di Michele Paris

A pochi giorni da un delicatissimo voto per il rinnovo del Parlamento, il Pakistan continua a vivere le ultime battute di campagna elettorale in un clima di violenza diffusa e di crisi interna crescente. Alle bombe dei Talebani e dei gruppi integralisti attivi al confine con l’Afghanistan si è da qualche settimana aggiunta la vicenda dell’ex dittatore Pervez Musharraf, la cui detenzione dopo il ritorno in patria rischia di alimentare le tensioni nel paese e lo scontro tra la società civile da un lato e i potenti vertici militari dall’altro.

In poco più di un mese, il bilancio degli attentati condotti contro candidati nelle elezioni di sabato prossimo ha superato le 100 vittime, con un ulteriore aggravarsi della violenza negli ultimi giorni. Ad essere presi di mira sono prevalentemente i tre partiti di ispirazione secolare che formano la coalizione di governo uscente - il Partito Nazionale Awami (ANP), il Movimento Muttahida Qahumi (MQM) e il Partito Popolare Pakistano (PPP) del presidente Asif Ali Zardari - anche se recentemente le bombe hanno iniziato a colpire candidati e partiti religiosi.

Comizi elettorali del partito Jamiat Ulema-e-Islam (F) nelle giornate di lunedì e martedì sono stati infatti sconvolti da esplosioni che hanno provocato una trentina di morti tra i sostenitori accorsi per ascoltare gli interventi dei loro candidati.

Quasi sempre, gli attentati sono stati rivendicati dai Talebani pakistani (Tehrik-e-Taliban Pakistan, TTP), i quali intendono colpire soprattutto i partiti di governo, accusati di avere fornito il loro appoggio alla campagna militare degli Stati Uniti in Afghanistan e nelle aree tribali nord-occidentali del Pakistan. Anche le più recenti operazioni contro il partito fondamentalista Jamiat Ulema-e-Islam (F), tuttavia, sono state rivendicate dagli stessi Talebani, poiché il suo leader, Fazal-ur-Rehman, e alcuni candidati si sarebbero “venduti” all’imperialismo americano.

In gran parte risparmiati sono stati invece finora i due partiti conservatori favoriti, la Lega Musulmana del Pakistan-N (PML-N) dell’ex premier Nawaz Sharif e il Movimento Pakistano per la Giustizia (Pakistan Tehreek-e-Insaf, PTI) dell’ex stella del cricket Imran Khan, protagonista martedì di una grave caduta durante un comizio a Lahore in seguito alla quale ha riportato una serie di fratture. Sfruttando l’ostilità diffusa nel paese per i metodi della “guerra al terrore” americana, queste due formazioni politiche, almeno esteriormente, hanno tenuto posizioni critiche nei confronti sia degli Stati Uniti che delle campagne militari promosse dal governo per combattere i gruppi integralisti, chiedendo allo stesso tempo un qualche dialogo con questi ultimi.

Proprio Nawaz Sharif viene indicato come il più probabile prossimo primo ministro pakistano dopo avere già occupato questa carica in due occasioni, tra il 1990 e il 1993 e tra il 1997 e l’ottobre del 1999, quando venne deposto dal colpo di stato militare che portò al potere il generale Musharraf.

Secondo un sondaggio condotto nel mese di marzo e pubblicato solo mercoledì dal quotidiano pakistano Dawn, su scala nazionale il partito di Nawaz (PML-N) sarebbe accreditato di quasi il 26% dei consensi, contro il 25% per il PTI di Imran Khan. Più staccato appare il PPP al potere, con meno del 18% delle preferenze a fronte di oltre il 30% fatto registrare nelle elezioni del 2008.

In particolare, nella provincia più popolosa del Pakistan - il Punjab - dove vengono assegnati più della metà dei seggi dell’Assemblea Nazionale, il PPP potrebbe fermarsi, secondo lo stesso sondaggio, al 14%, mentre il PML-N avrebbe un vantaggio di oltre 8 punti percentuali sul PTI. Per la maggior parte degli analisti, i risultati del voto di sabato non dovrebbero decretare un chiaro vincitore, rendendo perciò necessaria la formazione di un altro governo di coalizione.

Il più che probabile tracollo del PPP del presidente Zardari indica un diffuso malcontento tra la popolazione per le politiche messe in atto in questi cinque anni, sia sul fronte economico che della sicurezza interna. Per cominciare, nonostante le critiche espresse a livello ufficiale nei confronti della guerra condotta con i droni dagli Stati Uniti nelle regioni al confine con l’Afghanistan e che ha causato centinaia di vittime civili, il governo di Islamabad ha in realtà assecondato dietro le quinte la campagna di Washington, da cui dipende finanziariamente.

