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di Fabrizio Casari
Bombardamenti e combattimenti a Damasco e Aleppo, emergenza profughi e minacce di contagio al vicino Libano, un nuovo inviato dell’Onu, colloqui diplomatici senza sosta e senza frontiere sono i colori con i quali il disegno siriano viene presentato agli occhi dell’opinione pubblica e vengono utilizzati come pretesto per i recenti scatti in avanti di Usa, Francia, Germania e Gran Bretagna - cui vorrebbe aggiungersi anche l’Italia - e per il rafforzamento dell’intervento militare diretto e indiretto dell’Occidente che ormai non nega più la sua pesante ingerenza nella crisi siriana.
Ieri i responsabili di Stati Uniti e Turchia si sono riuniti ad Ankara per gettare le basi di un "meccanismo operativo" finalizzato a preparare il post Bashar al Assad in Siria. Stando a quanto indicato da fonti diplomatiche di Ankara, diplomatici, militari e responsabili dei servizi di sicurezza, diretti dal vice segretario di stato Elizabeth Jones, da parte americana, e il sottosegretario di stato aggiunto agli Affari Esteri Halit Cevik, da parte turca, hanno l'obiettivo di coordinare le risposte di fronte alla crisi siriana in materia militare, politica e di intelligence. Il principio di un meccanismo simile è stato deciso nel corso di una visita a Istanbul, l'11 agosto, del segretario di stato americano Hillary Clinton: gli Stati Uniti hanno annunciato di voler accelerare la fine del regime di Damasco.
Apparentemente i colloqui verterebbero anche su altri due temi: quello dell’arsenale chimico siriano e l’emergenza profughi che comincia a diventare un problema a carattere regionale. E se per quest’ultimo aspetto turchi e americani devono raggiungere un' intesa sulla previsione e la creazione di una zona cuscinetto alla frontiera turca in caso di consistente afflusso di rifugiati siriani, per quanto riguarda l’arsenale chimico di Assad le cose sono decisamente più complicate.
Il rischio che in qualche modo al-Queda possa metterci le mani sopra non è remoto, dal momento che una buona quota dei rivoltosi appartengono all’organizzazione terroristica e un’altra porzione significativa intrattiene con essa legami di riconoscenza ed affiliazione religiosa. Diversamente dalla situazione libica, dove l’intervento di al-Queda è stato in parte ridotto dal peso delle tribù della Cirenaica, in Siria la penetrazione terroristica tra le fila degli insorti può risultare molto più difficile da ridimensionare.
Proprio parlando del rischio di utilizzo di armi chimiche come estrema difesa da parte del regime siriano, Obama ha paventato un intervento militare diretto statunitense, attirandosi non solo le critiche del governo di Damasco, ma anche quelle del governo cinese e di quello russo. Damasco ha parlato espressamente dell’allarme sulle armi chimiche come “pretesto per un intervento militare diretto”.
Critiche sono arrivate anche dalla Cina, attraverso l'agenzia Xinhua, che ha fatto propria la posizione del regime, spingendosi a definire le dichiarazioni di Obama "pericolosamente irresponsabili". Un duro monito è arrivato anche dalla Russia, che ha accusato i Paesi occidentali di fomentare la rivolta, aiutando le forze che combattono Assad.
Ovviamente, le dichiarazioni di Obama sono state immediatamente condivise da Cameron, primo attore sin dall'inizio della guerra contro Assad. A lui ha fatto eco il Ministro degli Esteri italiano Terzi, che in una intervista a La Repubblica ha ricordato come l'Italia "sta operando in maniera attiva e sta considerando la dotazione all'opposizione siriana di strumenti di comunicazione utili per prevenire attacchi".
Insomma, la crisi siriana sembra incamminarsi a passi veloci verso il suo epilogo sul modello di quella libica. Ma, diversamente da quanto avvenuto a Tripoli, l’Occidente dovrà intervenire senza lo scudo formale dell’Onu, dal momento che sia Pechino che Mosca non sono disponibili ad approvare risoluzioni del Consiglio di Sicurezza che aprano la strada all’intervento militare diretto delle forze militari statunitensi, inglesi e francesi.
