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di Massimiliano Ferraro
Mentre la Siria affonda sempre di più in una drammatica guerra civile, il regime di Bashar al-Assad sta cercando di ampliare il suo già vasto arsenale di armi chimiche. Fonti vicine al Ministero della Difesa degli Stati Uniti hanno nuovamente denunciato negli scorsi giorni il tentativo siriano di acquistare altre scorte di agenti nervini che potrebbero essere utilizzati nella resa dei conti contro i ribelli antigovernativi che da venti mesi cercano di rovesciare il regime.
Dopo aver denunciato «la grave minaccia» rappresentata dalle armi chimiche e biologiche già nelle mani di Damasco, l'amministrazione di Barack Obama sta continuando a seguire l'evolversi del conflitto interno alla Siria non nascondendo una certa preoccupazione per i possibili sviluppi. Il pericolo è duplice: da una parte esiste l'effettiva possibilità che Assad decida di ricorrere ad un uso massiccio di armi chimiche contro la popolazione, dall'altra il caos di un paese sull'orlo di una guerra civile potrebbe trasformarsi in un'opportunità per il terrorismo internazionale di entrare in possesso di micidiali strumenti di distruzione di massa.
A Washington il livello di allerta è alto. Gruppi come Hezbollah o al-Qaeda starebbero cercando di impossessarsi degli impianti di produzione e dei depositi segreti di armi chimiche. Si tratta di 25 siti sparsi in tutto il paese e attualmente ancora sotto il controllo dell'esercito regolare siriano, ma la situazione potrebbe precipitare.
La possibilità di armare le forze antigovernative per cercare di risolvere la crisi dall'interno continua ad essere motivo di dibattito negli Stati Uniti. Per ora è prevalsa la linea delle “colombe” in attesa di nuovi eventi, eppure ad Amman c'è già attiva un'unità di crisi statunitense che sta lavorando ad un piano di accoglienza per i rifugiati siriani, in vista di una possibile fuga di massa dal regime di Assad. «Per noi la linea rossa sarà oltrepassata quando vedremo muoversi un gran numero di armamenti chimici» aveva detto lo scorso 20 agosto il presidente Obama.
Per Damasco si tratta di apprensioni ingiustificate. «Mai», ha assicurano il portavoce del Ministero degli Esteri siriano Jihad Makdissi, «le armi chimiche in possesso del governo saranno utilizzate all'interno del paese». Un'affermazione accolta con scetticismo dall'associazione Human Rights Watch che nei mesi scorsi ha denunciato l'uso di bombe a grappolo contro la popolazione. Il precedente più noto e drammatico sull'uso delle armi chimiche contro dei civili inermi è quello perpetrato contro la minoranza curda da Saddam Hussein nel 1980. Migliaia di persone vennero sterminate dai gas, perché ritenuti colpevoli dal regime di aver appoggiato Teheran nel corso della guerra tra Iran e Iraq. Una vicenda che per alcuni versi appare molto simile all'attuale conflitto tra Assad e la guerriglia siriana.
Le armi di Damasco – La Siria possiede uno dei più grandi arsenali di armi chimiche del mondo. Nel 1997 il regime si era rifiutato di firmare la Convenzione sulla messa al bando delle armi chimiche (CWC), una scelta seguita invece da oltre 180 nazioni. Tra le scorte di armamenti nelle disponibilità di Damasco, il sito Globalsecurity.org indica il gas Sarin, capace di colpire in maniera irreversibile il sistema nervoso degli esseri umani, e l'agente nervino XV classificato dalle Nazione Unite come arma di distruzione di massa. Nei depositi siriani ci sarebbero inoltre notevoli quantità di iprite, nonché intere batterie di dei missili Scud e SS-21 in grado di diffondere gli agenti chimici. Un enorme potenziale di morte, ufficialmente mai confermato né smentito dal regime, accumulato dal 1980 in poi e cresciuto a dismisura a causa delle tensioni con Israele
Nel 1982 Amnesty International accusò il governo siriano di aver utilizzato del gas al cianuro per reprimere una rivolta della Fratellanza musulmana nella città di Hama. Secondo Seth Carus, del Centro Studi sulle armi di distruzione di massa della National Defense University, la Siria nel quinquennio successivo alla strage di Hama riuscì a disporre di una avanzata tecnologia di produzione degli agenti nervini. Un risultato sbalorditivo e inquietante che nel giugno del 1986 costrinse gli Stati Uniti a vietare la vendita di Sarin e iprite a Damasco.
