoposto ad alimentazione forzata, universalmente considerata come una forma di tortura.

Moqbel afferma che non dimenticherà mai la prima volta che gli è stato “inserito il tubo per l’alimentazione forzata attraverso il naso. Non riesco a descrivere quanto è stato doloroso. Mentre lo inserivano desideravo vomitare ma non potevo. Sentivo un dolore atroce a livello del petto, alla gola e allo stomaco. Non ho mai provato nulla di simile e non augurerei a nessuno una punizione così crudele”.

Come altri detenuti in sciopero, Moqbel continua ad essere sottoposto ad alimentazione forzata due volte al giorno, senza sapere in quale momento del giorno o della notte la squadra speciale arriverà nella sua cella per immobilizzarlo e costringerlo ad assumere cibo in questo modo.

L’unica ragione per cui continua ad essere rinchiuso a Guantánamo, conclude Moqbel, è che “il presidente Obama si rifiuta di consentire il nostro rimpatrio in Yemen”. Nella sua situazione ci sono infatti decine di detenuti che “non vedono nessuna fine alla loro prigionia”, così che “il rifiuto del cibo e il rischio quotidiano di morire sono l’unica scelta che abbiamo”.

La sola speranza rimasta, perciò, è che “la nostra sofferenza serva ad aprire gli occhi del mondo ancora una volta su Guantánamo prima che sia tropo tardi”.

di Michele Paris

La prima bozza di bilancio federale del secondo mandato presidenziale di Barack Obama è stata presentata ufficialmente al Congresso americano nella giornata di mercoledì e si contraddistingue per una serie di tagli senza precedenti a popolari programmi sociali finora risparmiati dalla scure della classe politica d’oltreoceano. Il budget della Casa Bianca per i prossimi dieci anni ammonta a oltre 3.700 miliardi di dollari e ripropone molte delle offerte fatte, e poi respinte, alla leadership repubblicana della Camera dei Rappresentanti sul finire del 2012 nell’ambito delle trattative sul cosiddetto “fiscal cliff”.

Tra le misure di riduzione di spesa proposte, spiccano i tagli previsti a Medicare - il programma di assistenza sanitaria riservato agli americani più anziani - e Social Security, l’insieme di benefit per i pensionati. Il primo programma, creato negli anni Sessanta durante la presidenza Johnson, verrebbe privato di 400 miliardi di dollari nel prossimo decennio, in seguito a risparmi di spesa che andrebbero a toccare i rimborsi destinati a compagnie farmaceutiche, ospedali e altri fornitori di prestazioni sanitarie, ma anche all’aumento dei premi assicurativi pagati dai beneficiari.

Di importanza simbolica ancora maggiore, anche se quantitativamente inferiori, sono poi i tagli a Social Security, un programma istituito nel 1935 dal presidente Roosevelt e considerato intoccabile anche dalla maggior parte dei parlamentari democratici. Qui i risparmi dovrebbero essere di circa 130 miliardi in dieci anni, soprattutto grazie al passaggio dall’attuale sistema di adeguamento dei benefit al costo della vita ad un altro meno generoso che permetterà al governo di ridurre i rimborsi dello 0,3% all’anno.

Il piano di bilancio di Obama è stato presentato in ritardo rispetto ai tempi consueti e dopo che i due rami del Congresso avevano presentato i propri. Nessuno di questi ultimi, al contrario di quello del presidente, include tagli a Social Security, nemmeno quello redatto dalla destra repubblicana alla Camera e che prevede il pareggio di bilancio entro dieci anni senza aumenti della pressione fiscale ma con tagli selvaggi alla spesa pubblica.

Secondo i media americani, la proposta della Casa Bianca, che va ben al di là di quanto i democratici al Congresso sembrano disposti a digerire, avrebbe come obiettivo principale quello di rompere definitivamente lo stallo che da un paio di anni impedisce un accordo bipartisan sulla questione del debito USA e costringe i due partiti a procedere con continui provvedimenti tampone.

