di Michele Paris

Una serie di articoli apparsi negli ultimi giorni su alcuni giornali anglo-sassoni ha confermato per l’ennesima volta il ruolo fondamentale ricoperto da gruppi terroristici di matrice islamica sunnita nel conflitto in corso ormai da poco meno di due anni in Siria per rovesciare il regime alauita di Damasco. La formazione integralista Jebhat al-Nusra (Fronte Nusra), direttamente legata ad Al-Qaeda, rappresenta in questo scenario la forza d’urto principale utilizzata dall’opposizione ufficiale, dagli Stati Uniti e dai loro alleati in Europa e in Medio Oriente per dare la spallata al governo, senza scrupolo alcuno per le disastrose conseguenze che si prospettano in un ormai sempre più probabile futuro senza il presidente Assad e la sua cerchia di potere.

Sabato scorso, ad esempio, il New York Times ha pubblicato un lungo articolo nel quale descrive il Fronte Nusra come un’autentica succursale di Al-Qaeda in Iraq, l’organizzazione fondamentalista che durante l’occupazione americana ha insanguinato il paese che fu di Saddam Hussein. Questo gruppo attivo in Siria può contare, nonostante le riserve manifestate pubblicamente dall’Occidente, su ingenti somme di denaro, armi e l’afflusso di militanti provenienti dall’estero. I suoi affiliati, sia pure in minoranza rispetto al totale dei ribelli in armi, dispongono delle capacità e del coraggio necessari per mettere in atto rischiose operazioni contro le forze di sicurezza del regime, tanto che nelle ultime settimane avrebbero sottratto a queste ultime il controllo di basi militari e di alcuni pozzi petroliferi.

Il Fronte Nusra ha iniziato a rivendicare azioni terroristiche nei primi mesi del 2012, mettendo il proprio sigillo su esplosioni che hanno causato svariate vittime tra la popolazione civile, in particolare nei quartieri dove vivono minoranze cristiane, druse e alauite, percepite come sostenitrici del regime di Assad. Tra le vittime più recenti del gruppo qaedista vi sono probabilmente anche una trentina tra studenti e insegnanti morti all’inizio della settimana scorsa in seguito al bombardamento di una scuola in un sobborgo di Damasco.

All’interno dell’amministrazione Obama sembra esserci più di una preoccupazione riguardo la presenza del Fronte Nusra in Siria, sia per il possibile danno di immagine, proprio mentre si cerca di propagandare un conflitto nei termini di una feroce repressione del regime ai danni di un popolo inerme che chiede la democrazia, sia per il ruolo futuro che svolgerà questo gruppo estremista, con ogni probabilità ostile a qualsiasi ingerenza degli Stati Uniti.

Per queste ragioni, da qualche giorno i giornali parlano della possibile inclusione del Fronte Nusra alla lista nera statunitense delle organizzazioni terroristiche. L’aggiunta di questa formazione qaedista, se effettivamente verrà decisa, sarebbe però un atto di estrema ipocrisia e una manovra per confondere ulteriormente l’opinione pubblica internazionale con una presa di distanza ufficiale da coloro che rappresentano di fatto uno scomodo alleato nell’avanzamento degli interessi di Washington in Medio Oriente.

Da mesi, infatti, attraverso l’Arabia Saudita e il Qatar, gli Stati Uniti sostengono materialmente gruppi come il Fronte Nusra in Siria per condurre il lavoro sporco nella guerra contro Assad, con la speranza di emarginarli in futuro e installare un regime fantoccio attraverso la promozione dell’opposizione ufficiale nata a Doha poche settimane fa, su ordine di Hillary Clinton, al posto dell’ormai screditato Consiglio Nazionale Siriano.

Questa doppiezza americana è apparsa evidente anche venerdì scorso, quando in Turchia la nuova opposizione ufficiale (Coalizione Nazionale delle Forze della Rivoluzione Siriana e dell’Opposizione) ha creato un nuovo comando militare unificato da presentare al summit dei cosiddetti “Amici della Siria” di questa settimana in Marocco in cambio di nuovi fondi e armamenti.

Opportunamente, alla riunione non sono stati invitati i gruppi jihadisti che operano nel paese per non dare appunto un’impressione “sbagliata” alla comunità internazionale, anche se in realtà sul campo sono proprio queste formazioni che conducono con maggiore successo le operazioni militari contro il regime.