Tuttavia, la presa di posizione dell'amministrazione Regan non fermò il commercio illegale di sostanze chimiche per usi militari che continuò a prosperare dal 1990 in avanti assieme ad alcuni tentativi di riconversione delle fabbriche siriane di prodotti per l'agricoltura. Fabbriche di fertilizzanti e pesticidi situate tra le città di Damasco, Homs e Aleppo, vennero trasformati in fabbriche di armi chimiche. Dal 2002 al 2006, la CIA ha confermato la portata rilevante dell'arsenale bellico di Assad evidenziando la volontà di «sviluppare agenti nervini ancora più tossici e persistenti».
Infine, dopo alcuni anni in cui l'arsenale siriano si era mantenuto pressoché invariato, lo scoppio dei disordini anti-Assad ha provocato una brusca ripresa dell'approvvigionamento militare. Il regime continua non solo ad armarsi, ha anche acquistato (almeno) 11.000 maschere antigas dalla Cina. Tutti segnali che alla Casa Bianca suonano allarmanti. «C'è stato un momento in cui abbiamo pensato che stessero per usare i gas» ha dichiarato un funzionario americano al magazine Wired, «ma poi abbiamo capito che non l'avrebbero fatto». Ciò non significa affatto che il rischio di un Armageddon chimico sia passato: alcune stime indicano che nei depositi siriani ci sono pronte più di 500 tonnellate di agenti nervini d'uso bellico.
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di Michele Paris
La comunità internazionale guidata dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea sta preparando in queste settimane l’ennesimo intervento militare in nome della salvaguardia dei diritti umani e della lotta all’estremismo di matrice islamica. Il nuovo fronte di guerra é situato questa volta in Africa occidentale, dove gruppi terroristici legati ad Al Qaeda hanno da qualche tempo preso il controllo del nord del Mali, un paese già considerato un modello di nascente democrazia nel continente e finito invece nel caos in seguito alla campagna della NATO in Libia e ad un colpo di stato messo in atto lo scorso mese di marzo.
Il 12 ottobre scorso, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato all’unanimità una risoluzione con la quale sollecita i governi che fanno parte della Comunità Economica dei Paesi dell’Africa Occidentale (ECOWAS) ad organizzare una forza di invasione per liberare il Mali con un contingente di soldati di altri paesi africani e di ciò che resta dell’esercito locale. Alcuni governi ECOWAS, tra cui la Nigeria, si sono impegnati a fornire circa 3.000 uomini, mentre altri, come Ciad e Sud Africa, hanno per ora offerto solo vaghe promesse di aiuti militari.
La risoluzione è stata presentata dalla Francia e stabilisce la data del 26 novembre prossimo come termine ultimo per la presentazione da parte dell’ECOWAS di un adeguato piano di intervento militare in Mali.
Vista la loro impopolarità nella regione, i rischi connessi ad un intervento diretto e i problemi di budget, Stati Uniti e Francia, vale a dire i paesi con i maggiori interessi in questa parte del continente africano, intendono fornire solo un supporto logistico e di intelligence alla coalizione militare che si sta preparando. Per molti osservatori, tuttavia, il numero di truppe finora promesse dai vari paesi sarebbe troppo esiguo per intervenire efficacemente in un’area delle dimensioni della Francia.
In ogni caso, la riuscita dell’operazione sembra dipendere anche dal coinvolgimento del paese considerato di gran lunga con le maggiori capacità militari nella regione, l’Algeria, sulla quale si stanno perciò concentrando gli sforzi diplomatici occidentali. A testimonianza dell’importanza di questo paese per la risoluzione della crisi in Mali, lunedì il Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, è approdata ad Algeri dove ha incontrato sia il ministro degli Esteri, Mourad Medelci, sia il presidente, Abdelaziz Bouteflika, chiedendo a entrambi di appoggiare una forza regionale destinata a “stabilizzare” il vicino meridionale.
