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di Michele Paris
A oltre un mese di distanza dall’assassinio a Bengasi dell’ambasciatore degli Stati Uniti in Libia, J. Christopher Stevens, le responsabilità e le circostanze relative alla morte del diplomatico americano rimangono al centro di un accesissimo dibattito che a Washington si è inserito prepotentemente nella campagna elettorale per la Casa Bianca. Nonostante le indagini in corso, le numerose audizioni ordinate dal Congresso e i quotidiani scambi di accuse tra democratici e repubblicani, la fondamentale questione politica riguardante il paese nord-africano continua rigorosamente a rimanere fuori dalla discussione, vale a dire la condizione in cui esso è precipitato dopo la “liberazione” dal regime di Muammar Gheddafi e che ha reso possibili i fatti dell’11 settembre scorso.
Al centro dello scontro tra i due principali partiti d’oltreoceano ci sono soprattutto le responsabilità dell’amministrazione Obama e la sua valutazione dell’assalto di Bengasi che ha causato la morte dell’ambasciatore e di altri tre cittadini americani incaricati del servizio di sicurezza presso il consolato. I repubblicani sostengono che il presidente non abbia garantito un adeguato livello di sicurezza dell’edificio, nonché sottovalutato l’assalto, considerato inizialmente una protesta spontanea contro la diffusione in rete di un filmato amatoriale che irrideva il profeta Muhammad.
Per i repubblicani l’attacco sarebbe stato invece una vera e propria operazione terroristica, attentamente pianificata e portata a termine da estremisti legati in qualche modo ad Al-Qaeda, verosimilmente affiliati al gruppo Ansar al-Shariah. I democratici, da parte loro, oltre a sostenere che la posizione presa dalla Casa Bianca al momento dei fatti si basava sulle informazioni disponibili in quel momento, accusano i repubblicani di cercare di politicizzare una tragedia dopo che essi stessi hanno contribuito ad implementare pesanti tagli alla sicurezza delle rappresentanze diplomatiche americane.
All’interno della stessa amministrazione Obama ci sono in ogni caso posizioni differenti. Il Segretario di Stato, Hillary Clinton, un paio di settimane fa all’ONU aveva infatti dichiarato che esistevano possibilità concrete che i giustizieri di Stevens avessero legami con Al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM), mentre proprio lunedì, nel corso di un’intervista alla CNN, la ex senatrice di New York si è assunta la piena responsabilità per non avere adeguatamente protetto il consolato di Bengasi.
Le parole della Clinton, secondo alcuni commentatori, sarebbero state pronunciate per cercare di limitare gli attacchi di Romney al presidente Obama su questo argomento nel secondo dibattito presidenziale di martedì a Long Island. L’ammissione segue però anche le polemiche sollevate dalle dichiarazioni rilasciate settimana scorsa di fronte ad un’apposita commissione della Camera dei Rappresentanti dall’ex responsabile della sicurezza per l’ambasciata USA in Libia, Eric Nordstrom. Quest’ultimo aveva sostenuto che il Dipartimento di Stato aveva negato la sua richiesta di estendere le misure di sicurezza esistenti e che prevedevano l’impiego di un team di soldati americani.
Al di là delle falle nei sistemi di sicurezza, la questione più rilevante, come già anticipato, è legata alle condizioni in cui versa la Libia dopo un anno dalla vittoria dei “ribelli” e dal barbaro assassinio di Gheddafi, avvenuto a Sirte il 20 ottobre 2011. Le operazioni militari NATO, scatenate grazie alla manipolazione della risoluzione 1975 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU del marzo 2011, hanno cioè gettato uno dei paesi più stabili e relativamente floridi del continente africano nel caos, lasciandolo di fatto nelle mani di numerose milizie armate che si fronteggiano per il controllo del territorio mentre il governo centrale e le forze di sicurezza restano paralizzate e incapaci di imporre la propria autorità.
La presunta “liberazione” del paese e il propagandato arrivo della democrazia grazie all’intervento degli Stati Uniti e dei loro alleati, oltre ad avere causato decine di migliaia di morti per prevenire la minaccia del regime di massacrare i propri cittadini in rivolta, ha permesso il proliferare sia di gruppi armati che si sono resi responsabili di gravissime violazioni dei diritti umani sia di formazioni con legami ad Al-Qaeda che operano nel paese nella pressoché completa impunità, spesso contro gli stessi “liberatori” stranieri che li hanno sostenuti.
