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di Michele Paris
Il discorso di Barack Obama, tenuto martedì all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ha toccato molti dei temi più caldi dell’agenda internazionale, concentrandosi in particolare sul mondo arabo e il Medio Oriente e presentando per l’ennesima volta gli Stati Uniti come i difensori della democrazia e della libertà di espressione nel mondo. Le parole del presidente americano sono però smentite in maniera clamorosa dalla realtà di un paese nel quale i diritti democratici fondamentali sono da anni esposti ad un processo di grave deterioramento e che sfrutta senza eccezione gli eventi internazionali unicamente per promuovere gli interessi della propria classe dirigente.
La stessa apertura del quarto intervento di Obama al Palazzo di Vetro di New York è stata all’insegna della falsificazione di fatti recentemente accaduti. L’inquilino della Casa Bianca ha infatti ricordato l’ambasciatore USA in Libia, J. Christopher Stevens, assassinato l’11 settembre scorso presso il consolato di Bengasi, tessendone le lodi e dipingendolo come un infaticabile paladino della democrazia, inviato nel paese nordafricano per contribuire alla realizzazione delle aspirazioni della popolazione locale.
Stevens, in realtà, non ha rappresentato altro che la faccia pulita e rispettabile dell’imperialismo a stelle e strisce e, lo scorso anno, nel pieno del conflitto per rovesciare il regime di Gheddafi, venne precocemente spedito proprio a Bengasi per facilitare i collegamenti tra la NATO e i cosiddetti ribelli, tra le cui fila facevano parte quegli stessi estremisti islamici che due settimane fa hanno rivolto le armi contro il più autorevole rappresentante dei loro ex benefattori americani.
Quei principi di libertà e giustizia che Obama ha affermato essere motivo di ispirazione per l’ambasciatore Stevens, ammantano così gli slogan privi di significato che gli Stati Uniti continuano a propagandare per mantenere la loro presenza in aree del globo dove sono in gioco delicati interessi strategici.
Da qui, Obama ha poi condannato gli attacchi delle ultime settimane alle rappresentanze diplomatiche e ai simboli americani nel mondo arabo in seguito all’esplosione della rabbia popolare dopo la diffusione sul web del video amatoriale che irride il profeta Muhammad. Secondo il presidente, i comportamenti sfociati nelle recenti violenze sarebbero un attacco “agli stessi ideali sui quali si fondano le Nazioni Unite” e che fanno in modo che “i popoli possano risolvere le loro differenze pacificamente”.
Simili affermazioni vengono da un leader di un paese che, solo nell’ultimo decennio, ha scatenato due guerre rovinose basate su motivazioni del tutto infondate, che continua a condurre incursioni con aerei senza pilota in territori di paesi sovrani uccidendo centinaia di civili innocenti e si adopera incessantemente per rovesciare con la forza regimi sgraditi senza timore di appoggiare più o meno direttamente organizzazioni legate a quel terrorismo internazionale che sostiene di volere combattere.
In modo corretto, inoltre, Obama ha sottolineato come sia necessario “discutere onestamente delle cause più profonde della crisi” di questi giorni nel mondo arabo, anche se com’è ovvio si è ben guardato dal farlo. Ciò che ha scatenato la rabbia nelle strade del Cairo, di Bengasi, di Kabul o di Islamabad non è tanto il filmato offensivo nei confronti dei musulmani quanto le frustrazioni accumulate da popoli che da decenni subiscono l’oppressione dell’imperialismo americano e di dittatori al servizio di Washington, così come il sostegno incondizionato degli Stati Uniti a Israele e le sofferenze patite dalla nazione palestinese.
Successivamente, nel suo discorso Obama ha parlato della Primavera Araba affermando che la sua amministrazione “ha appoggiato le forze del cambiamento fin da quando meno di due anni fa un venditore ambulante si è dato fuoco in Tunisia per protestare contro la corruzione oppressiva del suo paese”, guidato peraltro da un autocrate fedelissimo di Washington. Anche in questo passaggio il presidente democratico deve aver fatto affidamento sulla memoria corta della platea dell’ONU, dal momento che la prima reazione americana alle rivolte di Tunisia ed Egitto all’inizio del 2011 fu di pieno sostegno alle repressioni delle proteste di piazza messe in atto da Zine El Abidine Ben Ali e Hosni Mubarak.
Solo quando, in seguito alla mobilitazione di milioni di lavoratori, la posizione dei regimi risultò insostenibile, la Casa Bianca chiese ai rispettivi dittatori di fare un passo indietro e da subito si adoperò per assicurare una transizione indolore che salvaguardasse gli interessi americani, promuovendo forze reazionarie come l’esercito e i partiti di ispirazione islamica, presentanti come garanti delle rivoluzioni.
In Libia, inoltre, Obama ha detto che gli USA sono intervenuti militarmente con il mandato ONU per “fermare il massacro di innocenti e perché pensavamo che le aspirazioni del popolo erano più forti di un tiranno”. La consueta retorica del presidente nasconde la realtà di un intervento voluto per rimuovere un regime ancora troppo ostile all’Occidente, nonostante le concessioni dell’ultimo decennio, e viceversa troppo disponibile ad aprire il proprio settore energetico a paesi come Russia e Cina. Per Obama è un dettaglio che non merita di essere citato anche il fatto che l’aggressione NATO della Libia ha causato decine di migliaia di morti in seguito ai bombardamenti aerei, mentre le milizie rivoluzionarie si sono macchiate di indicibili abusi e violazioni dei diritti umani, gettando infine il paese nel caos.