Al termine della visita, gli USA e l’Algeria non sono stati in grado di annunciare alcun accordo sull’intervento in Mali, ma hanno affermato di volere continuare a dialogare sulla questione, mentre Washington ha promesso di tenere in considerazione tutte le preoccupazioni di Algeri in relazione ad un possibile coinvolgimento nell’operazione. La visita della Clinton è stata la sua seconda nel paese nord-africano in veste di Segretario di Stato ed ha preceduto una serie di incontri avvenuti la settimana scorsa a Washington tra esponenti dell’amministrazione Obama e del governo algerino.
A conferma della vera e propria offensiva diplomatica in corso per convincere Algeri, anche la Francia ha intensificato i contatti con la ex colonia negli ultimi mesi. Così, il ministro degli Esteri di Parigi, Laurent Fabius, si era recato in Algeria in visita ufficiale lo scorso mese di luglio, mentre il presidente Hollande dovrebbe essere ricevuto da Bouteflika il prossimo dicembre.
L’Algeria condivide con il nord del Mali una linea di confine lunga quasi 1.400 chilometri e continua ad essere molto cauta verso un intervento militare esterno in questo paese, anche se membri del regime hanno mostrato più di un’apertura nelle ultime settimane.
Il governo di Algeri teme infatti le ripercussioni che sarebbe costretto a subire in seguito al più che probabile passaggio entro i propri confini dei fondamentalisti islamici presenti in Mali in caso di un intervento militare. Inoltre, il regime si troverebbe a fare i conti con una possibile radicalizzazione delle popolazioni Tuareg che ospita e che sono presenti in maniera significativa anche oltre il confine meridionale. Infine, tra la popolazione algerina è ancora molto vivo il ricordo del sanguinoso conflitto interno che dall’inizio degli anni Novanta fino a un decennio fa ha messo di fronte forze governative e militanti islamici, facendo decine di migliaia di vittime.
La situazione in Mali era precipitata il 22 marzo scorso, quando un gruppo di soldati ribelli, guidati da un capitano addestrato negli Stati Uniti, Amadou Sanogo, aveva deposto il presidente eletto, Amadou Toumani Touré. L’instabilità creatasi nella capitale, Bamako, aveva permesso alla persistente ribellione Tuareg nel nord del paese di conquistare il controllo di un ampio territorio sfuggito dalle mani del governo centrale.
Nel condurre questa offensiva, i Tuareg del Movimento di Liberazione Nazionale Azawad (MNLA) avevano unito le loro forze con quelle di svariati gruppi estremisti islamici operanti nella regione del Sahel, alcuni dei quali legati ad Al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM) e con ogni probabilità già impegnati nel conflitto in Libia a fianco dei “ribelli” sostenuti dalla NATO. I fondamentalisti, tuttavia, hanno ben presto preso il sopravvento sui Tuareg, impadronendosi del controllo della regione, dove hanno imposto la legge islamica, distruggendo importanti edifici storici, in particolare nelle città di Gao e Timbuktu, considerati offensivi della loro interpretazione arcaica dell’Islam.
Le responsabilità principali della crisi in Mali sono però da attribuire a quegli stessi governi che sostengono ora la necessità di un intervento militare per ristabilire l’ordine nel paese africano. La destabilizzazione del Mali è infatti la diretta conseguenza, oltre che di problemi e contraddizioni di lunga data, dell’intervento NATO in Libia e della caduta del regime di Gheddafi.
Tripoli aveva investito massicciamente in questo poverissimo paese, così come aveva svolto un ruolo di mediazione nelle rivendicazioni dei Tuareg. Allo stesso tempo, numerosi Tuareg avevano trovato rifugio e impiego in Libia, nelle forze di sicurezza del regime e non solo. Alla caduta di Gheddafi in seguito all’aggressione della NATO, molti Tuareg sono tornati in Mali, spesso con armi pesanti a loro disposizione, e hanno finito per sfruttare l’instabilità del governo centrale per assumere il controllo del nord del paese una volta cacciato l’esercito regolare.
