- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Le proteste anti-giapponesi esplose recentemente in Cina sono continuate nella giornata di martedì, aggravando ulteriormente lo scontro diplomatico in corso tra la seconda e la terza potenza economica del pianeta attorno alla sovranità rivendicata da entrambe su uno sparuto arcipelago nel Mar Cinese Orientale. La disputa risponde in parte a necessità di politica interna dei due paesi, ma rientra anche nel quadro dell’offensiva nel continente asiatico degli Stati Uniti, i quali proprio lunedì hanno annunciato una nuova iniziativa destinata ad infiammare gli animi nella regione.
Le isole contese da decenni sono le Diaoyu - Senkaku per il Giappone - e vengono rivendicate anche da Taiwan. Tokyo se ne impossessò dopo la prima guerra sino-giapponese (1894-95) e dal 1945 al 1971 furono amministrate dagli Stati Uniti, per poi tornare nuovamente sotto il controllo nipponico. Le isole disabitate si trovano al largo delle coste orientali cinesi e, oltre a conservare considerevoli giacimenti di petrolio e gas naturale, rappresentano un’importante porta di accesso all’Oceano Pacifico.
Ad innescare l’ultimo capitolo dello scontro è stato il recente acquisto delle isole da parte del governo di Tokyo dalla famiglia giapponese che ne deteneva la proprietà. Secondo il premier Yoshihiko Noda la decisione sarebbe stata presa per allentare le tensioni, dal momento che la mossa dell’Esecutivo ha evitato che le isole venissero acquistate dal governatore di Tokyo, il quale aveva assunto toni ben più combattivi nei confronti della Cina, promettendo il lancio di una serie di progetti per lo sviluppo delle isole stesse.
Pechino, tuttavia, non ha interpretato in questo modo la nazionalizzazione delle isole Diaoyu ed ha manifestato tutta la propria rabbia, scatenando di fatto un’ondata di proteste contro il vicino orientale all’interno dei propri confini.
Nei giorni scorsi, così, sono stati registrati numerosi assalti a esercizi commerciali e a fabbriche giapponesi in Cina, mentre centinaia di manifestanti si sono riuniti davanti alle rappresentanze diplomatiche di Tokyo. Le principali aziende giapponesi, come Mazda, Mitsubishi, Toyota, Honda, Panasonic, Uniqlo e Canon, hanno perciò deciso di sospendere le loro attività produttive, mentre numerosi cittadini giapponesi residenti in Cina sono tornati in patria.
Dopo un momentaneo ritorno alla normalità, le tensioni sono tornate a salire nella giornata di martedì, in concomitanza con l’anniversario di un’incursione giapponese in territorio cinese avvenuta nel 1931, considerata l’inizio dell’occupazione nipponica durata fino al 1945. Sempre ieri, poi, due attivisti giapponesi sono sbarcati sulle isole contese. Alla nuova provocazione, Pechino ha risposto con una protesta formale presentata a Tokyo e rivendicando il diritto ad intraprendere ulteriori azioni per riaffermare la propria sovranità.
Nel pieno dello scontro, gli Stati Uniti lunedì hanno gettato altra benzina sul fuoco con il Segretario alla Difesa, Leon Panetta, che ha annunciato assieme al ministro della Difesa di Tokyo, Satoshi Morimoto, il raggiungimento di un accordo tra i due alleati per il dispiegamento di un secondo sistema di difesa anti-missilistica “X-band” sul territorio giapponese in aggiunta a quello già esistente.
Il capo del Pentagono ha ribadito più volte che il nuovo scudo non è rivolto alla Cina ma servirà unicamente a difendere il Giappone da eventuali attacchi a sorpresa della Corea del Nord. Pechino, tuttavia, ha correttamente interpretato la mossa americana come una minaccia al proprio deterrente nucleare, oltretutto considerato già relativamente debole. Per questo, l’annuncio di Panetta ha suscitato le critiche da parte del governo cinese, già adirato per le provocazioni giapponesi, con ogni probabilità fomentate proprio da Washington.
L’ombra del sistema di difesa in Giappone ha accompagnato così l’arrivo di Panetta a Pechino per l’incontro con il probabile prossimo presidente cinese, Xi Jinping, da poco riapparso sulla scena pubblica dopo parecchi giorni di assenza che avevano alimentato una serie di speculazioni circa la sua salute e la solidità della sua posizione all’interno del partito.
In Cina da martedì, Panetta ha sollecitato il governo cinese ad intensificare i rapporti tra i vertici militari dei due paesi, così da contenere il più possibile il rischio di un confronto armato in Estremo Oriente a causa di incomprensioni tra le due parti. I toni del Segretario alla Difesa sono stati decisamente moderati, dal momento che ufficialmente l’amministrazione Obama intende costruire relazioni bilaterali pacifiche con la Cina.