Estremamente significativo della situazione libica è poi l’assedio dei giorni scorsi posto dagli ex ribelli alla città di Bani Walid, dove rimarrebbero alcuni fedeli di Gheddafi. Nel silenzio dell’Occidente, i nuovi padroni della Libia hanno bombardato la città, hanno impedito per giorni l’ingresso di cibo e medicinali e, secondo quanto riferito dai medici che vi operano, hanno impiegato armi con gas velenosi come il Sarin anche contro quartieri residenziali.
La situazione dei diritti umani, in difesa dei quali sarebbe stata combattuta la guerra contro il precedente regime, è stata ad esempio descritta dalla ONG britannica International Center for Prison Studies, secondo la quale l’attuale popolazione carceraria della Libia, che ammonta a circa 9 mila detenuti, è alloggiata in gran parte in strutture improvvisate e, soprattutto, viene sottoposta regolarmente a torture. La Libia ha poi la più elevata percentuale di detenuti senza accuse formali o processo (89%), di cui una parte stranieri, per lo più lavoratori emigrati sub-sahariani di colore arrestati durante e dopo la guerra perché sospettati di essere sostenitori di Gheddafi solo per il colore della loro pelle.
In questo scenario, gli stessi gruppi estremisti che gli Stati Uniti hanno sostenuto e finanziato per rovesciare il regime hanno potuto organizzarsi liberamente e, grazie alle armi provenienti dai loro benefattori occidentali e arabi, hanno finito per mettere a segno operazioni come quella in cui ha perso la vita l’ambasciatore Stevens, egli stesso inviato precocemente nel paese lo scorso anno proprio per stabilire contatti più intensi con i ribelli e le formazioni jihadiste simili a quelle che lo hanno assassinato.
A Washington, però, si continua accuratamente ad evitare di sollevare il punto cruciale della crisi libica nel post-Gheddafi, poiché farlo in maniera seria comporterebbe con ogni probabilità mettere in discussione l’intera strategia anti-terrorismo americana lanciata dopo gli attacchi al World Trade Center. Inoltre, tale discussione porterebbe alla luce il vero motivo che ha portato alla pianificazione dell’operazione NATO in un paese ricco di risorse energetiche come la Libia, cioè la rimozione di un regime poco malleabile e troppo disponibile nei confronti di Russia e Cina.
Soprattutto, come dimostrano i dubbi che stanno attraversando la classe dirigente statunitense, ammettere il nuovo colossale errore di valutazione in Libia significherebbe dover ripensare l’approccio alla crisi in Siria, dove l’amministrazione Obama sta per molti versi replicando la strategica libica, appoggiando, armando e finanziando forze terroristiche per rovesciare Bashar al-Assad.
La situazione in Libia potrebbe infine subire un ulteriore drammatico cambiamento nel prossimo futuro, sia con possibili bombardamenti americani per punire i colpevoli della morte dell’ambasciatore Stevens, sia tramite un intervento con forze di terra che renderebbe ancora più esplosiva la realtà sul campo.
La conferma di quest’ultima ipotesi è giunta da un articolo di lunedì del New York Times, nel quale si afferma che il Pentagono e il Dipartimento di Stato hanno già concordato con il governo di Tripoli l’invio in Libia di reparti delle Forze Speciali americane per addestrare un forza anti-terrorismo indigena composta da 500 soldati.
A questo scopo sono già stati stanziati 8 milioni di dollari e il progetto ricalcherebbe quelli già messi in atto in Pakistan o in Yemen, due paesi, come la Libia, di grande importanza strategica per gli interessi americani e che perciò negli ultimi anni hanno visto aumentare l’impegno di Washington all’interno dei loro confini, come sempre in nome della lotta al terrorismo e in difesa della democrazia e dei diritti umani.
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di Michele Paris
Le tensioni tra Siria e Turchia, aumentate pericolosamente la settimana scorsa in seguito all’esplosione di un missile in territorio turco che ha fatto cinque vittime civili, continuano a rimanere ben oltre il livello di guardia anche in questi ultimi giorni. Ad aggravare ulteriormente la situazione è stata l’intercettazione nel pomeriggio di mercoledì di un aereo di linea siriano da parte delle autorità turche, le quali lo hanno costretto ad atterrare ad Ankara mentre era in volo tra Mosca e Damasco perché sospettato di trasportare materiale bellico destinato al regime di Bashar al-Assad.
Il governo del premier Erdogan ha ordinato ad un jet F-16 della propria flotta di scortare un Airbus 320 della Syrian Air con una trentina di passeggeri a bordo sulla pista d’atterraggio dell’aeroporto Esenboga della capitale turca. Secondo la rete televisiva NTV, gli addetti all’ispezione avrebbero confiscato il carico, anche se le autorità turche non hanno rilasciato dichiarazioni ufficiali in proposito. Il quotidiano Zaman ha però riportato il ritrovamento di equipaggiamenti per le comunicazioni militari e componenti per la fabbricazione di un missile.