Anche se le previsioni dei governi impegnati nei preparativi per l’intervento prospettano un’operazione che dovrebbe durare solo alcuni mesi, in Mali sembrano esserci in realtà tutte le condizioni per un conflitto prolungato e sanguinoso, tanto che vari analisti hanno messo in guardia apertamente dalla creazione di un possibile nuovo Afghanistan nel cuore dell’Africa.
La conformazione del territorio, con ampi spazi desertici, rappresenta il primo ostacolo e, in secondo luogo, secondo alcuni resoconti giornalistici sembra che nel nord del Mali stiano convergendo consistenti e agguerriti gruppi di jihadisti provenienti da varie parti dell’Africa e del Medio Oriente per prepararsi ad affrontare un intervento esterno.
Nella crisi in Mali sono in gioco diversi interessi che riguardano le potenze occidentali, preoccupate per la creazione di una base logistica dell’integralismo islamico da cui lanciare offensive contro l’Occidente. Per gli Stati Uniti e, soprattutto, per la Francia, c’è da considerare ancor più la volontà di ampliare la loro influenza in un’area del continente dove sono presenti importanti risorse del sottosuolo e dove la Cina ha stabilito forti legami commerciali negli ultimi anni.
Parigi, infatti, ha già mostrato lo scorso anno di volere perseguire una politica aggressiva in questa regione con l’intervento nella vicina Costa d’Avorio, ex colonia francese come il Mali, per imporre il presidente filo-occidentale Alassane Ouattara ai danni di quello uscente, Laurent Gbagbo, dopo che quest’ultimo era stato dichiarato sconfitto nelle elezioni del dicembre 2010.
Il sempre più probabile intervento militare in Mali rischia anche di creare una nuova emergenza umanitaria, dopo che in seguito ai disordini di questi mesi più di 300 mila civili sono già stati costretti ad abbandonare le proprie abitazione e oltre mezzo milione continua a fare i conti con la fame e la siccità in uno dei paesi più poveri dell’intero pianeta.
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di Michele Paris
I colloqui per la formazione del nuovo esecutivo olandese si sono chiusi con successo questa settimana grazie al raggiungimento di un accordo all’insegna dell’austerity tra i due partiti che avevano ottenuto il maggior numero di seggi nelle elezioni per il rinnovo del Parlamento lo scorso mese di settembre. A capo della nuova coalizione di governo ci sarà ancora il premier uscente Mark Rutte del Partito Liberale (VVD), il quale sarà affiancato dal Partito Laburista (PvdA) guidato dall’ex attivista di Greenpeace Diederik Samsom.
Nella precedente legislatura, Rutte presiedeva un gabinetto di minoranza che era crollato nel mese di aprile in seguito al ritiro dell’appoggio garantito dal Partito per la Libertà (PVV) di estrema destra di Geert Wilders. Per timore di perdere ulteriore terreno tra gli elettori, quest’ultimo aveva infatti bocciato un pacchetto di tagli alla spesa pubblica pari a 16 miliardi di euro richiesto dalle autorità europee. La decisione di Wilders aveva portato allo scioglimento anticipato del Parlamento e al voto di settembre.
Entro la prossima settimana, Rutte tornerà così a capo dell’esecutivo olandese, mentre Samsom ha già annunciato di non volere accettare nessun incarico ministeriale, anche se i laburisti intendono mettere le mani su alcuni dicasteri chiave, come le Finanze e gli Esteri.
Per la gioia dei mercati finanziari e diversamente dalle precedenti coalizioni olandesi, costruite su numerose formazioni politiche, il nuovo governo si baserà soltanto su due partiti che, assieme, godono di una maggioranza relativamente ampia in Parlamento, grazie ai 79 seggi di cui dispongono sui 150 totali. Con questi margini, il gabinetto nascente dovrebbe avere la necessaria stabilità per portare a compimento le “riforme” chieste da Bruxelles, anche se l’impopolarità dei provvedimenti che attendono gli olandesi faranno con ogni probabilità scendere rapidamente il livello di gradimento del governo.
Mentre dunque il precedente esecutivo guidato da Rutte era caduto, in sostanza, per l’avversione diffusa nel paese nei confronti delle misure di austerity adottate, quello che sta vedendo la luce a L’Aia promette di riproporre le stesse ricette economiche.