Per la santa alleanza del disordine mondiale sarà dunque necessario bypassare le istituzioni internazionali e lo sforzo per coinvolgere l’Organizzazione Islamica Internazionale e Lega Araba sarà l’unica possibilità per Obama di trasformare in un’operazione di polizia internazionale quella che, con ogni evidenza, sarà un arma disperata destinata ad invertire i sondaggi per le presidenziali di Novembre. Accettare un’ulteriore presa di distanza dall’elettorato più liberal, può ben essere bilanciato dall’affrontare le urne con le vestigia del “comandante in capo”.
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di Michele Paris
Tra i temi sui quali Barack Obama e Mitt Romney si stanno scontrando nella campagna elettorale in corso per la Casa Bianca, uno dei più caldi nelle ultime settimane sembra essere quello legato alla sorte di Medicare, il popolare programma pubblico di copertura sanitaria riservato agli americani con più di 65 anni. Mentre i due candidati alla presidenza cercano di proporsi come i difensori di Medicare, i programmi di entrambi i partiti prevedono in realtà un suo drastico ridimensionamento che porterebbe alla riduzione dei servizi attualmente erogati ai beneficiari.
Creato nel 1965, Medicare offre oggi la copertura sanitaria a circa 50 milioni di americani ma, secondo quanto previsto dall’approvazione della riforma di Obama del 2010, verrà privato di 716 miliardi di dollari tra il 2013 e il 2022 tramite la riduzione dei rimborsi federali destinati a ospedali e medici e di altre voci di spesa. La riforma ha istituito delle apposite commissioni, incaricate di individuare sprechi e procedure “inutili” del programma, così da raggiungere l’obiettivo dei tagli previsti, teoricamente senza influire sulla qualità dei servizi offerti.
Questi tagli si sono resi necessari per consentire il finanziamento dei sussidi che la stessa “Obamacare” prevede per quegli americani attualmente senza copertura sanitaria che, all’interno di una certa fascia di reddito, avranno l’obbligo di acquistare una polizza per evitare di incorrere nelle sanzioni federali. Per questo motivo, in questa campagna elettorale i repubblicani stanno accusando il presidente Obama di aver assaltato Medicare per finanziare la riforma sanitaria da lui voluta. Da parte loro, invece, i democratici sostengono che simili tagli sono necessari precisamente per salvare il programma e assicurarne la solvibilità nei prossimi decenni.
Come quasi sempre è accaduto in questa e nelle recenti campagne elettorali americane, il dibattito ha così prodotto una situazione paradossale, nella quale il Partito Repubblicano può in qualche modo presentarsi agli elettori come il principale garante di Medicare. Dopo l’approvazione di Obamacare nel 2010, d’altra parte, i repubblicani vinsero le elezioni di medio termine di quell’anno soprattutto attaccando i democratici per i tagli a Medicare previsti dalla nuova legge.
Tale scenario appare al limite dell’assurdo, poiché la posizione dei repubblicani prevede appunto la sostanziale privatizzazione di Medicare. Al centro del dibattito su quest’ultimo programma c’è proprio il candidato alla vice-presidenza, Paul Ryan, il quale vorrebbe giungere ad uno stanziamento fisso di fondi per ogni singolo beneficiario di Medicare, con cui acquistare una polizza assicurativa sul mercato privato.
Per eventuali prestazioni che eccedano la somma stanziata dal governo, il cittadino dovrà pagare di tasca propria. Per cercare di attenuare l’impatto di tale proposta, i repubblicani sostengono che, secondo il loro piano, il sistema rimarrebbe invariato per gli americani attualmente coperti da Medicare, così come per quelli che hanno oggi almeno 55 anni di età.
In sostanza, le posizioni dei due partiti su Medicare, nonostante la retorica dello scontro elettorale, non appaiono così lontane, soprattutto perché entrambi mettono al centro dei rispettivi progetti sia il settore delle assicurazioni private sia la necessità di contenere i costi del programma, senza tenere in considerazione il razionamento dei servizi e l’aumento delle spese sanitarie per gli americani più anziani.
Se pure il “ticket” presidenziale repubblicano denuncia i tagli per 716 miliardi di dollari previsti da Obamacare, lo stesso Paul Ryan ha recentemente negoziato con il senatore democratico dell’Oregon, Ron Wyden, una proposta di bilancio che contiene, oltre all’ipotesi dello stanziamento di fondi limitati per l’acquisto di polizze private, una riduzione della spesa per Medicare pari a circa 700 miliardi di dollari. Questo progetto rientra alla perfezione nella visione repubblicana e, in buona parte, di quella democratica che prevede per i prossimi anni un netto restringimento della spesa pubblica.