Il sostegno americano agli “uomini e alle donne che sono scesi in piazza” contro i regimi dittatoriali non si estende a tutti i paesi del mondo arabo. In Bahrain, ad esempio, gli Stati Uniti hanno sostanzialmente assecondato la repressione della rivolta messa in atto dalla casa regnante, la quale concede alla Marina americana di mantenere un’importante base affacciata sul Golfo Persico. Anche i rapporti con l’Arabia Saudita, uno dei paesi più oscurantisti e retrogradi del pianeta, non sono stati modificati in seguito al soffocamento delle proteste della minoranza sciita e all’intervento militare nel vicino Bahrain per mettere fine alle manifestazioni popolari.
Riguardo alla Siria, invece, Obama ha nuovamente puntato il dito contro Bashar al-Assad, proclamando che il futuro di questo paese, diversamente da quello di altri allineati agli interessi di Washington, “non deve appartenere a un dittatore che massacra il suo popolo”. Obama ha prevedibilmente taciuto le responsabilità degli Stati Uniti e dei loro alleati nell’aggravamento della situazione in Siria, sfociata ormai in un conflitto settario grazie soprattutto al sostegno esterno fornito a “ribelli” che, come in Libia, annoverano tra le proprie fila guerriglieri integralisti legati ad Al-Qaeda.
Con le tensioni crescenti attorno al nucleare iraniano, Obama ha sfruttato il palcoscenico delle Nazioni Unite per ribadire ancora una volta che Teheran “ha mancato l’occasione di dimostrare che il suo programma è rivolto esclusivamente a fini pacifici”. Il presidente americano, pur non piegandosi alle richieste israeliane di fissare dei paletti all’evoluzione del programma nucleare della Repubblica Islamica, ha inoltre confermato di non volere nemmeno prendere in considerazione l’ipotesi del contenimento di un Iran dotato di armi atomiche, poiché quest’ultimo scenario “minaccerebbe l’esistenza di Israele, la sicurezza dei paesi del Golfo e la stabilità dell’economia globale”, scatenando una corsa agli armamenti atomici nella regione e indebolendo il Trattato di Non Proliferazione.
Per Obama, in sostanza, è l’Iran la principale minaccia alla stabilità e alla sicurezza mediorientale, anche se a mettere e rischio la pace nella regione sembra essere maggiormente la stessa politica americana, nonché il possesso da parte di Israele di centinaia di testate nucleari non dichiarate e al di fuori dello stesso Trattato di Non Proliferazione. Criticando ancora l’Iran per il presunto mancato rispetto degli impegni internazionali, Obama ha spiegato infine che “la strada verso la sicurezza e la prosperità non risiede al di fuori dei confini del diritto internazionale e del rispetto dei diritti umani”.
Queste parole risultano particolarmente significative in quanto pronunciate da un presidente che, nel solco del suo predecessore e nell’ambito della “guerra al terrore”, ha mostrato un chiaro disprezzo per i principi del diritto internazionale, come dimostrano gli assassini di presunti terroristi, anche con cittadinanza americana, senza accuse formali né processi, le uccisioni di civili innocenti tramite incursioni notturne in abitazioni di civili in Afghanistan e con i droni in Pakistan e in Yemen, le detenzioni indefinite e le continue violazioni del territorio di paesi sovrani.
Solo alla fine del suo discorso Obama ha affrontato brevemente la questione della crisi economica, inquadrandola in una realtà immaginaria. Senza considerare le profonde divisioni emerse tra i vari governi e i rappresentanti del capitalismo internazionale, il presidente ha affermato che “in un periodo di sfide, il mondo si è unito per diffondere la prosperità”, mentre “gli Stati Uniti hanno perseguito un’agenda di sviluppo per alimentare la crescita”.
Come dimostrano i dati economici e innumerevoli studi, il livello di prosperità dopo l’esplosione della crisi finanziaria del 2008 è aumentato solo per una ristretta cerchia di privilegiati, mentre le politiche implementate dal governo americano, e non solo, hanno contribuito a peggiorare sensibilmente le condizioni di vita di centinaia di milioni di persone in tutto il mondo.
In definitiva, la fugace apparizione di Barack Obama all’ONU tra un evento elettorale e l’altro è stata ancora una volta utilizzata per avanzare i consolidati interessi americani nel mondo, facendo attenzione come al solito ad occultarli sotto la consueta e nauseante retorica dei principi di democrazia di cui gli Stati Uniti, in maniera del tutto arbitraria, continuano a proclamarsi portatori.
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di Michele Paris
Con il presidente iraniano Ahmadinejad giunto questa settimana a New York per partecipare all’annuale riunione dell’Assemblea Generale dell’ONU, la questione del programma nucleare di Teheran è tornata al centro del dibattito internazionale proprio mentre i protagonisti del negoziato diplomatico stanno lavorando ad un probabile nuovo incontro da tenersi nelle prossime settimane.