L’iniziativa di Ankara è giunta in un momento già estremamente delicato nei rapporti tra i due ex alleati e ha comprensibilmente sollevato la dura reazione di Damasco, da dove il ministro dei Trasporti, Mahmoud Said, ha definito lo stop del velivolo siriano un atto di “pirateria aerea”. Il governo di Mosca, a sua volta, ha chiesto spiegazioni a quello turco, visto che l’aereo della Syrian Air trasportava 17 cittadini russi, e ha negato che a bordo dell’Airbus vi fossero armi o altro materiale bellico.
Che quella di Ankara sia una provocazione intesa a fomentare la reazione della Siria per scatenare un conflitto vero e proprio appare evidente anche dal commento rilasciato all’agenzia di stampa Interfax da un anonimo funzionario governativo russo. Quest’ultimo ha fatto notare che la Russia non ha mai sospeso le forniture militari e tecnologiche alla Siria, perciò Mosca non ha alcuna necessità di effettuare spedizioni di questo genere in maniera segreta e per mezzo di un aereo civile, dal momento che esse continuano tuttora tramite i canali ufficiali.
In ogni caso, lo scrupolo turco per evitare l’afflusso di armi alle forze del regime e quindi l’aumento del livello di violenza nel paese appare quanto meno ipocrita, dal momento che Ankara è in prima linea nel facilitare le forniture di armi agli stessi ribelli anti-Assad, tra cui operano svariati gruppi terroristi, alimentando gli scontri e contribuendo al moltiplicarsi del numero delle vittime.
Nei giorni scorsi, intanto, sono proseguiti gli scambi di artiglieria tra Siria e Turchia nelle zone di confine dove infuria la battaglia tra le forze regolari e l’opposizione al regime che trova rifugio oltre il confine settentrionale. Anche se appare estremamente improbabile che Damasco abbia volutamente lanciato missili in territorio turco, Ankara ha risposto duramente con ripetuti bombardamenti contro postazioni dell’esercito siriano.
L’ipotesi più probabile è che i missili siano atterrati per errore oltre confine nell’ambito dei combattimenti contro i ribelli, anche se è non da escludere del tutto che la responsabilità sia proprio di questi ultimi nel tentativo di trascinare la Turchia nel conflitto. Da Ankara sono comunque arrivate dichiarazioni bellicose e, allo stesso tempo, altre forze aeree e di terra sono state inviate verso il confine con la Siria in preparazione di una possibile escalation dello scontro. Il governo turco, d’altra parte, settimana scorsa si era assicurato l’approvazione in Parlamento di una misura che consente l’uso della forza per fronteggiare minacce alla sicurezza del paese.
Il capo di stato maggiore turco, generale Necdet Ozel, nel corso di una visita alla città di Akçakale, dove il missile proveniente dalla Siria aveva fatto cinque vittime civili, ha poi minacciosamente ribadito che se gli attacchi proseguiranno, Ankara “risponderà ancora con maggiore forza”, dimostrando che la Turchia è pronta a sfruttare qualsiasi occasione per scatenare una guerra che si prospetta a dir poco rovinosa.
Le manovre turche procedono in piena sintonia con i vertici della NATO, che ha espresso solidarietà ad Ankara in una recente riunione di emergenza seguita al lancio del missile dal territorio siriano, e degli Stati Uniti, i cui piani in preparazione di un intervento militare sono stati confermati da un articolo pubblicato martedì dal New York Times.
Il quotidiano americano ha rivelato che da qualche tempo Washington ha inviato segretamente una task force di oltre 150 militari in Giordania e che essi sono alloggiati presso una struttura a nord della capitale, Amman. La “missione” statunitense trae origine da un’esercitazione militare andata in scena a maggio, in seguito alla quale i soldati sono rimasti nel paese mediorientale.
Questo contingente, la cui presenza in Giordania è stata confermata mercoledì dal Segretario alla Difesa, Leon Panetta, secondo la versione ufficiale avrebbe l’incarico di aiutare le autorità locali nella gestione della crisi prodotta dall’afflusso nel territorio del piccolo regno Hashemita di 180 mila rifugiati provenienti dalla Siria. La competenza degli americani in questo ambito è d’altronde risaputa, dal momento che le invasioni di Afghanistan e Iraq di rifugiati nell’ultimo decennio ne hanno creati a milioni.
