di Carlo Musilli

Se all'improvviso i vostri figli sognano di visitare il Colorado o lo Stato di Washington, non è detto che sia solo per la bellezza dei paesaggi. Mentre votavano per il loro nuovo presidente, in questi due brandelli di terra americana gli elettori si sono prodotti anche in un referendum. E hanno liberalizzato l'uso della marijuana “a scopo ricreativo”, rispettivamente con il 53 e il 55% dei voti favorevoli.

Dai 21 anni d’età sarà consentito il possesso personale di 28,5 grammi di sostanza. Più sobri i cugini del Massachussetts: sì alla canna libera, ma solo “a scopo terapeutico” (diritto già concesso in 17 Stati, più il District of Columbia). Intanto, Maryland e Maine hanno dato il via libera alle nozze fra omosessuali.

Sembrava fosse uno scherzo da sbornia post-elettorale, invece è vero. Nella terra natale del proibizionismo è arrivata una sorprendente ventata liberal. Dal '19 al '33 negli Stati Uniti non si poteva fabbricare, vendere, importare né trasportare alcol. Alla fine capirono che il divieto non riduceva affatto il tasso d'alcolismo, anzi. Distillare nelle vasche da bagno era diventato uno sport nazionale.

Oggi come allora, un paio di states si sono finalmente resi conto che vietare l'erba non risolve granché. Almeno per tre ragioni. Primo: le droghe leggere non producono gli stessi effetti di quelle pesanti. Secondo: diverse ricerche hanno dimostrato che la cannabis può essere utilizzata a scopi terapeutici o palliativi contro alcune patologie. Terzo: in nessuna epoca o paese il proibizionismo ha mai funzionato fino in fondo come deterrente, tant’è vero che gli americani sono oggi fra i maggiori consumatori di droghe al mondo.

Il pragmatismo di Colorado e Washington sorprende soprattutto perché da anni siamo abituati a conoscere un'America strozzata dal bigottismo repubblicano. Non è questione di etica protestante, qui voliamo molto più basso. Basta ricordare la cronaca recente. Nella campagna elettorale appena conclusa, la destra ha contrapposto a Barack Obama un impresentabile mormone del Michigan. Un tizio alla “Settimo cielo”, Mitt Romney, che ha pensato bene di candidare gente arrivata con la macchina del tempo direttamente dal medioevo.

Un esempio su tutti è quello di Richard Mourdock. Correva per il Senato in Indiana, sostenuto dal reazionario Tea Party, e ci ha regalato la seguente perla antiabortista: “Penso che anche quando la vita comincia nell'orribile situazione di uno stupro, si tratti comunque di qualcosa che Dio voleva che accadesse". Non viene da pensare a una classe dirigente illuminata, al passo coi tempi. Ma gli Stati Uniti sono davvero un grande Paese, almeno in senso geografico. E al loro interno riescono a contenere personaggi da Controriforma come cittadini del XXI secolo.

Certo, la novità di legge non può esser vista di buon occhio dall’amministrazione centrale. L’operazione apre un conflitto diretto con il governo federale, che classifica ancora la cannabis come sostanza illegale. Il dipartimento di Giustizia americano ha chiarito che, nonostante i risultati dei due referendum, le norme nazionali restano confermate. Una contraddizione davvero scomoda.

Tanto è vero che John Hickenlooper, governatore del Colorado, ha scritto in un comunicato che “non è ancora tempo di festeggiare”, perché l’attuazione della nuova norma sarà “un processo complicato”. E, non si sa bene in che modo, dovrà tener conto dei regolamenti federali.

C'è però anche un altro aspetto da considerare. “Let's get down to business”, direbbero gli americani. Parliamo d'affari. Oltre a danneggiare il narcotraffico dal Messico e dall'America Latina, la liberalizzazione porterà anche un discreto gruzzolo nelle casse pubbliche. Grazie alle nuove tasse sul commercio di marijuana, oltre mezzo miliardo di dollari si materializzerà ogni anno nel bilancio dei due Stati, che pure non sono affatto fra i più popolosi degli Usa. Viene da chiedersi allora cosa succederebbe se la cannabis fosse legalizzata anche in posti come la California, la Florida, New York.

Secondo uno studio condotto da 300 esperti di economia (tra cui tre premi Nobel) la legalizzazione in tutti gli Stati Uniti consegnerebbe al governo americano 13,7 miliardi di dollari l’anno. Alle tasse (6 miliardi) si sommerebbe il risparmio dei soldi spesi per far rispettare il divieto in vigore (altri 7,7 miliardi). Uno sballo, no?   

 

 

di Michele Paris

La rielezione relativamente agevole di Barack Obama alla Casa Bianca ha confermato la presenza negli Stati Uniti di una maggioranza di elettori che continua a respingere in maniera decisa le politiche radicali e ultraliberiste rappresentate dal Partito Repubblicano e dalla candidatura di Mitt Romney. Di conseguenza, nonostante l’evidente calo dei consensi per il presidente democratico in questa tornata elettorale, anche grazie ad una campagna incessante da parte dei media liberal rimane piuttosto diffusa nel paese la sensazione o, meglio, l’illusione, che Obama e il suo partito possano agire da alternativa allo strapotere e all’influenza su Washington dei colossi di Wall Street e dei grandi interessi economici.

In questa prospettiva, il voto di martedì può avere espresso, almeno nelle intenzioni di poco più della metà degli elettori, un mandato affinché gli Stati Uniti intraprendano un percorso verso quel modello di società descritto dallo stesso Obama in campagna elettorale, fatto ad esempio di solidarietà, pieni diritti democratici e civili, giustizia sociale e via dicendo.

A fronte di questo messaggio inviato dai votanti nell’election day 2012, praticamente tutto l’establishment democratico, Obama compreso, subito dopo la diffusione dei risultati finali si è affrettato ad affermare invece che il mandato degli elettori sarebbe in realtà per un compromesso con i repubblicani che, d’altra parte, hanno mantenuto il controllo della Camera dei Rappresentanti.