Se i vertici della Repubblica Islamica continuano a mostrare chiari segnali di disponibilità al dialogo, le loro controparti, con Washington in testa, non sembrano però realmente interessate al raggiungimento di un accordo, come ha ulteriormente confermato una recente intervista al rappresentante dell’Iran presso l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA).
La discussione pubblicata lunedì dall’agenzia di stampa IPS News tra il giornalista investigativo americano, Gareth Porter, e Ali Asghar Soltanieh rappresenta una delle rare occasioni offerte dai media occidentali di prestare attenzione alla versione iraniana su una delle questioni diplomatiche più manipolate e distorte a fini politici degli ultimi anni.
Parlando dell’incontro del 19 settembre scorso a Istanbul tra il capo della diplomazia UE, Catherine Ashton, e il numero uno dei negoziatori iraniani, Saeed Jalili, Soltanieh ha rivelato che il suo paese si è nuovamente offerto di accettare una delle principali richieste dei cosiddetti P5+1 (USA, Gran Bretagna, Francia, Russia, Cina e Germania), cioè quella di sospendere il processo di arricchimento dell’uranio al 20%. Questo livello risulta lontano dal 90% considerato necessario per l’impiego dell’uranio a fini bellici, anche se tecnicamente quest’ultima soglia appare facilmente raggiungibile a partire dall’arricchimento al 20%.
Come ci si aspetterebbe in una qualsiasi normale trattativa, la proposta di Teheran presentata nella metropoli turca prevede ovviamente in cambio alcune concessioni, tra cui in primo luogo l’allentamento o la cancellazione delle pesanti sanzioni economiche imposte all’Iran in questi anni.
Come ha sottolineato Gareth Porter, la proposta iraniana era stata più volte riportata dai giornali durante i precedenti incontri ma è stata per la prima volta confermata lunedì da un esponente di alto livello del regime iraniano. Sia a Istanbul a maggio che a Baghdad a giugno, così, i delegati di Teheran avevano prospettato un’interruzione volontaria del ciclo di arricchimento dell’uranio al 20%, ma i P5+1 sono risultati irremovibili sulla contropartita da offrire.
Con Washington in testa, in entrambe le occasioni venne infatti chiesto all’Iran di sottomettersi senza condizioni al volere occidentale. L’arricchimento al 20% andava perciò sospeso incondizionatamente e, solo in un secondo momento, la discussione avrebbe potuto concentrarsi su un graduale allentamento delle sanzioni.
Un secondo punto che rivela la sostanziale malafede dei governi occidentali e, in parte, anche dell’AIEA nelle trattative sul nucleare con l’Iran, si deduce inoltre da un’altra richiesta che Soltanieh sostiene di aver sottoposto a Lady Ashton durante il più recente vertice. Essa riguarda le accuse rivolte a Teheran di avere appunto utilizzato il proprio programma nucleare a fini militari. L’AIEA basa queste accuse su documenti di intelligence di Stati Uniti e di altri paesi, finora mai mostrati ai rappresentanti della Repubblica Islamica che, invece, vorrebbero avere a disposizione, così da poter formulare una risposta adeguata.
L’AIEA, tuttavia, non intende fare concessioni su questo punto e, come sostiene Soltanieh, i suoi emissari nei mesi scorsi sono andati vicini a cedere sulla condivisione dei documenti per poi ritrattare all’ultimo momento. Questo cambio di rotta è avvenuto con ogni probabilità in seguito alle pressioni degli Stati Uniti, forse preoccupati per la possibile pubblicazione di materiale che rivelerebbe come le accuse all’Iran di aver lavorato alla produzione di armi nucleari siano prive di fondamento.
Sull’opportunità di permettere all’Iran di accedere ai documenti di intelligence usati dall’AIEA aveva insistito più volte anche l’ex direttore dell’agenzia, Mohamed ElBaradei, il quale nella sua biografia “L’età dell’inganno” afferma che la mancata condivisione con Teheran di questo materiale equivale ad “accusare una persona senza rivelare quali siano le accuse mossegli contro”.
Infine, Soltanieh ha elencato un’altra più che ragionevole richiesta sottoposta all’AIEA, cioè che le questioni oggetto di negoziati, sulle quali l’Iran ha fornito risposte adeguate, vengano considerate concluse una volta per tutte. L’AIEA, al contrario, intende riservarsi la possibilità di riaprire tali questioni in qualsiasi momento anche se sono già state risolte. Questa facoltà, sostiene legittimamente Soltanieh, potrebbe di fatto comportare il prolungamento all’infinito dell’indagine sul nucleare iraniano.
L’intervista a Soltanieh, in definitiva, sembra confermare il desiderio del regime di Teheran di giungere ad una soluzione negoziata della questione nucleare, anche se l’Iran intende ottenere questo risultato senza soccombere agli inaccettabili diktat occidentali e mantenendo in vita il proprio programma civile, considerato del tutto legittimo in quanto il paese è firmatario del Trattato di Non Proliferazione.
