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di Michele Paris
Il bilancio delle vittime civili nella striscia di Gaza ha continuato ad aumentare nel fine settimana e nella giornata di lunedì in seguito all’intensificarsi della campagna militare scatenata mercoledì scorso da Israele. Negli ultimi giorni il bilancio complessivo è salito a quasi un centinaio di palestinesi assassinati, in buona parte bambini, vittime di oltre mille bombardamenti lanciati dall’aviazione e dalla marina israeliane. Nonostante l’appello di Tel Aviv all’autodifesa contro i razzi di Hamas, l’escalation di violenze è da attribuire unicamente al governo di Netanyahu e a criminali calcoli politici in vista delle elezioni generali di gennaio nonché, soprattutto, di un possibile spiraglio diplomatico apertosi in Medio Oriente dopo la rielezione di Barack Obama alla Casa Bianca.
Il nuovo massacro in corso a Gaza viene come al solito aggravato dalle condizioni in cui Israele costringe a vivere i suoi 1,7 milioni di abitanti, così che gli ospedali, dotati di scarso materiale per trattare i feriti, sono stati rapidamente sopraffatti dal numero di pazienti ricevuti, mentre la popolazione civile è in parte già a corto di acqua, cibo ed energia elettrica per parecchie ore al giorno.
I media di tutto il mondo stanno mostrando in questi giorni le stragi compiute dai bombardamenti israeliani, tra cui il più grave finora ha quasi sterminato l’intera famiglia di un commerciante nella mattinata di domenica. A morire sotto le macerie dell’abitazione a due piani di Gaza City sono state una sorella, due figlie, una nuora e quattro nipoti tra due e sei anni di Jamal Dalu, così come due vicini - un 18enne e la nonna - colpiti dalla violenza dell’esplosione.
Nel commentare il bombardamento, il portavoce dell’esercito israeliano, Yoav Mordechai, ha affermato che, per quanto lo riguarda, ciò che conta è la sicurezza dei cittadini dello stato ebraico e che il blitz aveva come bersaglio un membro di Hamas, Mohamed Dalu, responsabile del lancio di decine di missili in territorio di israeliano, tutti con ogni probabilità senza conseguenze significative, vista anche la propagandata efficienza del sistema difensivo “Iron Dome”.
Per giustificare le operazioni contro obiettivi civili, Israele sostiene che Hamas utilizza donne e bambini come scudi umani, anche se in realtà ciò significa che gli esponenti del movimento islamista, quando vengono colpiti dalle bombe di Tel Aviv, si trovano nelle proprie abitazioni con i loro familiari, i quali diventano inevitabilmente “danni collaterali” del presunto diritto all’autodifesa israeliana. Quanto poi ai razzi che verrebbero stoccati in aree densamente popolate e in edifici civili, non sembra che di questo materiale bellico sia stata trovata traccia, ad esempio, nell’edificio bombardato domenica e che ospitava gli uffici dei media locali e i corrispondenti di molte testate internazionali, come Fox News, Al-Arabiya, Sky News e CBS.
Nella notte e nella prima mattinata di lunedì, secondo Tel Aviv, da Gaza non ci sono stati lanci di missili, anche se le forze armate israeliane hanno comunque bombardato circa 80 siti nella striscia, facendo più di dieci vittime e decine di feriti. Nelle ore successive di lunedì il bilancio è salito a una trentina di morti, mentre è ripresa anche la ritorsione da Gaza, ma i razzi approdati entro i confini di Israele non hanno causato danni significativi.
L’assalto in corso contro Gaza, come previsto, ancora una volta ha trovato il sostanziale appoggio europeo e americano, come dimostra il fatto che, nonostante le divergenze tra Obama e Netanyahu, l’inquilino della Casa Bianca, nel corso di una visita in Tailandia, pur lanciando un vuoto appello per fermare l’escalation di violenze in corso, ha ribadito l’appoggio del suo paese al governo di Israele e al suo diritto all’autodifesa.
I missili lanciati da Gaza, in realtà, sono la risposta di Hamas e di vari gruppi islamisti all’aggressione israeliana e, sia pure diretti per la prima volta da due decenni contro Tel Aviv e non lontano da Gerusalemme, sono in gran parte inefficaci e provocano conseguenze nemmeno lontanamente paragonabili a quelle sofferte dalla popolazione palestinese. Ad oggi, le vittime israeliane sarebbero 3 e circa 80 i feriti.
Ciò che più conta, però, è che Israele, per stessa ammissione del suo governo, ha dato il via alla cosiddetta operazione “Pilastro della Difesa” quando la settimana scorsa era quasi del tutto cessato il lancio di razzi da Gaza. A innescare il conflitto è stato soprattutto l’assassinio mirato del leader militare di Hamas, Ahmed al-Jaabari, colpito il 14 novembre da un missile israeliano che ha di fatto spezzato una fragile tregua negoziata in precedenza.
L’irresponsabilità e il cinismo del governo Netanyahu sono emerse dai resoconti giornalistici apparsi in seguito alla morte di Jaabari. Quest’ultimo è stato infatti eliminato poche ore dopo aver ricevuto una bozza di tregua permanente tra Hamas e Israele negoziata dall’Egitto. Jaabari, inoltre, come ha scritto il quotidiano israeliano Haaretz era una sorta di “subappaltatore della sicurezza di Israele nella striscia di Gaza” e, ad esempio, dopo l’operazione “Piombo Fuso” del 2008-2009 si era adoperato per limitare il lancio di razzi da parte delle formazioni jihadiste che operano all’ombra di Hamas.
In sostanza, Israele ha rotto deliberatamente una tregua più o meno stabilmente in vigore, definendo poi la successiva reazione di Hamas come l’atto di aggressione originario che ha scatenato l’inferno su Gaza. Molti commentatori hanno anche ricordato le svariate provocazioni messe in atto da Tel Aviv nei confronti dei palestinesi fin dai primi di novembre, in concomitanza con il voto negli Stati Uniti, per cercare la reazione di Hamas e iniziare un’offensiva già preparata a tavolino.