Oltre al delicato tema di Medicare, a tenere banco negli ultimi giorni è stato anche quello dell’aborto, in seguito alle dichiarazioni del deputato repubblicano del Missouri, Todd Akin. Quest’ultimo, nel corso di un’intervista televisiva, ha affermato che “gli stupri veri e propri” raramente portano alla gravidanza. Le parole di Akin, candidato repubblicano al Senato per il suo stato, hanno dato voce al pensiero di molti nella destra repubblicana e hanno scatenato una valanga di polemiche.
Gli stessi colleghi di partito, pur confermando la loro sostanziale contrarietà all’aborto, hanno chiesto ad Akin di rinunciare alla corsa per un seggio da senatore, cosa che il deputato repubblicano si è finora rifiutato di fare. I malumori all’interno del partito sulle dichiarazioni di Akin sono comunque legati ad una questione di opportunità politica.
È probabile infatti che molti repubblicani condividano le posizioni di Akin sull’aborto, ma simili dichiarazioni pubbliche rischiano di danneggiare le chance repubblicane a meno di tre mesi dal voto, soprattutto tra le elettrici donne, secondo i sondaggi già schierate in maggioranza a favore dei rivali democratici.
Le frasi sull’aborto del deputato Todd Akin, in ogni caso, confermano ulteriormente il drammatico spostamento a destra del baricentro politico americano nel corso di questa campagna elettorale, caratterizzata da posizioni sempre più estreme sulle questioni economiche, sia tra i repubblicani che, in varia misura, tra gli stessi democratici.
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di Mario Braconi
L’eccellente pezzo di Rania Khalek su Salon costituisce un contributo importante sul tema del terrorismo negli Stati Uniti. Innanzitutto, il fenomeno viene largamente sopravvalutato: secondo una ricerca effettuata dall'Università di Syracuse, dal 2001 al 2011 ci sono stati circa 320 episodi terroristici negli Stati Uniti, che hanno provocato in tutto 32 morti (15 di matrice “bianca” e 17 legati all'estremismo islamico).
In secondo luogo, gli organi governativi deputati alla repressione continuano a concentrare i loro sforzi sul terrorismo di matrice jahdista, ignorando l'ovvio: ovvero la terrificante esplosione del terrorismo “bianco”, il cui brodo di coltura sono le centinaia di gruppi e gruppuscoli che si rifanno ad ideologie neonaziste e legate alla superiorità dei bianchi.
Infine, a dispetto di quanto sembrano ritenere le intelligence statunitensi, la comunità islamica americana tende ad essere più vittima che incubatore di terrorismo (senza dimenticare che, oltre ai musulmani, dal 2001 sono a rischio tutte le persone che vanno in giro vestite in un modo che ad un citrullo neonazista può apparire musulmano, ad esempio gli induisti Sikh, che, con il loro perenne turbante, terrorizzano qualche debole di mente ariano dal grilletto facile).
Khalek si avvale della testimonianza di Daryl Johnson, ex analista del Department of Homeland Security (DHS), che nel 2009 fece scoppiare un caso con un suo report dal titolo “Estremismo di destra: come l’attuale clima economico e politico alimenta una recrudescenza nella radicalizzazione e nel reclutamento”. Nel suo rapporto di tre anni fa, Johnson spiegava come, in certi ambienti, l’elezione di un presidente non bianco sia stata letta come una circostanza favorevole ad un ammorbidimento delle politiche sull’immigrazione. Ciò avrebbe potuto provocare attacchi “isolati e di modesta entità, diretti principalmente contro obiettivi legati all’immigrazione”.
Un serbatoio di braccia utili alla “causa”, continuava Johnson, era costituito da veterani delle varie guerre americane, particolarmente ricercati tanto per la loro condizione psicologica che per l'esperienza nel combattimento. Un ottimo catalizzatore, concludeva Johnson, era la crisi economica: soggetti con modesta istruzione, estromessi dal circuito socio-economico dal pignoramento della casa che avevano tentato di acquistare con mutui impossibili e dalla preclusione del credito personale, sarebbero stati i candidati ideali.
A dispetto di questa situazione allarmante e documentata, il DHS continuava a dedicare al terrorismo non-islamico un quantitativo di risorse ridicolo. Secondo Johnson al DHS vi era una sola persona dedicata a coprire il rischio terrorismo non-islamico, contro i circa 25 che seguivano quello di matrice jahdista. In effetti, per un certo periodo, il team di Johnson aveva contato una decina di persone, che comunque facevano fatica a gestire tutte le attività dell'ufficio.