La svolta in Asia annunciata dalla Casa Bianca fin dal 2009 si è risolta però in questi ultimi anni in una politica di sostanziale accerchiamento della Cina e in una serie di provocazioni, spesso tramite gli alleati di Washington nella regione, che non fanno altro che aumentare il rischio di una guerra dalle conseguenze incalcolabili.
Pur mantenendo ufficialmente una posizione neutrale, gli USA si sono in realtà inseriti anche nelle dispute territoriali che coinvolgono la Cina e altri paesi dell’area attorno a varie isole del Mar Cinese Orientale e Meridionale. Infatti, sia Panetta che il Segretario di Stato, Hillary Clinton, hanno più volte fatto riferimento all’applicazione del trattato di alleanza tra Stati Uniti e Giappone in caso di esplosione di un conflitto attorno alle isole Diaoyu. Allo stesso modo, Washington insiste nel chiedere una soluzione multilaterale alle contese territoriali in Asia orientale, mentre Pechino afferma da tempo di voler risolvere le questioni tramite negoziati bilaterali e senza interferenze esterne.
Con i repubblicani che premono per una linea dura nei confronti di Pechino, a poche settimana dalle elezioni presidenziali il presidente Obama questa settimana ha aggiunto infine un ulteriore motivo di scontro. Gli Stati Uniti hanno infatti chiesto all’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) di aprire un procedimento contro la Cina, il terzo dell’anno, in merito alle presunte sovvenzioni garantite dal governo agli esportatori di componenti automobilistici.
Al di là del ruolo americano nello scontro tra Cina e Giappone, le manifestazioni di protesta a cui si sta assistendo in questi giorni sono anche la conseguenza di strategie messe deliberatamente in atto dai governi di entrambi i paesi per soffiare sul fuoco del nazionalismo, così da distogliere l’attenzione delle rispettive popolazioni dai crescenti problemi interni
Il regime di Pechino è infatti alle prese con un netto rallentamento della propria economia, ma anche con un complicato passaggio di consegne decennale ai vertici del Partito Comunista e con una serie di scandali che coinvolgono svariati esponenti di spicco dell’élite politica del paese. Con una classe dirigente sempre più divisa sulla direzione da dare alla Cina di fronte alle sfide del prossimo futuro - a cominciare dalla crescita economica e dalla rivalità con gli Stati Uniti - e con tensioni sociali latenti sempre pronte ad esplodere, non c’è dubbio che il governo abbia contribuito a diffondere un sentimento nazionalista e anti-giapponese.
La risposta talvolta molto dura riservata dalle forze di sicurezza ai manifestanti è però anche il sintomo di un timore mai sopito tra la dirigenza comunista di una possibile esplosione del malcontento popolare verso lo stesso regime in un frangente storico particolarmente delicato. A confermare un simile pericolo è stato tra l’altro il resoconto di un giornale di Hong Kong, il quale nei giorni scorsi ha riportato la notizia dell’arresto di alcuni manifestanti nella città meridionale di Shenzen, scesi in piazza non tanto per protestare contro il Giappone quanto per chiedere democrazia e rispetto dei diritti umani in Cina.
La strumentalizzazione del nazionalismo anti-cinese è alla base anche del comportamento provocatorio di Tokyo. Qui, il governo Noda appare sempre più impopolare in vista delle elezioni del 2013, dopo che la crisi del debito e il rallentamento dell’economia hanno portato come altrove all’adozione di misure fortemente avversate dalla popolazione, innescando un sentimento di ostilità diffuso verso la classe politica giapponese.
I rapporti commerciali tra i due paesi rimangono comunque estremamente solidi, tanto che gli scambi bilaterali vengono valutati attorno ai 350 miliardi di dollari l’anno. Con una posta in gioco di simili proporzioni, appare perciò poco probabile che lo scontro in corso tra Tokyo e Pechino possa precipitare fino a risolversi in un rovinoso confronto militare.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
L’imponente sciopero indetto dagli insegnanti della scuola pubblica di Chicago è entrato lunedì nella seconda settimana dopo che i loro delegati sindacali hanno respinto nella giornata di domenica una proposta di accordo negoziato con le autorità scolastiche cittadine. La protesta degli insegnanti è la più massiccia da 25 anni a questa parte negli Stati Uniti ed ha assunto da subito la connotazione di una lotta per la salvaguardia dell’educazione pubblica nel paese, sotto attacco bipartisan sia a livello locale che federale.
Quella in corso a Chicago è anche la più recente manifestazione delle tensioni sociali e dei profondi malumori diffusi tra la popolazione americana nei confronti della risposta delle élite politiche ed economiche alla recessione globale e alla crisi del capitalismo a stelle e strisce.
In prima linea contro gli insegnanti in sciopero c’è il sindaco di Chicago, l’ex capo di gabinetto del presidente Obama, Rahm Emanuel, ben deciso ad implementare a tutti i costi una “riforma” del sistema educativo cittadino in gran parte basata sulla chiusura di un numero considerevole di scuole pubbliche e sulla promozione delle cosiddette “charter schools”, istituti privati sovvenzionati con fondi pubblici.