Per questo, i discorsi del dopo voto sono serviti a tranquillizzare l’aristocrazia economica e finanziaria americana circa la volontà dell’amministrazione Obama di mettere mano da subito alla riforma fiscale e alla questione del debito pubblico in accordo con il Partito Repubblicano, smentendo così le pretese di quanti avevano ripetuto incessantemente che l’elezione metteva di fronte due visioni opposte dell’economia e del ruolo del governo nella società americana.

L’insistenza durante la campagna elettorale di entrambi i candidati sul problema del debito pubblico ha confermato poi la distanza tra la classe politica statunitense e la maggioranza della popolazione. Secondo i rilevamenti sul comportamento degli elettori, infatti, solo un votante su dieci ha indicato la questione del deficit come la più pressante per il paese.

Il rifiuto delle posizioni della destra repubblicana è stato in ogni caso uno dei fattori fondamentali per la conferma di Obama alla Casa Bianca e ciò ha influito anche sulle sconfitte, considerate impensabili fino a pochi mesi fa, subite dal partito di Romney in alcune competizioni per il Senato. Nelle sfide, ad esempio, per i seggi di Indiana e Missouri, due stati orientati decisamente verso il Partito Repubblicano e conquistati martedì dal miliardario mormone, i candidati di estrema destra Richard Mourdock e Todd Akin avevano visto svanire già nelle scorse settimane le loro chances di successo in seguito a dichiarazioni quanto meno discutibili su aborto e violenza sessuale, lasciando perciò strada ai democratici Joe Donnelly e Claire McCaskill.

Questi risultati hanno decretato inoltre la sconfitta come forza politica dei Tea Party, i quali avevano sostenuto numerosi candidati ultra-conservatori, consentendo loro di conquistare molte primarie repubblicane nella prima parte dell’anno. I Tea Party si sono così confermati poco più di una creatura mediatica e il risultato degli sforzi finanziari di una ristretta cerchia di super-ricchi per dare una facciata popolare al tentativo di spostare sempre più a destra l’agenda repubblicana e, di conseguenza, dell’intero dibattito politico americano.

I problemi evidenziati nuovamente dopo il voto di martedì per il Partito Repubblicano riguardano in parte l’incapacità di adeguarsi ai mutati equilibri sociali e razziali negli USA in questi anni. L’aumento del peso delle minoranze etniche nelle elezioni del 2012 è stato molto consistente, tanto che Obama è stato in grado di conquistare la Casa Bianca assicurandosi appena il 38% dei voti degli elettori bianchi, cioè 5 punti percentuali in meno rispetto a quattro anni fa. Soltanto nel 1984, come ha fatto notare il Wall Street Journal, i democratici ottennero una quota più bassa del voto bianco, quando però Walter Mondale venne letteralmente spazzato via da Ronald Reagan.

L’incapacità del Partito Repubblicano di intercettare il voto, ad esempio, degli ispanici appare tanto più grave quanto l’amministrazione Obama, pur avendo adottato limitati provvedimenti per offrire un percorso verso la cittadinanza a certe categorie di immigrati, si è distinta in questi quattro anni per il numero record di deportazioni rese esecutive.

Quello Repubblicano, in definitiva, si sta sempre più configurando come un partito che, oltre alla sezione dell’aristocrazia economica e finanziaria che non appoggia i democratici, può contare solo sul voto di bianchi, anziani e di coloro che vivono in aree rurali e suburbane, una fetta dell’elettorato cioè in netto restringimento nell’ambito dei cambiamenti sociali e demografici che stanno attraversando gli Stati Uniti.

Il vero problema per i repubblicani è però soprattutto la natura apertamente classista delle politiche che continua a promuovere, diretta conseguenze dei settori della società a cui i suoi vertici fanno esclusivo riferimento. Alla luce di questa situazione all’interno del partito e, ancor più, della sclerotizzazione dell’interno panorama politico d’oltreoceano, i cambiamenti che potrebbero essere adottati nel prossimo futuro finiranno quasi certamente per essere soltanto cosmetici.

La vittoria di Obama avrebbe poi segnato il fallimento della scommessa delle grandi banche di Wall Street che quest’anno avevano scommesso in gran parte su Mitt Romney. L’industria finanziaria americana, infatti, a differenza del 2008 ha investito ingenti somme sul candidato repubblicano, dopo che anche le sterili misure di regolamentazione del loro settore adottate dai democratici erano apparse ai loro occhi una inaccettabile limitazione alla possibilità di speculare in totale libertà.

Questa inversione di rotta da parte di Wall Street sarebbe stata motivata anche dai toni populisti tenuti in campagna elettorale da Obama, il quale ha spesso tuonato contro i ricchi banchieri. Il presunto scontro tra gli amministratori delegati delle banche di investimenti d’oltreoceano e l’establishment democratico non va tuttavia sopravvalutato.

Obama e i suoi colleghi di partito hanno già provveduto a rassicurare gli ambienti finanziari, promettendo un impegno chiaro per la riduzione del debito pubblico tramite il ridimensionamento della spesa pubblica, esattamente come richiesto pochi giorni fa a entrambi i partiti dai top manager delle principali compagnie di Wall Street.

Il riavvicinamento tra le banche americane e l’amministrazione Obama non tarderà ad arrivare, con i democratici che cercheranno di rientrare nelle grazie di futuri donatori la cui generosità sarà comunque fondamentale per i prossimi appuntamenti elettorali. Il banco di prova in questo senso potrebbe essere la stesura delle regole di implementazione della “riforma” del sistema finanziario del 2010 e la nomina dei nuovi vertici delle varie agenzie teoricamente preposte alla supervisione dell’industria finanziaria stessa.

La rielezione di Obama, infine, potrebbe prefigurare importanti cambiamenti in politica estera, anche se in campagna elettorale non erano emerse differenze sostanziali tra le posizioni dei due candidati alla Casa Bianca. Se la promozione a qualsiasi costo degli interessi dell’imperialismo americano in ogni angolo del pianeta rimarrà l’obiettivo principale del presidente democratico, saranno da verificare una serie di decisioni specifiche che dovrebbero essere prese nei prossimi mesi.