VVD e PvdA si sono infatti accordati per implementare gli stessi 16 miliardi di euro di tagli entro il 2017, così da portare il deficit olandese dal 2,6% del PIL previsto per il 2013 all’1,5% tra cinque anni. Le misure che si profilano minacciosamente all’orizzonte, come al solito, comprendono tagli alle pensioni, innalzamento dell’età pensionabile, riduzione dei rimborsi per le prestazioni sanitarie, delle deduzioni fiscali sui mutui e dei sussidi di disoccupazione, nonché l’immancabile “riforma” del mercato del lavoro con lo smantellamento dei diritti acquisiti.
All’indomani del voto di settembre, i risultati delle urne avevano spinto molti commentatori a prevedere difficili e prolungati colloqui per la formazione di un nuovo governo. La discussione tra VVD e PvdA è andata avanti invece solo per 47 giorni, una sorta di primato per gli standard olandesi, a conferma della sostanziale identità di vedute tra i due partiti in ambito economico nonostante il teoricamente diverso orientamento ideologico e una campagna elettorale, come quella laburista, nella quale era stato promesso un allentamento dell’austerity e un aumento della spesa pubblica.
Quello che i giornali profilano in questi giorni è piuttosto un semplice cambiamento di toni da parte del nuovo governo di un paese che fino a pochi mesi fa appariva totalmente allineato alla retorica tedesca del rigore assoluto.
I cambiamenti saranno perciò solo esteriori, come sembra testimoniare la probabile scelta del nuovo ministro delle Finanze. Questo dicastero era occupato dal cristiano-democratico Jan Kees de Jaeger e verrà assegnato ora al laburista Jeroen Dijsselbloem, definito ad esempio dal Wall Street Journal un falco in ambito fiscale come il suo predecessore ma con un temperamento più conciliante.
La presenza al governo del Partito Laburista potrebbe determinare anche un certo avvicinamento alla Francia di François Hollande. Ciò non comporterà comunque alcun alleggerimento dell’austerity, come dimostra il fatto che il governo socialista di Parigi ha recentemente fatto ratificare al Parlamento senza modifiche il Patto di Stabilità europeo voluto da Berlino, a differenza di quanto aveva promesso Hollande in campagna elettorale.
L’evoluzione del quadro politico olandese ribadisce ancora una volta il ruolo decisivo giocato in questo frangente storico dai partiti ufficialmente di sinistra o di centro-sinistra, ai quali gli ambienti finanziari internazionali hanno assegnato il compito di contenere le tensioni sociali nei rispettivi paesi derivanti dalle politiche di rigore e di mascherare i provvedimenti più duri a danno delle classi disagiate con la retorica dell’equità dei sacrifici o con misure simboliche che dovrebbero colpire i redditi più elevati.
La continuità del governo de L’Aia guidato dal liberale Mark Rutte conferma infine anche come nell’attuale quadro politico europeo, sia con partiti di destra o di sinistra al potere, non esista alcuna via d’uscita dal rigore. A pagare la crisi saranno infatti sempre e comunque lavoratori, pensionati, disoccupati, giovani e classe media, nonostante la retorica di quanti, come i leader del Partito Laburista olandese, prospettano la necessità di una svolta con misure che favoriscano la crescita economica allentando la morsa dell’austerity.
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di Michele Paris
Anche se nel corso della campagna elettorale per la Casa Bianca il presidente Obama continua a ripetere che la strada della diplomazia e delle sanzioni contro l’Iran rimane quella preferita per cercare una soluzione alla crisi del nucleare di Teheran, i preparativi più o meno segreti per un possibile nuovo rovinoso e illegale conflitto in Medio Oriente nei prossimi mesi appaiono ben avviati. A confermarlo ulteriormente è stato un recente articolo del quotidiano britannico Guardian, il quale ha rivelato che gli Stati Uniti hanno chiesto al governo di David Cameron l’uso di basi militari di Londra situate in alcune isole strategiche in vista di un’aggressione contro l’Iran.
