- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Il Dipartimento di Stato americano ha ufficializzato la settimana scorsa la notizia - già apparsa qualche giorno prima sui media - della rimozione dall’elenco delle organizzazioni terroristiche straniere dei Mujahideen-e-Khalq (MeK) iraniani. Il successo diplomatico conseguito da questo gruppo che si batte per l’abbattimento della Repubblica Islamica è dovuto sostanzialmente ad una incessante e dispendiosa attività di lobby condotta in questi anni a Washington e alle prestazioni fornite ai servizi segreti di Stati Uniti e Israele nel tentativo di destabilizzare il regime di Teheran.
Come per molti gruppi o governi accusati di terrorismo e poi sdoganati per finire nella lista dei buoni a seconda delle necessità strategiche USA, anche i MeK si erano distinti per attacchi contro militari e diplomatici americani, nel loro caso condotti in territorio iraniano ai tempi dello Shah. Nati come un’organizzazione di ispirazione marxista, dopo aver contribuito al rovesciamento del regime filo-statunitense nel 1979 i MeK intrapresero ben presto una campagna terroristica contro la nuova Repubblica Islamica.
Durante la guerra tra Iran e Iraq del 1980-1988 si offrirono poi a Saddam Hussein, combattendo contro i propri connazionali e, al termine del conflitto, rimasero attivi in territorio iracheno, partecipando alla repressione contro la minoranza curda. Negli anni Novanta vennero aggiunti all’elenco americano delle organizzazioni terroristiche nell’ambito del tentativo di dialogo dell’amministrazione Clinton con il presidente riformista Muhammad Khatami. I MeK vennero infine disarmati dopo l’invasione dell’Iraq del 2003 e di fatto assoldati dagli Stati Uniti per la successiva campagna di destabilizzazione dell’Iran.
Nonostante il marchio terroristico, gli USA e Israele hanno coltivato intensi rapporti con i MeK, fornendo sostegno materiale e logistico per le loro attività. I due governi alleati hanno utilizzato i Mujahideen per ottenere dubbie informazioni di intelligence sul programma nucleare di Teheran e, soprattutto, per condurre operazioni segrete in territorio iraniano, compresi gli assassini di cinque scienziati nucleari a partire dal 2007. Le responsabilità dei MeK in queste morti sono state confermate, tra l’altro, da anonimi funzionari del governo americano citati lo scorso febbraio dalla NBC, i quali hanno anche affermato che l’amministrazione Obama era pienamente consapevole delle operazioni.
Le motivazioni ufficiali che hanno convinto il Dipartimento di Stato USA a prendere la recente decisione sui MeK sarebbero la loro astensione da atti terroristici da più di un decennio e il consenso alla richiesta americana di sgomberare la base di Camp Ashraf in Iraq, dove circa 3 mila Mujahideen trovano rifugio da anni. Costoro dovrebbero ora trasferirsi in un nuova apposita area nei pressi di Baghdad, in un primo passo verso l’abbandono definitivo del territorio iracheno. I MeK, inoltre, sostengono di volere continuare a battersi per il cambio di regime a Teheran, da sostituire con un governo secolare, ma con mezzi pacifici.
Nell’annunciare il loro depennamento dalla lista del terrore venerdì scorso, il Dipartimento di Stato ha affermato che il governo americano è tuttora preoccupato per “gli atti di terrorismo condotti dai MeK nel passato”, così come rimangono “seri dubbi sull’organizzazione, in particolare riguardo alle accuse di abusi commessi contro i propri membri”. Anche se l’amministrazione Obama non sembra dunque considerare i MeK una valida alternativa democratica all’attuale regime di Teheran, alla fine è prevalsa la decisione di assecondare le richieste provenienti da esponenti di entrambi gli schieramenti politici.
Il “delisting” dei MeK consentirà ora lo sblocco dei loro beni congelati in territorio americano, mentre potranno essere stanziati aiuti finanziari da parte del governo, con ogni probabilità per continuare le attività terroristiche e di sabotaggio in Iran in vista di un nuovo probabile aumento delle tensioni sulla questione del nucleare di Teheran.