In ambito economico, inoltre, il governo non ha fatto nulla per rimediare all’estrema polarizzazione sociale del paese, nonché alla disperata povertà di ampi strati della popolazione, all’iniqua distribuzione delle terre o ai privilegi di un’élite economica e politica che, in larghissima parte, non è nemmeno tenuta a sborsare una sola rupia in tasse. Un’ondata di violenze settarie incontrastate, infine, attraversa da tempo il Pakistan causando centinaia di morti, soprattutto tra la minoranza di fede sciita.

Al di là dell’esito del voto, il percorso che seguirà il prossimo governo sembra comunque essere già segnato dalle trattative in corso con il Fondo Monetario Internazionale (FMI) per l’erogazione di un prestito di emergenza a Islamabad.

Più volte rimandato dal precedente esecutivo per il timore che le impopolari condizioni richieste in cambio potessero fare esplodere una crisi sociale già ben oltre i livelli di guardia, l’accordo con l’FMI sembra avere fatto un decisivo passo avanti un paio di settimane fa, quando il capo del governo di transizione Mir Hazar Khan Khoso - nominato a fine marzo in seguito alle dimissioni del premier del PPP Raja Pervaiz Ashraf - ha annunciato il raggiungimento di un’intesa preliminare per un pacchetto da 5 miliardi di dollari.

In base a ciò, il prossimo governo sarà chiamato, tra l’altro, a “ristrutturare” (svendere) le principali aziende pubbliche, a ridurre i sussidi garantiti alle classi più disagiate per l’energia elettrica e ad adottare svariate altre misure di austerity che peggioreranno notevolmente le condizioni di vita già disperate di decine di milioni di persone.

Su questa situazione già esplosiva alla vigilia del voto si è innestato anche l’arresto di Pervez Musharraf dopo il ritorno in Pakistan dall’esilio volontario durato quattro anni. Intenzionato a partecipare alle elezioni, l’ex dittatore sostenuto dagli Stati Uniti ha assistito dapprima all’annullamento della sua candidatura ed è finito poi agli arresti domiciliari in seguito alla formulazione di numerose accuse nei suoi confronti, tra cui il coinvolgimento nell’assassinio del dicembre 2007 dell’ex premier Benazir Bhutto e di un leader separatista del Belucistan nel 2006, la rimozione arbitraria del presidente della Corte Suprema, Iftikhar Muhammad Choudry, e molteplici violazioni della Costituzione pakistana.

Sia pure fortemente osteggiato dalla maggior parte della popolazione e da quasi tutto lo spettro politico pakistano, Musharraf indubbiamente gode tuttora di più di una simpatia all’interno delle forze armate, seriamente preoccupate per una possibile loro emarginazione ad opera del potere politico e giudiziario dopo avere esercitato per decenni una profonda influenza sul governo centrale.

I risultati delle tensioni prodotte dalla vicenda del generale Musharraf nelle ultime settimane e, più in generale, dalla crisi in cui versa il paese, sono apparse in tutta la loro evidenza lo scorso venerdì, quando il capo dell’agenzia federale investigativa pakistana, Chaudhry Zulfiqar Ali, è stato assassinato mentre si stava recando in auto al suo ufficio di Islamabad.

Ali era a capo di una serie di indagini di alto profilo, come l’omicidio di Benazir Bhutto in cui è coinvolto Musharraf, ma anche l’attentato del novembre 2008 a Mumbai, in India, per il quale sono accusati alcuni membri del gruppo integralista Lashkar-e-Taiba, notoriamente legato alla potente agenzia domestica di intelligence ISI (Inter-Services Intelligence).

Nonostante l’accesa competizione tra i diversi partiti in corsa per le elezioni dell’11 maggio e la loro condanna del tentativo di ritorno sulle scene di Musharraf, in ogni caso, praticamente tutti i protagonisti del panorama politico pakistano sono complici o sostengono in varia misura la partnership strategica con gli Stati Uniti.

Proprio la campagna “anti-terrorismo” lanciata da Washington più di un decennio fa con la collaborazione dell’allora dittatore ha contribuito in maniera determinante a far scivolare il Pakistan sull’orlo della guerra civile ed essa rientra nel quadro della strategia dell’imperialismo a stelle e strisce di utilizzare questo paese come uno degli strumenti per la promozione dei propri interessi in Asia centrale, anche attraverso il sostegno alle dittature militari succedutesi in sei decenni a Islamabad.

Con la lunga ombra del Fondo Monetario e un governo americano intenzionato a rafforzare i legami con la classe dirigente locale in vista del relativo disimpegno militare dall’Afghanistan a partire dal 2014, indifferentemente da chi uscirà vincitore dalle urne, il Pakistan che si appresta al voto, perciò, dovrà assistere con ogni probabilità ad un ulteriore deterioramento della situazione interna anche nel prossimo futuro.

di Michele Paris

I bombardamenti non provocati condotti venerdì e domenica scorsa in territorio siriano dall’aviazione israeliana sono stati immediatamente utilizzati dal fronte occidentale e mediorientale impegnato nella rimozione del regime di Bashar al-Assad per manipolare la realtà della crisi in atto e spianare la strada ad un intervento diretto che minaccia di infiammare l’intera regione.