Le manovre di questi giorni, in ogni caso, potrebbero essere solo l’inizio di un’operazione su vasta scala che comprende una possibile invasione di terra. Dell’altro giorno è l’annuncio della messa in allerta di ben 75 mila riservisti dell’esercito, un numero che appare tanto più consistente se paragonato ai 10 mila richiamati in occasione dell’operazione “Piombo Fuso” che uccise circa 1.400 palestinesi, quasi tutti civili.
Nel frattempo, continua senza sosta l’attività diplomatica con il governo egiziano in prima linea per negoziare un cessate il fuoco. Al Cairo è giunto anche il segretario generale dell’ONU, Ban Ki-moon, assieme, secondo una notizia diffusa dai media israeliani ma smentita da Netanyahu, ad una delegazione israeliana. Le difficoltà nel trovare una soluzione alla crisi dipendono anche dall’irrigidimento di Hamas che, forte del sostegno raccolto nel mondo arabo sunnita dopo la rottura nei mesi scorsi con Damasco, ha alzato la posta chiedendo, tra l’altro, la fine dell’embargo israeliano su Gaza per acconsentire ad una tregua.
I sostenitori di Hamas coinvolti negli sforzi per fermare le violenze sono anche Turchia e Qatar, i quali nonostante la loro sudditanza verso Washington non sembrano però avere alcuna influenza sull’amministrazione Obama quando si tratta di contenere Israele. Per l’Egitto del presidente islamista Mursi, invece, il prolungamento della crisi a Gaza costituisce un grave motivo di imbarazzo.
Il governo guidato dai Fratelli Musulmani, di cui Hamas è una costola, si trova a dover fronteggiare, da un lato, forti pressioni popolari per rompere ogni legame con Israele e, dall’altro, un esercito e un servizio segreto che vedono con sospetto Hamas, così come la necessità di rispettare il trattato di pace con Tel Aviv del 1978, condizione imposta dagli Stati Uniti per continuare a erogare gli ingenti aiuti economici destinati al Cairo.
La già ricordata cronologia degli eventi che hanno portato all’intensificarsi delle operazioni su Gaza suggerisce dunque che Tel Aviv stia nuovamente ricorrendo a pratiche criminali per sviare l’attenzione della popolazione israeliana dai problemi interni - povertà in aumento, disuguaglianze sociali tra le più marcate tra i paesi avanzati - facendo appello al militarismo e all’unità del paese contro una presunta minaccia esistenziale. Anche se il Likud di Netanyahu appare nettamente favorito per le elezioni di gennaio, le tensioni sociali in Israele hanno più volte superato il livello di guardia negli ultimi mesi, quando decine di migliaia di manifestanti sono scesi nelle piazze per protestare contro le politiche del governo di estrema destra.
Le operazioni a Gaza hanno anche a che fare con l’Iran e le minacce di un’aggressione unilaterale contro la Repubblica Islamica. Il massacro di civili palestinesi potrebbe perciò essere stato deciso sia per testare le reazioni della comunità internazionale, a cominciare dagli Stati Uniti agli albori del secondo mandato di Obama, e le capacità miliari di Israele in vista di una guerra contro l’Iran, sia soprattutto per far naufragare sul nascere le timide aperture della Casa Bianca per trovare una soluzione diplomatica alla crisi fabbricata attorno al programma nucleare di Teheran.
Al di là delle ragioni della guerra, in ogni caso, ciò che appare evidente in questi giorni è la continua totale impunità garantita ad Israele nel perpetrare un vero e proprio massacro contro una popolazione pressoché inerme come quella palestinese di Gaza. Tutto questo dopo le condanne internazionali e le accuse rivolte a Tel Aviv di avere commesso crimini contro l’umanità tra il 2008 e il 2009 in un’operazione il cui agghiacciante bilancio, grazie alla complicità degli Stati Uniti e dei governi europei, potrebbe essere ben presto eguagliato.
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di Michele Paris
Subito dopo la chiusura delle urne lo scorso 6 novembre, al centro del dibattito politico negli Stati Uniti ha come previsto fatto irruzione la presunta emergenza fiscale che si potrebbe abbattere sull’economia americana il primo gennaio prossimo se non verrà raggiunto un qualche accordo bipartisan tra democratici e repubblicani. Ad inserirsi nella discussione sul cosiddetto “fiscal cliff” è stato nella giornata di mercoledì anche un presidente Obama che, nella sua prima conferenza stampa dopo la rielezione, ha assicurato di essere pronto per una battaglia con il Partito Repubblicano dalla quale, qualunque sarà l’esito, a uscire sconfitti saranno comunque lavoratori, pensionati e classe media.
Entrato ormai a far parte del vocabolario politico d’oltreoceano e non solo, il termine “fiscal cliff” (“precipizio fiscale”) era stato usato per la prima volta lo scorso febbraio nel corso di un’audizione alla Camera dei Rappresentanti dal governatore della Fed, Ben Bernanke, per definire una serie di tagli alla spesa pubblica e l’estinzione dei benefici fiscali adottati per la prima volta nel 2001 che potrebbero scattare simultaneamente all’inizio del nuovo anno.
Quella che viene definita oggi come una vera e propria catastrofe che potrebbe travolgere un’economia USA ancora in affanno è in realtà il frutto di un’intesa siglata nell’estate del 2011 tra l’amministrazione Obama e i repubblicani al Congresso nell’ambito delle trattative sull’innalzamento del tetto del debito pubblico americano. In quell’occasione venne stabilito che, in assenza di un futuro accordo per la riduzione del debito federale, sarebbero appunto entrati in vigore tagli automatici alla spesa e aumenti delle tasse pari a oltre 600 miliardi di dollari.
Un accordo di ampio respiro su tali questioni è stato più volte rimandato da entrambi i partiti, i quali alla fine hanno opportunamente stabilito di fissare un ultimatum per il primo gennaio 2013, così da potere raggiungere un punto d’incontro su provvedimenti che causeranno un netto peggioramento delle condizioni di vita per decine di milioni di americani solo a urne chiuse.
