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di Mario Lombardo
Per la prima volta dalla rivelazione del colossale programma di sorveglianza elettronica messo in atto segretamente dagli Stati Uniti, un organo ufficiale del governo cinese ha discusso in maniera pubblica la vicenda messa in moto dall’ex contractor della CIA e dell’NSA, Edward Snowden. Ad affrontare il caso è stato il quotidiano in lingua inglese, China Daily, il quale ha opportunamente evidenziato il doppio standard di Washington nell’affrontare le questioni della cyber-sicurezza, rispedendo in sostanza al mittente l’escalation di accuse formulate contro Pechino nelle ultime settimane dall’amministrazione Obama.
Per la testata, controllata dal governo cinese, la notizia dell’esistenza dei programmi segreti PRISM e, soprattutto, Boundless Informant, grazie al quale gli USA intercettano le comunicazioni elettroniche che avvengono in paesi stranieri, rappresenta una macchia all’immagine internazionale degli Stati Uniti, nonché una minaccia alle relazioni tra le prime due economie del pianeta.
La prima critica, in particolare, va direttamente al cuore del principale motivo di scontro tra Washington e Pechino, cioè le accuse rivolte a quest’ultimo governo di essere dietro attività di hackeraggio ai danni di agenzie governative e compagnie private americane. Come di consueto, anche in questo caso è apparso dunque chiaro come gli Stati Uniti siano responsabili di attività discutibili o palesemente illegali che, tuttavia, essi attribuiscono ai loro rivali internazionali.
Che gli USA siano i maggiori utilizzatori di armi tecnologiche per promuovere i propri interessi era sensazione comune ma le rivelazioni degli ultimi giorni hanno contribuito a confermarlo con prove concrete. Lo stesso Snowden lo ha affermato apertamente in un’intervista rilasciata mercoledì al quotidiano di Hong Kong South China Morning Post.
Il 29enne analista informatico ha infatti affermato che gli USA monitorano le comunicazioni elettroniche cinesi almeno dal 2009 e gli obiettivi comprendono membri del governo, università e aziende. Una delle ragioni che hanno spinto Snowden a rivelare i programmi dell’NSA è stato proprio il desiderio di dimostrare “l’ipocrisia del governo americano quando sostiene di non prendere di mira [nelle operazioni informatiche segrete] infrastrutture civili, come farebbero invece i suoi avversari”.
Oltre alla stessa scelta di riparare in territorio cinese per sfuggire alle ritorsioni del proprio governo, queste dichiarazioni di Snowden suggeriscono forse un qualche ruolo giocato dalle autorità di Pechino nelle rivelazioni dei programmi dell’NSA al Guardian e al Washington Post, tanto più che esse sono giunte praticamente in concomitanza con un vertice bilaterale in California tra i presidenti Obama e Xi Jinping, dove la cyber-guerra tra i due paesi avrebbe avuto un posto di rilievo.In ogni caso, l’esposizione delle attività di intercettazione condotte dagli USA in paesi sovrani, in contravvenzione di ogni regola del diritto internazionale, potrebbe in qualche modo rimescolare le carte della rivalità in atto con la Cina, intensificata dopo la cosiddetta “svolta” asiatica decisa dall’amministrazione Obama fin dal 2009 per contenere l’espansionismo di Pechino.
La gravità delle rivelazioni sia sul fronte domestico che internazionale sono comunque risultate chiare dall’aggressiva campagna messa in atto dalla classe dirigente americana e da buona parte dei media “mainstream” per incriminare lo stesso Snowden, così come per minimizzare la pervasività dei programmi di intelligence o esaltarne la presunta efficacia nel prevenire possibili attentati terroristici.
Evitando accuratamente di prendere in considerazione il contenuto delle rivelazioni e la violazione dei diritti costituzionali dei programmi segreti, molti politici americani hanno così chiesto punizioni esemplari per Edward Snowden. Tra i più feroci accusatori di quest’ultimo c’è la presidente della commissione per i servizi segreti del Senato, la democratica Dianne Feinstein, come i suoi colleghi da tempo a conoscenza delle attività illegali condotte dietro le spalle degli americani dal proprio governo, la quale ha senza mezzi termini definito Snowden un “traditore” per avere reso noto informazioni riservate.
L’auspicio nemmeno troppo segreto della classe politica d’oltreoceano è però addirittura quello di criminalizzare la stessa attività giornalistica, come ha confermato questa settimana il deputato repubblicano Peter King, in un’intervista alla CNN dove si è detto favorevole all’apertura di un’indagine giudiziaria anche ai danni del giornalista del Guardian, Glenn Greenwald, che ha pubblicato le recenti rivelazioni.
Secondo la logica di King, d’altra parte, sarebbero queste fughe di notizie che rivelano la totale illegalità con cui opera il governo di Washington a “mettere a rischio vite americane e a danneggiare il paese”.
Se accuse formali contro Greenwald sono tutt’altro che improbabili - come dimostra il complotto messo in atto per incriminare Julian Assange di WikiLeaks - la persecuzione di Snowden è invece scontata, dal momento che il Dipartimento di Giustizia ha già avviato un’indagine che porterà alla richiesta di estradizione dell’ex contractor americano.
La campagna di discredito contro Snowden e l’ennesimo dibattito-farsa in corso sui principali giornali USA circa la migliore definizione da attribuirgli - “eroe” o “traditore” - serve anche ad evitare l’emergere di qualsiasi ipotesi di incriminazione per coloro che all’interno del governo hanno deciso l’implementazione di programmi anti-costituzioni, compreso il presidente Obama, contro il quale le prove di un possibile impeachment vanno ormai ben al di là di quelle su cui si basò, ad esempio, lo scandalo che costrinse alle dimissioni Richard Nixon nel 1974.