Un'altra ragione sarebbe la necessità di intervenire tempestivamente in Siria nel caso il regime di Assad dovesse perdere il controllo del proprio arsenale di armi chimiche e biologiche. Tale questione era già stata sollevata qualche mese fa dal presidente Obama, secondo il quale l’impiego di armi chimiche contro i civili siriani o il pericolo che esse possano cadere nelle mani di gruppi estremisti spingerebbe immediatamente gli Stati Uniti ad intervenire. Come per l’Iraq nel 2003, pertanto, la presunta minaccia delle armi di distruzione di massa viene di nuovo usata da Washington per giustificare un cambio di regime con la forza in Medio Oriente.
Il New York Times sottolinea inoltre che i militari americani in Giordania sono dislocati a poco meno di 60 km dal confine siriano e “potrebbero svolgere un ruolo importante nel caso la politica degli Stati Uniti nei confronti della crisi in Siria dovesse cambiare”. In altre parole, nel momento in cui l’amministrazione Obama dovesse valutare che le condizioni internazionali permettono un intervento militare contro Assad, il contingente inviato in Giordania sarà una delle basi d’appoggio per le operazioni. Allo stesso scopo è già stato istituito da mesi un centro operativo della CIA presso la base americana di Incirlik, in Turchia, da dove vengono coordinati i finanziamenti e i trasferimenti di armi ai ribelli provenienti da paesi come Arabia Saudita e Qatar.
Anche in questo caso, l’occasione per lanciare un attacco potrebbe essere rappresentata da uno degli scontri che già da tempo si registrano tra l’esercito siriano e quello giordano nelle zone di confine tra i due paesi.
Stati Uniti e Turchia, dunque, da un lato e con il supporto decisivo dei principali media occidentali stanno cercando di preparare l’opinione pubblica internazionale ad un nuovo conflitto in Medio Oriente utilizzando le consuete ragioni umanitarie, mentre dall’altro operano più o meno apertamente per provocare una reazione da parte di Damasco, da sfruttare come pretesto per un intervento unilaterale che porti al rovesciamento del regime di Bashar al-Assad.
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di Massimiliano Ferraro
La Lituania ci ripensa e torna a puntare sull'atomo. Secondo quanto dichiarato dal premier Andrius Kubilius al giornale tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung, il governo ha intenzione di costruire un impianto nucleare a Visaginas, nel nord-est del paese. Il progetto della nuova centrale era stato già approvato nell'aprile 2009 dal Ministero dell'Ambiente lituano, momento che ha segnato una marcia indietro rispetto alle posizioni anti-nucleariste assunte dalla Lituania nell'ultimo ventennio.
Il governo di Vilnius aveva usufruito nel 1994 di un contributo di 37 milioni di dollari da parte della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo, al fine di iniziare un programma di investimenti sulla sicurezza nucleare. Una delle condizioni per ottenere il prestito era stata la chiusura dell'unica centrale nucleare ereditata dopo il crollo dell'Unione Sovietica, l'impianto di Ignalina.
Una scelta che a detta di alcuni osservatori ha provocato delle conseguenze economiche negative molto rilevanti. I dati forniti da Nuclear News, parlano infatti di un aumento del 30% delle bollette elettriche, di un abbassamento del PIL del 2% e di un'inflazione salita dell'1%, con ricadute anche a livello occupazionale. Questi dunque i motivi alla base del ripensamento lituano, ai quali bisogna aggiungere anche la scomoda dipendenza del Paese dalla Russia che attualmente fornisce ben il 70% del fabbisogno energetico.
In queste condizioni è improponibile, a parere di Kubilius, un confronto con le scelte inverse messe in cantiere da altri paesi europei: «La Germania può permettersi l'uscita dal nucleare perché è ricca e può sostenere i costi più elevati per le energie alternative, mentre il nucleare è quella che costa meno di tutte». Solo 5,2 centesimi a Kwh, contro gli 8,7 dell'energia eolica e i 10,1 di quella fornita dalle centrali a gas «per non parlare dei 13 della biomassa».
Nemmeno la perplessità mostrata dal giornalista del Frankfurter Allgemeine riguardo alla scelta di utilizzare a Visaginas la discussa tecnologia nucleare giapponese ha scomposto il primo ministro: «La catastrofe di Fukushima è stata causata da uno tsunami, che nel Baltico non esiste, e poi i reattori giapponesi hanno gli standard di sicurezza più elevati al mondo».
Intanto ieri mattina alcune decine di manifestanti si sono riuniti nella capitale lituana per protestare contro il nuovo corso nuclearista del paese.