L’emergenza “fiscal cliff” viene trattata in questi giorni dai media mainstream con toni apocalittici, in modo da convincere gli americani che la scadenza artificiale fissata da democratici e repubblicani rappresenti una sorta di minaccia senza precedenti da affrontare con soluzioni drastiche e impopolari, a cominciare dal ridimensionamento di programmi pubblici come Medicare, Medicaid e Social Security.
La necessità di sottrarsi allo spettro del “fiscal cliff” viene allo stesso modo affermata dai grandi interessi economici e finanziari del paese, i quali si sono ritrovati tra le mani uno strumento da utilizzare per contenere l’opposizione popolare nei confronti di politiche che verranno prese nelle prossime settimane a loro totale beneficio. Ciò che esclude quasi certamente lo scivolamento degli Stati Uniti verso il precipizio fiscale è inoltre il timore della classe politica di Washington per i consistenti tagli previsti anche per il settore militare.
Nonostante gli exit poll durante il recente voto per le presidenziali abbiano indicato chiaramente come il problema del debito sia stata la principale preoccupazione per non più di un elettore su dieci, esso è balzato dunque in cima alla lista delle questioni da affrontare senza esitazioni. Del “fiscal cliff” ha parlato l’altro giorno anche il presidente Obama di fronte ai giornalisti alla Casa Bianca, riaffermando la volontà della sua amministrazione di respingere qualsiasi formula che non comprenda la fine dei tagli alle tasse per i redditi superiori ai 250 mila dollari l’anno.
La posizione della Casa Bianca, già affermata e poi abbandonata nel 2010 all’indomani della vittoria repubblicana nelle elezioni di medio termine, non è tuttavia così ferma come potrebbe apparire a prima vista. Obama, infatti, ha lasciato intendere di essere disponibile ad un compromesso che porti le aliquote massime a livelli inferiori a quelli in vigore durante l’amministrazione Clinton, recuperando poi la parte di introiti mancanti con l’abolizione di alcune scappatoie legali che consentono di ridurre il prelievo fiscale e con la cancellazione di molte deduzioni di cui beneficia soprattutto la classe media.
L’aliquota massima durante l’amministrazione Clinton era del 39%, mentre con i tagli introdotti da George W. Bush è scesa al 35%, livello a cui si trova attualmente. Al momento, lo speaker repubblicano della Camera, John Boehner, sostiene di essere del tutto contrario a qualsiasi aumento delle aliquote più elevate ma non esclude di dare il proprio assenso alla proposta di mettere fine alle deduzioni fiscali, così che un possibile accordo a metà strada con un limitato aumento delle aliquote massime sembra essere a portata di mano.
Anche se Obama dovrebbe avere quest’anno una maggiore influenza nelle trattative con i repubblicani in seguito alla sua rielezione e ai progressi dei suoi colleghi di partito al Congresso, è tutt’altro che certo che il presidente intenda utilizzarla fino in fondo o che essa sarà sufficiente per superare le resistenze di un partito che ha conservato una solidissima maggioranza alla Camera.
La determinazione di Obama di far pagare più tasse alle classi privilegiate appare, in ogni caso, poco più di una farsa, come lo è peraltro l’intera emergenza fabbricata ad arte del “fiscal cliff”. Qualsiasi aumento del carico fiscale per i ricchi americani avrà un’incidenza del tutto trascurabile, mentre in cambio verranno adottati pesantissimi tagli alla spesa pubblica, come deve avere assicurato lo stesso presidente alla dozzina di amministratori delegati delle maggiori compagnie americane, riuniti mercoledì alla Casa Bianca.
Il vago principio di equità a cui Obama fa appello per affrontare la riduzione del debito non può nascondere il vero e proprio assalto che si sta preparando a programmi pubblici estremamente popolari. Come ha confermato in una recente intervista a Bloomberg News l’ex capo di gabinetto di Obama e già top manager di JP Morgan, William Daley, nelle trattative con i repubblicani per un “grande accordo” sul “fiscal cliff” la Casa Bianca partirà in gran parte dall’offerta che aveva proposto alla sua controparte nelle già ricordate negoziazioni dell’estate 2011.
Dell’entità delle misure considerate in quella circostanza ne ha dato un’idea qualche giorno fa il noto giornalista investigativo del Washington Post, Bob Woodward, durante un’apparizione alla NBC. Il reporter diventato famoso per aver rivelato i retroscena dello scandalo Watergate ha infatti presentato una copia fino ad ora segreta della proposta finale fatta da Obama a Boehner nel luglio 2011. Da essa, ha affermato Woodward, si deduce la volontà del presidente democratico di “tagliare qualsiasi cosa”, da Tricare (il programma di copertura sanitaria per i militari) a Medicare a Social Security. Sul fronte fiscale, invece, Obama “vuole abbassare le aliquote non solo per i singoli contribuenti ma anche per le aziende”.
I tagli a questi programmi pubblici che si prospettano sotto la gestione democratica saranno senza precedenti e, va ricordato, non sono mai stati possibili in passato nemmeno durante le precedenti amministrazioni repubblicane più conservatrici a causa della decisa opposizione popolare. Concretamente, il punto di partenza della proposta di Obama include, tra l’altro, tagli a Medicare pari ad almeno 250 miliardi di dollari entro il 2012 e a 800 miliardi nel decennio successivo. Per Sociali Security si parla di 112 miliardi in meno in dieci anni, di 16 miliardi per Tricare, altrettanti per i fondi destinati all’educazione superiore e così via.
La riforma fiscale “equa” in preparazione prevede invece misure che “migliorino la competitività internazionale” delle aziende americane, nonché incentivi per le compagnie che vorranno investire negli USA. In altre parole, si cercherà di creare un clima favorevole al business abbassando le tasse sui profitti delle corporation, da compensare con tagli alla spesa pubblica per programmi destinati alle classi più disagiate.