Nessuna richiesta di rendere conto nemmeno delle dichiarazioni fuorvianti rilasciate ripetutamente dai vertici dell’intelligence ai rappresentanti del popolo sembra arrivare poi dai giornali americani. Clamorose sono state in particolare le menzogne del direttore dell’Intelligence Nazionale, nonché supervisore dell’NSA, James Clapper, il quale durante un’audizione al Congresso nel mese di marzo aveva assicurato i suoi intervistatori che l’Agenzia per la Sicurezza Nazionale non raccoglie “intenzionalmente” informazioni sui cittadini americani.Il direttore dell’NSA, generale Keith Alexander, a sua volta nei mesi scorsi aveva più volte smentito che la sua agenzia è impegnata in attività di intercettazione delle comunicazioni elettroniche degli americani. Lo stesso Alexander è apparso mercoledì di fronte ad una commissione del Senato per difendere la gigantesca violazione dei diritti costituzionali da parte dell’NSA ma i senatori presenti hanno diligentemente evitato di chiedere spiegazioni sulle sue precedenti false dichiarazioni.
Il ricorso sistematico alla menzogna e all’inganno da parte della classe dirigente americana per limitare i danni seguiti alle rivelazioni di Guardian e Washington Post è chiaramente motivato dalla necessità di provare a giustificare ciò che un sistema democratico dovrebbe considerare inammissibile, senza alcuna eccezione.
Pervasi da un senso di panico per il progressivo venir meno della credibilità del sistema politico americano agli occhi della popolazione, i detentori del potere negli USA sono costretti a ricorre a intimidazioni, minacce e menzogne senza fine, che non fanno altro però che dimostrare ulteriormente il loro totale disinteresse per il rispetto dei diritti democratici.
Ancora menzogne, perciò, hanno caratterizzato la difesa dei programmi PRISM e Boundless Informant da parte, tra gli altri, di James Clapper e Dianne Feinstein. Entrambi in questi giorni hanno fatto riferimento agli arresti dei terroristi Najibullah Zazi e David Hadley, il primo con l’accusa di avere progettato un attentato sventato nella metropolitana di New York nel 2009 e il secondo per avere preso parte alla pianificazione degli attacchi a Mumbai, in India, nel 2008.
Secondo la versione ufficiale, Zazi e Hadley sarebbero stati individuati e assicurati alla giustizia proprio grazie ai programmi segreti di intercettazione dell’NSA. Una serie di indagini giornalistiche - condotte principalmente dal Guardian e dalla testata americana indipendente ProPublica - dimostrano al contrario come la cattura di entrambi sia stata dovuta ad attività tradizionali di intelligence e alla collaborazione tra agenzie USA e britanniche, mentre i programmi di sorveglianza dell’NSA non hanno avuto alcun ruolo.
Hadley, oltretutto, ben prima dei fatti di Mumbai era stato un informatore della DEA americana (Drug Enforcement Administration) e, con ogni probabilità anche di CIA e FBI, e le autorità statunitensi erano state più volte allertate dai familiari circa i suoi contatti con gli ambienti integralisti pakistani.La menzogna più eclatante e dalle implicazioni più inquietanti utilizzata dal governo americano è però quella che riguarda le fondamenta stesse della costruzione di un apparato della sicurezza nazionale da stato di polizia, vale a dire la necessità di combattere con ogni mezzo la “guerra al terrore” su scala planetaria.
Un documento interno della NSA del 2000, declassificato qualche anno fa, aveva infatti dimostrato come la preparazione delle misure messe in atto dopo l’11 settembre 2001 fosse già iniziata ben prima dell’evento che avrebbe portato a guerre rovinose e all’assalto ai diritti democratici negli Stati Uniti.
Nel cosiddetto memorandum “Transition 2001” si affermava cioè che, se anche “il Quarto Emendamento [che protegge da perquisizioni e confische senza un valido motivo] è applicabile ai sistemi di intelligence elettronica di ieri e di oggi, l’Era dell’Informazione ci spingerà a ripensare e ad applicare diversamente procedure e politiche nate in un diverso ambiente di sorveglianza”.
“L’NSA”, proseguiva il documento, “continuerà a svolgere le proprie missioni rispettando il Quarto Emendamento e tutte le leggi applicabili, tuttavia… è necessario comprendere che le missioni di domani richiederanno una robusta e continua presenza nelle reti di telecomunicazione globali che ospitano le comunicazioni protette degli americani e dei nostri avversari”.
L’avanzamento di questi programmi di sorveglianza a meno di un anno dagli attacchi al World Trade Center, infine, veniva giudicato eccessivamente lento, a meno che non avesse avuto luogo “un evento catastrofico, come una nuova Pearl Harbor”.
Le previsioni vecchie di oltre un decennio dell’NSA sembrano dunque essersi concretizzate, confermando come il progetto di sorvegliare sistematicamente il comportamento di virtualmente tutti gli americani e degli avversari degli USA sullo scacchiere internazionale sia in gran parte svincolato dall’anti-terrorismo e dalle ragioni della sicurezza nazionale.
Il riferimento fatto dal memorandum “Transition 2001” a possibili quanto ingiustificabili deroghe alle garanzie fissate nel Quarto Emendamento, poi, ricalca sorprendentemente le dichiarazioni del presidente Obama e di altri politici di Washington in questi giorni, tutte volte a difendere un sistema sempre più repressivo ormai del tutto al di fuori di un quadro autenticamente democratico.