Quando il rapporto, ad uso interno, divenne di dominio pubblico, i blogger destrorsi gridarono al “complotto della sinistra”, finalizzato a dipingere Tea Party e simili come potenziali terroristi. Tanto fecero che alla fine il dipartimento di Johnson venne azzerato, nonostante al comando della DHL fosse nel frattempo subentrata la democratica Janet Napolitano: attualmente, un solo analista è assegnato alle analisi sul terrorismo americano di estrema destra.
Nei tre anni successivi alla pubblicazione del report-bomba di Johnson, si sono moltiplicati gruppi e gruppuscoli dediti all’odio razziale pronti ad applicare le loro deliranti teorie, mentre il DHL al massimo è riuscito a sfornare un paio di stiracchiati report sull’allarme terrorismo “bianco”, niente di più. Eppure, il materiale su cui lavorare non mancherebbe, in un paese che, come gli Stati Uniti, registra un incremento del 69% in undici anni (2000-2011) nel numero dei gruppi dediti all’odio verso il diverso (dati Southern Poverty Law Center, SPLC); nel quale, nei primi tre anni dell’amministrazione Obama, si sono moltiplicati di otto volte i gruppi cosiddetti “patriottici” (tra cui milizie armate); o nel quale, tra il 1990 e il 2010 si sono registrati ben 145 omicidi ideologici per mano di estremisti di destra.
Secondo Johnson, “la violenza motivata da ragioni ideologiche è un dato ricorrente nei contesti caratterizzati dalla costante mortificazione di un determinato gruppo da parte di politici o personalità mediatiche”: un esempio lampante è quello dei consultori americani dove si pratica l'aborto. Dapprima sono stati messi nel mirino dai Repubblicani più estremisti, decisi a tagliar loro i fondi pubblici. Una volta fallito il piano “parlamentare”, il battage sui media ha contribuito a gettare benzina sul fuoco, fino a che qualche debole di mente non ha ritenuto una buona idea cominciare ad appiccare fuoco agli ambulatori, e magari ad abbattere medici e paramedici coinvolti nelle pratiche di interruzione di gravidanza.
Il terrorismo americano legato all’estremismo islamico è solo una parte del problema, ma grazie al martellare di politici e stampa sul jadhismo “made in USA”, il numero degli attacchi ai danni di musulmani (veri o apparenti) è aumentato del 50% dal 2009 al 2010, (da 107 a 160 episodi secondo il FBI). Secondo le statistiche del SPLC, il numero di gruppi di odio antimusulmano sarebbe addirittura triplicato, passando da 10 a 30 dal 2010 al 2011.
Insomma, secondo la statistica, la situazione è molto chiara: il rischio viene dall'estrema destra. Ed è un rischio molto grave, dato che quasi tutte le persone che tra il 2001 e il 2011 sono state arrestate per aver tentato di organizzare attacchi terroristici con armi chimiche o batteriologiche (antrace compreso) vengono dal mondo dell'estremismo di destra. Se solo i politici avessero il coraggio di prenderne atto e di colpire i focolai di questa infezione che rischia di far implodere il Paese.
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di Michele Paris
NEW YORK. La settimana scorsa, la polizia sudafricana si è resa responsabile di un orribile massacro che è costato la vita a decine di minatori che, nella regione di Nordovest, stavano scioperando per ottenere migliori condizioni di vita. Con il pieno appoggio del partito di governo, l’African National Congress (ANC), la strage è stata messa in atto con metodi degni di quel regime dell’apartheid che quest’ultimo ha contribuito in maniera decisiva a rovesciare poco meno di due decenni fa.
I fatti di sangue hanno avuto luogo giovedì scorso, il sesto giorno consecutivo di uno sciopero indetto da un sindacato indipendente attivo nella miniera di platino di Marikana, appartenete alla compagnia britannica Lonmin. I minatori, molti dei quali immigrati dai paesi vicini, intendevano denunciare condizioni di lavoro spesso drammatiche, stipendi che non superano i 500 dollari al mese e l’assenza di abitazioni decenti, dal momento che essi vivono spesso in baracche senza elettricità o acqua corrente.