La decisione americana, tuttavia, potrebbe diventare un boomerang per Washington, dal momento che i MeK, alla luce dei loro precedenti, sono estremamente impopolari tra la popolazione iraniana e gli stessi oppositori interni del regime. Secondo quanto scritto da un sito web vicino al “Movimento Verde” filo-occidentale, infatti, “non esiste organizzazione, partito o culto con una fama peggiore dei MeK in Iran”. Molti analisti ritengono inoltre che i membri dei MeK siano dei fanatici che coltivano una sorta di culto della personalità nei confronti dei loro leader, i coniugi di stanza a Parigi Massoud e Maryam Rajavi.
Per convincere il governo americano a riabilitare la loro organizzazione, già rimossa dalla lista del terrore dell’Unione Europea nel 2009, i MeK hanno in questi anni ingaggiato sostenitori autorevoli, tra cui spiccano l’ex sindaco repubblicano di New York, Rudolph Giuliani, l’ex governatore democratico della Pennsylvania, Ed Rendell, il ministro della Giustizia durante l’amministrazione Bush, Michael Mukasey, l’ex governatore democratico del Vermont e già candidato alla Casa Bianca, Howard Dean, l’ex direttore della CIA, Porter Goss, l’ex capo di Stato Maggiore, generale Hugh Shelton, l’ex comandante NATO, generale Wesley Clark, e tanti altri.
Queste personalità, molte delle quali tra i più accesi sostenitori della guerra al terrore, sono state tutte pagate profumatamente per tenere discorsi pubblici a favore di un’organizzazione definita come terroristica dal loro stesso governo. Alcuni di loro sono stati anche sottoposti quest’anno ad un’indagine del Dipartimento del Tesoro, poiché accettando i compensi dei MeK avrebbero violato la legge americana che vieta il sostegno in qualsiasi forma a gruppi terroristici.
Come ha scritto qualche giorno fa il reporter di Asia Times Online, Pepe Escobar, per ripulire la loro immagine e convincere le autorità americane a rimuoverli dalla lista del terrore, i MeK si sono anche affidati ai servizi di tre importanti studi legali di Washington - DLA Piper, Akin Gump Strauss Hauer & Feld e diGenova & Toensing - ai quali hanno versato 1,5 milioni di dollari nell’ultimo anno per far dimenticare assassini e attacchi terroristici vari.
Forse non a caso, lo sdoganamento dei MeK è giunto proprio nella settimana che ha visto Obama e il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, parlare all’ONU in termini minacciosi della crisi costruita attorno al nucleare iraniano, così da aumentare ulteriormente le pressioni su Teheran.
Come hanno scritto sul loro blog Race for Iran Flynt e Hillary Leverett, entrambi ex membri del Consiglio per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti, la lista del terrore degli Stati Uniti è un meccanismo quanto meno discutibile, visto che “negli anni le amministrazioni americane hanno manipolato cinicamente le designazioni, aggiungendo o rimuovendo organizzazioni o paesi per ragioni che poco o nulla hanno a che fare con il loro coinvolgimento in attività terroristiche”, come avvenne appunto con il protettore dei MeK, Saddam Hussein.
Ciononostante, aggiungono i Leverett, anche considerando la lista legittima, la mossa del Dipartimento di Stato di ripulire il curriculum di un’organizzazione responsabile di innumerevoli vittime civili, appare controproducente e finisce per screditare quel che resta dell’immagine tutta esteriore degli Stati Uniti come i protettori della democrazia e dei diritti umani in Medio Oriente.
Dall’Iran, dove si sostiene che le attività dei MeK abbiano causato la morte di 12 mila civili iraniani negli ultimi trent’anni, è subito giunta la condanna della decisione americana. Nella giornata di sabato la TV di stato ha ricordato che “esistono innumerevoli prove del coinvolgimento del gruppo in attività terroristiche”, mentre la riabilitazione dei Mujahideen mostra come gli Stati Uniti “distinguano tra terroristi buoni e cattivi” e “i MeK sono diventati ora i buoni perché Washington si serve di loro contro l’Iran”.
