di Fabrizio Casari

Gli scontri in Venezuela, voluti dal candidato della Casa Bianca e dell’oligarchia locale orfana dei profitti petroliferi, non hanno raggiunto, al momento, i risultati politici sperati. La campagna per il disconoscimento della vittoria di Maduro non ottiene significative adesioni internazionali. La grancassa propagandistica ci prova; apparentemente, ricontare le schede elettorali in presenza di risultati contestati sembrerebbe un atto di buonsenso.

Ignorando i report positivi degli osservatori internazionali presenti ed evitando di domandarsi cosa accadrebbe se in ogni paese, ad ogni elezione o referendum, il conteggio ufficiale e il controllo degli organi costituzionalmente preposti venissero di fatto disconosciuti, si tenta di far passare il concetto per il quale ricontare è norma di buonsenso, utile svelenire il clima e ad offrire certezze. Ma nel caso del Venezuela si tratta di ben altro. Lungi dal voler offrire una controprova di democrazia, la contestazione dei risultati elettorali è il primo atto del sovvertimento della stessa. Non é un caso che il candidato dell'oligarchia non abbia intentato nessun ricorso formale, preferendo invitare a "scaricare la rabbia" per le strade. Otto morti, sessanta feriti e 150 arresti. Una militante chavista é stata bruciata viva e si trova in coma, gli ambulatori popolari sono stati assaltati dai cosiddetti "democratici". Capriles risponderà presto di quanto successo.

Per inciso, tra gli specialisti di sistemi elettorali si ritiene che quello venezuelano sia tra i più sicuri a prova di frode. I tre livelli diversi d’identificazione rendono sostanzialmente impossibile votare più di una volta e l’alterazione reciproca tra il voto informatico e quello cartaceo risulta impossibile.

Ebbene, le urne venezuelane hanno confermato il sostegno popolare al progetto chavista. Quasi 300.000 voti di differenza possono sembrare pochi, certo; ma averli o non averli fa la differenza tra vincere e perdere. Così come con soli 45 mila lo stesso Capries vinse le elezioni a governatore nello stato di Miranda. Allora però, l'esiguo vantaggio gli apparve sufficiente e le macchine, oggi considerate inaffidabili, allora gli sembrarono perfette. Nella maggior parte dei paesi dove si vota con un sistema uninominale, spesso sono una manciata di voti a decidere vincitori e sconfitti. In Venezuela, invece, pare debbano essere una manciata di oligarchi a decidere quanto conti il voto popolare.

Quello che dev’esser chiaro, però, è che quanto avviene a Caracas non è il frutto di un risultato precario, né una reazione istintiva di fronte ad una vittoria attesa o a frodi che non vi sono state, bensì l’applicazione di un piano precedentemente predisposto e rigorosamente applicato.

A meno che la vittoria di Maduro non fosse stata schiacciante, infatti, il piano (noto e ampiamente denunciato) stabilito a Washington alla vigilia del voto, era molto chiaro. Prevedeva, in caso di sconfitta di misura di Capriles, il non riconoscimento della vittoria del chavismo e proteste e violenze di ogni tipo per far piombare il paese nel caos e aprire a scenari di sovversione autentica.

Del resto la dinamica del Colpo di Stato è l’unica strategia che a Washington conoscono e che, da sempre, applicano nel laboratorio latinoamericano. Le varianti sono il putch immediato o quella di non riconoscere la  validità del voto con annessa l’organizzazione di violenze diffuse che portino il paese nel caos e nel sangue e che producano l’intervento dei militari amici degli USA.

Ma quali che siano le modalità che di volta in volta, in linea con le circostanze, si scelgano, l’idea dominante è quella di sovvertire con la violenza il responso popolare e riportare i paesi “ostili” sotto il controllo di Washington. Negli ultimi anni li hanno organizzati in Venezuela, Honduras, Paraguay, Ecuador e Bolivia, ma solo in Honduras e Paraguay, dove la sinistra era più debole, hanno avuto successo.

Gli Usa, autonominatisi abusivamente specialisti della democrazia, usano infatti sovvertirla quando essa produce risultati a loro non graditi. Hanno bisogno di quinte colonne all’interno, ma queste non mancano mai e, nel caso del Venezuela, la tendenza golpista e fascistoide dell’opposizione è insopprimibile.

In questa occasione, come già ampiamente denunciato dal governo nei giorni precedenti al voto, gli step del piano destabilizzatore erano tre: non riconoscere la validità del voto e sollecitare altri paesi a seguire le indicazioni di Stati Uniti e Spagna nel chiedere di ricontare le schede; scatenare incidenti allo scopo di inibire la comunità internazionale a riconoscere Maduro quale nuovo Presidente; fare leva su alcuni alti ufficiali dell’esercito affinché prendessero posizione a favore di Capriles e aprissero un varco nelle file delle forze armate. Il tempo è un elemento decisivo: o si ribalta il tutto nelle 48 ore successive, oppure la partita è persa.