Inoltre, gli scioperanti protestano contro l’utilizzo di test unificati a cui sottoporre annualmente gli studenti e i cui risultati serviranno in parte a valutare le prestazioni degli insegnanti, i quali, in mancanza di risultati, potranno essere licenziati con un preavviso massimo di un anno.
Questo metodo, in linea con il programma federale “Race to the top” dell’amministrazione Obama, è stato creato appositamente per fornire una giustificazione alla chiusura delle scuole pubbliche meno efficienti, quasi sempre situate nei quartieri più poveri e degradati. In tal modo, la classe dirigente d’oltreoceano potrà scaricare sugli insegnanti le responsabilità della crisi economica e sociale, nonché del continuo taglio dei fondi per l’istruzione pubblica, che si riflettono in maniera determinante sul rendimento degli studenti nei distretti più problematici.
Inoltre, i risultati negativi dei test previsti, che porteranno al licenziamento degli insegnanti con maggiore esperienza e anzianità, permetteranno la loro sostituzione con neo-assunti a cui verranno garantiti stipendi e diritti decisamente inferiori.
A combattere questa battaglia sono così 26 mila insegnanti di Chicago, la cui astensione dal lavoro a partire da lunedì della settimana scorsa ha tenuto fuori dalle aule più di 300 mila studenti. Nel timore di vedersi sfuggire la situazione di mano, visto anche il sostegno raccolto in città e a livello nazionale dagli insegnanti in sciopero, l’amministrazione comunale e i vertici del sindacato Chicago Teachers Union (CTU) hanno cercato in tutti i modi di far rientrare la protesta nel fine settimana.
Il confronto con il sindaco e l’autorità che gestisce le scuole pubbliche cittadine (Chicago Public Schools, CPS) ha perciò portato ad una bozza di accordo, i cui dettagli il CTU ha cercato di tenere nascosti ai propri affiliati fino all’ultimo momento, così da forzare un voto dei delegati prima ancora che gli iscritti potessero conoscerne il contenuto.
Il tentativo non è però andato a buon fine e domenica pomeriggio i punti di un accordo già raggiunto giovedì sono stati resi noti. Successivamente, gli 800 rappresentanti degli insegnanti hanno votato per continuare lo sciopero, assestando un colpo alla credibilità del CTU tanto più grave quanto i delegati sono ritenuti molto più vicini alla linea della dirigenza del sindacato rispetto alla maggioranza degli iscritti.
La presidente del CTU, Karen Lewis, ha tuttavia già programmato un nuovo voto per martedì sullo stesso testo, senza che siano previsti altri negoziati, nella speranza che altri due giorni di pressioni e attacchi da parte della stampa agli scioperanti convinca i delegati ad esprimersi a favore della bozza di accordo e a far cessare la protesta. Sull’eventuale accettazione dell’accordo dovranno in ogni caso esprimersi tutti i membri del sindacato, ma il loro voto verrà chiesto solo dopo che lo sciopero sarà terminato.
L’accordo presentato domenica rappresenta una capitolazione pressoché totale alle richieste di Rahm Emanuel e include solo trascurabili concessioni che il sindacato si è già affrettato a presentare come successi. Per il sindaco, il quale in seguito al voto di domenica ha minacciato azioni legali per far rientrare lo sciopero, l’azione di protesta sarebbe illegittima perché gli insegnanti starebbero scioperando per motivi attorno ai quali, secondo la legge dello stato dell’Illinois, non hanno il diritto di farlo e perché la loro astensione dal lavoro mette in pericolo la salute e la sicurezza degli studenti.
Per molti scesi nelle strade di Chicago in questi giorni lo scrupolo verso gli studenti mostrato dal sindaco è apparso quanto meno singolare, dal momento che le politiche messe in atto dalla sua amministrazione e dai suoi compagni di partito intendono distruggere la scuola pubblica per mettere l’educazione nelle mani di privati il cui unico obiettivo è il profitto.
Secondo quanto rivelato recentemente dal Chicago Tribune, infatti, l’ex braccio destro di Obama sarebbe pronto ad annunciare, dopo la fine dello sciopero in corso, un piano che prevede la chiusura di 120 dei 600 istituti pubblici di Chicago nei prossimi cinque anni e l’apertura di 60 nuove “charter schools” che andrebbero ad aggiungersi alle 100 già esistenti.
A differenza della maggior parte degli insegnanti che rappresenta, il CTU condivide sostanzialmente gli obiettivi della “riforma” della scuola pubblica di Emanuel. Il sindacato ha dimostrato infatti di accettare la tesi di quanti affermano che il ridimensionamento dell’educazione pubblica a favore dei privati sia inevitabile, dal momento che le risorse economiche sono ormai insufficienti, anche se miliardi di dollari di denaro pubblico vengono regolarmente sborsati per guerre imperialiste e per sovvenzionare banche e speculatori di Wall Street.