Sulla questione del nucleare iraniano, la stampa ha recentemente rivelato l’esistenza di un accordo tra Washington e Teheran per stabilire colloqui bilaterali dopo il voto. La Casa Bianca ha in realtà già smentito la notizia ma la ricerca di un accordo con la Repubblica Islamica potrebbe essere secondo alcuni una strada che Obama intende percorrere una volta liberatosi di ogni preoccupazione elettorale. Allo stesso modo, e forse più probabilmente, le tensioni potrebbero tuttavia anche aumentare, portando ad un possibile aperto conflitto con l’Iran, visto che l’obiettivo principale per gli Stati Uniti rimane il cambiamento di regime a Teheran utilizzando il pretesto del programma nucleare.

Un grande punto interrogativo rimane invece riguardo la questione palestinese, per la quale dopo il fallimento dei colloqui di pace durante le fasi iniziali del primo mandato di Obama, l’amministrazione democratica non sembra avere alcun piano alternativo da proporre. Sui rapporti israelo-palestinesi pesano anche le relazioni con Tel Aviv e in particolare del presidente con il premier Netanyahu, il quale nonostante i complimenti espressi all’inquilino della Casa Bianca dopo il voto di martedì aveva nascosto a fatica le sue preferenze per Romney.

In questo senso, il lavoro fatto a Washington dalle principali lobbies israeliane, a cominciare da AIPAC, per fare eleggere il candidato repubblicano non è andato dunque a buon fine, a conferma che, nonostante il servilismo di quasi tutta la classe politica USA nei confronti di Tel Aviv, questa attitudine non riflette necessariamente l’orientamento della maggioranza degli elettori ebrei americani.

Sul fronte dei rapporti con l’Europa, il bis di Obama dovrebbe avere suscitato maggiore soddisfazione tra i governi che, come quello francese, sostengono la necessità di privilegiare politiche di crescita economica invece dell‘austerity senza compromessi alla Merkel.

La posizione dell’amministrazione Obama, tuttavia, come quella appunto di Hollande, non prescinde da una pesante riduzione della spesa sociale o da uno smantellamento dei diritti del lavoro, come confermano non solo i provvedimenti adottati negli ultimi quattro anni ma anche le durissime misure che verranno prese a Washington già dalle prossime settimane per ridurre il deficit tramite pesantissimi tagli ai programmi pubblici destinati ai redditi più bassi.

In definitiva, se la subordinazione assoluta nei confronti dei poteri forti d’oltreoceano e la difesa degli interessi del capitalismo americano all’estero rimarranno la cifra del secondo mandato di Obama alla Casa Bianca, le politiche concrete che verranno messe in atto nei prossimi quattro anni a Washington saranno tutte da valutare e avranno in ogni caso effetti significativi sulle sorti dell’intero pianeta.

di Michele Paris

Confermando la tendenza delineata da quasi tutti i sondaggi nelle ultime settimane di campagna elettorale, Barack Obama si è confermato martedì il 44esimo presidente degli Stati Uniti d’America, chiudendo con ogni probabilità in maniera definitiva quasi sei anni di inseguimento alla Casa Bianca da parte del rivale repubblicano, Mitt Romney. Il successo del presidente democratico è apparso di proporzioni nettamente inferiori rispetto al 2008, come dimostrano almeno due stati persi tra quelli conquistati nella precedente tornata elettorale e un margine sul suo avversario nel voto popolare che, secondo i dati non ancora definitivi, ammonterebbe a circa due milioni di voti, contro i quasi dieci milioni che lo separarono da John McCain quattro anni fa.

Se su scala nazionale il vantaggio di Obama sembra attestarsi a meno del 2%, cioè in linea con quanto previsto dalla media delle rilevazioni della vigilia, più ampio appare invece quello dei voti elettorali che decidono l’elezione. L’attuale inquilino della Casa Bianca si è infatti assicurato 332 voti elettorali contro i 206 di Romney, anche se i media americani nella mattinata di mercoledì non hanno ancora assegnato ufficialmente i 29 della Florida, dove Obama è comunque avanti di qualche decina di migliaia di voti sugli oltre 8 milioni espressi.

Il tutto sommato traballante successo del presidente è stato possibile grazie alla sua affermazione, se verrà confermata la Florida, in tutti e sette i cosiddetti stati “swing” o “tossup” cioè quelli in bilico tra i due candidati. Con la chiusura delle urne all’una di questa notte in Italia nel primo di questi stati - la Virginia - gli exit poll avevano subito indicato un percorso tutto in salita per Romney, il quale ha visto progressivamente restringersi le proprie opzioni per una possibile vittoria. Obama ha così potuto alla fine mettere le mani su Colorado, Iowa, New Hampshire, Ohio, Virginia, Wisconsin e, probabilmente, Florida, lasciando a Romney solo Indiana e North Carolina tra gli stati che erano andati al candidato democratico nel 2008.

Tutte le affermazioni di Obama in questi sette stati sono però risultate estremamente sofferte con margini che vanno tra i 5 e i 6 punti percentuali in Iowa, New Hampshire e Wisconsin a meno di un in Florida. In tutti questi stati, Obama ha fatto segnare una flessione rispetto al 2008, in particolare in Wisconsin e Colorado (-3%). Anche nei rimanenti stati, che erano considerati più o meno solidamente nella sua colonna, Obama ha perso terreno sia in termini percentuali che di voti espressi, con le uniche modeste eccezioni di New Jersey (+0,8%) e del piccolo Rhode Island (+0,2%). Significativamente, a scrutinio non ancora ultimato, Obama avrebbe perso la quota maggiore di consensi proprio nel suo stato - l’Illinois - con un calo del 4,6% e circa mezzo milione di voti in meno.

Come previsto, inoltre, a determinare la rielezione di Obama è stata la maggioranza dei voti raccolti tra le donne e le minoranze di colore e ispaniche, mentre Romney ha decisamente fatto meglio tra gli uomini e gli elettori bianchi. L’affluenza alle urne è apparsa inferiore rispetto al 2008, a conferma dello scarso entusiasmo tra gli elettori e dell’assenza di candidati realmente rappresentativi della maggioranza degli americani. Sia pure ancora in assenza di dati ufficiali complessivi, l’Associated Press ha ad esempio scritto che in Vermont, Mississippi e South Carolina l’affluenza è stata del 14% inferiore rispetto al 2008, mentre in Maryland uno su dieci elettori che avevano votato quattro anni fa non si è recato alle urne.