Oltre a rivelare ancora una volta il doppio standard utilizzato da Washington in materia di anti-terrorismo, la rimozione dei MeK dalla lista del terrore conferma infine che l’amministrazione Obama non ha nessuna intenzione di aprire un vero dialogo con l’Iran per risolvere la questione del nucleare. Anche se la retorica elettorale sembra suggerire la volontà della Casa Bianca di puntare ad una soluzione diplomatica, l’atteggiamento del governo USA indica chiaramente come, alle spalle dei cittadini americani, si stia preparando un nuova guerra criminale contro l’Iran, con conseguenze potenzialmente devastanti per l’intero pianeta.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Una delle promesse elettorali che permise a Barack Obama di trionfare nelle elezioni presidenziali del 2008 fu quella di rompere senza indugi con le pratiche gravemente lesive dei diritti civili messe in atto dall’amministrazione Bush nell’ambito della cosiddetta “guerra al terrore”. Tra i metodi anti-democratici adottati dal suo predecessore c’erano le intercettazioni, operate senza il mandato di un giudice, dei telefoni e dei dispositivi elettronici dei cittadini americani sospettati di avere legami con la rete terroristica internazionale. Il ricorso a questi sistemi, come rivela un recente studio dell’American Civil Liberties Union (ACLU), è aumentato vertiginosamente nel corso del primo mandato alla Casa Bianca del presidente democratico.
Per ottenere l’accesso alle informazioni del governo sulle intercettazioni, l’ACLU ha dovuto passare attraverso mesi di battaglie legali, dal momento che è stato necessario avviare un procedimento in tribunale secondo il Freedom of Information Act dopo che il Dipartimento di Giustizia aveva respinto la richiesta dell’associazione con sede a New York.
Alla fine, l’ACLU ha ottenuto i documenti che descrivono l’utilizzo per gli anni 2010 e 2011 di due sistemi di intercettazione definiti “pen register” e “tap and trace”, i quali servono rispettivamente a raccogliere informazioni in entrata e in uscita sulle comunicazioni telefoniche. Il materiale in questione indica come questi strumenti abbiano consentito al Dipartimento di Giustizia non solo di monitorare numeri di telefono, date e orari delle conversazioni, ma anche l’accesso ai social network, le e-mail e la navigazione internet in genere.
Complessivamente, le intercettazioni sono aumentate di circa il 60% tra il 2009 e il 2011, anno in cui il Dipartimento di Giustizia d’oltreoceano ha monitorato 37.616 telefonate, mentre il numero delle persone intercettate nello stesso periodo è più che triplicato, tanto che il totale degli ultimi due anni supera quello dell’intero decennio precedente. Per quanto riguarda il monitoraggio delle e-mail e del traffico web, sempre tra il 2009 e il 2011, l’aumento ammonta addirittura al 361%, dal momento che tale pratica era piuttosto rara negli anni scorsi.
Le informazioni così raccolte dal governo non riguarderebbero però il contenuto delle conversazioni telefoniche o della navigazione in rete. Per questo motivo, metodi come “pen register” e “tap and trace”, nonostante diano comunque accesso a dati sensibili degli utenti, possono essere messi in pratica con una certa facilità, visto che al governo è sufficiente sottoporre ad un tribunale un documento nel quale si afferma la necessità di ottenere informazioni rilevanti per un’indagine criminale in corso.
Con questa semplice procedura, l’agenzia governativa di turno può procedere con le intercettazioni senza che nessun giudice sia chiamato ad esprimersi sul merito della richiesta. In caso di intercettazioni per avere accesso al contenuto di conversazioni o e-mail, invece, il governo deve convincere un giudice che esse siano essenziali alle indagini e ottenere un mandato.
La stessa ACLU ha lasciato intendere che il numero delle intercettazioni condotte in questo modo dal Dipartimento di Giustizia sono solo la punta dell’iceberg. Nulla di ufficiale viene infatti reso pubblico relativamente ai programmi di sorveglianza elettronica del Dipartimento per la Sicurezza Interna, dei servizi segreti o delle forze di polizia locali.
I dati resi noti grazie all’ACLU sono solo l’ultima delle rivelazioni sull’invasione della privacy dei cittadini americani da parte del governo. Mentre qualche mese fa è stata confermata l’autorizzazione da parte di Obama all’impiego di droni armati in ricognizione sul territorio americano, ai primi di luglio il New York Times aveva scritto che nel solo 2011 le compagnie di telefonia mobile americane avevano ricevuto qualcosa come 1,3 milioni di richieste di informazioni riservate sui loro clienti dalle varie agenzie governative.