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di Michele Paris
Venerdì prossimo gli elettori iraniani si recheranno alle urne per eleggere il successore di Mahmoud Ahmadinejad alla presidenza di una Repubblica Islamica segnata da profonde divisioni politiche interne e da un’economia sempre più in affanno a causa delle sanzioni occidentali dovute allo stallo sull’annosa questione del proprio programma nucleare civile.
La campagna elettorale partita sotto tono il 22 maggio scorso ha subito una modesta scossa negli ultimi giorni in seguito al ritiro dalla competizione di due degli otto candidati approvati dal Consiglio dei Guardiani su oltre 600 aspiranti alla presidenza.
L’abbandono della corsa dell’unico candidato considerato riformista, l’ex vice-presidente Mohammad Reza Aref, sarebbe stato deciso in particolare per evitare la dispersione del voto di coloro che vedono con favore un riavvicinamento all’Occidente e una maggiore apertura del mercato iraniano al capitale internazionale.
Il voto dei riformisti, quindi, potrebbe così confluire interamente sul moderato Hassan Rowhani, già capo dei negoziatori sul nucleare tra il 2003 e il 2005, nonché relativamente più noto di Aref, soprattutto dopo l’appoggio ufficiale ricevuto martedì dalle due personalità più popolari tra questa sezione della società iraniana, gli ex presidenti Mohammad Khatami e Ali Akbar Hashemi Rafsanjani.
L’entusiasmo elettorale di un movimento, come quello riformista, che fa riferimento principalmente ai giovani e alla borghesia urbana, non appare in ogni caso nemmeno lontanamente paragonabile a quello che il cosiddetto Movimento Verde aveva suscitato durante il voto contestato del 2009 con le candidature di Mir-Hossein Mousavi e Mehdi Karroubi, entrambi tuttora agli arresti domiciliari. Oltretutto, il fervore residuo di una parte dei riformisti si era spento il mese scorso proprio con l’esclusione dalla corsa alla presidenza di Rafsanjani.
La capacità di Rowhani, il quale nel 2009 aveva condannato le proteste di piazza seguite alla rielezione di Ahmadinejad, di accedere al secondo turno di ballottaggio rimangono tuttavia quanto meno dubbie, soprattutto in assenza di sondaggi attendibili. Le sue chances di piazzarsi tra i due candidati più votati alla chiusura delle urne nella serata di venerdì dipenderanno dal gradimento suscitato in un periodo così breve in una parte dell’elettorato generalmente sfiduciata e che percepisce il sistema come bloccato e in sostanza impossibile da cambiare dall’interno.
Soprattutto, però, l’eventuale successo di Rowhani - così come di qualsiasi altro candidato sulla sponda conservatrice - dipenderà dalla quantità di consensi che riuscirà ad intercettare tra la classe lavoratrice urbana e i votanti nelle aree rurali, vale a dire la parte del paese maggiormente colpita dalle difficoltà e dai cambiamenti economici di questi anni e che ha rappresentato la base elettorale dei successi di Ahmadinejad nel 2005 e nel 2009.
Anche questa fetta dell’elettorato, sia pure oggetto di meno attenzioni da parte dei media occidentali rispetto alla borghesia alla moda di Teheran che tende a preferire i politici “riformisti”, era stata privata a maggio del candidato teoricamente in grado di difendere i suoi interessi, il capo di gabinetto di Ahmadinejad, Esfandiar Rahim Mashaei, considerato una minaccia all’establishment conservatore a causa del suo populismo e della sua probabile intenzione di rafforzare i poteri attribuiti alla figura del presidente.
Rowhani, in ogni caso, appare senza dubbio il candidato preferito dall’Occidente, come confermano i commenti apparsi sui media che lo descrivono, tra l’altro, come un politico “pragmatico” e in grado di mediare tra riformisti e conservatori. Nel suo incarico alla guida dei negoziatori sul nucleare, inoltre, Rowhani era riuscito a siglare un accordo provvisorio e parziale per la sospensione delle attività legate al discusso programma.
Sul fronte conservatore, invece, il ritiro dell’ex presidente del Parlamento e consuocero dell’ayatollah Ali Khamenei, Gholam Haddad Adel, sembra aver fatto bene poco per chiarire i rapporti di forza in vista del voto.I due favoriti dovrebbero comunque essere il carismatico sindaco di Teheran, Mohammed Baqer Qalibaf, e l’attuale capo dei negoziatori sul nucleare e segretario del Consiglio Supremo per la Sicurezza Nazionale, Saeed Jalili.
Quest’ultimo, in particolare, viene considerato da molti il candidato preferito di Khamenei, non solo per la sua fermezza di fronte alle richieste occidentali e la dimostrata fedeltà alle direttive della Guida Suprema, ma anche per la sua mancanza sia di una vera e propria base elettorale sia di legami con le influenti fazioni che formano l’élite della Repubblica Islamica.
La presunta scelta di Jalili da parte di Khamenei, secondo questa tesi, sarebbe dettata dalla volontà di evitare l’esperienza vissuta dopo la rielezione di Ahmadinejad. L’ayatollah, cioè, non intenderebbe ritrovarsi a fare i contri con una forte personalità come quella del presidente uscente - per certi versi paragonabile a quella di Qalibaf - il quale dopo il successo del 2009 ha rapidamente perso l’appoggio di Khamenei perché considerato una minaccia per le istituzioni clericali della Repubblica Islamica.