Per dare l’idea del livello di disinteresse per il voto, un’indagine di un paio di mesi fa condotta da USA Today aveva prospettato che addirittura 90 milioni di americani registrati nelle liste elettorali si sarebbero astenuti. Dal momento che negli Stati Uniti i cittadini non vengono inseriti automaticamente nelle liste elettorali, a queste cifre va aggiunto perciò anche il numero degli americani non registrati.

L’equilibrio che aveva segnato i giorni precedenti l’election day, in ogni caso, sembrava far presagire un possibile allungamento dei tempi per l’assegnazione della presidenza, con possibili dispute legali prolungate. Questa prospettiva è sembrata per qualche tempo concretizzarsi questa notte con l’iniziale attesa da parte di Romney nel concedere la sconfitta nonostante tutte le proiezioni prevedessero l’affermazione di Obama.

Dal suo quartier generale di Boston, alla fine, a notte fonda il candidato repubblicano ha riconosciuto la vittoria del rivale davanti ai suoi sostenitori, mentre poco più tardi Obama è apparso su un palco a Chicago lanciando il consueto banale appello all’unità per un paese drammaticamente segnato da enormi divisioni di classe.

Più che una conferma della fiducia degli americani in un secondo mandato di Barack Obama, gli elettori presentatisi ai seggi sembrano piuttosto avere respinto le ricette proposte per il paese da Mitt Romney, in particolare di orientamento ultra-liberista in ambito economico. L’incertezza che ha accompagnato la vigilia e la flessione nel gradimento popolare del presidente indicano però evidenti malumori tra quanti lo avevano votato con entusiasmo nel 2008.

Nessuna particolare sorpresa ha segnato anche le altre competizioni di martedì, con i democratici che hanno mantenuto il controllo del Senato, probabilmente guadagnando un seggio ai danni dei repubblicani, i quali hanno invece potrebbero ampliare leggermente la loro maggioranza alla Camera dei Rappresentanti. Significativa è stata poi l’approvazione di due referendum sulla legalizzazione dei matrimoni gay in Maine e in Maryland. L’esito positivo di entrambi ha segnato la prima approvazione popolare in assoluto negli Stati Uniti di simili provvedimenti, in precedenza sempre decisi da sentenze di tribunali.

Alla luce dei risultati di martedì, dunque, gli equilibri politici a Washington non cambieranno in maniera rilevante, con un presidente democratico e un Congresso spaccato. Di fronte ad un simile scenario, sarà da valutare il margine di manovra di Obama per quello che si annuncia il più importante dibattito da qui al mese di gennaio, anche se praticamente mai sollevato in campagna elettorale, vale a dire la necessità di trovare un accordo bipartisan sulla riduzione del debito pubblico americano per evitare che a inizio 2013 scattino una serie di tagli automatici alla spesa federale che andrebbero a colpire in particolare il settore militare.

Nei prossimi mesi, infine, resterà da vedere, oltre a possibili agitazioni in casa repubblicana, anche se negli ultimi quattro anni alla Casa Bianca un Obama senza preoccupazioni elettorali sarà in grado o avrà la volontà di imprimere una qualche svolta su numerose questioni irrisolte, come ad esempio quelle legate al cambiamento climatico o all’immigrazione e, soprattutto, alla politica estera, a cominciare da Palestina e Iran, argomenti sui quali le promesse di quattro anni fa appaiono ancora ben lontane dall’essere mantenute.

di Michele Paris

A poche ore dalla definitiva chiusura della campagna elettorale per la Casa Bianca, i due principali candidati al successo finale sono stati protagonisti di una serie di frenetici eventi per convincere i pochi votanti ancora indecisi. All’apertura dei seggi in tutto il paese, Barack Obama sembra conservare un lievissimo margine di vantaggio sul rivale repubblicano, Mitt Romney, anche se la presidenza degli Stati Uniti si giocherà alla fine come al solito in una manciata di stati in bilico tra i due contendenti.

Come per gran parte degli ultimi mesi, anche nelle fasi finali della loro campagna Obama e Romney hanno dunque rivolto la loro attenzione proprio a questi stati dove loro stessi, i loro vice - Joe Biden e Paul Ryan - e altri esponenti di spicco dei rispettivi team si sono recati alla vigilia del voto. Nella sola giornata di lunedì, infatti, i quattro componenti dei due “ticket” presidenziali hanno tenuto ben 14 eventi negli stati in bilico, di cui 6 in Ohio che, con i suoi 18 voti elettorali, rappresenta probabilmente il premio più ambito dell’election day.

A partire dalla mattinata di domenica, Obama ha presenziato ad un comizio in New Hampshire a fianco di Bill Clinton per poi spostarsi in Ohio, in Florida e in Colorado. Lunedì, il presidente è poi tornato in Ohio, a Cincinnati, e successivamente ha toccato Wisconsin e Iowa, chiudendo la giornata nel quartier generale di Chicago dove attenderà i risultati del voto. Romney, da parte sua, domenica ha fatto visita per la 14esima volta dell’anno, primarie escluse, in Iowa, spostandosi poi per la 44esima volta in Ohio, a Cleveland, dove è rimasto fino a lunedì prima di muoversi verso Virginia, Florida e New Hampshire. Anche Romney attenderà le sorti della sfida per la Casa Bianca presso la sede del suo comitato elettorale, a Boston.

Sulla situazione della mappa elettorale americana sembrano concordare più o meno tutti i giornali e gli analisti d’oltreoceano. Quella stilata dal New York Times, ad esempio, indica 19 stati più il District of Columbia solidamente a favore di Obama o comunque orientati verso il presidente, per un totale di 243 voti elettorali sui 270 necessari per conquistare la presidenza. Romney avrebbe invece dalla sua 24 stati con 206 voti elettorali complessivi. I rimanenti 7 stati (Colorado, Florida, Iowa, New Hampshire, Ohio, Virginia e Wisconsin), i quali assegnano 89 voti elettorali, risultano in sostanziale equilibrio (“tossup”) e decideranno il prossimo inquilino della Casa Bianca.