Con la nuova scadenza dell’innalzamento del tetto del debito pubblico che si ripresenterà la prossima estate, lo stesso Obama ha voluto lanciare un messaggio di conciliazione ai propri rivali politici, affermando durante la conferenza stampa alla Casa Bianca di mercoledì di essere disponibile ad accettare i tagli ai programmi pubblici “come parte di un compromesso”. Per questo, ha aggiunto il presidente democratico, “spero che nei prossimi giorni e nelle prossime settimane i repubblicani si facciano avanti e dimostrino di fare sul serio circa il problema del debito”.

Nonostante la disponibilità così mostrata, i vertici del Partito Repubblicano hanno accolto molto freddamente le richieste di Obama, con il leader di minoranza al Senato, Mitch McConnell, e il presidente della Commissione Bilancio della Camera, Paul Ryan, che hanno ribadito la loro volontà di tagliare ancora di più la spesa pubblica.

I repubblicani, inoltre, si sono detti ancora una volta contrari agli aumenti delle entrate fiscali volute dal presidente e che dovrebbero ammontare a 700 miliardi di dollari, principalmente attraverso la riduzione delle detrazioni per i redditi più elevati. Il budget di Obama rappresenta però solo un punto di partenza nella trattativa con i repubblicani, in seguito alla quale, se verrà trovato un accordo, saranno decisi tagli ancora più pesanti ai programmi sociali.

Se i leader repubblicani hanno ufficialmente respinto gli inviti al dialogo del presidente, quest’ultimo ha iniziato un’offensiva volta a convincere almeno qualche senatore dell’opposizione ad approvare la propria bozza, così da mettere pressione sui repubblicani della Camera per negoziare un accordo di ampio respiro.

L’atteggiamento di Obama ha però subito creato più di un malumore non solo tra i “congressmen” democratici ma anche tra i suoi sostenitori e i media “liberal”. Il New York Times, ad esempio, ha aperto giovedì un pezzo di analisi della notizia del bilancio della Casa Bianca interrogandosi sul significato della definizione di “democratico progressista” se attribuita ad un presidente che potrebbe essere ricordato come colui che ha smantellato due pilastri (Medicare e Social Security) della politica del suo partito.

Il Times ha poi riportato le reazioni di altri esponenti della società civile generalmente schierati a fianco dei democratici, i quali, evidentemente incuranti delle politiche reazionarie messe in atto e della drammatica erosione dei diritti democratici avvenuta negli Stati Uniti negli ultimi quattro anni, inizierebbero solo ora a chiedersi “se il presidente sia realmente un progressista”.

Simili critiche rivelano come la galassia “liberal” americana, che continua ad alimentare l’illusione di poter determinare una svolta progressista nel paese esercitando pressioni sull’amministrazione Obama, tema che gli attacchi a programmi popolari come Medicare e Social Security possano determinare un’ulteriore allontanamento della classe media e della “working-class” dal Partito Democratico, producendo una débacle elettorale al prossimo appuntamento nazionale con le urne nel 2014.

La difesa di questi programmi da parte dei democratici, infatti, è stata finora uno dei motivi che ha consentito al partito di Obama di mantenere una relativamente solida base elettorale tra le classi più disagiate, spaventate dai propositi repubblicani di tagliare pesantemente questi capitoli di spesa. Con l’aggravarsi della crisi economica e in presenza di un debito colossale, tuttavia, l’aristocrazia economica e finanziaria americana, di cui il Partito Democratico è espressione, ritiene che sia giunto ora il momento di procedere con lo smantellamento di quello che resta dello stato sociale negli Stati Uniti.

Sulla posizione di Obama, d’altra parte, si sono già allineati alcuni parlamentari del suo partito e l’attitudine di questi ultimi è risultata evidente dalle parole del senatore della Virginia Mark Warner, uno dei pochi democratici che ha già dato il proprio sostegno incondizionato alla proposta di bilancio della Casa Bianca.