Secondo altri analisti, al contrario, Khamenei non avrebbe in realtà scelto alcun candidato per il successo e sarebbero piuttosto i candidati stessi, soprattutto quelli senza una base elettorale significativa, a fare a gara per apparire come i protetti della Guida Suprema. La reticenza di Khamenei e l’insolita schiettezza che ha caratterizzato l’unico confronto televisivo tra i candidati ha dato qualche credibilità a questa interpretazione, secondo la quale perciò l’esito del voto di venerdì sarebbe del tutto aperto.
Inoltre, le critiche rivolte a Jalili per la gestione troppo rigida delle trattative sul nucleare con l’Occidente da parte di un altro candidato conservatore, l’ex ministro degli Esteri e consigliere dell’ayatollah, Ali Akbar Velayati, avrebbero evidenziato le divisioni esistenti all’interno della classe dirigente iraniana sull’atteggiamento da tenere nei confronti dell’Occidente per superare un’impasse diplomatica che dura da molti anni.
I giudizi negativi espressi da Velayati e da altri candidati alla linea dura tenuta da Jalili indicherebbero così per qualcuno una certa disponibilità da parte dei vertici dell’Iran a fare ulteriori passi per cercare un dialogo diretto con gli Stati Uniti. A conferma di ciò ci potrebbe essere, tra l’altro, anche la rivelazione fatta mercoledì dalla Reuters di una “insolita” lettera inviata qualche mese fa a Khamenei dal ministro degli Esteri, Ali Akbar Salehi, per promuovere “un’ampia discussione con gli USA”. Un invito, quello di Salehi, a cui l’ayatollah, pur senza mostrare ottimismo, non si sarebbe opposto.Al di là del comunque importante esito delle elezioni presidenziali in Iran, la sensazione diffusa è che le sorti delle trattative sul nucleare che hanno occupato buona parte della campagna elettorale dipenderanno più che altro dall’atteggiamento che intenderà adottare Washington, da dove le ripetute aperture di Teheran nell’ultimo decennio sono state puntualmente respinte.
Sfruttando l’esclusione di candidati autorevoli da parte del Consiglio dei Guardiani e le misure per tenere sotto controllo il dissenso interno in vista del voto, l’amministrazione Obama ha infatti criticato apertamente il processo elettorale iraniano. Soprattutto, poi, il periodo di transizione in corso verso l’insediamento di un nuovo presidente continua ad essere caratterizzato dall’imposizione di nuovi pesanti sanzioni unilaterali da parte degli Stati Uniti, come il recente tentativo di impedire all’Iran di accedere al denaro generato dalle sue esportazioni depositato su conti bancari esteri.
Una nuova escalation di misure punitive, quella del governo USA, che conferma come l’obiettivo rimanga quello di utilizzare la questione del nucleare per giungere ad un cambio di regime a Teheran o, in alternativa, di concludere un accordo per risolvere la crisi ma secondo le proprie condizioni, riassumibili nella sottomissione dell’Iran agli interessi strategici americani, con il conseguente rischio di compromettere la natura stessa della Repubblica Islamica e la rimanente legittimità della sua classe dirigente agli occhi della popolazione.
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di Michele Paris
La serie di sconfitte sofferte nelle ultime settimane dai “ribelli” siriani per mano delle forze del regime e di un limitato contingente di uomini di Hezbollah provenienti dal Libano sta spingendo i governi occidentali a cercare disperatamente qualche soluzione per invertire le sorti del conflitto. Svariati fattori, tuttavia, impediscono agli Stati Uniti e ai loro alleati di mettere in atto un processo sufficientemente condiviso per portare a termine la crisi, così che l’unico percorso teoricamente praticabile rimane il rovesciamento con la forza del regime alauita di Damasco.
Una prospettiva, questa, che scatenerebbe però una nuova rovinosa guerra in Medio Oriente, smascherando definitivamente gli interessi e i calcoli geo-strategici che si nascondono dietro all’intera vicenda siriana.
La settimana in corso si era aperta con un anonimo membro dell’amministrazione Obama che aveva rivelato all’Associated Press come il governo americano potrebbe decidere già nei prossimi giorni la possibilità di fornire direttamente equipaggiamenti militari a quei gruppi “ribelli” considerati più moderati e filo-occidentali.
L’indiscrezione è stata seguita dal rinvio di un nuovo viaggio in Medio Oriente del segretario di Stato, John Kerry, per discutere della questione palestinese, così da permettergli di partecipare ad un vertice alla Casa Bianca sulla Siria e, in particolare, sulle misure da adottare per “aiutare l’opposizione a far fronte ai bisogni essenziali della popolazione siriana e accelerare la transizione verso il dopo-Assad”.
In altre parole, l’ormai manifesta incapacità delle formazioni “ribelli” di dare la spallata al regime richiede misure drastiche e immediate da parte dei loro sponsor per accendere ancor più lo scontro nel paese e rianimare milizie dominate da elementi radicali impopolari che adottano in gran parte metodi terroristici per giungere alla creazione di un sistema caratterizzato dall’islamismo integralista più retrogrado.
I commenti dei media americani mettono però in guardia dalla pericolosità di una decisione che comporterebbe un ulteriore afflusso di armi in Siria, dimenticando puntualmente di sottolineare come Washington svolga già da tempo una funzione essenziale nel coordinare le spedizioni di materiale bellico a favore dei “ribelli” proveniente da paesi come Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi.In molti negli Stati Uniti temono inoltre le conseguenze di un nuovo intervento nella regione tutt’altro che gradito agli americani, così che esponenti del governo e commentatori vari continuano ad escludere l’invio di truppe in territorio siriano per combattere a fianco, o al posto, dei “ribelli”.