Secondo i sondaggi nazionali, Obama avrebbe invertito la tendenza delle ultime settimane, annullando il vantaggio di Romney dopo il primo dei tre dibattiti presidenziali ad inizio ottobre e spezzando il pareggio registrato ancora più recentemente. Le rilevazioni del fine settimana vanno perciò dal pareggio ancora indicato da CNN, Politico e Rasmussen fino al +3% assegnato a Obama da "Pew Research Center" e al +3,2% da "RAND Corporation", con una media nazionale appena superiore all’1%.

Ancora più importante è tuttavia il vantaggio del presidente in praticamente tutti e 7 gli stati più combattuti, anche se il margine appare piuttosto esile e in alcuni casi in netto calo. Questa situazione consente a Obama di poter contare su una maggiore varietà di opzioni per riconquistare la Casa Bianca. In caso di vittoria in Ohio e in Iowa, infatti, il presidente potrebbe permettersi ad esempio di perdere 4 dei rimanenti 5 stati in bilico, aggiungendo al suo bottino anche solo il piccolo New Hampshire, dove peraltro Romney ha fatto segnare sensibili progressi nelle ultime settimane.

Nei giorni precedenti il voto si è assistito ad una mossa da parte di Romney per cercare di rimettere in discussione anche la Pennsylvania, i cui 20 voti elettorali sembrerebbero già sicuri per Obama. Il miliardario mormone ha lanciato un’offensiva mediatica dell’ultimo minuto in uno stato che nelle presidenziali ha votato l’ultima volta per un candidato repubblicano nel 1988, anche se per i democratici si tratterebbe solo di un tentativo disperato da parte di un team che vede ridotte al minimo le strade verso il successo.

Quasi tutti i sondaggi per gli stati più incerti, in ogni caso, anche se orientati verso Obama, indicano divari tra i due candidati che rientrano nei margini di errore segnalati dai vari istituti di analisi, da qui la cautela mostrata finora dal team presidenziale.

Se l’election day ufficiale è previsto nella sola giornata di martedì, circa 27 milioni di americani in 34 stati, alcuni dei quali considerati “tossup”, hanno già espresso il loro consenso grazie alle leggi che permettono il voto anticipato per posta o di persona. Gli elettori che scelgono di evitare le code o i disagi del giorno del voto sono in genere in netta maggioranza democratici e questa disparità fa in modo che sulla pratica del voto anticipato pesino frequentemente una serie di contese legali. Alcune cause sono già state avviate in questi giorni in Florida e Ohio e, alla luce dell’equilibrio tra i due candidati, le dispute potrebbero influire in maniera decisiva sui risultati finali, come accadde in Florida nel 2000 tra George W. Bush e Al Gore.

Oltre alle presidenziali, martedì negli Stati Uniti si vota anche per il rinnovo di 33 seggi (su 100) del Senato e di tutti i 435 della Camera dei Rappresentanti, i due rami del Congresso rispettivamente controllati dai democratici e dai repubblicani. Secondo i sondaggi più recenti, le due maggioranze non dovrebbero cambiare, con i repubblicani che, a differenza di quanto appariva a portata di mano solo pochi mesi fa, non dovrebbero aggiungere più di uno o due seggi agli attuali 47 che occupano al Senato. Gli equilibri in molte competizioni sono però fragili e il controllo della Camera alta dipenderà anche dall’effetto che il risultato delle presidenziali avrà eventualmente su alcune sfide combattute come quelle di Montana, Nevada, North Dakota, Indiana o Wisconsin.

La Camera totalmente rinnovata che uscirà dal voto di martedì dovrebbe invece rimanere saldamente nelle mani del Partito Repubblicano e dello speaker John Boehner che può contare attualmente su 241 seggi contro i 191 dei democratici. Le previsioni vanno da possibili guadagni di una manciata di seggi per l’opposizione democratica fino ad un rafforzamento della maggioranza che i repubblicani hanno strappato ai rivali nelle elezioni di medio termine del 2010.

Queste prospettive modeste per i democratici la dicono lunga sulla situazione di un partito che è favorito per la conquista della Casa Bianca e per il Senato e che deve confrontarsi con una maggioranza alla Camera tra le più impopolari della recente storia americana. A favorire l’attuale maggioranza, però, sono state anche le manovre legate alla ridefinizione decennale dei distretti elettorali per la Camera, avvenuta recentemente in gran parte sotto la supervisione di Congressi statali e governatori repubblicani eletti due anni fa.

Le elezioni del 2012 sono risultate infine le più costose della storia degli Stati Uniti con almeno 3 miliardi di dollari spesi per la campagna presidenziale ed altrettanti per quelle del Congresso, per numerose cariche locali e referendum vari. Questi numeri da record sono in gran parte la conseguenza degli sforzi di una cerchia relativamente ristretta di super ricchi e appaiono inversamente proporzionali al grado di rappresentatività su cui può contare la stragrande maggioranza degli americani.

Dopo mesi di battaglie, durissimi scontri, proclami e slogan, le settimane a venire lasceranno spazio perciò alla realtà di una politica che, indifferentemente da chi entrerà alla Casa Bianca o da quale maggioranza controllerà il Congresso, sarà impegnata a garantire che gli investimenti dei grandi interessi economici e finanziari vengano ripagati dalla nuova classe dirigente che si insedierà nelle stanze del potere a Washington.

di Michele Paris

La vigilia delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti è stata dominata quest’anno da uno stato d’animo generale del tutto differente rispetto a quattro anni fa. Le aspettative e gli entusiasmi che avevano segnato il trionfale ingresso alla Casa Bianca di Barack Obama nel 2008 sono infatti svaniti rapidamente nel corso di un mandato segnato da politiche regressive sia in ambito economico che sulle questioni della sicurezza nazionale.

Una parabola quella del 44esimo presidente degli Stati Uniti che ha dimostrato in maniera clamorosa l’impossibilità di trasformare dall’interno un sistema basato sui due grandi partiti che monopolizzano la scena politica d’oltreoceano e, al tempo stesso, l’organicità dello stesso Obama a questo sistema, nonostante le presunte potenzialità di cambiamento prospettate dall’ex senatore dell’Illinois, mortificate esclusivamente, secondo i suoi sostenitori, da un ambiente sclerotizzato come quello di Washington.