Da un lato, insomma, la Repubblica Islamica vuole liberarsi delle sanzioni che stanno causando gravi danni alla propria economia, mentre dall’altro sente di poter mantenere un certo spazio di manovra, dal momento che il paese appare tutt’altro che isolato, a differenza di quanto sostengono media e governi occidentali. L’Iran, infatti, nonostante gli ostacoli continua ad esportare petrolio anche a paesi vicini a Washington, come l’India, e sul piano diplomatico ha incassato recentemente il sostegno al proprio programma nucleare dei 120 governi facenti parte del Movimento dei Paesi Non Allineati, riunitisi proprio a Teheran a fine agosto.
Toni relativamente concilianti sono stati espressi in questi giorni anche dal presidente Ahmadinejad a New York in varie interviste rilasciate ai media americani. In merito alla questione nucleare, Ahmadinejad ha sostanzialmente attribuito a Israele la responsabilità dell’innalzamento delle tensioni in Medio Oriente delle ultime settimane attorno ad un possibile attacco militare contro Teheran. Allo stesso tempo ha ribadito che il suo paese rimane disponibile a trattare con gli Stati Uniti, anche se le varie amministrazioni americane succedutesi in questi anni hanno perso ogni occasione per migliorare i rapporti con l’Iran.
Ahmadinejad ha poi confermato ancora una volta che il programma nucleare del suo paese ha esclusivamente scopi pacifici, mentre ha respinto le minacce di un’aggressione israeliana, la cui retorica guerrafondaia non sembra preoccupare più di tanto il regime di Teheran.
Da parte statunitense, invece, l’arrivo a New York di Ahmadinejad è stato accolto con l’annuncio di nuove misure punitive. Lunedì, infatti, il Dipartimento del Tesoro ha ufficialmente collegato la compagnia petrolifera di stato iraniana, National Iranian Oil Company (NIOC), ai Guardiani della Rivoluzione.
Dal momento che questi ultimi sono da tempo bersaglio di sanzioni unilaterali USA, la decisione permetterà al governo di Washington di prendere provvedimenti contro quelle banche che continueranno ad intrattenere rapporti d’affari con la NIOC.
La motivazione ufficiale del provvedimento è stata spiegata dalle parole farneticanti del deputato democratico Howard Berman, membro della commissione Esteri della Camera dei Rappresentanti, secondo il quale “le transazioni petrolifere con la NIOC vanno a rafforzare il ruolo dei Guardiani della Rivoluzione nel programma nucleare militare iraniano e nel sostenere attività terroristiche”.
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di Michele Paris
Il devastante incendio scoppiato un paio di settimane fa in una fabbrica pakistana, causando la morte di oltre 300 operai, rimasti intrappolati a causa del mancato rispetto delle più normali procedure di sicurezza, continua ad alimentare discussioni e polemiche. Il bilancio della strage è il più grave in assoluto nella storia dei disastri industriali e ha portato alla luce non solo le drammatiche condizioni in cui sono costretti i lavoratori di molte strutture produttive in paesi che offrono alle multinazionali manodopera a bassissimo costo, ma anche la discutibilità di un sistema di certificazione che spesso non garantisce l’applicazione effettiva delle basilari norme a difesa della salute dei lavoratori stessi.
L’incidente è avvenuto l’11 settembre scorso presso la Ali Enterprises, una fabbrica tessile situata nei pressi di Karachi, la più popolata città del Pakistan, di cui è considerata la capitale commerciale. Al momento dello scoppio dell’incendio erano presenti circa 650 operai che si sono trovati di fronte ad uscite di sicurezza e finestre sbarrate. Nella ressa per assicurarsi l’unica via d’uscita dall’edificio sono morti carbonizzati o asfissiati almeno 315 lavoratori, mentre i feriti sono stati oltre 200, tra cui molti versano tuttora in gravi condizioni. Secondo quanto riportato dai media, gli stipendi dei dipendenti di Ali Enterprises oscillano tra i 50 e i 100 dollari mensili.
Le condizioni di sicurezza della fabbrica colpita dal grave incendio sono comuni a quasi tutte le strutture di Karachi, una megalopoli di 18 milioni di abitanti che ospita circa dieci mila edifici adibiti ad attività industriali. Di questi ultimi, secondo quanto rivelato all’agenzia di stampa AFP da un ex amministratore locale, solo alcune decine risultano avere uscite di sicurezza adeguate.
Ali Enterprises produce in particolare jeans per svariati marchi occidentali, anche se finora l’unica azienda ad aver confermato di avere rapporti d’affari con la fabbrica pakistana è stata la catena tedesca di abbigliamento KiK. Nonostante un fatturato di oltre un miliardo di euro e i 3.200 punti vendita tra Germania, Austria ed Europea Orientale, KiK (“Kunde ist König”, “Il cliente è il Re”) è già stata nel recente passato al centro di polemiche per essersi rifornita in fabbriche del Bangladesh che impiegavano manodopera minorile pagata con un minimo di 18 euro al mese.
Dopo la strage di Karachi, KiK ha fatto sapere di avere ordinato negli ultimi anni tre ispezioni indipendenti nella struttura di Ali Enterprises. Un controllo svolto nel 2007 aveva rilevato gravi carenze del sistema di sicurezza anti-incendio ma un’ulteriore indagine nel dicembre dello scorso anno ha evidenziato invece una situazione adeguata e il sostanziale rispetto delle norme.