Esclusa dunque per il momento quest’ultima opzione, gli USA potrebbero studiare anche la fattibilità di una no-fly zone sulla Siria, visto che appare sempre più diffusa l’opinione che addirittura le stesse eventuali forniture americane di armi all’opposizione farebbero ormai ben poco per ribaltare gli equilibri sul campo.
Per una no-fly zone spingono tra l’altro alcuni dei falchi repubblicani al Congresso di Washington, primo fra tutti l’ex candidato alla presidenza John McCain, presenza puntuale nei talk-show d’oltreoceano per promuovere una nuova guerra “umanitaria”, nonché protagonista di un recente blitz in territorio siriano per incontrare alcuni guerriglieri anti-Assad.
L’imposizione di una no-fly zone richiederebbe in ogni caso una decisione unilaterale da parte degli Stati Uniti o della NATO, visto che al Consiglio di Sicurezza dell’ONU Russia e Cina sono ben determinate a porre il veto su qualsiasi risoluzione che possa essere manipolata per favorire gli obiettivi occidentali, come accadde nel 2011 con la Libia.
Con un sistema difensivo decisamente più sofisticato di quello a disposizione di Gheddafi, oltretutto, il rispetto di una no-fly zone sulla Siria dovrebbe essere ottenuto con massicci bombardamenti e, inevitabilmente, produrrebbe un numero elevatissimo di vittime tra i civili.
Sul campo in Siria, intanto, dopo la riconquista della città strategica di Qusayr, ad una manciata di chilometri dal confine con il Libano, le forze dell’esercito regolare si stanno preparando ad avviare nuove offensive contro i “ribelli”.L’inviato del Wall Street Journal in Siria, ad esempio, ha descritto martedì una serie di assalti da parte del governo e di Hezbollah contro le postazioni controllate dall’opposizione nella città di Homs, considerata dai “ribelli” la “capitale della rivoluzione”. Per tutta risposta, questi ultimi starebbero ricorrendo a tattiche a lungo attribuite al regime, come il lancio di missili contro obiettivi civili nei quartieri della città controllati dalle forze del governo e l’utilizzo di civili come scudi umani.
Il ritorno di Homs nelle mani del regime assesterebbe un ulteriore colpo alle capacità dei “ribelli” di condurre operazioni di una qualche efficacia nel sud della Siria, mentre la liberazione di Aleppo - altro obiettivo a breve del governo - potrebbe interrompere le forniture dirette alle forze di opposizione provenienti dalla Turchia.
Tutti i giornali occidentali in questi giorni indicano il momento favorevole ad Assad come un impedimento alla convocazione della sempre meno probabile conferenza di pace denominata “Ginevra II” e lanciata da Kerry assieme al suo omologo russo, Sergei Lavrov. I rappresentanti dell’opposizione sostenuta dall’Occidente hanno infatti annunciato da qualche giorno di non volere partecipare all’evento, poiché un Assad reduce da una serie di vittorie militari, come è ovvio, non avrebbe alcuna intenzione di abbandonare il potere.
Su questa linea appaiono anche i rappresentanti dei governi occidentali, confermando perciò come “Ginevra II” era in realtà soltanto l’ennesimo espediente messo in atto da Washington per forzare il cambio di regime a Damasco, questa volta attraverso l’apparenza di un processo diplomatico condiviso.
Oltre al possibile maggiore sostegno militare alle formazioni “ribelli”, Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna continuano poi a preparare la rimozione di Assad attraverso le accuse dell’utilizzo di armi chimiche. I dubbi su questa strategia cominciano però a diffondersi anche tra i media allineati al governo americano, come il New York Times, il quale, in un articolo di lunedì sulle incertezze che rimangono circa l’uso di gas sarin in Siria si è chiesto il motivo della difficoltà di provare con certezza le responsabilità nonostante la relativa fermezza con cui Washington, Parigi o Londra hanno puntato il dito contro il regime di Assad.La risposta all’interrogativo del NYT appare tutt’altro che complicata, dal momento che la mancata chiarezza sulle responsabilità del ricorso ad armi chimiche è dovuta al fatto che l’Occidente non ha alcuna prova concreta per accusare Damasco e, ciononostante, continua ad agitare lo spettro del sarin e di altri agenti letali perché intende comunque imputarne l’uso al regime.
Questo atteggiamento continua ad essere tenuto per costruire un casus belli che possa giustificare un intervento militare diretto in Siria, anche se l’organo più autorevole ad avere finora indagato sulla questione - una speciale commissione sulla Siria delle Nazioni Unite - ha lasciato intendere che ad avere usato quantità limitate di armi chimiche potrebbero essere stati proprio i “ribelli”.
L’incapacità di questi ultimi di sostenere una campagna efficace contro il regime, in definitiva, è la diretta conseguenza della sostanziale mancanza di seguito tra la popolazione siriana. Il motivo principale della loro impopolarità è dovuto soprattutto alla diffusissima presenza di elementi jihadisti violenti nelle file dell’opposizione armata, tra cui, probabilmente, decine di migliaia giunti dall’estero.