Gli scioperanti stavano perciò chiedendo il raddoppio del loro stipendio dopo anni di promesse mai mantenute. Ad infiammare una situazione già tesa, poi, è stata la dirigenza di Lomin che giovedì ha lanciato un ultimatum ai minatori, avvertendoli che chi non avrebbe ripreso immediatamente il lavoro sarebbe stato licenziato. Allo stesso tempo, la polizia ha iniziato a minacciare l’uso della forza per mettere fine allo sciopero.
Alla fine, circa 3 mila minatori si sono riuniti su una collina e poco prima del massacro della polizia hanno respinto l’appello dei leader del loro sindacato a disperdersi. Con la tensione alle stelle, i lavoratori si sono fatti più aggressivi e molti dei quali si sono armati di machete e bastoni. La polizia ha così accerchiato un gruppo di manifestanti lanciando contro di loro gas lacrimogeni prima di aprire il fuoco e lasciare sul terreno più di 30 morti.
Il bilancio ufficiale di quello che un giornale di Johannesburg ha definito “un attacco ben pianificato”, è stato di 34 morti tra i minatori, anche se altre fonti parlano di almeno una cinquantina di vittime, mentre molti feriti sono tuttora ricoverati in gravi condizioni.
Dietro alla drammatica vicenda c’è la rivalità sempre più marcata tra la principale organizzazione sindacale del settore minerario - National Union of Mineworkers (NUM) - legata all’ANC, e la formazione indipendente AMCU (Association of Mineworkers and Construction Union).
Quest’ultima è riuscita recentemente a reclutare un numero consistente di iscritti grazie ad un atteggiamento più combattivo e al malcontento diffuso tra i lavoratori per la passività del NUM e il suo sostanziale allineamento alle posizioni dei proprietari delle miniere. Gli scontri tra gli affiliati ai due sindacati rivali avevano caratterizzato i giorni precedenti il massacro di Marikana, durante i quali c’erano già stati dieci morti.
Alla luce della situazione, dunque, è stata tutt’altro che sorprendente la posizione assunta dal NUM e dall’ANC, i cui vertici hanno cercato in qualche modo di giustificare il comportamento della polizia, attribuendo la responsabilità dell’accaduto ai minatori stessi. Il presidente sudafricano, Jacob Zuma, da parte sua si è detto “scioccato per l’inutile violenza”, anche se ha confermato di aver dato egli stesso indicazione alle forze di sicurezza di utilizzare ogni mezzo per riportare l’ordine tra i lavoratori della miniera. Scrupolo immediato di Zuma, inoltre, è stato quello di rassicurare gli investitori stranieri sulla stabilità del Sudafrica.
Anche i vertici del NUM hanno difeso la polizia che, a loro dire, sarebbe stata costretta a ricorrere alla forza per far fronte ai disordini causati dagli scioperanti. Il NUM, d’altra parte, è affiliato alla federazione sindacale COSATU (Congress of South African Trade Unions), a sua volta una delle più potenti e influenti organizzazioni che sostengono l’ANC. Queste associazioni sindacali, così come il partito che fu di Nelson Mandela, sono sempre più impopolari in Sudafrica perché considerate troppo vicine agli interessi delle corporation che operano nel paese.
A quasi vent’anni dalla fine dell’apartheid, infatti, il Sudafrica rimane uno dei paesi con le maggiori disuguaglianze, dove il 40 per cento della popolazione è costretta a vivere con meno di tre dollari al giorno. La responsabilità di questa situazione è da ricercare in rimo luogo tra i vertici dell’African National Congress, le cui promesse di costruire una società più equa rimangono ampiamente disattese.
In definitiva, nonostante l’indiscutibile aumento della spesa pubblica in programmi per la riduzione della povertà, il Sudafrica modellato da 18 anni di governo ANC ha sostituito le disuguaglianze razziali con quelle economiche, creando una nuova minoranza di neri arricchitisi enormemente, compresi quelli alla guida dei principali sindacati, grazie alla connivenza con i grandi interessi economici locali ed esteri.
Esempio lampante di questo intreccio di potere è la carriera di uno dei leader dell’ANC, Cyril Ramaphosa. Attivista anti-apartheid, quest’ultimo fu tra i protagonisti della creazione del sindacato dei minatori negli anni Ottanta, durante i quali vennero organizzati numerosi scioperi. Successivamente, Ramaphosa è passato alla carriera politica entrando nell’ANC dove, grazie alla posizione di spicco ricoperta, è diventato uno degli uomini d’affari più ricchi del Sudafrica e siede oggi nel consiglio di amministrazione di Lonmin.