La collaborazione di queste compagnie con il governo per intercettare segretamente i cittadini americani, d’altra parte, va fatta risalire agli albori della “guerra al terrore”. Una collaborazione che nel 2006 portò in tribunale le compagnie telefoniche, prima che l’intervento del Congresso garantisse loro l’immunità da ogni azione giudiziaria. Il governo, in ogni caso, di fronte alle denunce legali sulle violazioni della privacy ha puntualmente posto il segreto di stato o ha fatto riferimento alle prerogative assegnate al presidente come “comandante in capo” in tempo di guerra.
Il programma di spionaggio domestico è dunque un altro esempio del disprezzo mostrato dai governi degli Stati Uniti per i diritti democratici dei suoi cittadini e del dettato costituzionale. Secondo molti giuristi, infatti, le intercettazioni senza il mandato di un giudice violano almeno il Primo e il Quarto Emendamento alla Costituzione americana, i quali proteggono rispettivamente la libertà di parola e da perquisizioni, arresti e confische senza un valido motivo.
I metodi invasivi come le intercettazioni telefoniche, assicura il governo, vengono utilizzati unicamente contro i sospettati di terrorismo, sia pure senza che vengano presentate prove concrete a loro carico, o di altri gravi crimini. Tali sistemi, tuttavia, con il persistere della crisi economica e l’aggravarsi delle tensioni sociali saranno sempre più diretti contro coloro che all’interno dei confini americani si oppongono ad un intero sistema politico al servizio dei grandi interessi economici e finanziari.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
L’espulsione dal Partito Comunista Cinese dell’ex astro nascente Bo Xilai indica con ogni probabilità la temporanea sospensione delle divisioni interne alla classe dirigente di Pechino in vista dell’imminente decennale avvicendamento ai vertici dello Stato. L’annuncio dell’incriminazione formale di Bo è giunto nella giornata di venerdì e si è accompagnato alla decisione di fissare per l’8 novembre prossimo la data dell’apertura del congresso di un partito che dovrà eleggere una nuova generazione di leader.
Il brusco stop alla più che promettente carriera politica di Bo Xilai è coinciso lo scorso mese di marzo con la sua rimozione dall’incarico di segretario del PCC di Chongqing in seguito al tentativo di defezione dell’ex capo della polizia della metropoli del sud-ovest cinese, Wang Lijun. Quest’ultimo, nel febbraio precedente, aveva chiesto asilo politico presso il consolato americano di Chengdu, cercando di coinvolgere il suo superiore nello scandalo legato alla morte dell’uomo d’affari britannico Neil Heywood.
Per il presunto avvelenamento di Heywood, ad agosto è stata condannata alla pena di morte, subito sospesa, la sua ex partner d’affari, nonché moglie di Bo Xilai, Gu Kailai, mentre lo stesso Wang proprio la settimana scorsa ha ricevuto una condanna a 15 anni di carcere dopo un processo-lampo nel quale era stato accusato di corruzione e di aver sviato le indagini sulla morte di Heywood.
I processi a Gu e a Wang hanno come previsto aperto la strada a quello appena annunciato ai danni di Bo, il quale singolarmente nei due precedenti dibattimenti non è mai stato nemmeno nominato, in un chiaro segno del disaccordo tra i vertici del partito circa la sua sorte. Alla fine, contro Bo sono state formalizzate numerose accuse, tra cui quella di avere seriamente violato la disciplina del partito, di avere ricevuto tangenti, di avere arricchito illegalmente i suoi familiari e di avere avuto relazioni sessuali “improprie” con un vasto numero di donne.
La cautela con cui il Politburo del PCC si è mosso per incriminare Bo rivela tutta la delicatezza del suo caso, sia per il sostegno di cui gode tuttora all’interno del partito sia perché l’esposizione dei suoi crimini avrebbe potuto rivelare la corruzione diffusa ad ogni livello della burocrazia statale, aprendo un indesiderato dibattito che rischierebbe di alimentare le tensioni sociali nel paese in concomitanza con il rallentamento dell’economia cinese.
Bo Xilai era considerato uno dei leader della cosiddetta “Nuova Sinistra”, fortemente critica delle politiche di aperture neo-liberiste della leadership uscente del presidente, Hu Jintao, e del primo ministro, Wen Jiabao. Il “modello di Chongqing” promosso da Bo combinava manifestazioni esteriori nostalgiche dell’era di Mao con la lotta senza quartiere alla criminalità organizzata e limitate politiche populiste di sostegno alle classi più disagiate. Ciò non ha impedito in ogni caso a Bo e alla sua cerchia di potere di arricchirsi enormemente.