A fronte di un’accumulazione di profitti senza precedenti da parte delle grandi compagnie e banche americane, dei ripetuti record fatti segnare dalla Borsa di Wall Street e di un programma di espansione monetaria lanciato della Fed che prevede in pratica lo stampaggio di denaro per 85 miliardi di dollari al mese, Warner ha avuto il coraggio di affermare che “i numeri dei programmi pubblici [Medicare e Social Security] non sono sostenibili”, per poi chiedersi senza imbarazzo “cosa sarà possibile spremere se non si trova un modo per riformarli ?”.

di Mario Lombardo

La crisi in corso da settimane nella penisola di Corea continua a far registrare una pericolosa escalation delle tensioni, confermata nella giornata di mercoledì dall’innalzamento del livello di allerta deciso dalle forze armate di Seoul e Washington. L’ultima iniziativa dei due paesi alleati è stata presa in seguito alla notizia che la Corea del Nord starebbe preparando un nuovo imminente test missilistico.

Questa ipotesi era stata avanzata dalle autorità sudcoreane settimana scorsa ed è stata confermata sempre mercoledì dal ministro degli Esteri di Seoul, Yan Byung-se, secondo il quale il lancio di un missile balistico, trasportato sulla costa orientale della Corea del Nord e montato su un dispositivo di lancio mobile, potrebbe avvenire “in qualsiasi momento”.

Le potenzialità del missile Musudan in questione, nonostante l’eventuale lancio dovrebbe ridursi soltanto ad un test, possono variare a seconda di diversi fattori, anche se le fonti citate dai media occidentali e sudcoreani indicano una gittata di circa 3.500 km, cioè abbastanza per colpire il Giappone e il territorio americano di Guam, nell’Oceano Pacifico.

A seguito delle sanzioni approvate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, la Corea del Nord non è autorizzata ad eseguire esperimenti balistici, così che, ha aggiunto il capo della diplomazia di Seoul, se il regime dovesse procedere in questo senso dovrebbe essere immediatamente convocata una riunione al Palazzo di Vetro.

L’innalzamento del livello di guardia appena al di sopra del normale status di difesa, deciso dalla Corea del Sud e dagli Stati Uniti, comporta invece l’aumento della sorveglianza e dell’attività di intelligence da parte dei due alleati. Secondo quanto riportato mercoledì dall’agenzia di stampa sudcoreana Yonhap, Seoul ha inoltre istituito una task force d’emergenza per monitorare gli sviluppi della situazione al Nord.

Le autorità di Seoul e svariati analisti ritengono probabile un lancio missilistico il prossimo 15 di aprile, data che segna il 101esimo anniversario della nascita del fondatore della Corea del Nord, Kim Il-sung, nonno dell’attuale giovane leader, Kim Jong-un. Nessun paese ha finora testato un missile Musudan, costruito su tecnologia sovietica, e per questo motivo in molti ritengono che potrebbe esserci più di un lancio se il primo dovesse risolversi in un fallimento.

Se pure un eventuale test missilistico da parte della Corea del Nord non sarebbe cosa nuova, gli Stati Uniti e la Corea del Sud stanno adottando contromisure decisamente insolite e aggressive per questo genere di minaccia. Anche il governo giapponese, inoltre, questa settimana ha attivato il proprio sistema di difesa, schierando batterie anti-missile PAC-3 attorno alla capitale, Tokyo, e sull’isola di Okinawa, dove si trova una vasta base militare USA, nonché inviando al largo delle proprie coste due navi da guerra Aegis, anch’esse equipaggiate per abbattere eventuali missili diretti verso la terraferma.