I metodi generalmente messi in atto in oltre due anni di conflitto sono stati recentemente descritti ancora dall’ONU e includono atti terroristici contro obiettivi civili, assassini, esecuzioni sommarie, rapimenti, atti di cannibalismo e l’imposizione di punizioni barbare ispirate alla Sharia. Proprio martedì, ad esempio, due attentati suicidi sono stati portati a termine a Damasco, facendo almeno 14 vittime e una trentina di feriti, mentre una persona è morta nella città libanese di Hermel, una delle roccaforti di Hezbollah, in seguito al lancio di alcuni missili dalla Siria.Uno degli episodi più raccapriccianti documentati negli ultimi giorni è stato reso noto dall’Osservatorio per i Diritti Umani in Siria ed è avvenuto nel fine settimana scorso ad Aleppo. Qui, un 14enne che vendeva caffè nelle strade della città è stato sorpreso da un gruppo di affiliati ad una milizia jihadista mentre respingeva la richiesta di un cliente di avere una bevanda gratis, ricorrendo ad un detto popolare siriano: “Nemmeno se [il profeta] Muhammad tornasse su questa terra in questo stesso istante”.
Alcuni estremisti lo hanno allora caricato su un auto, allontanandosi per alcune ore. Una volta tornati, il giovane, che mostrava evidenti segni di percosse, è stato portato in una piazza davanti a centinaia di persone dove gli è stata coperta la testa con la camicia che indossava.
Con la madre che osservava la scena dal balcone della propria abitazione, il gruppo di islamisti ha avvertito la folla che “chiunque insulti Dio o il profeta Muhammad verrà punito in questo modo”, per poi giustiziare il 14enne con due colpi di pistola diretti alla testa e al collo. Un esempio concreto della versione siriana dei diritti umani in nome della quale si battono i combattenti filo-occidentali.
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di Mario Lombardo
Le rivelazioni dell’ex contractor della CIA e dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana (NSA), Edward Joseph Snowden, sui programmi di intercettazione delle comunicazioni elettroniche di centinaia di milioni di persone da parte del governo di Washington, così come le sue dichiarazioni rilasciate al Guardian da Hong Kong e pubblicate nella giornata di domenica, contribuiscono in maniera decisiva a fare luce sulla vera natura del sistema politico e giudiziario degli Stati Uniti a oltre dieci anni dall’inaugurazione della cosiddetta “guerra al terrore” e a poco meno di cinque dall’esplosione della più grave crisi del capitalismo dalla Grande Depressione degli anni Trenta del secolo scorso.
Il 29enne dipendente della compagnia Booz Allen Hamilton - appaltatrice del governo americano per la fornitura di servizi di intelligence presso la quale, ironicamente, era impiegato lo stesso direttore dell’Intelligence Nazionale, James Clapper - ha infatti reso un servizio di inestimabile valore alla popolazione statunitense e non solo, rivelando alcuni dei mezzi impiegati dagli USA per giungere ad una sorveglianza capillare e pervasiva dei propri cittadini e di quelli di altri paesi, con il fine ultimo di controllare e reprimere ogni forma di dissenso.
Le rivelazioni pubblicate nei giorni scorsi dal Guardian e dal Washington Post hanno consentito inoltre di mostrare il vero volto della politica americana, sia nell’incarnazione repubblicana che democratica, interamente dedita alla conservazione di una ristretta élite economica e finanziaria con interessi globali e priva ormai di qualsiasi riguardo per i principi democratici fissati nella Costituzione degli Stati Uniti.La pubblicazione dei dettagli relativi al monitoraggio delle comunicazioni dei clienti della compagnia telefonica Verizon e del programma PRISM, con cui l’NSA ha di fatto libero accesso ai dati web degli utenti di compagnie come Facebook o Google, è stata seguita da dichiarazioni ufficiali di esponenti dell’amministrazione Obama e del presidente stesso nelle essi non solo hanno puntato il dito contro i responsabili di un’imprudente rivelazione di segreti che metterebbero a rischio la sicurezza nazionale, ma hanno anche difeso senza indugi misure che violano deliberatamente la privacy e i diritti democratici di ogni cittadino.
L’inquilino della Casa Bianca ha così ricordato agli americani che non è possibile “avere il 100 per cento della sicurezza e il 100 per cento della privacy senza inconvenienti”. In maniera ancora più preoccupante, Obama ha poi garantito la piena legalità dei programmi di monitoraggio e intercettazione condotti segretamente dall’NSA, basando la sua affermazione sul fatto che tutte le istituzioni che rappresentano i tre poteri dello Stato sono a conoscenza di essi o hanno un ruolo attivo nella loro implementazione.
Il governo, quindi, non ha mano libera nell’invadere la privacy degli americani, poiché il Congresso è continuamente informato di ciò che accade all’NSA e un apposito tribunale che opera in gran segreto - il cosiddetto Tribunale per la Sorveglianza dell’Intelligence Straniera (FISC) - approva ogni richiesta di intercettazione. Questa tesi, che tecnicamente corrisponde al vero, manca però di evidenziare come ognuno di questi atti continui ad essere condotto nella più totale segretezza, senza che gli americani siano stati informati o abbiano avuto la possibilità di discutere pubblicamente sulle relative implicazioni, mettendo di fatto in crisi anche la residua parvenza di democrazia che caratterizza l’odierno sistema rappresentativo degli Stati Uniti.