Simili iniziative, molto difficilmente potrebbero essere adottate senza la campagna mediatica fuorviante in atto, ma anche senza il supporto decisivo delle organizzazioni sindacali che hanno il compito di neutralizzare l’opposizione dei lavoratori americani. L’amministrazione Obama può però contare sulla connivenza dei sindacati ufficiali che, dopo avere speso centinaia di milioni di dollari per la rielezione del presidente democratico, hanno confermato di essere sulla stessa lunghezza d’onda di quest’ultimo anche in seguito all’incontro organizzato alla Casa Bianca martedì per discutere appunto delle misure legate al “fiscal cliff”.
Ben consapevole di ciò che attende la maggioranza degli americani, compresi gli affiliati alla sua organizzazione, Richard Trumka, presidente dell’AFL-CIO, la più grande federazioni sindacale degli Stati Uniti, dopo il vertice con Obama si è nondimeno presentato alla stampa affermando il suo impegno e quello degli altri sindacati per “assicurare che la classe media e i lavoratori non finiscano per pagare il conto di una festa a cui non hanno partecipato”.
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di Michele Paris
Il 18esimo congresso del Partito Comunista Cinese (PCC) si è chiuso con il passaggio di consegne tra il segretario generale uscente, Hu Jintao, e il nuovo leader designato, Xi Jinping. Quest’ultimo, già da tempo sicuro della successione, il prossimo mese di marzo prenderà il posto di Hu anche alla presidenza della Repubblica Popolare Cinese, mentre - a sorpresa - ha già assunto la guida della Commissione Militare Centrale. Per completare formalmente quello che è stato definito il secondo trasferimento di poteri senza scosse dalla rivoluzione del 1949, giovedì verranno nominati i componenti del Comitato Permanente del Politburo del Partito, l’organo che di fatto governa il paese, dove, oltre a Xi, troverà posto anche il nuovo primo ministro, Li Keqiang.
Il consesso del PCC a Pechino ha radunato circa 2.300 delegati provenienti da ogni parte del paese per approvare decisioni già prese dietro le quinte da una ristretta cerchia di influenti membri del partito. L’apparenza di unità che ha caratterizzato il congresso ha nascosto a malapena le profonde divisioni e le rivalità che attraversano le diverse fazioni dell’élite comunista in una fase di grandi cambiamenti economici e sociali e di tensioni internazionali che minacciano la stabilità della seconda potenza economica del pianeta.
Le difficoltà nel mandare in porto una transizione ordinata, sottolineata dall’insolito ritardo con cui è stato convocato il congresso, sono dovute anche all’esplosione di svariati scandali negli ultimi mesi che hanno coinvolto importanti personalità politiche, le cui disavventure hanno messo in luce la corruzione ampiamente diffusa ai vertici del partito e le enormi ricchezze accumulate dalle personalità che detengono il potere in Cina e dai loro familiari.
In particolare, la vigilia del congresso è stata segnata dalla purga dell’ex astro nascente del PCC, Bo Xilai, già potente leader della sezione del partito di Chongqing e caduto in disgrazia in seguito al suo coinvolgimento nell’omicidio di un discusso uomo d’affari britannico, per cui è già stata condannata all’ergastolo la moglie. Bo Xilai era considerato uno dei principali esponenti della corrente neo-maoista, la quale con la sua caduta ha visto restringersi drasticamente la propria influenza all’interno del partito nel pieno dello scontro per la scelta della nuova leadership.
Anche altre fazioni del partito non sono state però risparmiate dagli scandali, come quella di cui fa parte il presidente Hu Jintao. Uno stretto alleato di quest’ultimo è stato infatti anch’egli espulso dal partito recentemente, dopo la morte del figlio in un incidente stradale mentre era alla guida di una Ferrari che ufficialmente non avrebbe potuto permettersi. Allo stesso modo, il neo-segretario del PCC, Xi Jinping, e il primo ministro uscente, Wen Jiabao, sono stati al centro di indagini giornalistiche - rispettivamente di Bloomberg News e New York Times - che hanno rivelato gli interessi economici multimilionari che fanno capo alle loro famiglie grazie appunto ai legami che possono vantare ai vertici dello stato.
La transizione decennale in corso ha segnato anche l’arrivo al potere per la prima volta di una classe dirigente in gran parte composta dai cosiddetti “princelings” (principini), come Xi Jinping, cioè una sorta di nuova aristocrazia composta dai discendenti di esponenti di spicco del partito e che traggono la loro legittimità dai rispettivi legami familiari, a differenza dei precedenti leader - come Jiang Zemin e Hu Jintao, entrambi designati da Deng Xiaoping come suoi successori - che si erano fatti strada invece tra le varie organizzazioni del partito, a cominciare dalla Lega della Gioventù Comunista.
In ogni caso, le questioni principali che hanno tenuto banco durante il congresso erano state annunciate nella giornata inaugurale dal discorso tenuto da Hu Jintao di fronte ai delegati. Al centro dell’attenzione del presidente c’era il tentativo, simboleggiato dal suo ingresso nella Grande Sala del Popolo assieme al rivale ex-presidente Jiang Zemin, di conciliare le diverse visioni che convivono all’interno del partito. Nel concreto, gli obiettivi posti per il prossimo futuro sono, tra gli altri, l’assegnazione al settore privato di un ruolo ancora più importante nell’economia e la continuità di una politica estera che eviti un conflitto con gli Stati Uniti nonostante le crescenti rivalità tra i due paesi.
I problemi che affliggono la realtà cinese in questo passaggio di consegne tra Hu e Xi, e che hanno spinto la classe dirigente ad adottare il programma presentato durante il congresso, sono soprattutto il rallentamento di una crescita economica che nell’ultimo decennio ha fatto segnare un ritmo impetuoso, le conseguenti tensioni che attraversano la vastissima classe lavoratrice, il divario crescente tra ricchi e poveri e gli scontri con i paesi vicini (Filippine, Giappone, Vietnam) a causa di alcune dispute territoriali riemerse in seguito alla svolta asiatica degli Stati Uniti durante i primi quattro anni dell’amministrazione Obama.