Quanto scritto dal New York Times nel fine settimana era stato sostanzialmente anticipato qualche giorno prima anche da un corrispondente in Siria dell’agenzia di stampa americana McClatchy, secondo la quale Jebhat al-Nusra “è diventato essenziale nelle attività di prima linea dei ribelli anti-Assad”. Il Fronte Nusra, inoltre, “non solo è responsabile di attentati suicidi che hanno ucciso centinaia di persone, ma svolge anche un ruolo cruciale per l’avanzata dei ribelli”.

Molti guerriglieri sono giunti in Siria direttamente dall’Iraq dove hanno combattuto gli occupanti statunitensi e hanno contribuito ad alimentare le violenze settarie negli anni passati. Secondo lo stesso reporter di McClatchy, che ha potuto constatare la presenza di militanti di Jebhat al-Nusra ad ogni fronte di battaglia visitato, anche molti leader delle varie cellule attive nel paese sarebbero iracheni legati ad Al-Qaeda.

Per quasi tutti i giornali americani, l’aggiunta del Fronte Nusra alla lista nera del Dipartimento di Stato potrebbe però trasformarsi in un boomerang per l’amministrazione Obama, visto il contributo fondamentale che il gruppo sta dando al conflitto in corso. La preoccupazione appena celata per l’eventuale venir meno del Fronte Nusra nella lotta contro Assad, così come l’appoggio più o meno esplicito ad esso garantito dagli Stati Uniti, conferma come l’intera guerra al terrore in atto da più di un decennio possa essere considerata, in definitiva, poco più di una tragica farsa.

Infatti, le guerre scatenate dagli Stati Uniti e quelle che sono in preparazione (Iraq, Libia, Siria) hanno avuto come obiettivo regimi secolari che avevano o hanno represso duramente le attività di Al-Qaeda, i cui affiliati sono giunti in questi paesi solo dopo l’intervento diretto o indiretto di Washington. In Libia e in Siria, poi, i gruppi jihadisti legati a quelli che hanno determinato l’invasione dell’Afghanistan nel 2001 sono diventati, almeno temporaneamente, alleati degli americani ed uno strumento determinante per rimuovere regimi che ostacolano i loro interessi imperialistici.

Le conseguenze di questa politica statunitense si sono viste drammaticamente nell’Afghanistan uscito dall’occupazione sovietica e, più recentemente, in Libia, dove in seguito all’intervento NATO e alla fine di Gheddafi il paese è precipitato nel caos, con svariate milizie che controllano il territorio a fronte di un governo centrale del tutto inefficace. In Libia, i gruppi integralisti precedentemente appoggiati dagli Stati Uniti si sono anche resi protagonisti dell’assassinio a Bengasi dell’ambasciatore americano, J. Christopher Stevens, lo scorso 11 settembre.

Proprio la Libia appare, nonostante tutto, il modello seguito dalla Casa Bianca per operare il cambio di regime in Siria, il cui futuro si prospetta minacciosamente simile a quello del paese nord-africano. Mercoledì scorso, sempre il New York Times ha pubblicato un altro articolo basato su fonti diplomatiche estere e del governo americano, nel quale si afferma che le armi fornite ai ribelli libici principalmente dal Qatar, e che l’amministrazione Obama aveva approvato, sono successivamente finite nelle mani di gruppi terroristici di matrice islamica.

Se la rivelazione è tutt’altro che sorprendente, essa è però la conferma da parte di un giornale dell’establishment d’oltreoceano non solo delle apprensioni che pervadono sezioni della classe dirigente americana riguardo il futuro della Siria, ma anche dell’esistenza di legami oscuri tra il governo di Washington e il proprio nemico giurato di questo inizio secolo.

Secondo un rapporto dell’International Crisis Group, in ogni caso, non tutte le formazioni ribelli di ispirazione religiosa in Siria abbraccerebbero la visione legata alla jihad globale del Fronte Nusra, anche se il fondamentalismo sunnita rimane il dato caratterizzante dell’opposizione contro Assad. Ciò conferma l’agenda settaria della rivolta in corso, con buona pace di quanti continuano a credere in una lotta per la democrazia dell’intero popolo siriano, in grandissima parte invece ostile in egual misura sia al regime che ai ribelli.

Significativa in questo senso è un’intervista fatta ancora dal New York Times ad un militante secolare, diventato musulmano osservante dopo essersi unito ai ribelli. Secondo il 35enne siriano, l’obiettivo della formazione in cui milita sarebbe inequivocabilmente quello di “creare uno stato islamico guidato dai principi dell’Islam sunnita”. Per questo, il gruppo fondamentalista “lotterebbe contro qualsiasi governo secolare” e la sua missione “non terminerà con la caduta del regime” di Assad.