Passaggi diversi e successivi che dovevano portare ad un unico obiettivo: negare la validità del responso elettorale e, con essa, sospendere la sovranità popolare del Venezuela, consegnandola ad una sorta di protettorato internazionale che dovrebbe decidere modalità e caratteristiche della sua prossima fase politica e istituzionale.

Non è un caso che si usi all’uopo un cialtrone come Insulza, il Segretario dell’Organizzazione degli Stati Americani: l’OSA continua ad essere la facciata pubblica della covert diplomacy statunitense e viene storicamente usata per dare una patina di legalità alle ingerenze della Casa Bianca.

Benchè il senatore Usa Bill Richardson, a capo della delegazione di osservatori dell’OSA, abbia definito “trasparente e corretto” il voto, Insulza anche in questa occasione si è prestato alle esigenze di Washington tenendo in mano il cappello, evitando persino di consultare i governi che compongono l’organismo che dirige per paura che gli ordinino di rispettare il suo mandato.

Tutta l'America Latina (così come l'Unione Europea) ha infatti riconosciuto immediatamente la vittoria di Maduro e la sua legittima elezione alla Presidenza, ma Insulza, esperto di veleggiamenti verso porti sicuri, invece di rappresentare i paesi membri dell’organismo che dirige preferisce prendere ordini da Washington.

Sul piano interno il governo venezuelano ha trovato il sostegno popolare e quello delle Forze Armate e, pur cercando di non inasprire la situazione, ha già chiaramente indicato come la radicalizzazione delle proteste verrà affrontata con la radicalizzazione delle misure destinate a farvi fronte. Messaggio chiaro e forte, arrivato sia al quartier generale del proconsole dell’impero che ai suoi sponsor.

Superata la fase istituzionale dell’insediamento e rimessi al loro posto squadristi e golpisti, la direzione politica del paese dovrà però dedicarsi ad una riflessione profonda. La distanza tra quanto il chavismo si aspettava e quanto ha ottenuto è considerevole. Circa seicentomila voti mancano all’appello ed è innegabile quindi che il gruppo dirigente bolivariano abbia bisogno di resettarsi di fronte al nuovo corso.

C’è una destra che dispone di un blocco sociale storico nel paese e di un alleato poderoso all’estero e che aumenta i suoi consensi con il perdurare dei problemi atavici del Venezuela – delinquenza e corruzione diffuse in primo luogo – che si aggiungono al passo rallentato delle riforme a seguito di una situazione economica difficile, con soglie tra il 30 e il 40 per cento d’inflazione.

Tipica espressione di una burguesia compradora, priva di spessore politico e programmatico, capace solo di vendere gli interessi nazionali sperando in cambio di mantenersi il ruolo di raccoglitore le briciole che cadono dalla tavola dell'impero, quella venezuelana é una destra reazionaria e golpista, espressione di una cultura oligarchica che si alimenta con l’odio di classe e il revanscismo, che non può però essere contrastata solo ideologicamente.

Indagare sul perché si siano persi voti può essere l’inizio di un processo che metta al centro dell’agire politico il bisogno di rinnovare ed innovare, di adeguare e sperimentare le nuove forme della relazione tra popolo, governo e partito. Potrebbe forse servire una diversa organizzazione politica che porti a sintesi le esigenze di rinnovamento e ampliamento del processo bolivariano, saranno i venezuelani a decidere quale direzione intraprendere.

Ma nulla di quello che c’è da fare potrà essere fatto senza un gruppo dirigente coeso e in grado di capire il valore assoluto e strategico dell’unità interna, a maggior ragione di fronte alla sfida difficilissima di far sopravvivere il chavismo senza Chavez.

Riuscire a fare a meno di Chavez, in un paese che il Comandante ha forgiato, non è operazione semplice. Recuperarne il carisma è impossibile, imitarlo é inutile; continuarne l’opera e cercare persino di migliorarla appare però improcrastinabile.

Il Venezuela continuerà ad essere il punto decisivo dello scontro tra democrazia e restaurazione imperiale in America Latina. La crisi del socialismo venezuelano avrebbe ricadute pesanti su tutto il subcontinente ed è proprio per questo che gli Usa tentano il tutto per tutto a Caracas. Spetta dunque ai paesi amici sostenere in ogni modo gli sforzi per rinsaldare la rivoluzione bolivariana. Lo sanno perfettamente e sono già all’opera.

A Caracas si gioca il tempo decisivo per la secolare partita tra annessionismo statunitense e indipendenza latinoamericana. Chi vince o perde in Venezuela, crea le condizioni per poter vincere o perdere in tutto il continente.




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