L’affanno dell’economia cinese è in buona parte dovuto al rallentamento delle esportazioni, soprattutto verso l’UE, gli USA e il Giappone, che hanno finora alimentato la locomotiva di Pechino grazie alla vasta disponibilità di manodopera a basso costo. Uno degli obiettivi del regime, come affermato da Hu settimana scorsa, sarebbe perciò l’impulso da dare al sistema per passare ad un’economia basata in primo luogo sui consumi interni. Da qui la promessa di raddoppiare il reddito pro-capite entro il 2020.
Per raggiungere questo obiettivo, la dirigenza cinese intende intraprendere una serie di “riforme” che, lasciando intatto il monopolio del PCC, ristrutturino l’economia ancor più in senso liberista, sulla linea di quanto richiesto dagli ambienti economici e finanziari internazionali tramite il rapporto intitolato “Cina 2030” pubblicato dalla Banca Mondiale lo scorso mese di febbraio. A questo scopo, Hu Jintao ha spiegato che sarà necessario fare in modo che “il settore privato possa competere in maniera equa con quello statale”, così come ha prospettato la prossima svendita della maggior parte delle circa 100 mila aziende ancora pubbliche. A trarne beneficio saranno in gran parte imprenditori privati, grandi aziende straniere e membri del partito pronti ad approfittare della svolta per arricchirsi enormemente.
Le caratteristiche di un modello che negli ultimi tre decenni ha riportato il capitalismo in Cina, fondato sulla compressione delle retribuzioni di una manodopera più che abbondante, sembra però scontrarsi inesorabilmente con la prospettiva avanzata da Hu Jintao e che con ogni probabilità occuperà l’agenda dei nuovi leader di Pechino nel prossimo futuro. Per questo, è estremamente probabile che le “riforme” che si profilano per trasformare l’economia cinese non comporteranno alcun miglioramento significativo delle condizioni di vita di centinaia di milioni di lavoratori, bensì faranno aumentare ulteriormente le disuguaglianze nel paese, beneficiando soltanto coloro che sono diventati milionari in questi anni e, tutt’al più, l’emergente borghesia urbana.
Questo percorso “riformista” non è tuttavia condiviso in pieno da tutte le fazioni del partito, alcune delle quali intendono mantenere intatti i privilegi garantiti alle grandi aziende di proprietà dello stato. Per rassicurare queste sezioni dell’élite comunista, Hu ha perciò annunciato che le compagnie pubbliche operanti in settori strategici, come la difesa e l’energia, continueranno a rimanere tali.
La maggior parte di esse, però, finirà in mano privata, come conferma anche la campagna da qualche tempo avviata sugli organi di stampa ufficiali contro le aziende statali, accusate sempre più frequentemente di generare corruzione e di essere la causa del divario colossale tra ricchi e poveri.
Anche se le aziende pubbliche, ben lontane dall’essere sotto il controllo democratico della popolazione, servono ad arricchire una ristretta oligarchia con legami ai vertici del partito e a garantire il controllo statale di settori nevralgici, esse non sono la principale causa dei mali della società cinese, a cominciare dalle enormi disuguaglianze economiche e sociali. Piuttosto, ciò è dovuto più in generale alla restaurazione del capitalismo perseguita in questi decenni da Deng e dai suoi successori.
Una strada, quest’ultima, che il 18esimo congresso del PCC, pur tra incertezze e divisioni interne, sembra avere nuovamente indicato ai nuovi leader e che, però, invece di risolvere le contraddizioni del peculiare sistema cinese, rischia di aggravarle sensibilmente, facendo aumentare ancor più le tensioni sociali tra una sterminata popolazione la cui crescente insofferenza terrorizza indistintamente tutta la classe dirigente di un partito che, a dir poco impropriamente, a 91 anni dalla sua nascita continua a definirsi comunista.
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di Michele Paris
Dopo le incertezze e il relativo stallo delle ultime settimane, le manovre degli Stati Uniti e dei loro alleati in Europa e in Medio Oriente per rovesciare il regime siriano sono riprese a pieno ritmo con la chiusura della campagna elettorale per la Casa Bianca che ha portato alla rielezione di Barack Obama. Nonostante le divisioni che persistono a Washington sull’approccio alla crisi in Siria, i nuovi sviluppi registrati già negli ultimi giorni sembrano prospettare un maggiore coinvolgimento di un’amministrazione democratica impegnata in un rimpasto di governo che potrebbe avere riflessi importanti anche sulle prossime scelte di politica estera.
A preparare i nuovi scenari che stanno prendendo forma era stato il vero e proprio ordine emesso a fine ottobre a Zagabria dal Segretario di Stato, Hillary Clinton, con il quale gli USA hanno di fatto scaricato il Consiglio Nazionale Siriano (CNS). Quest’ultimo organismo, che godeva fino ad allora del pieno appoggio delle potenze occidentali, è diventato improvvisamente, agli occhi di Washington, totalmente incapace di rappresentare la popolazione siriana e le sue aspirazioni democratiche.
Il governo americano, una volta preso atto anche dell’inadeguatezza del CNS nel conseguire significativi successi militari sul campo, ha perciò imposto la sua sostituzione con una nuova struttura di più ampio respiro, teoricamente in grado di includere tutte le varie voci dell’opposizione a Bashar al-Assad. Nell’elenco di nomi redatto dal Dipartimento di Stato hanno continuato però a figurare uomini della CIA, oppositori al regime più o meno screditati, islamisti, ma anche personalità scelte tra le minoranze del paese, in particolare di fede alauita come Assad e la sua cerchia, così da dare una parvenza di pluralismo e di rappresentanza di tutta la società siriana.
Sotto la diretta supervisione dei loro protettori occidentali e arabi, i vari gruppi di opposizione al regime di Damasco si sono riuniti lo scorso fine settimana in un hotel di lusso a Doha, in Qatar, dove tra scontri e divergenze sono alla fine riusciti a partorire una nuova organizzazione unitaria, denominata Coalizione Nazionale delle Forze della Rivoluzione Siriana e dell’Opposizione.