Bo e la “Nuova Sinistra”, vicini alla fazione di Shanghai guidata dall’influente ex presidente Jiang Zemin, si battono inoltre per la protezione dei privilegi delle grandi compagnie statali, opponendosi alla fazione facente capo alla Lega della Gioventù Comunista, che annovera tra le sue fila le prossime due più alte cariche del paese - il presidente e il premier in pectore Xi Jinping e Li Keqiang - e che intende aprire ulteriormente il mercato cinese al capitale occidentale, come richiesto da tempo dagli ambienti finanziari internazionali.
In politica estera, invece, la fazione di Bo Xilai auspica un atteggiamento più severo nei confronti dell’aggressività mostrata dall’amministrazione Obama nel continente asiatico, così come nel fronteggiare le rivalità emerse con i paesi vicini in questi ultimi anni sul fronte delle dispute territoriali nel Mar Cinese Orientale e Meridionale.
Nonostante l’incriminazione di Bo, le divisioni all’interno dell’élite politica cinese sembrano tutt’altro che risolte in maniera definitiva. Lo stesso insolito ritardo con cui è stata comunicata la data del Congresso, così come il mancato annuncio pubblico dei candidati e del numero dei membri che comporranno il potente Comitato Permanente del Politburo del Partito Comunista Cinese, dove Bo Xilai aspirava ad entrare, indicano una persistente crisi politica e fratture ancora non sanate attorno alla leadership e alla direzione da dare al paese nei prossimi anni.
Le crescenti rivalità con Washington e le tensioni nella regione, la stagnazione economica e il raggiungimento di un livello allarmante del conflitto sociale interno, nell’immediato futuro non faranno che acuire lo scontro tra le fazioni che si contendono il potere, minacciando seriamente la stabilità della seconda economia del pianeta.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Massimiliano Ferraro
In India, secondo i dati ufficiali, oltre 90.000 bambini scompaiono nel nulla ogni anno. Un esercito di giovani vite disperse che rappresentano il lato oscuro di una potenza emergente dove il 35% della popolazione ha meno di quindici anni. Secondo un'inchiesta del Washington Post, i bambini indiani vengono venduti, a volte dai loro stessi genitori, per andare a lavorare nei campi o nelle fabbriche, ma nella maggior parte dei casi sono vittime di veri e propri rapimenti che si traducono in crudeli riduzioni in schiavitù.
I minori vengono segregati in città molto distanti dalla loro, costretti a chiedere l'elemosina o peggio avviati sulla strada della prostituzione. I più fortunati di loro riescono a fuggire ai loro aguzzini e a tornare a casa dopo anni di assenza. Ma è un lieto fine molto raro.
A finire preda dei ladri di bambini sono soprattutto i figli delle famiglie povere, contesti in cui l'ignoranza e le gravi difficoltà economiche non permettono ai genitori di portare avanti delle lunghe ricerche. Eppure, anche se ancora lunga e travagliata, la presa di coscienza degli indiani di questa piaga sta progressivamente aumentando. Come ha spiegato al giornale americano Bhuwan Ribhu, attivista impegnata per il rispetto dei diritti dell'infanzia in India, «solo vent'anni fa il problema dei bambini scomparsi non era minimamente considerato dalla popolazione ed il lavoro minorile non era nemmeno considerato un crimine».
Negli ultimi tempi le cose stanno lentamente cambiando, ma lo scoglio principale da superare rimane «la mancanza di volontà nel voler far rispettare la legge che è spesso al di fuori della portata della gente comune». A questo proposito è innegabile che siano esistite in qualche caso delle connivenze tra le forze di polizia e i mercanti di bambini. Più volte è stata denunciata la mancanza di professionalità nel portare avanti le indagini e non di rado la richiesta di tangenti per iniziare le ricerche.
L'attenzione sui rapimenti di minori da parte della società indiana è aumentata dopo lo sconvolgente caso avvenuto a Noida, un sobborgo di Nuova Delhi, dove nel 2006 i resti di diciassette bambine scomparse sono stati scoperti nella proprietà di un uomo d'affari. L'efferatezza di questi delitti è riuscita a scioccare l'opinione pubblica, mostrando per la prima volta all'India il dolore di migliaia di genitori.