Come ha rivelato qualche giorno fa un articolo del New York Times, controlli ufficialmente indipendenti presso Ali Enterprises sono stati condotti anche più recentemente. Infatti, addirittura poche settimane prima del disastro, nella struttura di Karachi era stata eseguita un’ispezione patrocinata da Social Accountability International (SAI), un’organizzazione non governativa finanziata e sostenuta da aziende private, tra cui alcuni importanti marchi dell’abbigliamento come Burberry, Gap, Gucci, H&M, Marks & Spencer e Timberland.
Secondo il suo sito web, lo scopo di SAI sarebbe “il miglioramento dei luoghi di lavoro e delle comunità tramite lo sviluppo e l’implementazione di principi socialmente responsabili”. Per ottenere questo obiettivo, tra l’altro, nel 1997 SAI ha lanciato la prestigiosa certificazione SA8000 (Social Accountability 8000), modellata sulle convenzioni ONU e dell’Organizzazione Mondiale del Lavoro (ILO), per il cui ottenimento le aziende ispezionate devono mostrare l’adozione di “standard” internazionali in vari ambiti, tra cui quello della sicurezza e della salute dei luoghi di lavoro, della manodopera minorile e della libertà di associazione.
A condurre materialmente l’audit presso Ali Enterprises è stato un noto ente certificatore italiano, RINA Group, che il 20 agosto scorso ha rilasciato la certificazione SA8000 all’azienda pakistana. RINA Group ha fatto sapere di non essere disponibile a rilasciare alcun commento sulla vicenda, ma sul proprio sito ha pubblicato una dichiarazione ufficiale nella quale conferma che i suoi ispettori hanno effettuato l’audit a Karachi tra la fine di giugno e i primi di luglio, rilevando la presenza e il rispetto delle misure di sicurezza necessarie al rilascio della certificazione.
Il compito di RINA Group, si legge poi nello stesso comunicato, non è quello di verificare l’implementazione costante delle norme di sicurezza, né di monitorare il continuo rispetto di esse, incombenze che ricadono rispettivamente sui vertici aziendali e sulle autorità locali pakistane. Da questa dichiarazione e, soprattutto, dal bilancio della strage dell’11 settembre e dal racconto dei sopravvissuti, si deduce in definitiva che in occasione dell’audit la direzione di Ali Enterprises potrebbe essersi adoperata affinché venisse data la parvenza del rispetto delle regole di sicurezza presso il proprio stabilimento e che, in seguito all’ottenimento della certificazione, la situazione relativa al rispetto delle misure di sicurezza sarebbe tornata rapidamente allo stato precedente.
Se non esiste motivo per dubitare di quanto ha rilevato RINA Group, è tuttavia doveroso interrogarsi sulla legittimità e sulla moralità di un sistema - nel quale sono coinvolti i vertici delle aziende e le autorità locali di paesi come il Pakistan, le multinazionali e gli stessi enti certificatori - che nella piena legalità consente l’attestazione di fronte alla comunità internazionale del rispetto di norme di sicurezza che invece, nella realtà quotidiana dei luoghi di lavoro, in fabbriche come Ali Enterprises sono puntualmente ignorate, tanto da causare stragi orrende quando si verificano incidenti come quello dell’11 settembre scorso.
I fini ambiziosi e i risultati ottenuti nel miglioramento delle condizioni di lavoro in molti paesi, come vengono descritti sul sito web di SAI, appaiono a molti quanto meno discutibili.
A trarre un bilancio di questo sistema è stato ad esempio Richard Locke, professore di scienze politiche presso l’M.I.T. ed esperto in procedure di certificazione, il quale in un’intervista al New York Times ha affermato che “anche dopo più di un decennio di controlli privati, simili programmi - al di là di quanto ben finanziati od organizzati siano e di quanto addestrati risultino essere gli ispettori - di per sé stessi semplicemente non producono miglioramenti significativi e duraturi negli standard lavorativi della maggior parte delle fabbriche”.
Di fronte alla gravità dei fatti di Karachi, il governo pakistano ha subito creato un’apposita commissione d’inchiesta, mentre i tre proprietari di Ali Enterprises sono già apparsi di fronte ad un tribunale e i loro beni sono stati congelati. Immediatamente, inoltre, sono emersi i racconti di colossali abusi del sistema di regolamentazione del settore industriale del paese centro-asiatico che rivelano imbarazzanti e diffuse collusioni tra i vertici delle aziende, la classe politica e gli enti teoricamente preposti al controllo del rispetto delle norme di sicurezza nelle fabbriche.
Nonostante le promesse e il cordoglio espresso, gli stessi esponenti del governo di Islamabad condividono la responsabilità morale dell’accaduto, dal momento che essi contribuiscono a perpetuare una situazione nella quale la gran parte degli operai pakistani è costretta ad accettare condizioni di lavoro pericolose per una manciata di dollari.
Le élite politiche agiscono infatti in totale accordo con i vertici delle aziende locali, le quali cercano in tutti i modi di abbassare i propri costi di produzione.