L’accordo sulla formazione del gruppo è stato subito propagandato dai governi e dai media occidentali come una svolta verso la creazione di un’opposizione che parlerà con una sola voce, difendendo gli interessi del popolo siriano. Ciò che rimane, in ogni caso, è però la sostanziale impopolarità in patria dei suoi membri e l’incapacità, o la mancanza di volontà, da parte di questi ultimi, di tenere a freno i gruppi jihadisti che continuano a rendersi responsabili di efferati episodi di violenza in Siria.
La nuova Coalizione è stata riconosciuta lunedì dal Consiglio di Cooperazione del Golfo come il “legittimo rappresentante del popolo siriano” e dalla Lega Araba per il momento solo come “rappresentante delle aspirazioni” di quest’ultimo. Martedì, invece, a riconoscerla ufficialmente è stata la Francia, il cui presidente Hollande, da Parigi, ha definito la “Coalizione Nazionale il solo legittimo rappresentante del popolo siriano e futuro governo di una Siria democratica”.
La Coalizione, in sostanza, servirà a dare una facciata di democrazia e unità tra le numerose fazioni che compongono l’opposizione ad Assad, in modo da giustificare agli occhi dell’opinione pubblica occidentale l’aumentato appoggio militare e finanziario che si sta preparando per rovesciare il regime.
In ogni caso, le disposizioni di Hillary Clinton sono state recepite non senza resistenze dai leader del CNS, anche se alla fine sono stati convinti a fare un passo indietro con la promessa di una quota di rappresentanza significativa all’interno del nuovo organismo.
Alla guida della Coalizione è stato eletto l’imam sunnita più volte imprigionato a Damasco, Sheikh Ahmad Mouaz al-Khatib, mentre la scelta del vice-presidente è ricaduta su Riad Seif, dissidente e uomo d’affari su cui da tempo aveva messo gli occhi l’ormai chiusa ambasciata americana a Damasco. La nuova leadership dei ribelli è stata subito inviata a partecipare al summit della Lega Araba al Cairo e alla prossima riunione dei cosiddetti “Amici della Siria” che si terrà in Marocco per raccogliere consensi e appoggio materiale per le operazioni da condurre sul campo.
Quel che è certo è che il nuovo gruppo che dovrebbe formare il prossimo docile governo filo-occidentale e sunnita del dopo Assad non ha alcun interesse a cercare una soluzione pacifica della crisi in Siria, dal momento che i suoi vertici continuano ad escludere qualsiasi dialogo con un regime che mantiene una chiara superiorità militare e un certo appoggio tra le minoranze che vivono nel paese e tra la borghesia urbana che ha beneficiato delle aperture al libero mercato del regime nell’ultimo decennio.
Il progetto dell’opposizione siriana creato in Qatar annuncia piuttosto un’intensificazione delle violenze, dal momento che per la Coalizione patrocinata da Washington arriveranno a breve massicce forniture di armi, accompagnate probabilmente da un possibile intervento diretto delle potenze che desiderano la fine di Assad, come è ovvio giustificato da ragioni umanitarie.
I venti di guerra nei giorni seguiti al successo elettorale di Obama sono dunque tornati a soffiare minacciosamente sulla Siria, in particolare al confine settentrionale e meridionale. La Turchia, ad esempio, settimana scorsa ha chiesto di potere dispiegare missili Patriot americani lungo il proprio confine con la Siria nel quadro di una possibile imposizione di una “no-fly zone” che, come in Libia lo scorso anno, servirebbe come pretesto per mettere a segno bombardamenti contro le postazioni delle forze di sicurezza di Assad. I Patriot in Turchia comporterebbero anche il probabile arrivo in questo paese di centinaia di militari americani.
Lunedì, inoltre, in seguito alle incursioni aeree del regime siriano sulla città di confine di Ras al-Ain, il governo islamista di Erdogan ha rafforzato il proprio contingente militare nella regione, sorvolata anche da alcuni F-16. L’atteggiamento di Ankara ha il pieno appoggio della NATO, come ha confermato lunedì il Segretario Generale, Anders Fogh Rasmussen, il quale ha affermato che la Turchia può contare sulla solidarietà dell’Alleanza e che sono già pronti piani per la difesa e la protezione del paese da eventuali aggressioni provenienti dalla Siria.
Lungo il confine meridionale, invece, è Israele che è ufficialmente entrato nel conflitto in corso. Tel Aviv sembra muoversi infatti verso il superamento dei dubbi a lungo nutriti sulla rimozione di un regime che per decenni ha garantito una certa stabilità nella regione. Questa svolta è apparsa evidente nei giorni scorsi, quando le forze israeliane hanno bombardato postazioni dell’artiglieria siriana dopo che alcuni missili erano caduti, con ogni probabilità involontariamente e nel quadro delle operazioni di Damasco contro i ribelli, sulle alture del Golan, occupate da Israele con la Guerra dei Sei Giorni del 1967.
Le perplessità registrate a Washington in seguito ai fatti di Bengasi dell’11 settembre scorso, che avevano prefigurato lo scenario agghiacciante che attende la Siria se si continuerà ad appoggiare forze di opposizione tra le quali dominano gruppi terroristici e fondamentalisti sunniti, non sembrano dunque avere impedito agli Stati Uniti di proseguire sulla strada della promozione dei ribelli per rovesciare con la forza il regime di Assad.
I media d’oltreoceano in questi giorni raccontano di come l’amministrazione Obama stia riesaminando le proprie opzioni riguardo la Siria, in particolare dopo che la passività americana avrebbe contribuito alla destabilizzazione di alcuni paesi vicini che stanno pagando le conseguenze del conflitto siriano. In realtà, il contagio è dovuto precisamente al coinvolgimento, sia pure indiretto, e all’attivismo statunitense e di paesi come Turchia, Arabia Saudita o Qatar, per abbattere Assad, alimentando lo scontro settario che ha finito per allargarsi a paesi come Libano e Iraq già attraversati da simili conflitti interni nel recente passato.