Prima dei test missilistici condotti nel recente passato, in ogni caso, la Corea del Nord aveva sempre notificato ai paesi vicini la traiettoria e il punto di impatto dei propri missili, cosa che potrebbe fare anche in questa occasione. Secondo il quotidiano giapponese Sankei, anzi, Pyongyang avrebbe già avvertito alcune ambasciate straniere della propria intenzione di lanciare un missile balistico sopra il Giappone e destinato ad atterrare nell’Oceano Pacifico.

Inoltre, al di là del possibile test missilistico e della consueta minacciosa retorica del regime di Kim, per stessa ammissione di membri dei governi americano e sudcoreano, non è emerso finora alcun segnale che il paese si stia preparando ad un’offensiva militare.

Nella giornata di martedì, infatti, gli avvertimenti provenienti da Pyongyang a evacuare le sedi diplomatiche in Corea del Sud in vista di una guerra nucleare, sono stati bollati dal portavoce della Casa Bianca, Jay Carney, come “retorica che serve solo ad aumentare le tensioni e a isolare ulteriormente la Corea del Nord dalla comunità internazionale”.

Le accuse verso la Corea del Nord sono poi continuate mercoledì, con il governo di Seoul che ha puntato il dito contro Pyongyang anche per il massiccio cyber-attacco che lo scorso marzo aveva paralizzato le reti informatiche di alcune banche e stazioni televisive sudcoreane.

Accuse e provocazioni varie da parte di Stati Uniti e Corea del Sud vengono messe in atto allo scopo di isolare e aumentare le pressioni sul regime stalinista del Nord e sui suoi pochi alleati, in particolare la Cina. Il ministro degli Esteri di Seoul, nel corso di un’audizione in Parlamento, ha così invitato Russia e Cina ad attivarsi per convincere Pyongyang ad astenersi da nuove provocazioni, mentre in precedenza aveva avuto un colloquio telefonico con il suo omologo del Brunei, il paese che detiene attualmente la presidenza provvisoria dell’Associazione dei Paesi del Sud-est Asiatico (ASEAN), per chiedere a questo organismo di svolgere “un ruolo attivo” nella risoluzione della crisi nella penisola di Corea.

La stessa amministrazione Obama e alcuni senatori americani nei giorni scorsi avevano infine discusso direttamente con le autorità cinesi e nei media la necessità da parte di Pechino di muoversi per esercitare la propria influenza sull’alleato nordcoreano.

L’obiettivo della strategia statunitense in Corea si inserisce d’altra parte in un disegno ben più ampio e che ha a che fare principalmente con la necessità di contenere la Cina nel quadro del rinnovato impegno di Washington in Estremo Oriente per cercare di invertire il declino della propria economia e della propria influenza su scala globale.

Non a caso, dunque, come ha rivelato la stampa d’oltreoceano qualche giorno fa, le azioni degli Stati Uniti in queste settimane in risposta alle presunte provocazioni nordcoreane fanno parte di un vero e proprio codice di comportamento redatto da tempo dal governo americano per fronteggiare la presunta minaccia nordcoreana. Secondo questa versione, gli USA starebbero adottando risposte e “contro-provocazioni” studiate a tavolino e che prevedono reazioni sproporzionate ad un eventuale iniziativa militare anche limitata del regime di Pyongyang.

L’intenzione dell’amministrazione Obama, pur tra il timore di scatenare una rovinosa guerra e qualche timido segnale conciliatore verso la Corea del Nord, è in definitiva quella di utilizzare la crisi nella penisola per spingere sulla leadership di Pechino, così da ottenere concessioni favorevoli agli interessi americani sul piano strategico ed economico.