In particolare, la più recente incursione illegale portata a termine da Israele ha scatenato una serie di speculazioni sull’opportunità e l’efficacia di un’azione aerea da parte degli Stati Uniti. Le discussioni delle ultime settimane circa l’imposizione di una no-fly zone sulla Siria - misura che comporterebbe di fatto una devastante campagna di bombardamenti sul paese mediorientale - erano infatti ruotate attorno alle capacità dei sistemi difensivi di cui dispone il regime di Damasco, in gran parte ritenuti sufficientemente sofisticati da scoraggiare un intervento di questo genere.

La facilità con cui Israele ha colpito nel fine settimana ha invece scatenato i falchi di Washington, i quali hanno subito invitato la Casa Bianca a trarre le dovute conclusioni. I vari interventi di esponenti democratici e repubblicani registrati negli show televisivi americani della domenica hanno perciò confermato come i bombardamenti israeliani siano stati almeno in parte una prova generale di una possibile campagna aerea degli USA e dei loro alleati sulla Siria secondo il modello dell’aggressione del 2011 contro la Libia di Gheddafi.

Parlando al programma “Meet the Press” della NBC, ad esempio, il senatore democratico del Vermont, Patrick Leahy, ha ricordato che il blitz israeliano è stato condotto con velivoli F-16 forniti dagli Stati Uniti, aggiungendo che “i sistemi anti-aerei forniti dalla Russia alla Siria non si sono dimostrati efficaci come si credeva”. Lo stesso presidente della commissione Giustizia del Senato americano ha poi anticipato un probabile prossimo invio di armi da parte del suo governo direttamente all’opposizione anti-Assad.

Su “Fox News on Sunday”, inoltre, il senatore repubblicano John McCain ha affermato che l’attacco di Israele, avvenuto senza entrare nello spazio aereo della Siria, indebolisce la tesi di coloro che ritengono i sistemi difensivi di quest’ultimo paese il principale ostacolo ad una campagna di bombardamenti condotta dall’aviazione USA.

L’amministrazione Obama, d’altra parte, sembra avere dato la propria approvazione all’incursione dell’alleato, dal momento che lo stesso presidente, nel corso di una trasferta in Costa Rica, ha ripetuto la tesi di Tel Aviv circa la legittimità da parte dello Stato ebraico di prevenire trasferimenti di armi dalla Siria a Hezbollah, in Libano.

Quest’ultima tesi è quella ufficiale sostenuta, sia pure indirettamente, da Israele per le azioni criminali compiute nei giorni scorsi e conferma come l’intera campagna di destabilizzazione del regime siriano sia diretta allo smantellamento dell’asse della “resistenza” formato, oltre che da Assad, dal principale partito sciita libanese e dall’Iran, così da ridisegnare, in ultima analisi, gli equilibri strategici del Medio Oriente a favore degli interessi degli Stati Uniti e dei loro alleati.

Ciononostante, le pretese delle autorità israeliane di non volere essere coinvolte in un conflitto in Siria appaiono del tutto inverosimili. Innanzitutto, l’attacco di domenica scorsa equivale ad un vero e proprio atto di guerra che ha provocato la morte di centinaia di soldati della Guardia Repubblicana di Assad. Inoltre, per Israele è previsto da tempo un ruolo di primo piano nell’escalation militare in atto contro Damasco, se non altro per aprire un fronte meridionale in cui impegnare le forze del regime in aggiunta alle operazioni dei “ribelli” e ad un eventuale intervento della Turchia lungo il confine nord.

Il senso della dissennata operazione in corso in Siria è stato riassunto lunedì da un comunicato del portavoce del ministero degli Esteri russo, Aleksandr Lukashevich, il quale ha opportunamente richiamato l’attenzione sugli sforzi in atto in Occidente per “preparare l’opinione pubblica internazionale alla possibilità di un intervento militare per risolvere il persistente conflitto in Siria”.

Le ragioni indicate dal fronte internazionale anti-Assad per giustificare un maggiore impegno in Siria risultano infatti del tutto inconsistenti e continuano ad essere promosse soltanto grazie alla propaganda dei media ufficiali.

Per cominciare, la credibilità delle forze “ribelli” sul campo è stata da tempo screditata dalla prevalenza assoluta di formazioni integraliste violente con un’agenda prettamente settaria e tutt’altro che democratica. Questi gruppi jihadisti, responsabili di una lunga serie di operazioni terroristiche in Siria e utilizzati dall’Occidente e dalle monarchie ultra-reazionarie del Golfo Persico come forza d’urto per rovesciare Assad, risultano ancora più impopolari dello stesso regime, anche tra i siriani che condividono la loro fede sunnita.

Infatti, se il regime, come scrivono spesso i media occidentali, fondasse la propria legittimità esclusivamente sui siriani alauiti (sciiti) il conflitto sarebbe quasi certamente finito da tempo, visto che la popolazione della Siria è composta per ben i tre quarti da musulmani sunniti.