Nonostante gli USA e i loro alleati non manchino di sottolineare quasi ogni giorno la presunta minaccia che rappresenterebbe l’Iran per l’Occidente e per Israele, Washington sta portando a termine un vero e proprio accerchiamento del territorio della Repubblica Islamica con, tra l’altro, lo stazionamento di due portaerei nel Golfo Persico e l’invio di aerei da guerra, navi per la bonifica di mine in mare ed altri mezzi navali da impiegare nel momento in cui dovesse essere deciso il lancio di un’aggressione militare.
Oltre a tutto questo, reso possibile grazie alla disponibilità di regimi alleati nella regione come Emirati Arabi, Kuwait, Bahrain o Arabia Saudita, l’amministrazione Obama ha dunque chiesto alla Gran Bretagna l’accesso per le proprie forze armate alle basi che quest’ultimo paese conserva a Cipro e nelle isole di Ascensione, nell’Oceano Atlantico, e Diego Garcia, in quello Indiano. L’uso di queste strutture permetterebbe a Washington di avere un vantaggio logistico ancora maggiore in caso di guerra contro l’Iran.
Per il Guardian, in ogni caso, il governo di Londra avrebbe per il momento negato la concessione delle proprie basi all’alleato americano, sostenendo che un attacco non provocato contro Teheran sarebbe da considerarsi illegale secondo il diritto internazionale, dal momento che la Repubblica Islamica non rappresenta una chiara minaccia né per gli Stati Uniti né per altri paesi.
I funzionari del governo britannico citati dal Guardian hanno fatto riferimento al parere del Procuratore Generale, il quale sostiene che Londra sarebbe in violazione del diritto internazionale anche solo se dovesse facilitare un attacco contro l’Iran mettendo a disposizione le proprie basi. Il parere legale del Procuratore Generale è stato fornito all’ufficio del primo ministro, al Foreign Office e al Ministero della Difesa.
Sulla momentanea posizione di Londra ha pesato senza dubbio la vicenda dell’invasione dell’Iraq nel 2003, sostenuta dal governo laburista di Tony Blair a fronte della massiccia opposizione interna e della palese illegalità di un’operazione condotta per rovesciare il regime di Saddam Hussein sulla base di un’inesistente minaccia di armi di distruzione di massa. Ciononostante, la propaganda americana, israeliana e occidentale in genere contro l’Iran non conosce soste e il programma nucleare di Teheran, per il quale non c’è alcuna prova che sia indirizzato a scopi militari, continua ad essere utilizzato per giungere ad un cambio di regime a Teheran.
Londra, da parte sua, non esclude peraltro una nuova collaborazione militare per assecondare gli obiettivi dell’imperialismo statunitense. La posizione britannica è stata chiarita nei giorni scorsi da una portavoce del primo ministro Cameron, la quale, dopo avere ricordato come la Gran Bretagna nel recente passato ha già cooperato con gli USA per l’utilizzo delle proprie basi all’estero, ha affermato che “il governo crede che in questo momento un’azione militare contro l’Iran non sia la migliore opzione”, anche se “ogni ipotesi rimane sul tavolo”, compresa quella militare.
Infatti, a conferma di come Londra sia sostanzialmente allineata alle posizioni di Washington, anche la Gran Bretagna dispone di un forte contingente militare nel Golfo Persico, formato tra l’altro da dieci navi da guerra, compreso un sottomarino nucleare, ed ha partecipato ad una recente massiccia esercitazione organizzata dagli Stati Uniti.
Gli unici scrupoli del governo Cameron non dipendono tanto dall’illegalità di una simile operazione contro Teheran o, tanto meno, dall’elevatissimo numero di vittime che una nuova guerra comporterebbe, bensì dalle ripercussioni negative che essa potrebbe avere sul fronte interno e dalla pericolosa destabilizzazione dell’intero Medio Oriente.
Con la regione già in subbuglio per la Primavera Araba e la crisi siriana, una nuova guerra potrebbe cioè finire per coinvolgere addirittura Russia o Cina e, in ultima analisi, produrre anche l’effetto contrario a quello desiderato, che rimane l’allargamento dell’influenza e del controllo americano su un’area del globo strategicamente fondamentale per gli interessi di Washington.