Un piano, quello statunitense, lanciato fin dal 2009 e da mettere in atto sia con mezzi diplomatici che militari, come appare evidente in queste settimane. L’aumentato impegno militare di Washington nella penisola di Corea, come ha scritto recentemente il New York Times, finisce così per provocare intenzionalmente una profonda apprensione a Pechino, essendo “il tentativo di dimostrare alla Cina che, se non intenderà richiamare all’ordine la Corea del Nord”, la conseguenza consisterà precisamente in una maggiore presenza USA nella regione che i vertici del Partito Comunista vorrebbero evitare a tutti i costi.

di Michele Paris

La morte dell’ex primo ministro britannico Margaret Thatcher ha prevedibilmente prodotto un numero infinito di necrologi e commenti sui media di tutto il mondo, quasi sempre all’insegna della celebrazione della lunga carriera politica della prima e finora unica donna installatasi al numero 10 di Downing Street. Anche i giornali con un approccio più critico all’eredità politica della “Lady di ferro” hanno spesso offerto il riconoscimento di una presunta indiscutibile statura politica che, a ben vedere, appare del tutto ingiustificato.

Gli onori tributati dai giornali e dalla classe dirigente britannica appaiono in ogni caso in netto contrasto con le spontanee manifestazioni popolari di gioia esplose in decine di città del Regno Unito alla notizia del decesso dell’87enne Thatcher in seguito ad un ictus.

In grado di raggiungere il successo e la stabilità economica quasi esclusivamente grazie al matrimonio nel 1951 con l’uomo d’affari ultra-reazionario Denis Thatcher, Margaret Hilda Roberts deve la sua ascesa ai vertici del Partito Conservatore e del governo britannico alle condizioni storiche createsi in seguito all’esplosione del conflitto di classe in tutta Europa tra la fine degli anni Sessanta e il decennio successivo.

Convinta sostenitrice del liberismo di Milton Friedman e dell’economista austriaco Friedrich von Hayek, la Thatcher è stata lo strumento per l’avanzamento della borghesia britannica più reazionaria e dedita all’arricchimento personale, nonché la rappresentante della fazione del suo partito più critica nei confronti della precedente leadership - da Winston Churchill a Anthony Eden, da Harold Macmillan a Alec Douglas-Home - e della cosiddetta “politica del consenso”, basata sull’accettazione del crescente ruolo dello stato nell’economia e su concessioni relativamente generose alla classe lavoratrice.

I suoi tre mandati alla guida del governo vanno dal 1979 fino alla sommaria estromissione dalla leadership del partito nel 1990 per evitare ai conservatori un disastro elettorale alla luce della sua calante popolarità nel paese.

L’impronta della Thatcher sull’economia della Gran Bretagna è stata caratterizzata fondamentalmente dalla rimozione di ogni limite possibile all’accumulazione di ricchezza nelle mani dell’upper middle-class, da raggiungersi attraverso la deregulation del settore finanziario, la svendita delle aziende pubbliche, i tagli alle tasse per il business e i redditi più elevati, il contenimento dei sindacati e, più in generale, lo smantellamento delle conquiste sociali ottenute nel secondo dopoguerra dalla classe operaia.

Una politica marcatamente di classe e spesso associata a quella messa in atto negli stessi anni in America dal presidente Reagan, le cui conseguenze più drammatiche e durature furono la distruzione di interi settori industriali, disoccupazione di massa e impoverimento diffuso. Inoltre, il confronto diretto con i sindacati e la classe lavoratrice provocò il riesplodere di violente tensioni sociali nel paese, come risultò evidente dallo sciopero dei minatori del 1984-85, conclusosi con due morti, migliaia di arresti e di feriti, nonché con la sconfitta di questi ultimi. Quello che emergeva, tra le righe della sua decantata "durezza", era non tanto una convinzione fortissima nelle teorie economiche che gli spiegavano, quanto un odio di classe feroce, che si miscelava con una tenacia irriducibile e che vedeva nei diritti sociali una sfida all'autorità, prima ancora che alle compatibilità economiche.