Uno striscione di Greenpeace contro l'energia atomica è stato appeso su uno dei ponti lungo il fiume Neris. Le contrapposizioni tra favorevoli contrari al nucleare si stanno intensificando in vista del referendum non vincolante che domenica prossima dovrà misurare il livello di gradimento popolare al nuovo corso energetico prospettato dal governo.
I sostenitori del ritorno all'atomo affermano che l'impianto di Visaginas garantirà finalmente al Paese l'indipendenza energetica, mentre i gruppi ambientalisti puntano il dito sulla scarsa sicurezza e sugli altissimi costi di sviluppo del progetto.
Lo scorso maggio un sondaggio conoscitivo sul tema aveva rivelato che due terzi dei cittadini lituani sarebbero favorevoli all'idea della centrale atomica. Un risultato che il primo ministro Kubilius spera di riconfermare anche nel referendum.
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di Michele Paris
Il trionfo elettorale di Barack Obama nel 2008 era stato reso possibile non solo dal desiderio di cambiamento diffuso tra gli americani dopo i due mandati di George W. Bush, ma anche e soprattutto dall’appoggio garantito all’allora senatore dell’Illinois dai grandi interessi economici e finanziari del paese. Tra di essi spiccavano per generosità alcune delle principali banche di investimenti di Wall Street responsabili della crisi tuttora in corso, a cominciare dal colosso Goldman Sachs il quale ora, come ha messo in luce un lungo articolo del Wall Street Journal, sembra avere voltato le spalle al presidente democratico in vista del voto di novembre.
Secondo i dati dell’istituto di ricerca indipendente Center for Responsive Politics citati dal Wall Street Journal, i dipendenti di Goldman Sachs avevano contribuito alla precedente campagna di Obama per la Casa Bianca con un totale di oltre un milione di dollari. Quest’anno, invece, la cifra complessiva sborsata per il candidato democratico ammonta ad appena 136 mila dollari, meno cioè di quanto Obama ha ottenuto dai dipendenti del Dipartimento di Stato. Ancora più significativo è poi il fatto che gli uomini di Goldman Sachs non abbiano versato un solo dollaro alla più importante Super PAC che appoggia la rielezione del presidente e che potrebbe ricevere donazioni da aziende e cittadini privati senza alcun limite.
Il denaro destinato ai candidati a cariche elettive dai vertici di una grande compagnia americana, fa notare il Wall Street Journal, non ha mai cambiato destinatari in maniera così brusca come in questo caso. Il voltafaccia nei confronti di Obama appare particolarmente clamoroso, poiché Goldman Sachs è stata l’azienda privata che più ha donato al Partito Democratico nei 23 anni coperti dalle ricerche del Center for Responsive Politics. I suoi dipendenti hanno donato finora alla campagna per la Casa Bianca di Mitt Romney ben 900 mila dollari, a cui va aggiunta una cifra simile destinata ad una Super PAC che lo sostiene.
Secondo il Wall Street Journal e i manager di Goldman Sachs intervistati, il cambiamento registrato nelle contribuzioni elettorali dipenderebbe dal loro sentirsi traditi da Obama e dai democratici al Congresso, sui quali la banca aveva puntato per la difesa dei propri interessi a Washington. Nel concreto, a pesare sono stati i ripetuti attacchi populisti e puramente retorici rivolti dal presidente alla compagnia per le pratiche criminali che hanno portato al tracollo finanziario del 2008. Bersaglio delle critiche di Wall Street è anche lo sterile tentativo di regolamentare il settore finanziario statunitense passato sotto il nome di “Dodd-Frank Act”, firmato da Obama nel luglio del 2010.
A determinare il cambiamento di prospettive al vertice di Goldman Sachs è stato indubbiamente anche il passato dello stesso Romney nel mondo dell’alta finanza come fondatore della compagnia operante nel “private equity” Bain Capital. La sua attività in questo business gli ha permesso di mettere assieme una fortuna pari a oltre 250 milioni di dollari e di costruire strettissimi legami con Goldman Sachs e con gli altri istituti di Wall Street dediti alla speculazione finanziaria.
Per legge, in ogni caso, una compagnia come Goldman Sachs non può contribuire direttamente in quanto tale alla campagna elettorale di un candidato, perciò le donazioni provengono dai singoli dipendenti che versano denaro a titolo personale. Goldman Sachs, inoltre, ha adottato una regola interna che vieta le donazioni a nome dell’azienda anche alle Super PAC. Questo codice di condotta è ovviamente solo fumo negli occhi, dal momento che l’influenza di Goldman Sachs sulla politica di Washington è profondissima e ben documentata.