Se le politiche messe in atto pressoché interamente a beneficio di un’oligarchia economica e finanziaria che di fatto controlla il sistema politico americano appaiono tutt’altro che sorprendenti, ciò che più avrebbe dovuto scuotere soprattutto un’intellighenzia liberal ancora schierata in gran parte per la sua rielezione, è stato il sostanziale svuotamento di alcuni dei principi costituzionali fondamentali su cui si regge la democrazia USA. Questi ultimi sono stati progressivamente superati da un’amministrazione guidata da un ex docente di diritto costituzionale, piegatosi tutt’altro che forzatamente alle necessità di una infinita guerra al terrore su scala planetaria, utilizzata sempre più per estendere il controllo sul dissenso interno in una fase storica di grave crisi del sistema capitalistico e di fronte all’esplosione di tensioni sociali come non si vedevano da almeno tre decenni in territorio americano.

Una simile evoluzione dell’amministrazione Obama risulta ancora più grave alla luce del fatto che ad avere contribuito a portare alla Casa Bianca il candidato del cambiamento nel 2008 era stato in gran parte il rifiuto popolare delle aberrazioni che avevano caratterizzato i due mandati di George W. Bush nell’ambito della “guerra al terrore” e l’impopolarità di una guerra illegale e rovinosa come quella scatenata con l’invasione dell’Iraq nel 2003. In risposta alle speranze alimentate in ampi settori della popolazione americana, dunque, il neo-presidente democratico dopo appena due giorni dal suo insediamento aveva firmato un ordine esecutivo che stabiliva la chiusura entro un anno del lager di Guantanamo, simbolo per eccellenza degli abusi della guerra al terrore a stelle e strisce.

Se per appurare l’impossibilità di smantellare il famigerato carcere, dove da qualche settimana è finalmente iniziato un processo farsa di fronte ad un tribunale militare per i presunti responsabili degli attentati di undici anni fa, ci sarebbero voluti mesi di promesse rinnegate e di scontri con il Congresso, per comprendere l’impegno di Obama nei confronti del conflitto planetario inaugurato dal suo predecessore sarebbe al contrario bastato un solo giorno.

A 24 ore di distanza dall’ordine di chiusura di Guantanamo, accompagnato con la proibizione dell’impiego di metodi di tortura durante gli interrogatori di sospettati di terrorismo, Obama avrebbe infatti autorizzato i suoi primi bombardamenti con velivoli senza pilota (droni) in territorio pakistano, causando una ventina di vittime, tra cui, con ogni probabilità, una buona parte di civili innocenti.

LA GUERRA AL TERRORE. Ancor più della riforma sanitaria o di qualsiasi altro provvedimento interno, ciò che ha fin qui caratterizzato in maniera drammatica la presidenza Obama è proprio il ricorso ai droni come arma suprema nella lotta al terrorismo e tutte le sue implicazioni. I droni vengono oggi utilizzati per colpire gruppi bollati indistintamente come terroristi, dediti piuttosto in buona parte, per quanto riguarda il Pakistan e l’Afghanistan, a combattere la decennale invasione delle loro terre oppure, nello Yemen, un regime che appare nient’altro che uno strumento dell’imperialismo americano, dal quale dipende per sopravvivere schiacciando qualsiasi spinta rivoluzionaria o indipendentista.

È la campagna dei droni, vertiginosamente aumentata e consegnata al controllo di esercito, forze speciali e CIA, a scandire così la progressiva concentrazione nell’esecutivo di poteri praticamente assoluti, con conseguenze nefaste anche sul fronte domestico. Il ricorso a questa arma ha consegnato una totale discrezionalità all’inquilino della Casa Bianca nella decisione sulla vita o, più spesso, sulla morte di qualsiasi individuo accusato, al termine di un procedimento segreto e fuori dalla giurisdizione di qualsiasi tribunale, di essere un terrorista o un facilitatore del terrorismo.

Lo smantellamento di ogni diritto costituzionale garantito quanto meno ai propri cittadini ha avuto una sorta di punto di non ritorno il 30 settembre 2011, quando la drammatica escalation dell’illegalità sanzionata dal governo di Washington ha portato alla firma di Obama di un ordine che ha autorizzato due droni Predator a lanciare una serie di missili Hellfire contro un veicolo che viaggiava nella provincia di al-Jawf, in Yemen, a bordo del quale si trovava il predicatore radicale Anwar al-Awlaki, cittadino americano nato nel Nuovo Messico, accusato di avere progettato attentati in territorio statunitense.

La condanna a morte di Awlaki è stata eseguita senza l’apertura di alcun procedimento formale e senza passare attraverso il giudizio di una corte, ma soltanto in seguito alla decisione unica e inappellabile del presidente Obama in quanto vertice del potere esecutivo e comandante in capo degli Stati Uniti nel pieno di una guerra al terrore dai contorni sempre più indefiniti. La morte di Awlaki, inoltre, sarebbe stata seguita di lì a pochi giorni da un’altra esecuzione al di fuori di ogni legittimità legale, quella cioè del figlio appena 16enne Abdulrahman, anch’egli con passaporto USA e colpevole di trovarsi in compagnia di alcuni presunti affiliati ad Al-Qaeda.

Il deterioramento del clima democratico a Washington è stato macabramente sottolineato, tra l’approvazione di media e commentatori mainstream, dalle dichiarazioni ufficiali che hanno seguito i due assassini, riguardo ai quali esponenti dell’amministrazione Obama hanno successivamente parlato, a proposito del primo, di una decisione facile da prendere per il presidente, e riguardo al secondo, affermando che il 16enne nato a Denver, in Colorado, avrebbe dovuto avere dei “genitori più responsabili”.