Inoltre, l’offensiva mediatica basata sull’accusa rivolta ad Assad di avere utilizzato armi chimiche appare sempre più infondata. Anzi, la cosiddetta “linea rossa” stabilita da Obama lo scorso anno per scatenare un intervento diretto degli Stati Uniti pare essere stata oltrepassata proprio dagli stessi “ribelli”, armati e finanziati dall’Occidente.

Ad affermarlo sono stati un paio di giorni fa anche gli investigatori della commissione delle Nazioni Unite sulla violazione dei diritti umani in Siria. In una dichiarazione rilasciata domenica alla TV della Svizzera italiana, l’ex procuratore del Tribunale Penale Internazionale, Carla Del Ponte, ha confermato che, in seguito all’indagine condotta nei paesi confinanti dal gruppo di lavoro di cui fa parte, sono emersi “forti e concreti sospetti, anche se non ancora prove incontrovertibili, sull’uso di gas sarin da parte dell’opposizione e dei ribelli, ma non da parte delle forze governative”.

Come ha evidenziato poi lunedì il blog americano LandDestroyer, la quantità minima di gas sarin che, secondo le accuse di Stati Uniti, Israele, Francia e Gran Bretagna, il regime di Assad avrebbe utilizzato in tre occasioni tra dicembre e marzo avrebbe ben poco senso da un punto di vista tattico o strategico per dare una svolta al conflitto in corso, soprattutto a fronte delle prevedibili reazioni della comunità internazionale.

Consapevoli di questa realtà, gli accusatori di Assad hanno perciò sostenuto che Damasco ha fatto un limitato ricorso ad armi chimiche per testare la reazione della comunità internazionale, anche se, in realtà, appare decisamente più ragionevole che lo scarso quantitativo di gas sarin, come sostiene ora anche l’ONU, sia stato impiegato dai “ribelli” per fornire un casus belli all’Occidente per intervenire militarmente in Siria.

L’innalzamento dei toni da parte dell’Occidente e le iniziative israeliane degli ultimi giorni, in ogni caso, indicano una chiara urgenza di imprimere un’accelerazione alla caduta di Assad, in concomitanza con la sempre più evidente incapacità dei “ribelli” di ottenere risultati determinanti sul campo e di raccogliere un ampio consenso tra la popolazione.

Un’evoluzione, quella della crisi in Siria, che rischia di trascinare nel conflitto anche altri paesi mediorientali, a cominciare dal Libano, dove la settimana scorsa il leader di Hezbollah, Sayyed Hassan Nasrallah, ha affermato che la sua organizzazione farà di tutto per impedire il crollo del regime alauita di Damasco.

Oltre alla situazione sempre più precaria del Libano e, ad esempio, di una Giordania invasa da centinaia di migliaia di profughi siriani, lo stesso Iraq è tornato ad essere sconvolto dalla violenza settaria, alimentata da fazioni integraliste sunnite, legate alle milizie “ribelli” attive in Siria, che si battono contro il governo sciita guidato dal premier Nuri al-Maliki.

Come è accaduto in Libia e con conseguenze ben più gravi, infine, la rimozione di Assad in Siria fa intravedere un futuro nel quale le forze integraliste giocheranno un ruolo di spicco nel paese, generando instabilità nella regione e minacce terroristiche per quegli stessi governi, a cominciare da Israele, che ora le appoggiano più o meno apertamente per il conseguimento dei loro fini immediati.

Una prospettiva inquietante che difficilmente può essere sfuggita alle analisi elaborate a Washington, Londra o Tel Aviv, ma che, senza scrupoli per l’ulteriore devastazione che determinerà, sembra ormai essere stata messa in preventivo per raggiungere l’obiettivo principale e di lungo periodo, vale a dire una riconfigurazione a proprio vantaggio dei rapporti di forza in un’area cruciale del pianeta.

di Michele Paris

Nella prima mattinata di domenica, il governo israeliano ha violato per la seconda volta in poche ore ogni principio del diritto internazionale, ordinando alla propria aviazione di condurre un bombardamento contro un sito militare di ricerca nei pressi di Damasco. Le incursioni indicano il tentativo da parte di Tel Aviv, con l’avallo di Washington, di provocare una reazione del regime siriano, così da giustificare un intervento militare esterno per rimuovere Assad, parallelamente accusato senza alcuna prova dai governi occidentali e israeliano di avere utilizzato armi chimiche lo scorso mese di marzo.

Il primo attacco aereo di Israele era stato debitamente riportato venerdì da fonti americane, mentre su quello di domenica è stata la stessa stampa siriana a darne notizia. L’agenzia ufficiale SANA ha scritto infatti che nell’area di al-Hameh, alla periferia della capitale, si sono sentite alcune esplosioni che hanno colpito un centro di ricerca scientifico, provocando un numero imprecisato di vittime. Alcuni “attivisti” dell’opposizione hanno poi affermato che un missile avrebbe colpito due battaglioni della Guardia Repubblicana, di stanza in una località a nord di Damasco.