Altri dati indicano come non sia solo quest’ultima compagnia ad avere voltato le spalle a Obama e ai democratici, bensì quasi tutta l’industria finanziaria USA. Goldman Sachs, JP Morgan Chase, Bank of America e Morgan Stanley nel 2008 donarono complessivamente al candidato democratico per la Casa Bianca 3,5 milioni di dollari, mentre quest’anno si sono fermate a 650 mila dollari contro i 3,3 milioni destinati a Romney.
Più in generale, l’industria finanziaria nel suo insieme versò alla campagna di Obama 43 milioni di dollari nel 2008 per passare nel 2012 a 12 milioni, una cifra che rappresenta meno della metà di quanto ha ricevuto l’ex governatore del Massachusetts, facendo di questo settore la più importante fonte di denaro per la sua corsa alla presidenza.
Questo mutato scenario non significa peraltro che Obama non faccia affidamento sui poteri forti e sui super-ricchi americani per riconquistare la presidenza. Ad agosto, ad esempio, in concomitanza con la netta discesa delle quotazioni di Romney, l’élite d’oltreoceano mandò un segnale confortante per le speranze di rielezione del presidente, il quale in quel mese superò per la prima volta il suo rivale nella raccolta fondi (114 milioni a 111). Allo stesso modo, il Partito Democratico ha incassato in totale molto più denaro di quello Repubblicano in questo ciclo elettorale (742 milioni a 638), anche se le Super PAC pro-Romney hanno di gran lunga superato quelle vicine a Obama.
Nonostante le critiche e il dirottamento dei contributi elettorali verso i repubblicani, Goldman Sachs e le altre banche di Wall Street hanno ampiamente beneficiato delle politiche messe in atto dall’attuale amministrazione. Obama e i democratici, al di là della retorica, sono risultati infatti decisivi per il risollevamento e la riabilitazione di Goldman Sachs dopo il crollo del 2008, quando il nome della compagnia era diventato sinonimo dell’avidità, degli eccessi e delle attività criminali dell’industria finanziaria responsabile della crisi.
Come ricorda il Wall Street Journal, le azioni di Goldman Sachs sono risalite del 35% dall’ottobre di quattro anni fa, mentre l’indice S&P 500, che considera le più grandi compagnie USA, è più che raddoppiato dal marzo 2009. Goldman Sachs, inoltre, ha beneficiato del piano di salvataggio delle banche fatto approvare dall’amministrazione Bush sul finire del suo mandato e poi ampliato grazie a Obama.
Goldman Sachs è considerata la più potente banca americana e quella con in assoluto i più profondi legami politici, tanto che viene soprannominata “Government Sachs”. Dalle sue fila sono usciti, tra gli altri, due Segretari al Tesoro - Robert Rubin per l’amministrazione Clinton e Henry Paulson, architetto del piano di salvataggio di Wall Street dopo il fallimento di Lehman Brothers, per quella di Bush jr. - e numerosi altri dirigenti e funzionari che sono andati ad occupare importanti cariche governative. Il CEO, Lloyd Blankfein, è stato poi uno dei più assidui frequentatori della Casa Bianca durante il primo mandato di Barack Obama.
A partire dal 2008, ai danni di Goldman Sachs sono state aperte svariate indagini e inchieste, come quella di due anni fa che vedeva la banca d’affari implicata nella vendita ai propri clienti di titoli legati al settore edilizio spacciati come sicuri a poche settimane dall’esplosione della bolla dei mutui subprime.
Grazie agli investimenti nelle campagne elettorali dei politici di entrambi gli schieramenti, all’intensa attività di lobby e alle connessioni a Washington, nessuna azione penale si è però concretizzata e nessuno ai vertici di Goldman Sachs ha pagato per le operazioni criminali condotte in questi anni. La compagnia ha al massimo ricevuto sanzioni irrisorie a fronte di un giro d’affari di oltre 28 miliardi e di 4,4 miliardi di utili nel solo 2011.
L’appoggio garantito da Goldman Sachs a Mitt Romney e ai repubblicani nel 2012 non comporta comunque un minore impegno da parte dei democratici nella difesa degli interessi di Wall Street, come hanno fatto negli ultimi quattro anni nonostante un sentimento di odio diffuso verso le grandi banche tra la popolazione americana. Ciò è dimostrato dal complessivo aumento dei bonus dei top manager di Wall Street e dall’impennata dei profitti e del valore di mercato delle banche di investimenti mentre la maggior parte del paese continua a dover fare i conti con povertà, disoccupazione e un drastico ridimensionamento dei servizi pubblici.
