di Mario Lombardo

La crisi in corso da settimane nella penisola di Corea continua a far registrare una pericolosa escalation delle tensioni, confermata nella giornata di mercoledì dall’innalzamento del livello di allerta deciso dalle forze armate di Seoul e Washington. L’ultima iniziativa dei due paesi alleati è stata presa in seguito alla notizia che la Corea del Nord starebbe preparando un nuovo imminente test missilistico.

Questa ipotesi era stata avanzata dalle autorità sudcoreane settimana scorsa ed è stata confermata sempre mercoledì dal ministro degli Esteri di Seoul, Yan Byung-se, secondo il quale il lancio di un missile balistico, trasportato sulla costa orientale della Corea del Nord e montato su un dispositivo di lancio mobile, potrebbe avvenire “in qualsiasi momento”.

Le potenzialità del missile Musudan in questione, nonostante l’eventuale lancio dovrebbe ridursi soltanto ad un test, possono variare a seconda di diversi fattori, anche se le fonti citate dai media occidentali e sudcoreani indicano una gittata di circa 3.500 km, cioè abbastanza per colpire il Giappone e il territorio americano di Guam, nell’Oceano Pacifico.

A seguito delle sanzioni approvate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, la Corea del Nord non è autorizzata ad eseguire esperimenti balistici, così che, ha aggiunto il capo della diplomazia di Seoul, se il regime dovesse procedere in questo senso dovrebbe essere immediatamente convocata una riunione al Palazzo di Vetro.

L’innalzamento del livello di guardia appena al di sopra del normale status di difesa, deciso dalla Corea del Sud e dagli Stati Uniti, comporta invece l’aumento della sorveglianza e dell’attività di intelligence da parte dei due alleati. Secondo quanto riportato mercoledì dall’agenzia di stampa sudcoreana Yonhap, Seoul ha inoltre istituito una task force d’emergenza per monitorare gli sviluppi della situazione al Nord.

Le autorità di Seoul e svariati analisti ritengono probabile un lancio missilistico il prossimo 15 di aprile, data che segna il 101esimo anniversario della nascita del fondatore della Corea del Nord, Kim Il-sung, nonno dell’attuale giovane leader, Kim Jong-un. Nessun paese ha finora testato un missile Musudan, costruito su tecnologia sovietica, e per questo motivo in molti ritengono che potrebbe esserci più di un lancio se il primo dovesse risolversi in un fallimento.

Se pure un eventuale test missilistico da parte della Corea del Nord non sarebbe cosa nuova, gli Stati Uniti e la Corea del Sud stanno adottando contromisure decisamente insolite e aggressive per questo genere di minaccia. Anche il governo giapponese, inoltre, questa settimana ha attivato il proprio sistema di difesa, schierando batterie anti-missile PAC-3 attorno alla capitale, Tokyo, e sull’isola di Okinawa, dove si trova una vasta base militare USA, nonché inviando al largo delle proprie coste due navi da guerra Aegis, anch’esse equipaggiate per abbattere eventuali missili diretti verso la terraferma.

Prima dei test missilistici condotti nel recente passato, in ogni caso, la Corea del Nord aveva sempre notificato ai paesi vicini la traiettoria e il punto di impatto dei propri missili, cosa che potrebbe fare anche in questa occasione. Secondo il quotidiano giapponese Sankei, anzi, Pyongyang avrebbe già avvertito alcune ambasciate straniere della propria intenzione di lanciare un missile balistico sopra il Giappone e destinato ad atterrare nell’Oceano Pacifico.

Inoltre, al di là del possibile test missilistico e della consueta minacciosa retorica del regime di Kim, per stessa ammissione di membri dei governi americano e sudcoreano, non è emerso finora alcun segnale che il paese si stia preparando ad un’offensiva militare.

Nella giornata di martedì, infatti, gli avvertimenti provenienti da Pyongyang a evacuare le sedi diplomatiche in Corea del Sud in vista di una guerra nucleare, sono stati bollati dal portavoce della Casa Bianca, Jay Carney, come “retorica che serve solo ad aumentare le tensioni e a isolare ulteriormente la Corea del Nord dalla comunità internazionale”.

Le accuse verso la Corea del Nord sono poi continuate mercoledì, con il governo di Seoul che ha puntato il dito contro Pyongyang anche per il massiccio cyber-attacco che lo scorso marzo aveva paralizzato le reti informatiche di alcune banche e stazioni televisive sudcoreane.

Accuse e provocazioni varie da parte di Stati Uniti e Corea del Sud vengono messe in atto allo scopo di isolare e aumentare le pressioni sul regime stalinista del Nord e sui suoi pochi alleati, in particolare la Cina. Il ministro degli Esteri di Seoul, nel corso di un’audizione in Parlamento, ha così invitato Russia e Cina ad attivarsi per convincere Pyongyang ad astenersi da nuove provocazioni, mentre in precedenza aveva avuto un colloquio telefonico con il suo omologo del Brunei, il paese che detiene attualmente la presidenza provvisoria dell’Associazione dei Paesi del Sud-est Asiatico (ASEAN), per chiedere a questo organismo di svolgere “un ruolo attivo” nella risoluzione della crisi nella penisola di Corea.

La stessa amministrazione Obama e alcuni senatori americani nei giorni scorsi avevano infine discusso direttamente con le autorità cinesi e nei media la necessità da parte di Pechino di muoversi per esercitare la propria influenza sull’alleato nordcoreano.

L’obiettivo della strategia statunitense in Corea si inserisce d’altra parte in un disegno ben più ampio e che ha a che fare principalmente con la necessità di contenere la Cina nel quadro del rinnovato impegno di Washington in Estremo Oriente per cercare di invertire il declino della propria economia e della propria influenza su scala globale.

Non a caso, dunque, come ha rivelato la stampa d’oltreoceano qualche giorno fa, le azioni degli Stati Uniti in queste settimane in risposta alle presunte provocazioni nordcoreane fanno parte di un vero e proprio codice di comportamento redatto da tempo dal governo americano per fronteggiare la presunta minaccia nordcoreana. Secondo questa versione, gli USA starebbero adottando risposte e “contro-provocazioni” studiate a tavolino e che prevedono reazioni sproporzionate ad un eventuale iniziativa militare anche limitata del regime di Pyongyang.

L’intenzione dell’amministrazione Obama, pur tra il timore di scatenare una rovinosa guerra e qualche timido segnale conciliatore verso la Corea del Nord, è in definitiva quella di utilizzare la crisi nella penisola per spingere sulla leadership di Pechino, così da ottenere concessioni favorevoli agli interessi americani sul piano strategico ed economico.

Un piano, quello statunitense, lanciato fin dal 2009 e da mettere in atto sia con mezzi diplomatici che militari, come appare evidente in queste settimane. L’aumentato impegno militare di Washington nella penisola di Corea, come ha scritto recentemente il New York Times, finisce così per provocare intenzionalmente una profonda apprensione a Pechino, essendo “il tentativo di dimostrare alla Cina che, se non intenderà richiamare all’ordine la Corea del Nord”, la conseguenza consisterà precisamente in una maggiore presenza USA nella regione che i vertici del Partito Comunista vorrebbero evitare a tutti i costi.

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