L’evoluzione della posizione degli Stati Uniti verso un impegno sempre maggiore in Siria sembra essere confermata anche dalla probabile scelta di Susan Rice, attuale ambasciatrice USA all’ONU, come sostituta di Hillary Clinton alla guida del Dipartimento di Stato.
La Rice è una delle più convinte sostenitrici della necessità di promuovere gli interessi dell’imperialismo del suo paese in nome della difesa dei diritti umani, come conferma l’entusiasmo che la contraddistinse lo scorso anno nell’intraprendere l’operazione in Libia.
Secondo quanto riportato lunedì dalla Reuters, infatti, Susan Rice farebbe parte di una fazione all’interno dell’amministrazione Obama che spinge per un’azione più incisiva degli USA riguardo alla Siria, mentre gli ambienti militari e dell’intelligence appaiono ancora piuttosto cauti.
Questi sviluppi indicano quindi l’avvicinarsi di nuove devastanti guerre scatenate per motivi umanitari da parte degli Stati Uniti, con buona pace di quanti hanno creduto alle recentissime promesse elettorali di Obama che annunciavano una nuova era di pace dopo le rovinose avventure belliche dell’ultimo decennio.
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di Michele Paris
Le dimissioni rassegnate qualche giorno fa dal direttore della CIA, generale David Petraeus, hanno messo in agitazione tutto l’ambiente politico americano a pochi giorni dalla rielezione alla Casa Bianca del presidente Obama, sollevando una serie di interrogativi sul futuro della principale agenzia di intelligence a stelle e strisce. Soprattutto, però, l’uscita di scena del 60enne ex comandante delle forze di occupazione in Iraq e in Afghanistan rimane avvolta per molti versi nel mistero, dal momento che la sua infedeltà coniugale sembra essere solo un pretesto dietro al quale potrebbero nascondersi implicazioni di natura politica decisamente più rilevanti.
Come è ormai noto, Petraeus ha sottoposto la propria lettera di dimissioni a Barack Obama giovedì scorso e quest’ultimo le ha accettate il giorno successivo dopo averne valutato l’opportunità. Secondo la versione ufficiale, le ragioni dell’addio alla CIA sarebbero legate unicamente al suo coinvolgimento in una relazione extra-coniugale con la scrittrice 40enne Paula Broadwell, la quale aveva stabilito legami piuttosto stretti con Petraeus nell’ambito della stesura di una biografia del generale scelto da Obama poco più di un anno fa per guidare l’agenzia di Langley.
Nell’affaire di Petraeus si sarebbe involontariamente imbattuto l’FBI dopo che una seconda donna, la 37enne Jill Kelley di Tampa, in Florida, la scorsa primavera aveva notificato al Bureau la ricezione di una manciata di e-mail anonime nelle quali veniva minacciata per avere flirtato in maniera impropria con il generale Petraeus. Jill Kelley, la cui identità è stata rivelata solo domenica dalla Associated Press, è una funzionaria del Dipartimento di Stato incaricata di coordinare i rapporti con il Comando delle Forze Speciali e, assieme al marito, aveva conosciuto Petraeus e la moglie, Holly, quando quest’ultimo era a capo del Comando Centrale, la cui sede si trova appunto a Tampa.
Dopo avere ricevuto le suddette e-mail, Jill Kelley le aveva segnalate ad un agente dell’FBI suo amico, il quale aveva fatto partire un’indagine preliminare che avrebbe successivamente identificato l’autrice in Paula Broadwell. Durante l’analisi dell’account della donna, l’FBI è venuto a conoscenza di altre e-mail dal contenuto esplicito provenienti dal direttore della CIA, rivelando così la relazione tra i due. Paula Broadwell è anch’essa un ex ufficiale dell’esercito ed ha svolto servizio per un anno in Afghanistan.
Gli agenti dell’FBI hanno interrogato la Broadwell per la prima volta a partire dal 21 ottobre scorso e nel suo PC sarebbero stati trovati alcuni documenti classificati che a suo dire non ha ottenuto tramite Petraeus, circostanza confermata anche da quest’ultimo dopo avere ammesso la relazione extra-coniugale con la sua biografa.
Alla luce dei risultati dell’indagine, l’FBI avrebbe concluso che non vi erano le basi per un procedimento legale, poiché non erano state riscontrare violazioni della legge né era stata messa in pericolo la sicurezza nazionale. Sempre secondo la ricostruzione ufficiale, l’FBI, aspettandosi la chiusura della vicenda, ha alla fine informato dell’accaduto il superiore nominale di Petraeus, il direttore dell’Intelligence Nazionale, James Clapper, nel pomeriggio dell’election day (martedì scorso), anche se di lì a pochi giorni sono invece giunte le dimissioni del generale.
Le polemiche sulla questione non si sono fatte attendere, soprattutto perché il Congresso e la Casa Bianca sono stati tenuti all’oscuro dell’indagine su un funzionario governativo così importante. Il presidente Obama, ad esempio, sarebbe venuto a conoscenza dei fatti solo giovedì, quando ha ricevuto Petraeus con in mano le sue dimissioni. Anche i vertici dell’FBI e del Dipartimento di Giustizia sarebbero stati informati tardivamente dell’indagine, cioè solo alla fine dell’estate, nonostante le regole del Dipartimento impongano agli agenti di notificare tempestivamente ai propri superiori eventuali indagini che coinvolgono funzionari pubblici.
Ad aggiungere un’ulteriore nota di intrigo alla vicenda è stata poi un’altra rivelazione. Secondo i resoconti, infatti, l’agente dell’FBI che aveva avviato l’indagine preliminare sulle e-mail di minaccia ricevute dall’amica Jill Kelley, preoccupato per possibili violazioni della sicurezza nazionale, a fine ottobre, cioè a pochi giorni dal voto, ha sentito la necessità di informare della relazione extra-coniugale di Petraeus il leader di maggioranza alla Camera dei Rappresentanti, Eric Cantor. Messo al corrente dei fatti, il deputato repubblicano della Virginia avrebbe poi esposto le stesse apprensioni al direttore dell’FBI, Robert Mueller.