I membri dell’oligarchia parassitaria americana appaiono risentiti verso Obama e i democratici anche solo per il timido tentativo di limitare le attività speculative che permettono loro di arricchirsi enormemente a spese del resto della popolazione. Costoro sono così tornati a vedere nel Partito Repubblicano il loro naturale alleato a Washington dopo il discredito in cui versava nel 2008, soprattutto in seguito alla scelta di un candidato alla presidenza che è stato egli stesso un membro di spicco dell’élite finanziaria.
Al voltafaccia di Goldman Sachs e delle altre banche di Wall Street, in ogni caso, il Partito Democratico non risponderà con una mobilitazione del proprio elettorato contro i privilegi e le pratiche criminali che hanno portato alla crisi, bensì, coerentemente con la propria natura, con un ulteriore spostamento a destra per tornare ad intercettare i generosi contributi dell’industria finanziaria nel prossimo appuntamento elettorale.
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di Michele Paris
In uno dei rari discorsi interamente dedicati alla politica estera, il candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti ha delineato lunedì in Virginia uno scenario bellicoso nel quale intende trascinare il suo paese nel caso venga eletto alla Casa Bianca il 6 novembre prossimo. A ben vedere, le posizioni di Mitt Romney non sembrano comunque discostarsi di troppo da quelle del rivale democratico, il quale, nel frattempo, continua a dovere fare i conti con un preoccupante calo nei sondaggi dopo l’opaca prova offerta nel primo dibattito presidenziale della settimana scorsa in Colorado.
Nel suo intervento presso il Virginia Military Institute, come hanno messo in luce molti commentatori d’oltreoceano, a poche settimane dal voto Romney ha dunque faticato a distinguersi dalle politiche messe in atto da Barack Obama su scala planetaria in questi quattro anni. Pur criticando il presidente da destra, il candidato repubblicano non è giunto infatti ad appoggiare apertamente un intervento americano per risolvere le più gravi crisi internazionali in atto, approvando perciò in gran parte la condotta dell’amministrazione democratica.
Il discorso tenuto da Romney lunedì di fronte ad un pubblico composto interamente da uomini in uniforme ha confermato in ogni caso che, chiunque si installerà alla Casa Bianca il prossimo gennaio, ciò che attende gli americani sono altri quattro anni di imposizione degli interessi imperialistici USA in ogni angolo del pianeta.
Attorno alla questione del nucleare iraniano, dopo aver affermato che la Repubblica Islamica “non è mai stata così vicina a possedere le capacità per costruire un’arma nucleare”, Romney ha ricalcato sostanzialmente il recente discorso di Obama all’Assemblea Generale dell’ONU. Romney, infatti, ha sostenuto di volere “avvertire i leader iraniani che gli Stati Uniti e i nostri alleati impediranno loro di ottenere le capacità per costruire un’arma nucleare” e per fare ciò non esiterà “a imporre nuove sanzioni e a rafforzare quelle già in vigore”.
L’ex governatore del Massachusetts ha poi fatto sapere che è sua intenzione ristabilire “la presenza permanente di portaerei americane nel Golfo Persico e nel Mediterraneo orientale”, così da tenere alta la pressione su Teheran. In questo caso le differenze con la strategia di Obama appaiono virtualmente annullate, dal momento che gli ultimi mesi sono stati segnati dall’applicazione di sanzioni durissime e da un vero e proprio accerchiamento militare dell’Iran.
La questione iraniana ha permesso a Mitt Romney di spiegare la diversità del suo approccio a Israele, verso il quale promette un’assoluta dedizione. Le divergenze tra l’amministrazione Obama e il governo di Tel Aviv peraltro, al di là della mancanza di sintonia tra il presidente americano e il premier Netanyahu, risultano puramente di natura tattica, visto che Washington non esclude l’ipotesi di un’aggressione unilaterale contro l’Iran, come chiede apertamente Israele. Il disaccordo emerge soltanto in relazione ai tempi di un’operazione militare, anche se lo stesso Netanyahu sembra essersi rassegnato ad attendere l’effetto delle sanzioni, con ogni probabilità dopo essere stato rassicurato dagli Stati Uniti su un possibile attacco nel prossimo futuro.