Nel primo caso, fonti anonime all’interno dell’apparato della sicurezza di Israele avevano sostenuto che il blitz era diretto contro un presunto carico di armi anti-missile conservato all’aeroporto di Damasco e pronto per essere inviato in Libano all’alleato di Assad, la milizia/partito sciita Hezbollah. Secondo i resoconti dei media, l’attacco di venerdì non avrebbe comportato l’ingresso nello spazio aereo siriano da parte degli aerei da guerra israeliani, anche se questi ultimi hanno comunque violato impunemente quello libanese, da dove sarebbero partiti i bombardamenti.

La struttura finita nel mirino dell’operazione israeliana domenica sarebbe invece quella di Jamraya ed era già stata bersaglio dei jet di Tel Aviv lo scorso 30 gennaio, quando un attacco ugualmente non provocato e fuori da ogni regola del diritto internazionale era stato anche in quell’occasione giustificato con la necessità di impedire il trasferimento di armi letali a Hezbollah.

In un’intervista esclusiva alla CNN, sempre nella giornata di domenica il vice-ministro degli Esteri siriano ha definito l’attacco israeliano come una “dichiarazione di guerra”, annunciando non specificate ritorsioni contro Tel Aviv. Le provocazioni illegali di Israele contro la Siria hanno fatto segnare un sensibile aumento nelle ultime settimane in concomitanza con una serie di rovesci patiti sul campo dai ribelli anti-Assad, tra i quali prevalgono in larga misura formazioni jihadiste come il sanguinario Fronte al-Nusra.

L’irrazionalità della strategia del governo Netanyahu risulta evidente dalle considerazioni che si possono leggere quotidianamente sui media occidentali, dove, ad esempio, le consuete fonti anonime da Tel Aviv avvertono del rischio sempre più alto in Siria che i gruppi integralisti che combattono il regime possano impossessarsi delle armi che fanno parte dell’arsenale siriano per utilizzarle contro lo stato ebraico.

Queste preoccupazioni, ampiamente indicate dalla stampa come uno dei motivi che legittimerebbero un intervento armato esterno in Siria, si scontra con la realtà di un’opposizione islamista e settaria di fatto finanziata e armata proprio dagli Stati Uniti e dai loro alleati in Europa e in Medio Oriente. Media e governi occidentali e filo-occidentali, quindi, operano ormai senza alcuno scrupolo per la logica e l’analisi degli eventi sul campo. Questo atteggiamento appare chiaro anche in relazione alla campagna orchestrata attorno al presunto uso di armi chimiche da parte delle forze del regime di Assad.

Le accuse sollevate da Francia, Gran Bretagna, Israele e Stati Uniti per un attacco avvenuto nel mese di marzo nei pressi di Aleppo vengono infatti presentate come prove irrefutabili delle responsabilità di Damasco, nonostante non sia stata presentata alcuna evidenza concreta circa l’accaduto e, per stessa ammissione dell’opposizione, l’area colpita fosse sotto il controllo delle forze del regime.

Lo stesso presidente Obama qualche giorno fa nell’annunciare una possibile escalation militare contro la Siria, responsabile di avere oltrepassato la cosiddetta “linea rossa” fissata dalla Casa Bianca la scorsa estate, ha ribadito poi, come se fosse un dettaglio trascurabile, che gli Stati Uniti devono ancora appurare quale delle due parti in conflitto abbia utilizzato armi chimiche.

Che anche queste accuse facciano parte di una strategia ormai quasi disperata di dare la spallata finale al regime filo-iraniano di Assad è stato suggerito un paio di giorni fa da un ex membro dell’amministrazione Bush jr. In un’intervista alla rete televisiva Current TV - fondata dall’ex vice-presidente USA Al Gore e ora di proprietà di Al-Jazeera - il colonnello in pensione Lawrence Wilkerson, capo di gabinetto del Segretario di Stato Colin Powell tra il 2002 e il 2005, ha affermato che i responsabili dell’impiego di armi chimiche “potrebbero essere i ribelli oppure Israele”. Quest’ultima ipotesi appare del tutto credibile, secondo Wilkerson, poiché a suo dire “il regime di Tel Aviv risulta essere geo-politicamente inetto”.

Per Wilkerson, cioè, quella dello scorso marzo potrebbe essere stata a tutti gli effetti una cosiddetta operazione “false flag”, condotta da Israele o dall’opposizione siriana per assegnarne poi la responsabilità al regime di Assad, così da costruire una campagna internazionale per giustificare un’aggressione esterna. Allo stesso scopo, l’offensiva dell’esercito regolare negli ultimi giorni contro postazioni dei ribelli ha scatenato una serie di annunci nei media occidentali di presunti massacri indiscriminati ai danni di civili, senza peraltro alcun riscontro indipendente.