Da allora si ripetono con frequenza i blitz della polizia nelle fabbriche e nelle piantagioni dove molti bambini rapiti, alcuni molto piccoli, lavorano dieci ore al giorno in condizioni disumane. E nelle ultime settimane il cambio di passo nella lotta ai ladri di bambini si è fatto vistoso. I media stanno facendo la loro parte diffondendo fotografie e filmati dei minori dispersi e finalmente anche il governo centrale sta preparando dei provvedimenti normativi per impedire l'impiego nel lavoro dei bambini al di sotto dei 14 anni.
Tuttavia per contrastare il traffico di giovani vite molto rimane ancora da fare: dei 450.000 casi di bimbi vittime dello sfruttamento registrati in India solo 25.000 hanno dato avvio a procedimenti giudiziari, di questi poco più di 3000 si sono conclusi con delle condanne. In particolare è l'Organizzazione Internazionale del Lavoro a far notare come i dati ufficiali sulla tratta dei minori spesso si discostino in maniera significativa da una più triste e nascosta realtà.
In paesi come l'India le statistiche non sono affidabili, e le 90.000 denunce di sparizioni annuali potrebbero rivelarsi solo la punta dell'iceberg di un fenomeno più diffuso addirittura di dieci volte: 900.000 piccoli fantasmi, dimenticati nel bel mezzo della corsa al progresso.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Secondo quanto sostenuto pubblicamente dal governo americano, gli aerei senza pilota (droni), utilizzati per assassinare presunti terroristi in territorio pakistano e altrove, rappresentano uno strumento di alta precisione che consente di ridurre al minino i danni collaterali e le conseguenze di un qualsiasi conflitto armato convenzionale sulla popolazione civile. Mentre cominciano ad emergere dubbi all’interno dell’amministrazione Obama circa la legalità dell’uso dei droni all’estero, a contraddire ancora una volta questa versione ufficiale è un recente studio condotto dalle università americane di Stanford e di New York, i cui ricercatori hanno messo in luce l’impatto devastante che simili operazioni belliche hanno sui civili in Pakistan.
La ricerca - intitolata “Living Under Drones” - è stata realizzata nell’arco di nove mesi e si basa, tra l’altro, su interviste raccolte in Pakistan con vittime e testimoni diretti dei bombardamenti operati con i droni statunitensi. Secondo quanto affermato nell’introduzione, il rapporto “presenta prove degli effetti dannosi e controproducenti dell’attuale politica degli Stati Uniti in materia di droni”, nonché “dell’impatto negativo sui civili” che vivono sotto la minaccia di queste incursioni.
Mentre le autorità americane continuano ad affermare pubblicamente che le operazioni con i droni causano un numero limitato di vittime civili, la realtà appare ben diversa. Sia pure in assenza di dati precisi, Stanford e New York University fanno riferimento a quelli raccolti dall’organizzazione indipendente britannica Bureau of Investigative Journalism, secondo la quale, con ogni probabilità sottostimando il reale impatto dei bombardamenti, tra giugno 2004 e metà settembre 2012 le vittime civili dei droni in Pakistan sono state tra 474 e 881, di cui almeno 176 bambini. La recente ricerca americana ha invece raccolto prove di un singolo attacco, avvenuto nel marzo 2011, che ha colpito i partecipanti ad un meeting tra leader tribali nel Waziristan del Nord, uccidendo in un solo colpo circa 40 persone.
Oltre al numero delle vittime, “Living Under Drones” mette in rilievo anche gli effetti della campagna dei droni americana sulla vita di tutti i giorni dei pakistani che vivono nel nord-est del paese. La presenza dei droni nei cieli 24 ore su 24 “terrorizza uomini, donne e bambini, causando ansia e traumi psicologici nelle loro comunità”, dal momento che chiunque potrebbe essere il bersaglio della prossima incursione.
Ciò comporta cambiamenti nella vita sociale di queste regioni dove, ad esempio, i bambini spesso non vengono più mandati a scuola perché troppo spaventati per uscire di casa o per timore che possano essere colpiti da un drone, mentre le tradizionali riunioni tribali per dirimere le contese tra le varie comunità sono state drasticamente limitate. Particolarmente temuti e cruenti sono poi i bombardamenti che di frequente seguono una prima incursione e che prendono di mira le persone che si recano sul luogo colpito per prestare soccorso alle vittime.