Le basi di una potenziale trasformazione degli Stati Uniti in uno stato di polizia sono state così di fatto gettate dall’amministrazione Obama, come hanno confermato in maniera dettagliata almeno due indagini di New York Times e Washington Post, i quali hanno descritto come il presidente democratico abbia creato una vera e propria lista nera su cui finiscono i sospettati di terrorismo da eliminare senza nessuna garanzia di giusto processo e senza che il pubblico conosca i criteri con cui vengono prese simili decisioni in totale segretezza da una manciata di uomini.

Secondo il New York Times, così, nel corso di riunioni settimanali che prendono il nome di “martedì del terrore”, Obama dà la sua approvazione personale ad ogni assassinio che viene deciso, mentre il Washington Post ha più recentemente rivelato come il presidente e il suo principale consigliere per la lotta al terrorismo, John Brennan, stiano lavorando all’istituzionalizzazione di questo sistema, spazzando via qualsiasi garanzia costituzionale per gli obiettivi della macchina da guerra statunitense.

Ciò che più colpisce riguardo a simili rivelazioni, che avrebbero potuto avviare un procedimento di impeachment per il presidente, è il silenzio pressoché assoluto di media e commentatori di qualsiasi orientamento politico, in particolare quelli liberal, impegnati piuttosto nel promuovere la rielezione di Barack Obama, puntualmente definito come il male minore di fronte alla minaccia di un ritorno al potere dei repubblicani, nonostante i trascurabili errori o passi falsi commessi in questi quattro anni.

LA POLITICA ESTERA. Negli ultimi due anni, l’amministrazione Obama è stata inoltre costretta ad assistere agli sconvolgimenti provocati in Medio Oriente e in Africa settentrionale da una serie di eventi unificati sotto lo slogan di “Primavera Araba” che hanno messo in serio pericolo gli interessi dell’imperialismo statunitense.

Con l’esplosione di rivolte nel mondo arabo che hanno da subito evidenziato forti connotazioni anti-americane, il governo di Washington si è trovato del tutto spiazzato, appoggiando inizialmente dittatori e autocrati mostratisi affidabili per decenni. Emblematico in questo senso è stato il caso egiziano, dove l’ex presidente Hosni Mubarak è stato sostenuto dagli Stati Uniti fino a quando è stato possibile, per poi liquidarlo in fretta e furia non appena la sua fine è risultata segnata dalle manifestazioni oceaniche di protesta.

Vista perciò l’impossibilità di continuare a puntare su despoti fedeli, l’amministrazione Obama ha fatto proprie le rivendicazioni democratiche avanzate dalle masse arabe e, in seconda battuta, per contenerne le potenzialità rivoluzionarie, ha finito per promuovere forze reazionarie come i movimenti di ispirazione islamica (in Egitto e in Tunisia) o l’esercito (in Egitto). La doppiezza e il cinismo della politica americana nell’approccio alla Primavera Araba sono però apparsi in tutta la loro evidenza nei casi, ad esempio, di Bahrain e Arabia Saudita, dove, al di là di blandi ammonimenti ai rispettivi regimi, Washington ha appoggiato in pieno la repressione nel sangue dei movimenti di protesta.

Nella vicenda della Libia, invece, gli Stati Uniti di Obama sono intervenuti direttamente per rovesciare un regime sgradito sfruttando le proteste esplose in maniera più o meno spontanea. Qui Washington, dopo avere manipolato la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che imponeva una no fly-zone nel paese, in collaborazione con altri paesi della NATO ha contribuito in maniera decisiva al rovesciamento di Gheddafi tramite il massiccio finanziamento dei “ribelli” e bombardamenti a tappeto.

In Libia a giocare un ruolo fondamentale per legittimare un intervento imperialista sono state le motivazioni di natura umanitaria, le stesse che stanno guidando la strategia di Obama nei confronti della Siria, dove il sostegno all’opposizione ad Assad si concretizza in un via libera all’operato di gruppi fondamentalisti contro i quali è stata ufficialmente combattuta la guerra al terrore nell’ultimo decennio.

La politica USA in Medio Oriente durante i quattro anni della presidenza Obama ha fatto segnare passi indietro anche in relazione alla questione palestinese, attorno alla quale l’ottimismo iniziale per la riapertura dei colloqui di pace ha ben presto lasciato spazio ad una situazione di stallo, e all’Iran.

Sul programma nucleare di Teheran sono stati convocati una serie di vertici tra i rappresentanti della Repubblica Islamica e i P5+1 (USA, Cina, Russia, Francia, Gran Bretagna e Germania), così come secondo alcune indiscrezioni giornalistiche dopo il voto negli Stati Uniti potrebbero avere luogo incontri bilaterali. Queste iniziative non hanno portato in ogni caso a significativi progressi e, anzi, l’Iran si ritrova a subire gli effetti di sanzioni senza precedenti che hanno causato una crisi economica le cui conseguenze gravano sulla maggior parte della popolazione locale.

Dietro alla retorica della necessità di perseguire una soluzione diplomatica e pacifica alla crisi del nucleare iraniano c’è in realtà la determinazione da parte di Obama di imporre gli interessi del proprio paese che, in seguito alle occupazioni di Afghanistan e Iraq, e ancor più dopo il sostanziale fallimento dell’operazione lanciata dall’amministrazione Bush nel 2003, prevedono un cambiamento di regime a Teheran per portare sotto l’influenza americana un’ampia regione strategicamente fondamentale che va dal Mediterraneo all’Asia centrale.

Gli anni di Obama alla Casa Bianca hanno però anche segnato il ritorno in maniera prepotente degli Stati Uniti in Estremo Oriente in risposta all’espansionismo cinese. Fin dai primi mesi della sua presidenza e tramite il conferimento del ruolo di Segretario di Stato a Hillary Clinton, Obama ha sancito la “svolta” asiatica del suo paese, così da mantenere il controllo su un’area dove transita buona parte del traffico commerciale del pianeta. La ritrovata aggressività USA in Asia si è concretizzata con il rafforzamento di legami diplomatici e militari con alleati vecchi e nuovi, alimentando le tradizionali rivalità tra questi ultimi e Pechino, soprattutto facendo leva su annose rivendicazioni territoriali in lembi di terra nel Mare Cinese Orientale e Meridionale, il tutto facendo aumentare vertiginosamente i rischi di un conflitto rovinoso e di vasta scala

L’ECONOMIA. Come per la proiezione del potere americano nel mondo, anche sul fronte domestico la complicità della stampa liberal ha rappresentato un pilastro determinante per la messa in pratica delle politiche decise dall’amministrazione Obama, le quali vengono spesso propagandate come indiscutibili successi del primo mandato del presidente democratico. Così, la firma posta da Obama il 23 marzo 2010 sulla riforma sanitaria - ufficialmente “Patient Protection and Affordable Care Act” (PPACA) o “Obamacare” - è stata definita come una pietra miliare nella diffusione della copertura sanitaria a decine di milioni di americani ancora sprovvisti.