In particolare, le operazioni del regime nel fine settimana si sarebbero concentrate nella località costiera di Baniyas, da dove si sono sprecati i resoconti delle atrocità commesse dalle forze governative, tutte rigorosamente riportate, però, soltanto da fonti vicine all’opposizione anti-Assad.

di Michele Paris

Le elezioni di domenica prossima in Malaysia promettono di essere le più combattute della storia di questo paese a maggioranza musulmana del sud-est asiatico fin da quando ottenne l’indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1957. La storica coalizione di governo Barisan Nasional (Fronte Nazionale, BN), guidata dall’Organizzazione Nazionale dei Malesi Uniti (UMNO) del premier Najib Razak rischia infatti seriamente di perdere per la prima volta il potere a vantaggio del leader dell’opposizione, Anwar Ibrahim, ex vice primo ministro gradito all’Occidente e a capo di un’alleanza multietnica.

Sfruttando il malcontento per la corruzione diffusa nel paese, i metodi autoritari impiegati dal regime e le tradizionali discriminazioni nei confronti delle minoranze indiana e cinese, Anwar sembra essere riuscito a suscitare un qualche entusiasmo tra gli elettori più giovani e quelli che vivono nelle principali aree urbane della Malaysia.

Già nelle elezioni generali del 2008, peraltro, la coalizione di Anwar, Pakatan Rakyat (PR), era riuscita a conquistare 82 dei 222 seggi del Parlamento nazionale, nonché la guida di 5 dei 13 stati che compongono il paese, negando per la prima volta al BN la possibilità di contare su una maggioranza di due terzi, necessaria per modificare a piacimento la costituzione.

Del principale raggruppamento dell’opposizione fanno parte, oltre al partito Keadilan Rakyat di Anwar, il partito su base etnica cinese Azione Democratica (DAP) e quello islamico Parti Islam Se-Malaysia (PAS).

Con le proprie quotazioni in discesa in vista del voto, la coalizione di governo ha così messo in atto una serie di provvedimenti in buona parte propagandistici, sia per dare l’impressione di voler riformare il paese in senso democratico - allentando, ad esempio, il controllo quasi assoluto sui media - sia distribuendo una serie di sussidi eccezionali alle classi più povere e benefit vari ai dipendenti pubblici.

Il controllo della macchina del governo fa temere inoltre a molti tra l’opposizione che le procedure di voto potrebbero essere in qualche modo manipolate a favore del blocco attualmente al potere. Lo stesso Anwar, d’altra parte, ha subito una serie di persecuzioni motivate politicamente da oltre un decennio a questa parte.

Nel 1998, quest’ultimo venne sollevato dal proprio incarico di vice primo ministro dal suo diretto superiore, Mahathir Mohamad, poiché in contrasto con i vertici del partito sulla direzione da dare al paese nel pieno della crisi finanziaria che colpì il continente asiatico. Anwar era cioè in sostanza favorevole all’implementazione in Malaysia delle ricette richieste dal Fondo Monetario Internazionale per aprire l’economia del paese, misure profondamente impopolari e quindi osteggiate da Mahathir.

Dopo l’espulsione dal partito, Anwar venne arrestato e torturato per poi essere sottoposto ad un procedimento penale con l’accusa di sodomia. Anwar venne scagionato una prima volta nel 2004, ma le stesse accuse gli sarebbero state rivolte nuovamente nel 2010 fino al definitivo proscioglimento avvenuto lo scorso anno.

La mancata condanna nel 2012 di Anwar indica chiaramente un certo appoggio per il suo progetto politico ed economico all’interno di alcune sezioni delle élite malesi, insoddisfatte delle parziali “riforme” in senso liberista adottate dal governo di Najib in questi ultimi anni.

Anwar, inoltre, vanta legami con governi e istituzioni occidentali, nonché con gli ambienti finanziari internazionali, come confermano le sue esperienze presso il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e l’influente università Johns Hopkins negli Stati Uniti, ma anche con associazioni e think tank soprattutto conservatori americani, alcuni dei quali hanno sostenuto e finanziato il movimento popolare per la democrazia in Malaysia “Bersih”, le cui manifestazioni di piazza hanno di fatto favorito l’ascesa politica dell’ex vice premier.

Con i sondaggi che indicano un sostanziale equilibrio tra le due coalizioni, secondo molti osservatori a decidere l’esito del voto potrebbero essere i risultati nei due stati situati nel Borneo: Sarawak e Sabah. Qui, infatti, il consueto predominio del BN potrebbe essere messo in discussione in seguito alla recente esplosione di scandali e alle accuse di corruzione rivolte a importanti funzionari affiliati al partito di governo.