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di Michele Paris
La durissima medicina somministrata a milioni di cittadini in questi anni dalle autorità europee e dai governi nazionali, dietro indicazione degli ambienti finanziari internazionali, avrebbe dovuto servire a mettere in ordine i bilanci dei paesi più in difficoltà e a ridurre il debito pubblico ufficialmente all’origine della crisi in atto. A smentire ancora una volta in maniera clamorosa questa teoria propagandata fino alla nausea da politici e media è stato questa settimana un rapporto dello stesso ufficio statistiche dell’Unione Europea (Eurostat), il quale ha confermato che i provvedimenti messi in atto da Dublino ad Atene non hanno fatto altro che deprimere ulteriormente la crescita economica e aumentare i livelli di indebitamento.
Le cifre diffuse mercoledì da Eurostat indicano, per il secondo trimestre del 2012, un debito in media pari al 90% del PIL nei 17 paesi che utilizzano la moneta unica, vale a dire il livello più alto dal 1999. Soprattutto, con l’intensificarsi degli attacchi a lavoratori, pensionati, giovani, disoccupati e classe media sotto forma di tasse e tagli alla spesa pubblica, il rapporto debito/PIL è aumentato rispetto sia al primo trimestre dell’anno (88,2%) sia al dato dell’intero 2011 (87,1%).
Le sofferenze patite da decine di milioni di cittadini europei non sono inoltre servite a invertire la tendenza dell’economia, tanto che cinque paesi rimangono tecnicamente in recessione (Cipro, Grecia, Italia, Portogallo e Spagna), mentre la tendenza generale continua a rimanere negativa, come dimostreranno quasi certamente i dati relativi al terzo trimestre che verranno diffusi il mese prossimo.
A stare peggio tra i paesi dell’eurozona sul fronte dell’indebitamento è la Grecia, vittima delle più dure imposizioni da parte della cosiddetta troika (UE, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale), con un rapporto debito/PIL salito tra il primo e il secondo trimestre dell’anno dal 136,9% al 150,3%. Subito dietro Atene si trova l’Italia, dove le misure introdotte dal governo imposto dalle grandi banche e da Bruxelles hanno soffocato la crescita economica facendo passare il rapporto debito/PIL dal 123,7% al 126,1%.
Non molto meglio se la passano poi Irlanda e Portogallo, due paesi che, come la Grecia, hanno significativamente beneficiato, per così dire, dei piani di “salvataggio” pari a svariate decine di miliardi di euro erogati da UE e FMI in cambio di drastiche misure di austerity.
Un’altra tesi che fa parte della propaganda della classe dirigente europea è quella che negli scorsi decenni i governi hanno abusato della spesa pubblica, garantendo ai propri cittadini servizi e benefit che non si potevano permettere se non facendo appunto esplodere il problema del debito sul lungo periodo.
In realtà, ciò sarebbe dovuto principalmente agli interventi resi necessari a partire dal 2008 per salvare le banche sull’orlo del fallimento, in particolare in Spagna e in Irlanda. Il trasferimento di colossali somme di denaro nelle casse degli istituti responsabili della crisi, com’è ovvio, è stato poi compensato con tagli alla spesa e ai programmi di assistenza pubblici, ma anche con licenziamenti di massa e tasse che colpiscono invariabilmente le classi più disagiate.
Le ricette adottate ovunque in questo frangente storico, oltretutto, secondo molti economisti non eviteranno comunque una qualche forma di default da parte dei paesi più indebitati. Riferendosi alla Grecia e non solo, in una recente intervista al New York Times, l’economista Jörg Krämer, di Commerzbank, ha ad esempio affermato che per “rendere il peso del debito sostenibile, dovrà esserci una qualche ristrutturazione del debito stesso”.
I dati di Eurostat e la situazione in cui versano numerosi paesi europei confermano dunque che le misure draconiane fin qui implementate e che ancora attendono i cittadini non servono a diminuire il debito pubblico, come viene fatto credere, bensì lo fanno aumentare, causando un aggravamento della recessione e un’impennata dei livelli di disoccupazione.
Che le misure prolungate di austerity avrebbero finito per produrre effetti simili era d’altra parte risaputo, dal momento che economisti e politici ben conoscono, quanto meno, la lezione degli anni successivi alla crisi del 1928 negli Stati Uniti, in seguito alla quale l’applicazione prematura di misure come quelle attuali comportò un peggioramento della situazione, precipitando il paese nella Grande Depressione.