La “riforma” promossa a Chicago da Rahm Emanuel e su scala nazionale dall’amministrazione Obama raccoglie il consenso anche di tutti i maggiori media americani e dell’intera classe politica democratica e repubblicana, contro cui gli insegnanti si trovano in questi giorni a combattere.
I resoconti dello sciopero sui giornali continuano così a sottolineare i disagi causati ai genitori che non possono mandare i loro figli a scuola, mentre si moltiplicano gli editoriali che attaccano gli insegnanti, come quello pubblicato settimana scorsa dal New York Times e che senza mezzi termini ha definito la protesta una “follia”.
I repubblicani, da parte loro, nonostante il duro scontro elettorale in vista del voto di novembre, hanno manifestato tutta la loro solidarietà con il sindaco democratico e le autorità scolastiche di Chicago, come il candidato alla vice-presidenza, Paul Ryan, il quale ha affermato più volte di condividere in pieno la condotta di Rahm Emanuel.
La posizione del sindacato degli insegnanti appare sempre più lontana dagli interessi dei suoi membri, principalmente a causa di un appiattimento ormai quasi totale sul Partito Democratico. Il CTU fa parte dell’American Federation of Teachers (AFT), a sua volta affiliata all’AFL-CIO, vale a dire la più grande federazione sindacale degli Stati Uniti, e tutti appoggiano la campagna per la rielezione di Barack Obama, alimentando l’illusione tra i loro iscritti che solo i democratici, se debitamente pressati dal basso, possano mettere in atto politiche a beneficio di lavoratori e classe media.
Questa subordinazione dei sindacati ad un partito che è espressione unica dei grandi interessi economici e finanziari americani fa in modo che i loro vertici finiscano puntualmente per far accettare ai propri iscritti imposizioni e ricatti, smantellando a poco a poco i diritti conquistati in decenni di dure battaglie.
Il tradizionale sodalizio tra sindacati e Partito Democratico, d’altro canto, fa sì che il prolungarsi dello sciopero a Chicago possa trasformarsi in un motivo di serio imbarazzo anche per il presidente Obama, proprio mentre necessiterebbe di un fronte compatto tra i suoi sostenitori in vista delle ultime durissime settimane di campagna elettorale per la Casa Bianca.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Vincenzo Maddaloni
L’ultima critica feroce è di qualche giorno fa. Appare sul giornale on-line Elaph a firma di Ghassan Muflih, editorialista noto in tutto il Medio Oriente. Cosa ha scritto Ghassan Muflih per suscitare tanto scalpore? Egli ha “semplicemente” raccontato ai suoi lettori chi sono i veri responsabili del prolungarsi del conflitto in Siria e perché Bashar al-Assad non è stato ancora rimosso. "L'Occidente è favorevole alle richieste del popolo siriano [di vivere] nella libertà e nella dignità, ma non incoraggia il successo della rivoluzione", ha scritto Muflih. E ha spiegato: "Le ragioni sono legate al desiderio di assecondare Israele che vuole la distruzione della Siria per opera delle bande di Assad. L’Occidente le si accoda sventolando argomenti falsi e pretestuosi come quando pontifica sulle forti tensioni cresciute tra brigate partigiane autoctone contrarie ad Al Qaeda e i gruppi fondamentalisti pronti a combattere al suo fianco. Oppure quando parla di un vero e proprio scontro tra i combattenti laici quelli religiosi. Insomma l’Occidente si adopera in ogni modo per esaudire la richiesta di Israele”.
Va pure detto che sebbene la rivolta contro il governo di Assad duri da diciotto mesi, egli gode ancora di una certa popolarità e può ancora contare sulla fedeltà di una gran parte del suo esercito. Si aggiunga pure che a livello regionale ed internazionale la contrapposizione attorno alla crisi siriana - che essenzialmente vede Russia, Cina e Iran schierati contro Stati Uniti (ed alcuni paesi europei), Arabia Saudita, Qatar e Turchia - è più aspra che mai.
Anche perché la recente decisione americana di sottoporre al Consiglio di Sicurezza una risoluzione che ponga la crisi siriana sotto la giurisdizione del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite (che implica l’eventuale uso della forza) ha rappresentato un’ulteriore escalation, e il conseguente veto russo-cinese ha determinato una nuova, grave spaccatura a livello internazionale che certamente non giova a chi combatte per la caduta del regime di Assad, come lamenta appunto Ghassan Muflih, l’editoriale del quale è stato ripreso anche da alcuni giornali americani.