Lo stato di Sabah, poi, un paio di mesi fa è finito nel caos in seguito all’invasione di un esercito improvvisato proveniente dalle Filippine, i cui leader si erano definiti difensori del Sultanato di Sulu, proprietario di questo territorio prima di essere ceduto alla Gran Bretagna e di entrare successivamente a far parte dello stato malese dopo l’indipendenza. Lo sbarco ha causato decine di morti negli scontri con le forze di sicurezza inviate da Kuala Lumpur e, visto anche il totale allineamento del governo filippino agli obiettivi strategici americani in Asia, alcuni hanno sollevato il sospetto di un’operazione ben programmata per destabilizzare il governo della Malaysia in previsione del voto.

Inevitabilmente, la competizione elettorale in Malaysia risente della crescente rivalità tra Cina e Stati Uniti in Asia sud-orientale. Come ha scritto recentemente sulla testata on-line Asia Times l’analista Nile Bowie, “dopo la crisi globale del 2008 il premier Najib ha guardato sempre più verso Pechino per rianimare l’economia malese basata sull’export, puntando su una crescita degli investimenti cinesi a beneficio dell’industria locale”. Non solo, Najib ha anche promosso scambi con la Cina in ambito “finanziario, dello sviluppo delle infrastrutture, della scienza, della tecnologia e dell’educazione”. Tutto ciò ha fatto in modo che la Cina diventasse il principale partner commerciale della Malaysia, con gli scambi bilaterali che hanno raggiunto un valore di 90 miliardi di dollari nel 2011.

Pechino, dunque, favorisce chiaramente la conservazione del potere da parte del BN, dal momento che un’affermazione di Anwar potrebbe “minacciare gli investimenti e le politiche legate alla sicurezza sviluppate negli ultimi cinque anni sotto la guida di Najib”, prospettando per la Malaysia una svolta strategica simile a quella che ha caratterizzato le vicine Filippine con la conquista della presidenza nel 2010 del filo-americano Benigno Aquino dopo i due mandati di Gloria Macapagal-Arroyo segnati dal riavvicinamento di Jakarta alla Cina.

Molti dubbi, in ogni caso, sono stati sollevati circa la tenuta di un eventuale prossimo governo guidato da Anwar, la cui coalizione mette assieme un partito secolare cinese (DAP) con uno islamico con tendenze fondamentaliste (PAS). Queste differenze sono state infatti ampiamente utilizzate in campagna elettorale dall’alleanza di governo, la cui tattica potrebbe avere contribuito ad allontanare dall’opposizione una parte dei malesi che in larga misura pratica un islamismo moderato.

Il premier Najib, inoltre, ha più volte messo in guardia gli elettori da una scelta elettorale che, favorendo l’opposizione, potrebbe rappresentare un salto nel vuoto dopo quasi sei decenni di dominio incontrastato della sua formazione politica. Oltre al controllo sui principali media, poi, il Barisan Nasional potrà contare anche su una legge elettorale creata a proprio vantaggio, come dimostrano i risultati del 2008, quando la coalizione ottenne il 63% dei seggi in parlamento a fronte di appena il 51% del voto popolare.

Najib, infine, metterà in gioco tutto il suo futuro politico in questa tornata elettorale. Un’eventuale clamorosa sconfitta del BN domenica prossima lo costringerebbe infatti con ogni probabilità a lasciare la leadership del partito, come accadde nel 2009 al suo predecessore, Abdullah Badawi, messo da parte dopo il deludente risultato nel voto dell’anno precedente.

Ad indicare la sorte di Najib in mancanza di un chiaro successo è stato lo stesso Mahathir, potente premier malese per 22 anni e ritiratosi nel 2003, il quale in una recente intervista ha avvertito il primo ministro in carica di una probabile rivolta all’interno del partito anche solo nel caso non dovesse arrivare una prestazione migliore di quella fatta registrare nel 2008.

di Mario Lombardo

Un articolo pubblicato questa settimana dal New York Times ha descritto nel dettaglio di come la principale agenzia di intelligence americana da più di un decennio stia trasferendo clandestinamente ingenti somme di denaro contante nelle casse del governo afgano del presidente Hamid Karzai. Secondo quanto rivelato dalle autorità di Kabul, le decine di milioni di dollari così versati servirebbero a coprire una serie di voci di spesa del governo, mentre in realtà finiscono per consolidare il potere della famiglia Karzai ed alimentare la corruzione ampiamente diffusa ad ogni livello del fragile stato centro-asiatico.

Il cosiddetto “denaro fantasma” - secondo la definizione dell’ex vice capo di gabinetto del presidente, Khalil Roman - viene consegnato in maniera segreta da funzionari della CIA direttamente negli uffici di Karzai in “valige, zaini e, occasionalmente, in buste di plastica con cadenza mensile”.

Il reporter Matthew Rosenberg del New York Times sostiene che con questi pagamenti la CIA intende mantenere la propria influenza sul regime di Kabul, acquistando di fatto libero accesso ai vertici del governo, anche se negli ultimi tempi Karzai sembra però tenere un atteggiamento di sfida nei confronti dei propri padroni di Washington.