La lunga permanenza al potere di Margaret Thatcher, nonostante la profonda ostilità di ampie fasce della popolazione, fu possibile anche grazie al definitivo abbandono in quegli anni delle politiche volte alla difesa della working-class da parte del Partito Laburista, incapace di tenere insieme il filo della difesa delle classi lavoratrici con le necessità di porsi alla guida della Gran Bretagna. Prevalse la seconda opzione e non erano certo i Kinnock di turno a poter invertire una tendenza internazionale che vedeva l'affermazione della reaganomics anche in ragione del sostegno che offrì la Thatcher.

Una svolta, quella del “Labour”, che segnò la totale accettazione del libero mercato, dimostrata qualche anno più tardi dalla sostanziale continuazione del thatcherismo da parte di Tony Blair e del “New Labour”, e che, come sostenne Hugo Young, il biografo della “Lady di ferro”, concretizzò quanto quest’ultima aveva affermato in un’occasione, cioè che la sua “missione non sarebbe stata completata finché il Partito Laburista non sarebbe diventato come quello Conservatore: un partito del capitalismo”.

Le conseguenze rovinose e le fragili fondamenta delle politiche della Thatcher sarebbero state testimoniate non solo dalla devastazione sociale prodotta in Gran Bretagna ma anche dal continuo ripresentarsi di gravi crisi finanziare, risultato della deregulation selvaggia e dello svincolo pressoché totale dell’accumulazione del capitale dalla produzione di beni.

Sul fronte della politica estera, oltre ad avere sostenuto la dittatura cilena di Pinochet e il regime dell’apartheid in Sudafrica, la Thatcher fu allineata agli interessi dell’imperialismo americano, distinguendosi per una risoluta avversione nei confronti dell’Unione Sovietica, almeno fino all’arrivo al potere a Mosca di Mikhail Gorbachev, correttamente identificato come l’uomo che avrebbe finito per riaprire il suo paese al capitalismo internazionale.

Donna dalle passioni decise, soprattutto quando del tutto impresentabili ed ingiustificabili, s'identificò notevolmente proprio con il macellaio cileno Pinochet, al punto da difenderlo anche quando ormai si era ritirata a vita privata, non rinunciando a sostenere il boia cileno anche intervenendo pesantemente sulla magistratura inglese, che aveva promosso iniziative concrete per giudicarlo con l'accusa di crimini contro l'umanità.

L’evento che, secondo le commemorazioni ufficiali, diede alla Thatcher la reputazione di vera statista fu però la guerra delle Falkland (Malvine) nella primavera del 1982. Il conflitto esplose ai primi di aprile in seguito all’invasione delle isole al largo dell’Argentina ordinata dalla giunta militare al potere a Buenos Aires.

La dura risposta di Londra provocò complessivamente oltre 900 morti, tra cui 323 membri dell’equipaggio dell’incrociatore argentino ARA Generale Belgrano, deliberatamente affondato da un sottomarino nucleare britannico nonostante si trovasse al di fuori della cosiddetta “Zona di Esclusione Totale”, dichiarata arbitrariamente dagli inglesi, e stesse facendo ritorno alla terraferma.

Né le posizioni assunte sulle questioni internazionali più controverse né tantomeno le scelte di politica economica furono mai oggetto di qualche ripensamento da parte di Margaret Thatcher dopo l’addio alla vita pubblica e prima del sopraggiungere dei primi sintomi di demenza senile, destino del resto comune al suo grande amico Reagan.

Tra gli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio, anzi, l’ex primo ministro diede ad esempio il proprio sostegno sia all’intervento occidentale nella ex Yugoslavia che all’invasione illegale dell’Iraq di Saddam Hussein e al principio della guerra preventiva, ideato dall’amministrazione Bush, contro quei paesi indicati come sostenitori del terrorismo.