A parte i danni descritti, sostengono i ricercatori, l’efficacia dei droni appare quanto meno discutibile, dal momento che i terroristi di alto profilo uccisi in questo modo rappresentano appena il 2% del totale di quelli assassinati, mentre la maggior parte risultano essere operativi di medio o basso livello. Inoltre, le incursioni alimentano l’odio della popolazione verso gli Stati Uniti, trasformando la campagna dei droni in uno strumento di reclutamento da parte dei gruppi estremisti che si vorrebbero combattere. Vista l’impopolarità dei droni, infine, essi costituiscono una delle principali cause del deterioramento delle relazioni tra Washington e Islamabad.
La questione cruciale che emerge dalla ricerca delle due università americane riguarda poi le dubbie fondamenta legali sulle quali si basa l’impiego dei droni in Pakistan. Le incursioni aeree vengono condotte infatti senza alcuna trasparenza, visto che la lista dei bersagli viene stilata senza che l’amministrazione Obama passi attraverso un procedimento giudiziario legittimo, così che i sospettati di terrorismo uccisi risultano spesso non essere direttamente coinvolti nei fatti dell’11 settembre 2001.
Nonostante le durissime critiche agli Stati Uniti, gli autori della ricerca ritengono pienamente legittima la campagna anti-terrorismo di Washington in Asia centrale e uno dei loro obiettivi sembra essere perciò quello di invitare il governo a rivedere la propria strategia, in modo da evitare critiche o complicazioni legali.
A questo riguardo, un certo imbarazzo e preoccupazione sembra da qualche tempo pervadere la stessa amministrazione Obama, all’interno della quale stanno aumentando le voci di quanti vorrebbero fornire basi legali più solide alla campagna dei droni. A rivelarlo è un lungo articolo pubblicato martedì dal Wall Street Journal che fa luce anche sui difficili rapporti tra Stati Uniti e Pakistan e sull’ambivalenza di quest’ultimo paese relativamente all’utilizzo dei droni sul proprio territorio.
Il mutato atteggiamento di Islamabad, in seguito al peggioramento dei rapporti con Washington, è infatti alla base dei dubbi di molti funzionari del Dipartimento di Stato americano sulla piena legalità delle operazioni condotte dalla CIA in Pakistan. Secondo il Wall Street Journal, all’inizio della guerra in Afghanistan, USA e Pakistan erano soliti decidere di comune accordo sulle località e i bersagli da colpire con i droni.
Negli ultimi anni, invece, la principale agenzia di intelligence americana prende ormai le decisioni in questo ambito da sola e più o meno una volta al mese notifica via fax al Pakistan i piani delle incursioni con i droni, indicando la zona interessata. I destinatari dei fax sono i vertici dell’intelligence pakistana (Inter-Services Intelligence, ISI), i quali da tempo non forniscono più alcun riscontro agli americani. Secondo l’interpretazione americana, tuttavia, il Pakistan darebbe comunque il tacito via libera alle operazioni, dal momento che le autorità locali provvedono puntualmente a sgombrare lo spazio aereo indicato dalla CIA.
Questo atteggiamento di Islamabad, da dove il governo pubblicamente continua a condannare l’uso dei droni, viene considerato troppo pericoloso da parte dei consiglieri legali del Dipartimento di Stato, poiché, a differenza di altri paesi come Yemen e Somalia, non prevede un consenso esplicito ad operazioni che potrebbero essere considerate veri e propri atti di guerra. Perciò, in molti premono sull’amministrazione Obama per studiare un'altra base legale, così da mettere al riparo il governo da possibili azioni legali e dalle proteste dell’opinione pubblica o delle associazioni a difesa dei diritti civili.
L’ambiguità del Pakistan, a sua volta, appare chiaramente studiata a tavolino. In questo modo, infatti, il governo può prendere le distanze dalle impopolari incursioni americane, mentre allo stesso tempo viene data una sostanziale approvazione all’uso dei droni, confermata anche dal fatto che non vengono messe in atto misure concrete per impedirle.
La condotta pakistana riflette in definitiva la situazione a dir poco complessa che il governo deve fronteggiare, cercando da un lato di contenere la rabbia popolare e dall’altro di salvaguardare i rapporti con gli Stati Uniti, da dove continuano ad arrivare aiuti economici vitali per la sopravvivenza della classe politica locale.