Secondo i media americani, l’FBI non avrebbe fornito in anticipo le informazioni su Petraeus a Congresso e Casa Bianca per un certo imbarazzo nel rendere di dominio pubblico una relazione extra-coniugale di un personaggio così importante in assenza di rilevanza legale. Il presidente Obama, tuttavia, ha accettato senza eccessivi drammi le dimissioni del direttore della CIA, il quale secondo la versione ufficiale ha lasciato il suo incarico perché avrebbe potuto essere ricattato e quindi mettere a rischio la sicurezza nazionale.
La vicenda Petraeus, così come viene raccontata dai giornali d’oltreoceano, sembra avere svariati aspetti quanto meno insoliti, a cominciare proprio dal fatto che la Casa Bianca e il Congresso, o quanto meno la maggioranza di esso, sono stati tenuti a lungo all’oscuro dell’indagine, resa nota alla fine in concomitanza con la rielezione di Obama.
Anche se non appaiono ancora chiare le forze che hanno agito dietro alle dimissioni forzate del capo della CIA, è altamente improbabile che, per la rilevanza del personaggio e del suo ruolo, non vi siano risvolti politici e che tutto dipenda soltanto dalla scoperta di una relazione clandestina, soprattutto perché lo stesso FBI era giunto alla conclusione che non vi erano stati comportamenti illegali né minacce alla sicurezza nazionale.
Come ha ricordato domenica il New York Times, poi, l’FBI ha una lunga storia, soprattutto sotto la direzione di J. Edgar Hoover, di indagini segrete nella vita sessuale di importanti personalità di Washington per mettere assieme dossier che consentono ricatti o che al momento opportuno possono spingere a inevitabili dimissioni.
Sulla questione ha con ogni probabilità influito anche la posizione ricoperta da David Petraeus. Il generale, ad esempio, era stato nelle ultime settimane al centro delle polemiche seguite all’assassinio a Bengasi dell’ambasciatore USA in Libia, J. Christopher Stevens, l’11 settembre scorso. Petraeus avrebbe dovuto testimoniare questa settimana a porte chiuse di fronte alle commissioni per i Servizi Segreti di Camera e Senato sul ruolo e le responsabilità della CIA nei fatti di Bengasi. Come hanno confermato alcuni membri delle due commissioni, Petraeus sarà esentato per il momento dal testimoniare.
Su tale questione, va ricordato che l’assalto al consolato di Bengasi, nonostante gli sforzi della classe politica americana di incentrare il dibattito unicamente sulla risposta iniziale dell’amministrazione Obama, ha fatto emergere i legami imbarazzanti tra il governo degli Stati Uniti, con la CIA in testa, e i gruppi jihadisti responsabili della morte dell’ambasciatore e di altri tre cittadini americani, nonché del caos che regna in Libia, sui quali Washington aveva puntato per rovesciare il regime di Gheddafi.
L’indagine dell’FBI e del Dipartimento di Giustizia che ha causato la caduta del direttore della CIA, inoltre, indica anche possibili scontri tra le diverse agenzie governative e che sembravano appartenere al passato. Da considerare infine, anche se appaiono tutt’altro che evidenti le implicazioni, il ruolo svolto da Petraeus in 14 mesi al vertice della CIA, durante i quali è stato protagonista di una evidente espansione delle attività dell’agenzia di intelligence nell’ambito della guerra al terrore.
In questo senso, vanno ricordate almeno le divergenze di vedute tra Petraeus e il numero uno dell’anti-terrorismo USA, John Brennan, attorno alla campagna di assassini mirati condotta con i droni in Pakistan, Yemen e altrove. Come aveva recentemente rivelato un’inchiesta del Washington Post, mentre Petraeus insisteva per espandere la flotta di droni assegnata alla CIA, Brennan preferiva limitare il ruolo dell’intelligence in questo settore dell’anti-terrorismo, per lasciarlo soprattutto nelle mani delle forze armate, teoricamente sottoposte a regole più trasparenti e quindi più facilmente controllabili dai vertici civili.
Secondo le indiscrezioni che circolano a Washington in questi giorni, proprio John Brennan sarebbe uno dei principali candidati alla successione di Petraeus alla direzione della CIA. Già ex funzionario dell’agenzia, di cui è stato a capo della stazione in Arabia Saudita, Brennan gode della totale fiducia di Obama, il quale nel 2009 aveva già cercato di installarlo nel ruolo assegnato successivamente a Petraeus, ma la sua candidatura finì per naufragare precocemente a causa del coinvolgimento nel programma di interrogatori con metodi di tortura promossi dall’amministrazione Bush.
La fine di Petraeus, in ogni caso, conferma ancora una volta come le faccende sessuali private di uomini importanti vengano sfruttate per regolare i conti all’interno della classe dirigente americana, facendo passare relazioni extra-coniugali come reati inammissibili. Ciò appare tanto più inquietante nel caso di Petraeus, il quale al comando delle forze di occupazioni statunitensi nell’ultimo decennio ha presieduto a svariati crimini di guerra in Iraq e in Afghanistan che lo hanno proiettato ai vertici di una delle più influenti agenzie governative.
Con l’addio di Petraeus, il presidente Obama procederà ora a nominare come suo sostituto l’attuale vice-direttore della CIA, Michael Morell, già al fianco di George W. Bush e ugualmente apprezzato dall’attuale inquilino della Casa Bianca. Morell, molto ben visto dai funzionari della CIA, potrebbe anche essere confermato alla guida dell’agenzia e, assieme a John Brennan, appare al momento il candidato più accreditato per la successione a Petraeus. Morell e Brennan sembrerebbero infatti poter garantire a Obama un maggiore controllo su Langley, i cui rapporti con la Casa Bianca in questi quattro anni non sono stati del tutto senza attriti.