Questa situazione viene sfruttata dalle corporation che operano su scala globale, alla ricerca di fornitori che offrano prodotti a prezzi sempre più bassi, scatenando così a loro volta una competizione tra le aziende di paesi come Pakistan o Bangladesh, dalla quale ad uscire puntualmente sconfitta è la forza lavoro indigena, sfruttata e ridotta in condizioni degne degli opifici europei del XIX secolo.
Una volta spente le polemiche seguite alla strage di Karachi, perciò, è estremamente probabile che le cose non cambieranno di molto, anche perché, come ha scritto l’AFP nei giorni seguiti al rogo, “in un mercato globale sempre più competitivo… i proprietari delle fabbriche si trovano a fronteggiare un difficile dilemma, dal momento che standard di sicurezza più elevati comportano maggiori costi di produzione”.
In tempi di crisi e con una concorrenza spietata, quindi, il sistema produttivo che consente alle grandi aziende di aumentare comunque i loro profitti farà in modo che ad essere sacrificata sarà sempre e comunque la sicurezza dei lavoratori, così come le loro aspirazioni a decenti retribuzioni e condizioni di vita.
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di Michele Paris
Qualche giorno fa, il comando americano delle forze di occupazione NATO in Afghanistan ha annunciato la sospensione a tempo indefinito delle operazioni militari e di addestramento condotte sul campo assieme all’esercito e alla polizia locali. La decisione è giunta in seguito ai ripetuti episodi che vedono membri delle forze di sicurezza afgane assassinare i presunti portatori di democrazia nel loro paese e minaccia di complicare seriamente i piani di Washington per il ritiro parziale del proprio contingente entro la fine del 2014.
A darne comunicazione, secondo i resoconti ufficiali senza informare anticipatamente i comandanti britannici e gli altri ufficiali dell’Alleanza, è stato martedì il generale americano James Terry, il quale ha spiegato che proseguiranno soltanto le operazioni congiunte “a livello di battaglione”. Tutte le altre, secondo le nuove direttive, d’ora in poi dovranno essere specificamente autorizzate almeno da un generale della coalizione.
Gli Stati Uniti sono giunti a questa conclusione dopo un fine settimana caratterizzato dagli ennesimi casi di attacchi “verde su blu”, cioè condotti da membri dell’esercito o della polizia afgani contro soldati americani o di altri paesi occupanti.
Nella giornata di domenica, infatti, un simile attacco ha causato la morte di 4 soldati statunitensi e il ferimento di altri 2 nella provincia meridionale di Zabul. Lo stesso giorno, nella provincia di Helmand, un soldato dell’esercito locale, credendo di colpire soldati stranieri, ha aperto il fuoco su un veicolo, ferendo alcuni “contractors” civili che viaggiavano a bordo. Il giorno precedente, invece, sempre a Helmand un poliziotto afgano aveva sparato uccidendo due soldati britannici nei pressi di un check-point.
In totale, sono già 51 i membri delle forze NATO uccisi quest’anno da quelli che dovrebbero far parte di un esercito alleato, contro le 35 vittime registrate in tutto il 2011. Tra gli episodi più eclatanti va ricordato quello dello scorso febbraio quando, nel pieno delle manifestazioni anti-americane esplose nel paese in seguito al rogo di copie del Corano in una base militare, un cittadino afgano uccise due importanti funzionari di Washington nell’edificio che ospita il ministero degli Interni a Kabul.
Il fenomeno degli attacchi “verde su blu”, come hanno fatto notare alcuni commentatori, è del tutto inedito per gli Stati Uniti nella loro lunga storia di occupazioni in paesi stranieri dove hanno collaborato con regimi fantoccio. Il numero così elevato di casi, e più in generale la situazione in cui versa l’Afghanistan, è il segnale impietoso dell’avversione diffusa tra la popolazione verso una brutale occupazione che dura ormai da undici anni.
A parte un’insolita recente ammissione da parte del capo di Stato Maggiore USA, generale Martin Dempsey, che questo genere di attentati minaccia la strategia americana in Afghanistan, pubblicamente i vertici politici e militari di Washington continuano a minimizzarne la gravità, attribuendo la responsabilità dei fatti a singoli individui disturbati o a Talebani infiltrati. Le motivazioni principali che sono state date per lo stop alle operazioni congiunte, inoltre, sarebbero le proteste esplose anche in Afghanistan in seguito alla diffusione del video che irride il profeta Muhammad e il recente attentato suicida che ha fatto 14 vittime, tra cui 10 stranieri.
Così, nel corso del suo viaggio in Giappone e in Cina, il segretario alla Difesa, Leon Panetta, ha assicurato che la fine delle operazioni congiunte in Afganistan fino al ristabilimento di condizioni minime di sicurezza non mette in pericolo il piano americano di relativo disimpegno dal paese centro-asiatico. Lo stesso presidente Obama, dopo un colloquio in video-conferenza con il presidente Hamid Karzai nella giornata di mercoledì, ha fatto sapere in un comunicato ufficiale che i due paesi intendono continuare a implementare i termini della partnership strategica siglata a maggio e che prevede il ritiro della maggior parte delle forze di occupazione alla fine del 2014.