Naturalmente, l’opposizione che combatte al fronte è rappresentata soltanto in parte dai cittadini che sognano la democrazia. Migliaia sono i fondamentalisti islamici che li affiancano e che con la rivolta popolare, pure legittima e in parte genuina, niente hanno a che fare. Uno scenario che Parigi pare ignorare quando ha annunciato di voler inviare materiale (compresi sistemi anti-aerei) in alcune aree in mano agli insorti, in modo da poter creare una sorta di mini zone dove l’esercito cosiddetto di liberazione possa muoversi con maggiore sicurezza. Indiscrezioni rilanciate dall’Associated Press sostengono che gli Usa si preparano a schierare altri 007 e diplomatici in territorio turco, al confine con la Siria con il compito - assicurano - di coordinare le azioni dei ribelli sulla linea del fronte, senza precisare però la connotazione politica dei ribelli che intendono aiutare.
Stando così le cose, meglio si capisce perché la maggior parte dei media occidentali ha ignorato il XVI vertice dei Paesi Non Allineati (NAM) che si è tenuto a Teheran dal 26 al 31 agosto. Eppure vi hanno partecipato 120 Stati i quali rappresentano la maggioranza della popolazione mondiale e dell’economia globale. Dovremmo davvero pensare che tutte queste delegazioni si siano spostate per niente?
Creato nel 1956 da Nasser, Nehru, Tito e Sihanouk, il NAM punta ad affermare l’indipendenza e la sovranità delle nazioni contro la logica dei patti militari. Si tenga a mente che durante la Guerra Fredda, i membri non erano né alleati militari degli Stati Uniti né dell’Unione Sovietica. Da sempre il loro vertice è una sorta di forum al termine del quale si stende la dichiarazione finale in cui di norma si evidenziano i temi classici della sovranità, del disarmo e dell’uguaglianza tra le nazioni. Sicché è destinata a diventare storica la dichiarazione finale di qualche giorno fa proprio per i suoi contenuti davvero straordinari che non hanno precedenti nella storia appunto del movimento.
Innanzitutto c’è l’Iran, nuovo presidente del NAM, che ha istituito un segretariato provvisorio per tutti i tre anni della sua presidenza. Esso sarà diretto da una troika composta dall’Iran e dall’Egitto, nonché dal Venezuela, che sta emergendo come un attore inevitabile delle relazioni internazionali. Questi tre Stati rappresentano tre continenti (Asia, Africa, America), ma anche tre scelte di società (una rivoluzione spirituale, l’accettazione del capitalismo liberale, il socialismo del XXI secolo).
Una iniziativa, quella iraniana, che un diplomatico di consumata esperienza come l’indiano Melkulangara Bhadrakumar giudica “molto interessante” poiché spiega: “Il neopresidente egiziano Mohamed Morsi ha chiesto apertamente il cambio di regime in Siria, mentre Iran e Venezuela sarebbero molto ambivalenti sul senso di questo concetto. Ma alla fine, tutti e tre sono giunti all’accordo che la ‘transizione’ deve essere un processo gestito interamente dalla società siriana, senza alcun intervento esterno.” E quindi, conclude Bhadrakumar, “ciò che conta infinitamente più di ogni altra cosa è che Teheran e il Cairo condividano un progetto che respinge ogni intervento straniero per la soluzione della crisi siriana.
L’intesa raggiunta diventa un fatto ancora più importante del destino di Assad medesimo”. Insomma, l’impegno condiviso e declamato, urbi et orbi, mostra il ruolo che l’Iran sciita e l’Egitto sunnita intendono svolgere in Medio Oriente. E’ la nuova risposta religiosa all’ambiguo laicismo sventolato dagli americani e dai loro alleati, al rigido islamismo dei sauditi, a Israele che incoraggia il massacro in Siria e pretende una resa dei conti con l’Iran.
Questo accade sebbene il presidente egiziano Mohammed Morsi abbia vissuto ed abbia studiato per lungo tempo negli Stati Uniti, abbia lavorato per la NASA e sia stato professore in quel Paese. Evidentemente la familiarità con il sistema politico statunitense gli ha consentito di giuocare un ruolo chiave nella creazione dei contatti tra gli Stati Uniti e la Fratellanza Musulmana, che rapidamente si sono sviluppati portando alla visita di una delegazione dei Fratelli a Washington, dove erano stati ricevuti da alti funzionari della Casa Bianca, del Dipartimento di Stato e del Congresso degli Stati Uniti, ed erano stati festeggiati dai think tank connessi con le istituzioni degli Stati Uniti.
Sicché Morsi è ben lungi dall’essere uno sconosciuto a Washington, anzi. Dopotutto è risaputo che in Siria i guerriglieri dei Fratelli musulmani combattono dalla parte dell’opposizione al regime di Assad, fianco a fianco con i tagliagole libici di Al Qaeda, portati in Turchia da aerei inglesi, americani e francesi. Inoltre Qatar e Arabia Saudita, con i loro servizi segreti e ricchi privati, convogliano - è cosa altrettanto nota - denaro alla Fratellanza e ai gruppi a lei vicini.