In definitiva, però, l’eredità lasciata dal thatcherismo risiede principalmente nell’aver contribuito a gettare le basi dell’esplosione della gravissima crisi economica del 2008 e tuttora in atto, così come nella promozione di politiche di austerity e di impoverimento di massa, perseguite indistintamente anche dalla classe politica odierna, espressione unica, come la “Lady di ferro”, dei grandi interessi economici e finanziari responsabili della regressione sociale che ha segnato gli ultimi tre decenni in tutto l’Occidente.

di Michele Paris

Il recente intervento della Corte Costituzionale del Portogallo nel processo di impoverimento forzato di ampie fasce della popolazione di questo paese, nel quadro degli aiuti finanziari elargiti da Bruxelles e dal Fondo Monetario Internazionale, ha aggiunto in questi giorni un ulteriore motivo di preoccupazione per la stabilità dell’eurozona, già attraversata dalle inquietudini per il “salvataggio” del sistema bancario di Cipro e per il continuo stallo post-elettorale in Italia.

Il massimo tribunale portoghese venerdì scorso aveva bocciato perché incostituzionali alcuni provvedimenti di austerity contenuti nell’ultimo bilancio presentato dal governo conservatore guidato dal primo ministro Pedro Passos Coelho.

In particolare, la Corte si è espressa contro il taglio delle ferie pagate, degli stipendi e delle pensioni di impiegati pubblici, ma anche la riduzione di permessi di malattia e dei sussidi di disoccupazione. Queste misure, che avrebbero ridotto fino al 7% il reddito dei lavoratori interessati, sono state giudicate illegittime e discriminatorie perché riguardano solo una parte dei lavoratori e non l’intera forza lavoro portoghese.

Lo scorso anno, la Corte Costituzionale portoghese aveva già revocato una parte del bilancio dell’attuale governo e la nuova recente bocciatura ha confermato come la classe politica portoghese intenda seguire il dettato degli ambienti finanziari internazionali senza alcun riguardo per la legalità e i processi democratici, quando ciò si rende necessario per salvare il sistema finanziario o gli interessi degli investitori.

In ogni caso, la recente sentenza ha privato l’esecutivo formato dal Partito Social Democratico e dal Partito Popolare di 1,3 miliardi di euro all’interno di un bilancio per l’anno 2013 che prevede 5 miliardi tra nuove tasse e tagli alla spesa, necessari per rispettare i termini del piano di “salvataggio” da 78 miliardi di euro inaugurato due anni fa. Se non verranno adottati nuovi provvedimenti, Lisbona si ritroverà a fine anno con un deficit di bilancio pari al 6,3% del PIL invece del 5,5% ordinato da UE e FMI, i quali potrebbero perciò congelare la prossima tranche di aiuti previsti, pari a 2 miliardi di euro.

Nella giornata di domenica è giunta la risposta alla sentenza della Corte Costituzionale del premier portoghese. Passos Coelho ha deliberatamente dipinto scenari apocalittici per il paese, affermando che, in seguito alla decisione della Corte, “non solo la vita del governo sarà più difficile, ma anche quella dei portoghesi”, mentre “diventerà problematico il successo e la ripresa del paese”.

Parlando frequentemente di “emergenza nazionale”, il capo del governo di Lisbona ha poi minacciato di compensare i tagli cassati dalla Corte Costituzionale con altre ulteriori pesanti riduzioni della spesa pubblica che riguarderanno l’educazione, la sanità e il sistema pensionistico. Questi nuovi tagli, secondo alcuni, sono da tempo nel mirino del governo, il quale avrebbe ora preso la palla al balzo per annunciarne l’inevitabile implementazione dopo la bocciatura della Corte.

La stessa Commissione Europea ha avvertito le autorità del governo di Lisbona a non deviare dalle condizioni imposte dal piano di “salvataggio”, dal momento che “qualsiasi modifica degli obiettivi del programma, o la loro rinegoziazione, neutralizzerebbe di fatto gli sforzi fatti e i risultati ottenuti dai cittadini portoghesi”.