Candidamente, l’articolo del giornale americano ammette che i soldi della CIA vengono in parte destinati al pagamento di politici e leader locali spesso coinvolti nel fiorente traffico di droga che prospera in Afghanistan o, addirittura, legati ai Talebani che gli USA dovrebbero combattere strenuamente. I finanziamenti della CIA, perciò, sostengono “reti clientelari che la diplomazia americana… cerca senza successo di smantellare, lasciando fondamentalmente il governo nelle mani di organizzazioni criminali”.

In definitiva, lo scenario così delineato sembra suggerire una certa schizofrenia della politica degli Stati Uniti in Afghanistan, con l’agenzia di Langley che agisce al di fuori di ogni supervisione e, apparentemente, in aperto contrasto con gli obiettivi del proprio governo. Le elargizioni di denaro per assicurarsi i favori di gruppi armati o fazioni all’interno di governi stranieri non sono d’altra parte una novità per la CIA che, sempre in Afghanistan, ha per così dire investito svariati milioni di dollari già durante l’invasione del 2001 per ottenere l’appoggio necessario nel paese per rovesciare il regime dei Talebani.

Il sistema dei pagamenti, inoltre, sembra essere stato manipolato dallo stesso Karzai, il quale a partire dalla fine del 2002 richiese espressamente alla CIA di ricevere presso i suoi uffici di Kabul tutto il denaro stanziato, così da centralizzarne la distribuzione ai vari “signori della guerra” sparsi nel paese e garantirsi la loro fedeltà.

Poi, prosegue il racconto del New York Times, nel dicembre 2002 gli iraniani si sono “presentati al palazzo presidenziale a bordo di un S.U.V. carico di denaro contante”. Per ammissione dello stesso Karzai, infatti, anche il governo di Teheran per anni ha finanziato Kabul per cercare di estendere la propria influenza in Afghanistan e sganciare quest’ultimo paese dalla dipendenza da Washington. La rivelazione dei pagamenti iraniani al governo afgano scatenò qualche anno fa una campagna piuttosto aggressiva da parte degli USA nei confronti della Repubblica Islamica, proprio mentre la CIA stava facendo la stessa cosa ma su scala ben superiore.

Al contrario degli Stati Uniti, comunque, l’Iran ha interrotto il flusso di denaro verso Kabul almeno a partire dallo scorso anno, quando Karzai ha siglato un accordo di partnership strategica con l’amministrazione Obama.

Se l’ammontare degli importi elargiti dalla CIA non è del tutto chiaro, alcun testimonianze indicano singoli trasferimenti che vanno da qualche centinaia di migliaia di dollari ad alcuni milioni. Tra gli uomini a libro paga della CIA vi sono ovviamente figure tutt’altro che irreprensibili, come il leader della minoranza uzbeka in Afghanistan, Abdul Rashid Dostum, al quale sarebbero stati pagati tra gli 80 mila e i 100 mila dollari al mese.

Un altro personaggio discutibile che si è arricchito enormemente grazie alla gestione diretta del denaro della CIA è Mohammed Zia Salehi, responsabile amministrativo del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, l’organo di governo attraverso il quale passano i pagamenti. Salehi, ricorda il New York Times, venne arrestato nel 2010 perché al centro di un’indagine americana su un traffico di droga e denaro sporco nella quale erano coinvolti anche i Talebani.

La sua detenzione non durò però a lungo, dal momento che il presidente Karzai intervenne in prima persona per ordinarne la liberazione mentre, successivamente, i vertici della CIA si sarebbero adoperati con l’amministrazione Obama affinché l’intera indagine venisse abbandonata.

Le rivelazioni della testata newyorchese sono state confermate nella giornata di lunedì dallo stesso Hamid Karzai, il quale nel corso di una visita in Finlandia ha ribadito che il denaro della CIA è stato utilizzato a “svariati fini” ed ha espresso gratitudine agli Stati Uniti per il supporto finanziario. Da Kabul, inoltre, una dichiarazione ufficiale emessa dal palazzo presidenziale ha elencato alcune voci di spesa che i fondi americani avrebbero coperto, tra cui l’assistenza ai soldati afgani feriti e i sussidi al pagamento degli affitti.

La notizia o, meglio, la conferma ufficiale dei continui pagamenti da parte della CIA al governo fantoccio dell’Afghanistan in questi anni contribuisce dunque a smascherare qualsiasi residua pretesa da parte statunitense di operare in questo paese per la promozione dei principi democratici o di una qualche efficienza nella gestione dell’apparato dello stato.

Installato dagli americani alla guida del paese all’indomani dell’invasione seguita ai fatti dell’11 settembre, Hamid Karzai, oltre ad avere garantito l’arricchimento dei propri familiari e della sua cerchia di potere, presiede infatti ad un regime autoritario e violento, nonché, grazie anche ai fiumi di denaro garantiti dalla CIA, costantemente agli ultimi posti dell’indice mondiale relativo ai livelli di corruzione.


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