Pertanto il fatto che gli iraniani abbiano presentato una proposta che ha soddisfatto Morsi, il quale da oggi si schiera (quasi obliando la repressione di Assad) per il non-intervento straniero in Siria, diventa non soltanto un successo della diplomazia di Teheran, ma la piattaforma per il rilancio del nuovo ruolo dell’Islam in Medio Oriente che, capovolgendo lo scenario della Mezzaluna, esalta un’alleanza fino all’altro ieri impensabile e consacra Iran ed Egitto nei ruoli di protagonisti.
Non a caso all’apertura del vertice del NAM, Morsi aveva seguito con molta attenzione l’intervento dell’ayatollah Ali Khamenei durante il quale la guida religiosa aveva rivolto pubblicamente consigliato agli Stati Uniti di affrancarsi “dall’influenza israeliana; difendete i vostri propri interessi, smettetela di screditarvi sostenendo i crimini israeliani”. Frasi pesanti alle quali aveva subito replicato, nel corso di una conferenza stampa a Londra, il generale Martin Dempsey, Capo di Stato Maggiore delle forze armate statunitensi. Il quale dopo aver giudicate velleitarie le minacce di Tel Aviv di bombardare i siti nucleari iraniani, aveva dichiarato che se Israele fosse passata ai fatti egli si sarebbe adoperato per scongiurare la partecipazione di Washington con uomini e mezzi. Una dichiarazione a dir poco epocale poiché per la prima volta dai tempi della spedizione di Suez nel 1956, un alto funzionario americano avverte il mondo che gli Stati Uniti d’ora in avanti non avrebbero più assecondato i “capricci” di Israele.
Tuttavia la maggior parte dei media occidentali, come detto, ha glissato sulle cronache del NAM e naturalmente anche sulle dichiarazioni del generale, sebbene esse presagissero un mutamento di tendenza, una rivalutazione da parte di Washington del ruolo dei Non Allineati e dell’Iran che ne fa parte. Molto vi ha influito il chiasso intorno alle primarie americane con un Mitt Romney che invocando Dio ha promesso un ritorno del primato degli Stati Uniti nel mondo. Con un aspirante presidente che ha rilanciato parole d’ordine bellicose e interventiste, pervase di un neoconservatorismo che gli anni di Bush sembravano avere definitivamente screditato.
Poiché, anche in questa tornata elettorale dei repubblicani, il collante è l’ostentato e roboante nazionalismo, sebbene esso rischi di rendere più arduo agli Stati Uniti il compito di mantenere la loro leadership nel mondo. Non a caso Bruce Jentleson e Charles Kupchan (due columnist di tutto rispetto) sulle pagine del settimanale Foreign Policy hanno definito Romney una “mente pericolosa” che apre al ritorno di una ideologia neoconservatrice intrisa di bullismo. Uno scenario che non dispiacerebbe affatto a Israele.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Carlo Musilli
I risultati delle elezioni politiche in Olanda realizzano in pieno i sogni di Bruxelles. Da un Paese che ha fatto del voto anticipato quasi uno sport nazionale (le ultime consultazioni erano le quinte in 10 anni) e in cui si contano più partiti che campi di tulipani, nessuno si aspettava un risultato così netto. Le due formazioni più gradite ai vertici europei hanno stravinto: il partito liberal-conservatore Vvd del premier uscente Mark Rutte ha conquistato 41 seggi dei 150 a disposizione (ne aveva 31 nella precedente legislatura), mentre i laburisti del PvdA, guidati dal giovane Diederik Samsom, hanno aumentato la loro quota da 30 a 39.
Il grande sconfitto è invece lo xenofobo e euroscettico Geert Wilders, che con la sua Pvv di estrema destra è crollato da 24 a 15 seggi. Mai strategia politica si rivelò più autolesionista, visto che lo scorso aprile era stato proprio Wilders a far cadere l'ultimo esecutivo. Dopo essere esploso alle precedenti legislative cavalcando l'onda anti-islamica, il Pvv puntava ad affermarsi in modo ancor più deciso spostando l'obiettivo sul più becero antieuropeismo. Ma non ha funzionato.
Quanto ai socialisti dell'Sp, la loro non è stata una debacle, ma un'enorme delusione. Nelle scorse settimane i sondaggi li davano addirittura per possibili vincitori, sostenendo che avrebbero potuto quasi raddoppiare i loro seggi in Parlamento, fino a quota 29. Il consenso di cui godevano si è però sgonfiato a poco a poco. Alla fine il partito di Emile Roemer non è andato oltre i 15 seggi già ottenuti alle ultime elezioni, senza nemmeno riuscire a distaccare i fanatici del Pvv.