I presunti successi della consueta ricetta somministrata al Portogallo dalla cosiddetta Troika (Banca Centrale Europea, Commissione Europea, Fondo Monetario Internazionale), così come le conseguenze delle politiche che il premier Passos Coelho indica come unica via d’uscita alla crisi, hanno in realtà posto le basi per la devastazione sociale del paese.

A partire dall’intervento internazionale due anni fa, l’economia portoghese ha fatto segnare una contrazione del 5%, mentre la disoccupazione ufficiale è passata dal 12% a quasi il 18%, un livello, in Europa, inferiore solo a quelli di Spagna e Grecia. I tagli alla spesa hanno poi ridotto all’osso gli ammortizzatori sociali, con la metà dei disoccupati che a tutt’oggi non percepisce alcuna forma di sostegno economico.

Proprio il rispetto fin qui assoluto dei termini imposti dalla Troika, inoltre, ha depresso più del previsto l’economia portoghese, tanto che gli obiettivi di riduzione del debito per il 2012 sono stati clamorosamente mancati, costringendo i burocrati di Bruxelles a valutare la possibilità di concedere un anno in più per il risarcimento del prestito erogato.

Nonostante i durissimi sacrifici sostenuti dalla popolazione portoghese e le ripetute manifestazioni di protesta, tra cui la più recente che a inizio marzo ha portato in piazza più di un milione di persone, le misure di austerity, come ha scritto cinicamente lunedì il Wall Street Journal, “sembrano avere messo il paese sul giusto percorso per riconquistare la fiducia degli investitori e abbandonare le condizioni del piano di salvataggio entro i termini previsti (maggio 2014)”.

Questa fiducia per l’implementazione di misure che hanno gettato nella povertà centinaia di migliaia di persone e distrutto le garanzie conquistate dai lavoratori portoghesi è apparsa evidente dal ritorno di Lisbona al mercato dei bond nel mese di gennaio, quando per la prima volta da quasi due anni a questa parte sono stati collocati titoli a cinque anni pari a 2,4 miliardi di euro. Sotto il ricatto dei mercati, il piano di vendita dei bond decennali è stato invece sospeso in seguito al blocco delle misure di austerity deciso dalla Corte Costituzionale.

Con l’imprevista evoluzione della crisi in Portogallo, i media occidentali sono di nuovo tornati ad agitare lo spettro del contagio ai paesi più in difficoltà, a cominciare dalla Spagna. I vertici del Partito Popolare al potere hanno però subito cercato di prendere le distanze dalla situazione portoghese, il cui esecutivo “non avrebbe adottato le misure necessarie” prese in Spagna, cioè non avrebbe ancora portato a termine la distruzione sociale e depresso a sufficienza l’economia come ha fatto finora il governo di Madrid.

Sul fronte interno, la decisione della Corte Costituzionale portoghese ha spinto le opposizioni a chiedere le dimissioni di un governo sempre più fragile e che già mercoledì scorso era sopravvissuto ad una mozione di sfiducia presentata dal Partito Socialista.

Il leader di quest’ultimo, Antonio José Seguro, ha invocato nuove elezioni, sostenendo che “il Portogallo sta vivendo una tragedia sociale”. Le critiche dei socialisti alle politiche del governo conservatore non sono tuttavia motivate da una visione divergente in ambito economico, bensì esclusivamente da motivi tattici e di interesse politico, dal momento che l’austerity imposta dalla Troika è fortemente avversata dalla grande maggioranza della popolazione.

Il precedente governo, guidato dal socialista José Socrates, fu infatti costretto alle dimissioni nel marzo del 2011 in seguito alla sfiducia votata dal Parlamento proprio ad un pacchetto di misure di rigore destinate a tagliare ulteriormente la spesa pubblica. Questo tentativo venne fato per evitare il ricorso ad un prestito internazionale che venne però siglato di lì a poco dal nuovo esecutivo, uscito dalla netta affermazione elettorale del Partito Social Democratico di centro-destra attualmente al potere.


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