Anche per questo, appare più che legittimo affermare che lo scopo delle politiche di rigore adottate da una classe politica europea totalmente al servizio dei grandi interessi economici e finanziari, sia quello di utilizzare la crisi del debito per condurre attacchi senza precedenti alle condizioni di vita di centinaia di milioni di persone, facendo fronte alla crisi strutturale del capitalismo internazionale con il ridimensionamento permanente delle politiche di spesa pubblica dei governi, accompagnate da un virtuale azzeramento dei residui diritti conquistati dai lavoratori in decenni di lotte, così da creare un bacino di manodopera a basso costo e senza protezioni a disposizione delle aziende europee.
Un esempio di quello che attende i lavoratori europei - e non solo - viene dalla Grecia, vero e proprio laboratorio sul quale la troika da tempo esercita un potere dittatoriale, imponendo il volere degli ambienti finanziari internazionali che si traduce in sofferenze indicibili per la popolazione e nella distruzione del tessuto sociale. Proprio di questi giorni è la notizia dell’accordo raggiunto tra il governo di Atene e la troika per l’erogazione di una nuova tranche da 13,5 miliardi di euro, che andranno peraltro in gran parte nelle casse dei creditori della Grecia, in cambio di altre misure di austerity.
Per questa ragione, suonano del tutto vuoti gli avvertimenti e le critiche che rimbalzano sui giornali di tutta Europa di quanti fanno notare come le autorità UE e i governi nazionali siano eccessivamente fissati su quello che, ad esempio, giovedì sul Sole24Ore Marco Fortis ha definito il “totem” del rapporto debito/PIL. Tale “ossessione” non è da attribuire ad una volontà cieca di burocrati di Bruxelles o Francoforte, ma è una politica messa in atto deliberatamente per portare a termine una contro-rivoluzione sociale (e politica) in nome e per conto dei grandi interessi finanziari.
Una realtà, questa, confermata anche dal fatto che “gli sforzi fiscali eccessivi”di cui parla lo stesso Fortis sono arrivati, per quanto riguarda l’Italia, nonostante la situazione del paese fosse di “assoluta sostenibilità finanziaria” e con “un’economia solida”.
Simili politiche hanno già causato e continueranno a causare fortissime tensioni sociali in molti paesi, tenute però finora sotto controllo grazie agli sforzi nel far digerire alle popolazioni le misure di austerity e gli assalti ai diritti del lavoro di partiti nominalmente di centroinistra che, come in Grecia e in Italia, sostengono governi politici o tecnici agli ordini della finanza internazionale. Le organizzazioni sindacali, invece, hanno in questo scenario il compito di contenere i malumori ampiamente diffusi tra i lavoratori tramite occasionali proteste e scioperi innocui che servono solo come valvola di sfogo temporanea.
Nel caso dell’Italia, poi, il sostegno alle politiche anti-sociali dettate dall’UE per salvare gli interessi di banche e speculatori è giunto in maniera ferma anche dalle più alte autorità dello Stato, come il presidente della Repubblica Napolitano, il quale ha svolto un ruolo decisivo sia nel garantire l’applicazione dei diktat della finanza internazionale con il passaggio di poteri da Berlusconi a Monti, sia nel frenare le tensioni nel paese con ripetuti appelli all’unità in un momento di crisi.
Lo stesso presidente proprio l’altro giorno ha inoltre invitato “gli italiani, votando ad aprile, a tenere conto della importantissima esperienza del governo Monti”, prospettando la necessità di continuare sulla strada seguita in questo ultimo anno. Un’esperienza quella che ha avuto come protagonista l’ex consulente di Goldman Sachs che è stata effettivamente importantissima ma, al contrario di quello che afferma pubblicamente Napolitano, solo per la devastazione sociale che ha portato e che porterà in Italia come altrove per salvare il sistema finanziario internazionale.
Un’esperienza, infine, che gli italiani terranno bene a mente di qui a pochi mesi, quando le elezioni politiche, come indicano le previsioni, faranno segnare con ogni probabilità un’esplosione del voto di protesta e dei livelli di astensionismo.