Ciò che Obama, già docente di diritto costituzionale, ha definito una “modesta intrusione” nella privacy dei cittadini con il consenso del Congresso e dei giudici federali corrisponde in realtà ad una flagrante violazione dei diritti democratici, in particolare del Quarto Emendamento alla Costituzione che protegge da perquisizioni e confische senza una valida ragione. Oltretutto, la raccolta indiscriminata di dati relativi alle comunicazioni elettroniche dei cittadini e al loro traffico in rete rientra in un disegno volto a creare una gigantesca banca dati che raccolga informazioni sul maggior numero di persone possibile.Come se non bastasse, le rivelazioni di Guardian e Washington Post hanno seguito di meno di una settimana una sentenza della Corte Suprema che sembra andare nella stessa direzione e che ha trovato relativamente poco spazio sui media d’oltreoceano e ancora meno da questa parte dell’Atlantico. Il supremo tribunale americano, coerentemente con il progressivo smantellamento delle garanzie costituzionali operato in questi anni dai nove giudici guidati dal presidente John G. Roberts, ha dato cioè il via libera alla raccolta di campioni di DNA di persone che semplicemente verranno sottoposte a fermo di polizia, di fatto anche per avere partecipato a manifestazioni di protesta contro il governo. Questi campioni potranno essere conservati e utilizzati sia per la risoluzione di crimini per i quali i proprietari non sono sospettati sia per facilitare le indagini su possibili futuri reati di qualsiasi natura.
Per quanto riguarda il livello di violazione della privacy sul fronte delle comunicazioni elettroniche è stato lo stesso Snowden a chiarire fino a che punto il governo si stia spingendo nel controllo dei propri cittadini. Nell’intervista rilasciata a Glenn Greenwald del Guardian, Snowden ha definito il programma di sorveglianza dell’NSA “l’architettura dell’oppressione”, volta a “conoscere ogni conversazione e ogni genere di comportamento”.
Ancora, la fonte delle recenti rivelazioni ha spiegato che “l’NSA ha costruito una struttura che, in pratica, consente di intercettare qualsiasi cosa”, in modo che “la gran parte delle comunicazioni umane venga automaticamente acquisita senza un obiettivo specifico”. Di fronte ad una struttura con “capacità terrificanti”, aggiunge Snowden, “non si è al sicuro con nessun genere di precauzione”.
Una simile struttura inglobata nell’apparato della sicurezza nazionale americana solleva inquietanti interrogativi sulle finalità del governo americano e sulla definizione stessa di “nemico” adottata da una classe politica che nell’ultimo decennio ha sfruttato la minaccia terroristica in funzione della promozione o della difesa degli interessi dell’oligarchia economico-finanziaria di cui è espressione.Il fatto che il governo degli Stati Uniti abbia accumulato una serie di prerogative senza precedenti - che vanno dalla sorveglianza di virtualmente tutta la popolazione all’imposizione dello stato d’assedio di intere città con la sospensione dei diritti costituzionali (come è accaduto a Boston all’indomani dell’attentato alla maratona nel mese di aprile), dalla detenzione indefinita senza prove o processo all’assassinio extra-giudiziario di chiunque venga considerato una minaccia per il paese - ufficialmente per contrastare un avversario, come l’integralismo islamista, che rappresenta alternativamente una minaccia da estirpare (Afghanistan, Iraq) o un alleato (Libia, Siria) e con cui la CIA e i militari continuano ad intrattenere rapporti ambigui, indica perciò come il timore diffuso negli ambienti di potere sia in realtà motivato da ben altro.
La vera minaccia che la classe dirigente degli Stati Uniti intende prevenire e combattere è rappresentata infatti dalla gran parte dei cittadini americani che è soggetta ad una colossale operazione di controllo e sorveglianza e che nutre un sentimento di avversione sempre più profondo nei confronti della politica di Washington, dell’apparato militare e dell’intelligence, ma anche di un’onnipotente industria finanziaria con cui essi operano in simbiosi.
Una tendenza sempre più autoritaria, quella delineata dalle rivelazioni di Guardian e Washington Post, che affonda dunque le proprie radici non tanto nello schermo della “guerra al terrore” e della finta necessità di difendere il paese da minacce esterne quasi sempre già conosciute quando non addirittura coltivate e finanziate segretamente, quanto nella crisi strutturale di un sistema economico, la cui sopravvivenza richiede il rimodellamento dei rapporti sociali e di classe con conseguenze pesantissime per la maggioranza della popolazione.
Le fondamenta di un vero e proprio Stato di polizia, gettate dall’amministrazione Bush e utilizzate da Obama per intensificare il controllo del governo sui propri cittadini, rappresentano in definitiva un sistema di difesa da parte di chi detiene il potere a Washington contro le conseguenze dell’impoverimento di massa imposto in questi anni alla popolazione, vale a dire l’esplosione delle tensioni sociali e il rapido diffondersi di un dissenso interno che non può trovare alcuno sbocco democratico nel quadro dell’attuale sistema di potere.
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di Fabrizio Casari
Non trova pace la Casa Bianca. Cuba gli scappa dalle mani. Alla ricerca frenetica di un consenso più ampio di quello di Israele e delle Isole di Palau per trovare legittimità internazionale all’odio anacronistico verso l’isola socialista, incappa in figuracce continue, che aumentano la già scarsa considerazione internazionale sulla legittimità delle condanne che Washington promulga a destra e manca. L’ultima trovata, non un inedito, è quella di inserire Cuba nella lista dei paesi che “patrocinano” il terrorismo.
Lo smaccato intento propagandistico dell’operazione politica è evidente. Washington sa perfettamente che Cuba non ha nulla a che vedere con il terrorismo, e sa altrettanto bene che proprio del terrorismo l’isola è semmai una vittima storica. Nessuno più degli Stati Uniti lo sa, dal momento che il carnefice è proprio il governo statunitense, che da oltre cinquant’anni organizza, dirige e finanzia attacchi terroristici delle bande operanti in Florida che agiscono di concerto con la Cia e con la protezione della Casa Bianca.