Nonostante le rassicurazioni, gli attacchi “verde su blu” e la sospensione appena annunciata mettono effettivamente a rischio la “exit strategy” dell’amministrazione Obama, dal momento che essa si basa in primo luogo sull’addestramento delle forze di polizia e dell’esercito afgano, a cui dovrebbero essere progressivamente affidati i compiti di difesa e di mantenimento della sicurezza nel paese. Tale processo, che già sta incontrando non pochi impedimenti, verrà ora in gran parte interrotto in seguito alla decisione dei vertici militari statunitensi.
Già ai primi di settembre, peraltro, gli Stati Uniti avevano sospeso bruscamente l’addestramento condotto dalle Forze Speciali della Polizia Locale Afgana (ALP), dopo che nel mese di agosto un membro di quest’ultima aveva rivolto la propria arma contro due soldati americani, uccidendoli.
La gravità della situazione in Afghanistan, al di là dei proclami ufficiali, è risultata in tutta la sua evidenza anche da un devastante attacco messo in atto venerdì scorso da un gruppo di Talebani nella base Camp Bastion, nella provincia di Helmand. L’attentato è risultato essere il singolo episodio che ha causato i maggiori danni a equipaggiamenti militari NATO dall’inizio delle ostilità.
In quella che dovrebbe essere una delle strutture meglio difese dell’Afghanistan, dove è attualmente in servizio anche il principe Harry d’Inghilterra, i Talebani sono penetrati senza troppe difficoltà uccidendo due soldati della coalizione e facendo danni per 200 milioni di dollari dopo aver distrutto almeno 6 costosissimi aerei da guerra.
L’ostilità verso l’occupazione americana risulta diffusa a tal punto che il presidente Karzai continua ad essere costretto ad emettere comunicati ufficiali di condanna nei confronti dei propri benefattori. Solo negli ultimi giorni, Karzai ha criticato il mancato trasferimento alle autorità locali di circa 600 detenuti afgani, tuttora sotto custodia americana nonostante l’entrata in vigore di un apposito trattato a inizio settembre.
Una durissima condanna è giunta infine dal palazzo presidenziale in seguito all’ennesima strage compiuta dalle forze NATO domenica scorsa, nella quale un’incursione aerea ha massacrato 8 giovani donne, scambiate per insorti, mentre stavano raccogliendo legna da ardere durante le prime ore del mattino nella provincia di Laghman, non lontano da Kabul.
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di Michele Paris
Le settimane seguite alle convention dei due principali partiti americani hanno fatto registrare un certo consolidamento del margine di vantaggio nei sondaggi di Barack Obama e una parallela flessione del candidato repubblicano alla Casa Bianca. Nonostante il livello di gradimento tutt’altro che esaltante per il presidente democratico, Mitt Romney continua a pagare la profonda impopolarità delle politiche che minaccia di implementare in caso di vittoria a novembre e, allo stesso tempo, si ritrova a dover fare i conti con le conseguenze di una serie di gaffe estremamente rivelatrici della sua totale estraneità ai problemi della maggior parte della popolazione statunitense.
Il tradizionale effetto benefico generato dall’evento mediatico che assegna ufficialmente la nomination ai candidati alla presidenza sembra dunque avere favorito piuttosto nettamente Obama, mentre il suo rivale non è finora riuscito a spostare il dibattito politico sui temi economici e sui fallimenti dell’amministrazione democratica durante il primo mandato alla guida del paese.
A tenere banco sono state così le polemiche che hanno coinvolto lo stesso Romney, così come le discussioni sulle divisioni all’interno del suo team e, più in generale, di un partito che appare ben poco unito attorno alla scelta di un candidato che continua a sollevare parecchie perplessità a meno di sette settimane dal voto.
I più recenti sondaggi hanno invariabilmente registrato il vantaggio di Obama a livello nazionale, con margini attestati tra un minimo di un punto percentuale (49% a 48%), come nel rilevamento della settimana scorsa di Washington Post e ABC News tra i probabili votanti, e gli otto punti (51% a 43%) misurati da New York Times e CBS News tra gli elettori registrati.
Tra le ultime indagini, inoltre, spiccano quelle pubblicate martedì da Wall Street Journal/NBC news e dalla CNN. La prima indica Obama al 50% e Romney al 45% tra i probabili votanti, dopo che la situazione a metà agosto vedeva il presidente al 48% e il candidato repubblicano al 44%. Più equilibrata è invece la situazione secondo lo studio della CNN, con Obama che mantiene un margine di tre punti percentuali (49% a 46%).
Alla luce del sistema elettorale degli Stati Uniti, secondo il quale un candidato alla presidenza per vincere deve conquistare almeno 270 “voti elettorali” sui 538 assegnati complessivamente dai 50 stati americani, decisamente più importanti appaiono però gli equilibri tra gli stati considerati in bilico. Con alcune differenze a seconda delle analisi dei vari media, gli stati dove l’esito risulta incerto sono al momento nove - Colorado, Iowa, Nevada, New Hampshire, North Carolina, Wisconsin e, soprattutto, Florida, Ohio e Virginia - per un totale di 110 voti elettorali. Tutti questi stati nel 2008 sono stati vinti da Obama, il quale mantiene anche quest’anno un margine di vantaggio nella maggior parte di essi.