Il buco nell'acqua dei socialisti è legato a una serie di fattori, ma un ruolo determinante lo ha giocato il pressing delle cancellerie di mezza Europa (Germania in testa) contro l'inquietante "pericolo rosso". Si è detto che l'Sp ricordava Siryza, il partito greco di estrema sinistra che ha sfiorato la vittoria ad Atene, ed è vero: stessa attenzione al welfare, stessa volontà di combattere la speculazione e di tassare i più ricchi per aumentare gli investimenti pubblici. Non stupisce quindi che le due formazioni abbiano ricevuto anche lo stesso trattamento mediatico: entrambe sono state presentate come pericolosissime fucine di euroscettici, quando in realtà né Siryza né l'Sp hanno mai predicato l'uscita dei rispettivi Paesi dall'euro. In particolare, il partito di Roemer è stato dipinto da tutti (e in malafede) come fosse una deriva populista uguale e contraria al Pvv.
C'è però anche una differenza macroscopica tra Olanda e Grecia. Se gli eretici vincono in un Paese moribondo, per Bruxelles è un grosso problema. Ma se la stessa cosa succede nella quinta economia dell'eurozona, la disgrazia è tale da compromettere gli equilibri politici del continente. Amsterdam non riceve aiuti, li concede. Difficile ricattarla. Allontanare lo spauracchio socialista era quindi ancora più importante.
E ora che la missione è compiuta, cosa succede? Quasi tutti danno per inevitabile l'alleanza fra liberali e laburisti, che da soli contano 80 seggi su 150. Per governare non avrebbero nemmeno bisogno del D66, partito di centrosinistra con cui già due volte in passato hanno formato la cosiddetta "Coalizione Viola".
Il problema è che Rutte e Samsom non hanno esattamente lo stesso programma in tema d'economia: il primo spinge per un rigore assoluto fatto di colpi d'ascia alla spesa pubblica (in primo luogo pensioni e sussidi), così da riportare il deficit al 3% entro il 2013 come vuole l'Europa (nel 2011 era arrivato al 4,7%); il secondo invece si attesta su posizioni più moderate e chiede anche provvedimenti per riattivare la crescita. Il disaccordo c'è, ma non dovrebbe rappresentare un ostacolo insormontabile. Secondo gli analisti, l'alleanza è ormai dietro l'angolo.
Si chiuderà così un capitolo a suo modo sorprendente in questi anni bui. Da quando è cominciata la crisi dei debiti sovrani europei, nel 2009, i vecchi leader del continente hanno iniziato a cadere come mosche: Zapatero in Spagna, Berlusconi in Italia, Papandreou in Grecia. Forse chi è venuto dopo di loro ha ispirato prudenza agli olandesi: meglio non cambiare.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Le crescenti divergenze sulla questione del nucleare iraniano tra Israele e Stati Uniti stanno emergendo in tutta loro evidenza in questi ultimi giorni attorno ad un possibile ultimatum che Washington dovrebbe imporre per fermare la presunta corsa della Repubblica Islamica verso la realizzazione di un ordigno nucleare. Anche se lo scontro tra i due alleati ha raggiunto toni insolitamente elevati, le reali differenze tra il governo Netanyahu e l’amministrazione Obama appaiono puramente tattiche, dal momento che entrambi condividono in pieno l’obiettivo finale del cambio di regime a Teheran, anche con l’uso della forza.
La polemica tra i due governi ha fatto segnare il punto più critico nella giornata di martedì, quando il premier israeliano, nel corso di una conferenza stampa a Gerusalemme con il suo omologo bulgaro, ha affermato che i paesi che si rifiutano di “tracciare una linea rossa” nei confronti del programma nucleare iraniano non hanno “il diritto morale” di chiedere a Israele di aspettare prima di sferrare un attacco militare.
Lo sfogo di Netanyahu sembra essere giunto in risposta ad un’intervista rilasciata dal Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, il giorno precedente a Bloomberg Radio, durante la quale la ex first lady ha ribadito che gli USA non intendono considerare l’imposizione di alcuna “linea rossa” all’Iran e che esistono tuttora gli spazi per trovare una soluzione diplomatica alla crisi, evitando un intervento armato.
A questo scambio indiretto di battute si è aggiunta la notizia, apparsa martedì sera sul sito web dell’ambasciata israeliana a Washington, che l’amministrazione Obama ha respinto una richiesta del premier Netanyahu di incontrare il presidente democratico a margine dell’Assemblea Generale dell’ONU di questo mese. Per la Casa Bianca il rifiuto non comporterebbe nessuno sgarbo ma sarebbe dettato dal fatto che i due leader saranno a New York in date diverse.
La spiegazione non ha comunque placato le polemiche e i malumori, così che Obama si è visto costretto a contattare telefonicamente Netanyahu, con cui ha parlato per almeno un’ora nella serata di martedì. Dopo il colloquio, la Casa Bianca ha emesso un comunicato di circostanza nel quale è stata ribadita la collaborazione di USA e Israele nell’affrontare la crisi iraniana e la volontà americana di impedire alla Repubblica Islamica di ottenere un’arma nucleare. Nessun riferimento è stato fatto tuttavia alla questione della “linea rossa” chiesta da tempo da Netanyahu.