In merito alla crisi in Siria, Romney ha invece garantito che una sua eventuale amministrazione metterà in atto un maggiore sforzo per appoggiare i ribelli anti-Assad rispetto a quanto fatto finora da Obama, ricorrendo anche a forniture dirette di armamenti. Consapevole delle divisioni e dei dubbi diffusi tra i vertici militari e dell’intelligence americana attorno all’approccio da tenere nei confronti delle forze di opposizione siriana, tra le quali vi è una foltissima presenza di terroristi e integralisti islamici, Romney ha affermato che “si impegnerà con i nostri partner per identificare e organizzare quei gruppi che condividono i nostri valori, così da fornire loro le armi di cui necessitano per sconfiggere il regime”.
Per il momento, la posizione ufficiale di Washington prevede un sostegno di natura logistica ai ribelli, mentre la fornitura di armi viene delegata a paesi alleati come Arabia Saudita e Qatar. Il rischio che le armi possano finire nelle mani dei gruppi jihadisti, con conseguenze simili a quelle osservate a Bengasi lo scorso 11 settembre quando venne ucciso l’ambasciatore USA in Libia, non è stato in alcun modo affrontato da Romney nel suo discorso di lunedì.
Le critiche a Obama sono giunte anche in merito all’Iraq, dove il presidente avrebbe deciso di ritirare troppo in fretta le forze di occupazione, lasciando che “i progressi fatti dai nostri soldati vengano erosi dal riesplodere della violenza, dal ritorno di Al-Qaeda e dall’Iran”. Inoltre, il presidente sarebbe colpevole di non essere riuscito a siglare un accordo con Baghdad per mantenere nel paese un contingente americano oltre il 2011. Un possibile accordo era saltato lo scorso anno dopo che il governo del premier Nuri al-Maliki reputò politicamente impossibile garantire l’impunità ai soldati statunitensi presenti in territorio iracheno.
Come ha fatto notare qualche commentatore americano, la posizione espressa da Romney sull’Iraq appare diversa rispetto a quella da egli stesso esposta fino a pochi mesi fa. L’anno scorso, infatti, il candidato repubblicano alla Casa Bianca sosteneva che l’invasione dell’Iraq avrebbe dovuto essere evitata se gli Stati Uniti avessero saputo che il regime di Saddam Hussein non disponeva di armi di distruzione di massa, cosa che peraltro sapevano perfettamente. Ora, al contrario, Romney è tornato a parlare del conflitto in Iraq nel quadro della lotta per la democrazia, mentre allo stesso tempo prospetta in maniera implicita un possibile ritorno in questo paese di un contingente militare americano.
Gli ormai noti cambiamenti di opinione di Romney sono apparsi evidenti anche nella parte del suo discorso dedicato all’Afghanistan. Sempre lo scorso anno sosteneva che le truppe americane non erano tenute a combattere una guerra di indipendenza (dai Talebani) al posto di un’altra nazione, mentre l’altro giorno ha mostrato un sostanziale allineamento con Obama e con la sua tesi della “guerra giusta”, appoggiando in gran parte il piano presidenziale per il trasferimento delle responsabilità alle forze locali entro il 2014 e per la fine dell’occupazione in base alle condizioni sul campo e al parere dei vertici militari.
Ancora, sulla Primavera Araba Romney ha attaccato Obama per non essersi schierato in maniera più ferma dalla parte delle nascenti democrazie nel mondo arabo o, in altre parole, per non avere dirottato in modo più sicuro le rivolte dei mesi scorsi e i regimi appena nati verso la difesa degli interessi degli Stati Uniti di fronte ad una diffusa ostilità popolare nei confronti di Washington.
La questione palestinese, infine, ha fatto registrare l’ennesima inversione di rotta di Romney. Dopo avere proclamato solo qualche mese fa l’impossibilità di giungere ad un accordo di pace tra israeliani e palestinesi, poiché questi ultimi non sarebbero interessati ad una soluzione condivisa, lunedì il miliardario mormone ha confermato invece che la sua amministrazione continuerà a battersi per la creazione di “uno Stato palestinese democratico” in pace con quello di Israele.
Al contrario di quanto fatto nel faccia a faccia con Obama della settimana scorsa, nel quale aveva adottato toni relativamente moderati, Mitt Romney lunedì ha dunque sconfinato più volte nelle aggressive posizioni di politica estera tanto care ai “neocon” che dominavano l’amministrazione Bush jr.
Pur con l’esposizione di simili concetti, al termine del discorso di Romney si è avuta la netta impressione che, anche in caso di una sua vittoria a novembre, non si verificheranno cambiamenti significativi nemmeno in questo ambito rispetto al primo mandato di Barack Obama. Una conferma, questa, di come le politiche perseguite dal 2009 ad oggi dal presidente democratico siano state caratterizzate da una netta sterzata a destra che rischia di aprire nuovi e rovinosi conflitti internazionali nell’immediato futuro.