L’intero procedimento che ha portato alla difficile approvazione della legge ha avuto però al centro dell’attenzione delle varie parti coinvolte non tanto l’affermazione del diritto alle cure sanitarie per tutti i cittadini, bensì la riduzione dei costi sia per il settore pubblico che per quello privato ed un conseguente deterioramento delle prestazioni offerte. Ciò è risultato da subito chiaro con l’accantonamento di qualsiasi ipotesi di creare un piano di assistenza pubblico da affiancare al monopolio delle assicurazioni private. Il risultato è stata una legislazione che ha imposto a tutti gli americani, ad esclusione di quelli con redditi minimi, l’acquisto di una polizza privata da ottenere in alcuni casi con sussidi federali. La legge, non a caso, è stata redatta con il contributo delle stesse compagnie assicurative private, le quali, ritrovandosi con una valanga di nuovi potenziali clienti, hanno fornito tutto il loro sostegno al provvedimento.

Allo stesso modo, quattro mesi più tardi sarebbe giunta anche l’approvazione di un’altra “riforma” estremamente sofferta, quella che avrebbe dovuto imporre regole più severe per l’industria finanziaria responsabile della crisi esplosa nell’autunno del 2008. La legge, firmata dai membri del Congresso democratici Barney Frank e Christopher Dodd, da cui prende il nome, così come la miriade di regolamenti per la sua implementazione, è stata partorita con il contributo dei rappresentanti delle stesse grandi banche di investimenti, le quali si sono sostanzialmente assicurate la possibilità di continuare ad operare senza freni.

L’impossibilità di uscire da un sistema totalmente influenzato dai grandi interessi economico-finanziari e di un apparato militaristico in continua espansione, è la questione fondamentale da tenere in considerazione per comprendere l’inevitabilità del fallimento del progetto di cambiamento prospettato da Obama quattro anni fa e ora riproposto agli elettori per portare a termine il lavoro impostato nel corso del primo mandato.

I successi autenticamente progressisti propagandati dai suoi sostenitori si possono perciò circoscrivere a iniziative di impatto limitato, spesso legate alle politiche identitarie, come ad esempio la revoca della norma del “Don’t ask, don’t tell”, che vietava il servizio militare a coloro che si dichiaravano apertamente omosessuali, oppure la fine delle discriminazioni tra uomini e donne per quanto riguarda le retribuzioni nelle aziende pubbliche e private. Sulle questioni cruciali, tuttavia, la politica dell’amministrazione Obama è stata quasi interamente rivolta al salvataggio del sistema capitalistico americano dalla crisi strutturale esplosa proprio in concomitanza con il trionfo elettorale del presidente nel 2008.

Tutte le iniziative messe in atto a questo scopo sono state presentate invariabilmente come misure destinate a beneficiare la classe media e i lavoratori, base elettorale imprescindibile per ogni successo democratico alle urne. Così, la gestione della crisi di General Motors e Chrysler nel 2009 è stata il laboratorio della politica industriale di Obama e l’esito della bancarotta controllata ha prodotto conseguenze pesantissime per i lavoratori di qualsiasi settore. A pochi mesi dal suo insediamento, infatti, il presidente aveva annunciato l’intervento del governo per salvare dal tracollo i due colossi dell’auto di Detroit, rimettendo in sesto le due società in tempi relativamente brevi.

Di questo intervento, che oggi in campagna elettorale viene presentato come fondamentale per il mantenimento di decine di migliaia di posti di lavoro negli Stati Uniti, Obama e il suo team evitano però scrupolosamente di discutere il prezzo pagato dai lavoratori in termini di riduzione di stipendi, benefici e diritti, implementati forzatamente anche grazie alla collaborazione delle principali organizzazioni sindacali. La promessa di Obama di raddoppiare le esportazioni durante la sua presidenza ha comportato la decisione di creare una manodopera a basso costo e impoverita, così da incentivare le aziende a tornare ad investire negli Stati Uniti, dove sono certe di trovare condizioni sempre meno distanti da quelle presenti nei paesi emergenti.

ANCORA QUATTRO ANNI? Dei paesi emergenti sono in definitiva molte le caratteristiche della società americana che Barack Obama ha contribuito a modellare nel corso del suo primo mandato. Gli Stati Uniti che si apprestano a scegliere il prossimo presidente sono infatti un paese che continua a fare segnare un livello altissimo di disoccupazione e sotto occupazione, mentre i tassi di povertà e le disparità economiche e sociali risultano senza precedenti negli ultimi tre decenni, a conferma del colossale trasferimento di ricchezza avvenuto in questi anni sotto la supervisione dell’amministrazione democratica.

Tutto ciò non è sfuggito alla maggioranza degli americani che, per la metà o poco meno, nemmeno si recherà alle urne martedì oppure in maniera massiccia deciderà di fare una scelta diversa nell’assegnazione del proprio voto rispetto al 2008. L’equilibrio persistente indicato dai sondaggi nelle ultime settimane indica anche una sostanziale indistinguibilità tra Obama e Mitt Romney e la sensazione diffusa che, chiunque entrerà alla Casa Bianca a gennaio, ciò che attende l’America sono nuove guerre e assalti alle condizioni di vita di decine di milioni di persone.

Il nodo centrale nel trarre un bilancio dei quattro anni del primo presidente di colore della storia degli Stati Uniti risiede dunque probabilmente nella presa d’atto del divario incolmabile, all’interno di questo sistema politico, tra una classe dirigente al servizio esclusivo dei poteri forti e la vastissima maggioranza della popolazione americana.


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