Sui fatti della settimana scorsa, intanto, ha aperto un’inchiesta l’Ufficio per le indagini interne della polizia, mentre il presidente Zuma ha creato un’apposita commissione. Alla luce del coinvolgimento dei più alti livelli politici, sindacali e delle forze di sicurezza, tuttavia, appare improbabile che alle indagini faccia seguito l’individuazione dei veri responsabili del massacro.
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di Michele Paris
NEW YORK. La minaccia britannica di irrompere nell’ambasciata dell’Ecuador per arrestare Julian Assange segna una nuova preoccupante tappa nello scivolamento verso una deriva autoritaria comune a tutto l’Occidente. L’annuncio di giovedì da parte del governo del presidente Rafael Correa di garantire l’asilo politico al fondatore di WikiLeaks era stato preceduto da un vero e proprio ultimatum per la consegna di Assange alle autorità di Londra, così da poter eseguire l’ordine di estradizione verso la Svezia dove quest’ultimo deve fronteggiare un caso di stupro privo di alcun fondamento.
Una volta consegnato a Stoccolma, il 41enne cittadino australiano verrebbe con ogni probabilità spedito negli Stati Uniti, dove pare sia stato già istituito un Gran Jury segreto in Virginia che lo dovrebbe giudicare per la pubblicazione di centinaia di migliaia di documenti riservati del Dipartimento di Stato. Questo scenario, nonostante le smentite del governo di Washington, è stato confermato tra l’altro da alcune e-mail dell’influente think tank americano Stratfor, rese note qualche mese fa da WikiLeaks, e potrebbe costare ad Assange la detenzione indefinita in un carcere d’oltreoceano con l’accusa di terrorismo.
A Londra, invece, nella giornata di giovedì l’Ecuador ha annunciato ufficialmente la concessione dell’asilo politico a Julian Assange, il quale si era rifugiato presso l’ambasciata del paese sudamericano il 19 giugno scorso per sfuggire all’estradizione in Svezia, diventata definitiva dopo che la Corte Suprema britannica aveva respinto l’ultimo appello dei suoi legali.
Prima di prendere una decisione finale, l’Ecuador aveva chiesto la rassicurazione che Assange non sarebbe stato trasferito negli Stati Uniti, cosa che il governo di Stoccolma si è rifiuto però di garantire. Allo stesso modo, ai magistrati di Stoccolma è stata offerta la possibilità di interrogare Assange di persona o in video-conferenza dall’ambasciata ecuadoriana di Londra, come lui stesso si era offerto di fare nei mesi scorsi, ma anche in questo caso la proposta non ha trovato accoglienza.
La fermezza del paese scandinavo conferma ulteriormente la natura tutta politica del caso Assange, fabbricato ad arte attorno alle incerte accuse di due donne svedesi, di cui una legata a gruppi anti-castristi americani stanziati in Florida, che avrebbero avuto rapporti sessuali con il leader di WikiLeaks. Il caso, peraltro, era stato inizialmente archiviato in fretta dalle autorità giudiziarie di Stoccolma per essere riaperto in seguito grazie all’intervento di un influente politico socialdemocratico.
In ogni caso, già nella serata di mercoledì la polizia britannica ha iniziato a circondare l’ambasciata ecuadoriana di Knightsbridge, dopo che, come già ricordato, il governo di David Cameron aveva concesso una settimana di tempo per la consegna di Assange ed evitare un blitz per arrestarlo. Immediatamente, numerosi manifestanti si sono recati sul posto per esprimere il proprio sostegno ad Assange. Nelle ore successive sono stati segnalati alcuni scontri e svariati arresti sono stati effettuati dalla polizia.
La vicenda e l’atteggiamento di Londra hanno prodotto un aperto scontro diplomatico con l’Ecuador, il cui ministro degli Esteri, Ricardo Patiño, ha affermato in una conferenza stampa da Quito che il suo paese “respinge fermamente la minaccia esplicita contenuta nella comunicazione ufficiale della Gran Bretagna”. Il ministro ha poi definito le stesse minacce “inopportune per un paese civile e democratico”.