L’affanno di Mitt Romney a questo punto della competizione appare il sintomo di come lavoratori e classe media, nonostante lo sconforto nei confronti di Obama, ritengano ancora più pericoloso un ritorno alle ricette ultra-liberiste repubblicane in un periodo di persistente crisi economica e con una disoccupazione a livelli allarmanti.
La già difficile rimonta del miliardario mormone è stata ulteriormente complicata questa settimana dalla diffusione di un video sul sito web del magazine liberal Mother Jones nel quale il candidato repubblicano mostra tutto il suo disprezzo per le classi più deboli e la visione distorta che l’aristocrazia finanziaria americana ha della realtà economica e sociale contemporanea.
Come ampiamente riportato dai media, il filmato ritrae Romney nel corso di un evento per la raccolta fondi tenuto lo scorso mese di maggio presso la lussuosa dimora dello speculatore miliardario Marc Leder a Boca Raton, in Florida. Durante il raduno, per partecipare al quale era richiesta la cifra di 50 mila dollari a testa, Romney ha affermato che la sua campagna elettorale non intende cercare il voto di quel 47% della popolazione americana che “dipende dal governo, si sente una vittima, crede che il governo abbia la responsabilità di prendersi cura dei suoi problemi e di avere diritto all’assistenza sanitaria, al cibo e ad una casa”. Per Romney, cercare di convincere costoro a prendere in mano le sorti della propria vita sarebbe tempo sprecato, poiché, qualunque cosa si dica loro, finirebbero comunque per votare Obama.
Nell’ottica di Romney, dunque, sono gli americani più poveri a beneficiare illegittimamente della generosità del governo e non l’aristocrazia parassitaria di cui egli stesso fa parte e che gode di un sistema legale che sottrae risorse alle fasce più disagiate della popolazione per arricchire il vertice della piramide sociale tramite sussidi e tagli alle tasse, per non parlare dell’asservimento dell’intera classe politica, di fatto a libro paga dei poteri forti d’oltreoceano.
Romney descrive sostanzialmente come parassita quasi la metà degli americani, i quali a suo dire non pagherebbero alcuna tassa, quando la sua stessa fortuna, stimata in almeno 250 milioni di dollari, è stata accumulata nel settore del “private equity”, acquisendo aziende in difficoltà per poi spogliarle dei propri beni, licenziare senza scrupoli i dipendenti in esubero e rivenderle realizzando profitti stellari. La sua dichiarazione dei redditi relativa al 2011, inoltre, indica entrate per 20,9 milioni di dollari, sui quali ha pagato l’aliquota irrisoria del 14%, ben inferiore cioè a quella che grava su decine di milioni di lavoratori americani.
L’atteggiamento di Romney verso coloro che dipenderebbero dalla spesa pubblica per vivere rivela anche il desiderio tutt’altro che celato dei repubblicani di smantellare i rimanenti programmi pubblici di assistenza, desiderio peraltro ampiamente condiviso anche dai democratici, sia pure nascosto da una retorica più sfumata.
Tra le altre gaffe che continuano a tenere vivo il dibattito sull’adeguatezza del candidato Romney c’è anche quella commessa questa settimana, quando ha affermato che i palestinesi non sono interessati ad un accordo di pace con Israele e perciò la creazione di due stati per risolvere l’annosa crisi mediorientale è impraticabile. La settimana scorsa, infine, il candidato repubblicano aveva attirato su di sé le critiche dei suoi stessi compagni di partito per aver attaccato il presidente Obama nel pieno di una crisi internazionale in seguito all’assassinio dell’ambasciatore USA in Libia.
Di fronte ad uno scenario simile, sui giornali americani si stanno moltiplicando gli appelli dei sostenitori repubblicani per una revisione della strategia all’interno del team di Romney. A complicare le cose sono state però anche le rivelazioni di tensioni e rivalità crescenti tra i consiglieri storici dell’ex governatore e quelli reclutati più recentemente.
Nel partito, intanto, sembrano aumentare i timori non solo per una sconfitta annunciata nella corsa alla Casa Bianca, ma anche per i possibili effetti negativi che un candidato screditato e con poche prospettive di successo potrebbe avere sull’esito delle sfide per il Congresso e per le altre cariche locali. Per questo motivo, sono stati in molti tra i candidati repubblicani a prendere le distanze dalle dichiarazioni di Romney degli ultimi giorni.
La condotta di quest’ultimo nella campagna elettorale in corso, così, sembra avere spinto alcune sezioni delle élite economiche e finanziarie americane a puntare su Obama, sicure che il presidente democratico continuerà a difendere i loro interessi anche in un secondo mandato. Questa tendenza è stata in qualche modo confermata dall’aumento delle donazioni elargite negli ultimi tempi dai finanziatori più facoltosi all’organizzazione del presidente, il quale nel mese di agosto ha raccolto fondi in quantità superiore rispetto a Mitt Romney, invertendo per la prima volta gli equilibri che avevano caratterizzato i mesi precedenti.