E così, in un singolare caso di sovrapposizione e inversione tra terrorismo e antiterrorismo, il paese propinatore del terrorismo accusa la sua vittima principale di appoggio al terrorismo. Gli Stati Uniti, si sa, amano le classifiche. In fondo rappresentano un modo elementare, privo di complessità, di esporre la realtà.
In linea con il proprio standard culturale, gli USA hanno costantemente bisogno di ricorrere a pagelle, ammonimenti, indicazioni e ordini, dal momento che la crisi del loro ruolo di direzione politica nello scenario internazionale è ormai costante ed appare irreversibile. Ovviamente, gli USA per definizione puntano il dito verso gli altri, incuranti di come le accuse che formulano rappresentano di per sé stesse un paradosso e la loro presentazione rappresenta un momento di autentica comicità involontaria.
Le risposte politiche di netta condanna all’ennesima provocazione statunitense non si sono fatte attendere. E se scontato e inevitabile è apparsa la reazione del governo cubano, non meno dura e netta è arrivata quella di tutto il subcontinente.
La CELAC, Comunità di Stati Latinoamericani e dei Caraibi, di cui sono membri 33 paesi del continente (non ne fanno parte solo Usa e Canada), ha infatti prontamente reagito alla provocazione statunitense, diramando una nota ufficiale nella quale si invita Washington ad esimersi dal promulgare pagelle e diramare giudizi il cui valore dal punto di vista del diritto internazionale è meno che zero.
Nel ricordare quanto già espresso con il comunicato speciale di appoggio alla “lotta contro il terrorismo in tutte le sue forme e manifestazioni”, approvato dalla CELAC nel Vertice di Santiago, il 27 e 28 Gennaio 2013, l’organismo continentale riafferma “il rifiuto alla elaborazione unilaterale di liste contenenti accuse a stati che risultano inconsistenti di fronte al diritto internazionale”.
La formazione di liste di proscrizione come si diceva, è un vezzo comune a tutte le Amministrazioni statunitensi e quella Obama non fa eccezione. L’obiettivo evidente è sempre quello di accusare l’isola socialista delle peggiori nefandezze, così da tentare una giustificazione a posteriori al mantenimento del blocco e dell’aggressione politica, economica, commerciale e militare. Prendiamo la questione dei diritti umani, un altro dei fronti su cui gli USA attaccano Cuba sapendo di mentire spudoratamente.
Ebbene, sulle presunte violazioni da parte di Cuba dei diritti umani, Washington ha sbattuto contro le prove documentate di come Cuba sia assolutamente in linea con gli standard internazionali. Oltre tutto, per colmo di sfortuna, gli USA devono incassare le continue felicitazioni che dalle Nazioni Unite agli organismi umanitari internazionali, globali e regionali, giungono a L’Avana. Che viene riconosciuta come paese che applica con equità e responsabilità le politiche sociali e culturali che garantiscono il rispetto dei cinque punti fondamentali dello sviluppo di un paese utilizzati dall’ONU come parametro per il rispetto dei diritti individuali e collettivi.
Cuba, da cinquantaquattro anni, commette però evidenti violazioni dei precetti statunitensi che costituiscono, dopo secoli, l’applicazione pedissequa della Dottrina Monroe, e da qui nasce la fobìa statunitense che vede nell’annessionismo unilaterale l’unica politica possibile verso l’isola. Del resto, proprio in relazione ai diritti umani, ad ulteriore conferma di come la loro presunta difesa da parte degli Stati Uniti sia totalmente strumentale nel merito e funzionale ai suoi interessi di politica estera nel metodo, basta vedere come il tema venga posto all’attenzione internazionale solo quando si tratta di paesi politicamente avversi.
Infatti, nella classifica sulle violazioni dei diritti umani non figurano i regimi amici di Washington, che praticano l’apartheid di razza, di genere e sociale, come le diverse monarchie del Golfo. Non trovano spazio i paesi amici come l’Ungheria, culla del nuovo fascismo europeo. Ma soprattutto è straordinario che il governo delle torture, di Abu Ghraib e di Guantanamo, delle bombe a grappolo sui civili in Asia e Medio Oriente, della deportazioni illegali di prigionieri, dell’assassinio come forma privilegiata di relazione con gli avversari politici, dello spionaggio di massa verso i suoi cittadini e dei dispositivi come il “Patriot act”, voluti allo scopo d’intensificare le politiche repressive interne ed estere, abbia la faccia di stilare pagelle sui diritti umani e non includersi al primo posto per le flagranti e continue violazioni degli stessi.
Difficile che con queste provocazioni gli Stati Uniti possano ricostruire la credibilità perduta in America Latina. La fine dell’epoca del Washington consensus avrebbe potuto e dovuto, su iniziativa degli USA, dar luogo ad una nuova fase storica nei rapporti tra Nord e Sud America, (come del resto aveva annunciato Obama in una delle sue innumerevoli promesse non mantenute). Serviva una fase nuova nella quale la parità e la reciprocità tra le nazioni e i blocchi di paesi avrebbe davvero consentito una nuova stagione di collaborazione e di sviluppo economico nel mercato continentale.
Ha invece dovuto incassare il rientro di Cuba negli OSA e la nascita della CELAC, passaggi notevoli e di chiara impronta politica indipendentista che aggiungono ulteriore forza e credibilità al blocco democratico latinoamericano e isolano ulteriormente gli Stati Uniti. Una partita persa quella di Obama in America Latina, parte consistente del complessivo fallimento nella politica estera della sua Amministrazione.