Se l’irruzione nell’ambasciata verrà eseguita, ha continuato Patiño, “sarà interpretata dall’Ecuador come un atto inaccettabile e ostile, nonché come un attentato alla nostra sovranità che ci obbligherà a rispondere”, dal momento che “non siamo una colonia britannica”.
Nella propria lettera-ultimatum, il “Foreign Office” britannico sostiene di essere tenuto ad eseguire l’ordine di estradizione contro Assange e che il continuo utilizzo di un edificio diplomatico per offrire rifugio a quest’ultimo “è incompatibile con la Convenzione di Vienna” del 1961 che regola appunto le relazioni diplomatiche tra paesi sovrani. Dopo la decisione presa da Quito, perciò, il governo di Londra ha affermato che la situazione non è cambiata per nulla e l’asilo ad Assange non verrà preso nemmeno in considerazione.
Senza timore di essere accusata di ipocrisia, la Gran Bretagna accusa dunque Quito di aver violato la Convenzione di Vienna proprio mentre minaccia di irrompere in un’ambasciata che, secondo lo stesso trattato, viene definita come uno spazio inviolabile sul quale al paese straniero che lo occupa è assicurata sovranità assoluta. All’interno di essa, le forze di polizia locali possono avere accesso solo dietro consenso del capo della missione diplomatica (ambasciatore).
Per dare un fondamento legale alle proprie minacce, Londra ha sostenuto che potrebbe ritirare il riconoscimento dell’ambasciata ecuadoriana. Tuttavia, la legge del 1987 a cui il governo fa riferimento, dice chiaramente che una tale azione può essere presa solo se soddisfa quanto previsto dal diritto internazionale. Inoltre, come ha detto l’ex ambasciatore della Gran Bretagna in Russia, sir Tony Brenton al Daily Telegraph, “il ritiro dello status garantito all’edificio dove Assange ha chiesto rifugio per evitare l’estradizione renderebbe la vita impossibile ai diplomatici britannici all’estero”.
Il ministro degli Esteri, William Hague, ha comunque fatto sapere che il suo governo non permetterà in alcun modo ad Assange di lasciare il paese, poiché esso non riconosce il principio di “asilo diplomatico”. Se quest’ultimo uscirà dall’ambasciata, la polizia britannica procederà immediatamente al suo arresto.
Sulla vicenda è intervenuto anche l’ex giudice spagnolo Baltasar Garzón, diventato celebre nel 1998 per aver chiesto senza successo l’estradizione del dittatore cileno Augusto Pinochet mentre era proprio in Gran Bretagna, secondo il quale Londra sta agendo al di fuori dei propri poteri, poiché Assange è un rifugiato politico a tutti gli effetti che ha ottenuto l’asilo da un paese sovrano. Per queste ragioni, la Gran Bretagna è obbligata a riconoscere tale situazione in accordo con la Convenzione ONU del 1951 sullo Status dei Rifugiati.
Garzón, che si è da poco aggiunto al collegio dei difensori di Assange, ha aggiunto che, se al cittadino australiano non sarà permesso di lasciare la Gran Bretagna, potrebbe essere aperto un procedimento presso la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia.
La sorte di Assange non sembra invece preoccupare il governo australiano che continua a mantenere un vergognoso silenzio di fronte agli abusi commessi contro un suo cittadino.
Nonostante sia giunto nelle ultime ore un timido annuncio che per Assange è disponibile l’assistenza consolare, fin dall’inizio della vicenda Canberra ha più o meno apertamente preso le parti dei governi che stanno facendo di tutto per zittire Assange.
Mentre rimane la minaccia della polizia di entrare con la forza nell’ambasciata ecuadoriana, le forze di sicurezza britanniche anche venerdì continuano a presidiare l’edificio di Knightsbridge. Julian Assange, da parte sua, ha ringraziato il governo di Quito per l’asilo concessogli e ha ricordato Bradley Manning, il giovane soldato americano accusato di aver passato i cablo del Dipartimento di Stato a WikiLeaks, detenuto da oltre 800 giorni senza processo né condanne in un carcere militare statunitense.
Il trattamento riservato a Manning e quello che attende verosimilmente Assange, in caso di estradizione, è il risultato della persecuzione messa in atto senza scrupoli dai governi di Washington, Londra e Stoccolma per mettere a tacere definitivamente qualsiasi voce critica e indipendente che cerchi di rivelare i loro crimini nel mondo, perpetuati alle spalle dei cittadini per la difesa esclusiva dei propri interessi imperialistici.