Il mancato incontro a New York tra Obama e Netanyahu indica indubbiamente l’impazienza della Casa Bianca nei confronti dell’atteggiamento sempre più aggressivo attorno al nucleare iraniano del governo ultra-conservatore di Israele. Washington si rende conto infatti che l’imposizione di un ultimatum, che l’Iran non potrebbe ovviamente accettare, aumenterebbe sensibilmente le possibilità di un conflitto a dir poco rischioso.
Sui calcoli di Obama pesano d’altra parte anche le preoccupazioni elettorali che gli impediscono, da un lato, di muoversi per il momento verso una nuova guerra in Medio Oriente e, dall’altro, di tenere un atteggiamento troppo duro nei confronti di Israele o troppo tenero verso l’Iran, esponendolo agli attacchi repubblicani.
I rapporti tra Obama e Netanyahu, in ogni caso, sono apparsi complicati fin dal 2009, e quindi, secondo alcuni, il pressing di quest’ultimo avrebbe principalmente lo scopo di mettere in difficoltà il presidente americano in vista del voto di novembre, dal quale il premier israeliano preferirebbe di gran lunga vedere uscire vincitore Mitt Romney.
Di una strategia elettorale orchestrata da Tel Aviv potrebbero forse far parte anche la rivelazioni di settimana scorsa del deputato repubblicano Mike Rogers, presidente della commissione per i Servizi Segreti della Camera dei Rappresentanti americana. In un intervento radiofonico, Rogers ha infatti raccontato di aver partecipato ad una riunione in Israele nella quale Netanyahu avrebbe avuto un’accesa discussione con l’ambasciatore USA a Tel Aviv, Dan Shapiro, proprio sulla questione iraniana. Ad un certo punto, Netanyahu avrebbe perso la pazienza, criticando pesantemente gli Stati Uniti per non voler fissare una “linea rossa” all’avanzamento del programma nucleare di Teheran e per mantenere un atteggiamento troppo ambiguo che complica le scelte strategiche del suo paese.
Sulla questione della “linea rossa” - che potrebbe consistere nell’imposizione all’Iran di un limite alla percentuale di arricchimento o alla quantità di uranio arricchito - l’amministrazione Obama continua a ribadire la propria contrarietà. La Casa Bianca ha affermato ufficialmente di voler impedire che l’Iran ottenga un’arma nucleare ma non, come vorrebbe Netanyahu, che raggiunga le capacità tecniche per costruirne una. Quest’ultima situazione appare peraltro già una realtà che la Repubblica Islamica condivide con numerosi altri paesi.
Per convincere gli Stati Uniti e la comunità internazionale ad assumere posizioni ancora più dure nei confronti dell’Iran, Netanyahu, alla guida un paese che dispone di centinaia di testate nucleari non dichiarate senza aver mai sottoscritto il Trattato di Non Proliferazione, ricorre puntualmente ad una serie di affermazioni prive di fondamento.
Nel suo intervento di martedì a Gerusalemme, ad esempio, ha ripetuto che l’Iran sta continuando a muoversi senza interferenze verso la realizzazione di armi atomiche. In realtà, nessuna prova è stata finora presentata che il programma nucleare di Teheran sia diretto a fini militari, mentre il processo di arricchimento dell’uranio viene costantemente monitorato dai tecnici dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica.
Nonostante le recenti polemiche e l’evidente mancanza di sintonia tra Obama e Netanyahu, gli Stati Uniti non hanno mai escluso la possibilità di un’aggressione militare contro l’Iran. Sezioni dell’apparato della sicurezza e dell’intelligence americana ritengono però che un attacco non provocato sarebbe una mossa impopolare, oltre che illegale, e rischierebbe di essere controproducente, poiché con ogni probabilità compatterebbe la leadership iraniana e potrebbe danneggiare le relazioni con alcuni paesi mediorientali.
L’installazione di un regime più malleabile a Teheran per spezzare l’asse della resistenza anti-americana e anti-israeliana nella regione rimane tuttavia un punto condiviso sia da Washington che da Tel Aviv. Se il governo di Israele appare pronto a lanciare un’aggressione militare unilaterale, la strategia americana sembra piuttosto essere quella di provocare una reazione da parte dell’Iran per giustificare un intervento armato.
Le durissime sanzioni che stanno mettendo in ginocchio l’economia iraniana, l’accerchiamento militare, le ingenti forniture di materiale bellico a paesi come Arabia Saudita ed Emirati Arabi, nonché gli assassini e la campagna di sabotaggio contro gli impianti nucleari della Repubblica Islamica sembrano avere precisamente quest’ultimo scopo e indicano perciò in maniera inequivocabile come l’obiettivo ultimo degli Stati Uniti sia ben lontano da una soluzione pacifica della crisi in corso.