I venti di guerra in Siria, intanto, sono stati confermati anche dal Times di Londra, il quale nel fine settimana ha scritto che gli Stati Uniti stanno preparando un’operazione clandestina per fornire armi ai ribelli per la prima volta in maniera diretta e senza l’intermediazione di Arabia Saudita, Qatar o Turchia.

La rivelazione del quotidiano britannico si accompagna a numerosi altri segnali che negli ultimi giorni indicano un sempre più probabile intervento esterno, a cominciare dal dispiegamento di batterie di missili Patriot della NATO in territorio turco e da fantomatici rapporti di intelligence americani che indicherebbero il possibile utilizzo di armi chimiche da parte di un governo di Damasco animato da tendenze suicide.

Il contagio del caos siriano sta mettendo nel frattempo sempre più in crisi anche il delicato equilibrio settario del Libano, dove nella città settentrionale di Tripoli in questi giorni alcuni scontri tra sunniti e alauiti hanno fatto una ventina di morti. Sul fronte diplomatico, invece, l’inviato dell’ONU e della Lega Araba per la Siria, Lakhdar Brahimi, ha incontrato a Ginevra rappresentanti di USA e Russia, affermando che i due paesi ritengono ancora praticabile un processo politico per mettere fine alla crisi.

Le affermazioni del diplomatico algerino non sembrano però avere ormai alcun senso, dal momento che gli Stati Uniti hanno da tempo scartato anche nella retorica l’ipotesi di un’uscita pacifica dal conflitto siriano, puntando tutto su una soluzione militare violenta tramite l’appoggio ai gruppi di opposizione. La legittimazione ufficiale di questi ultimi da parte di Washington come rappresentanti unici del popolo siriano, dalle cui aspirazioni democratiche sono peraltro lontani anni luce, dovrebbe arrivare nei prossimi giorni, aggiungendosi ai riconoscimenti già garantiti dalle monarchie assolute del Golfo Persico, ma anche da Turchia, Gran Bretagna e Francia.

di Michele Paris

A meno di un mese dalla scadenza prevista per l’attivazione del cosiddetto “fiscal cliff”, il dibattito politico negli Stati Uniti continua a registrare la mancanza di un accordo condiviso tra democratici e repubblicani. La trattativa per evitare l’implementazione automatica e immediata di tagli alla spesa federale, compresa quella militare, e aumenti alle tasse per 600 miliardi di dollari a partire dal primo gennaio prossimo, lascia però intravedere più di uno spiraglio, giustificato anche dalla sostanziale identità di vedute tra i due partiti sulla necessità di ristrutturare i principali programmi sociali garantiti a decine di milioni di persone e di riformare il sistema fiscale in modo da favorire ulteriormente i redditi più elevati.

I più recenti sviluppi delle trattative in corso a Washington registrano la presentazione di una contro-proposta repubblicana firmata dallo speaker della Camera dei Rappresentanti, John Boehner, in risposta a quella sottoposta in precedenza dalla Casa Bianca. Il piano del leader repubblicano include un aumento delle entrate fiscali pari a 800 miliardi di dollari in dieci anni, senza aumentare però le aliquote più alte, e 1.200 miliardi di tagli alla spesa, cioè circa il doppio di quanto contiene la proposta democratica sul tavolo.

La scure repubblicana si abbatterebbe sui programmi Medicare e Medicaid (tagli per 600 miliardi), sui finanziamenti destinati ai buoni alimentari e ad altri ammortizzatori sociali (300 miliardi), su quelli per l’educazione e i trasporti pubblici (300 miliardi). Inoltre, l’età di accesso a Medicare - la copertura sanitaria pubblica riservata agli anziani - verrebbe innalzata da 65 a 67 anni e il popolare programma finirebbe progressivamente per essere destinato solo alla popolazione più povera, perdendo l’attuale carattere di universalità.

La precedente proposta di Obama, presentata settimana scorsa dal Segretario al Tesoro Tim Geithner, è invece un pacchetto da 2.200 miliardi di dollari, di cui 1.600 da ottenere con la cessazione a fine anno dei tagli alle tasse implementati da George W. Bush per i redditi superiori ai 250 mila dollari l’anno e il resto tramite tagli per 600 miliardi alla spesa destinata a Medicare, Medicaid e ad altri programmi sociali.

Sia l’amministrazione Obama che i leader democratici al Congresso insistono che un eventuale accordo sul “fiscal cliff” debba includere necessariamente il ritorno ai livelli di tassazione dell’era Clinton per i redditi più alti, mentre deve essere esclusa qualsiasi “riforma” dei programmi pubblici di assistenza.

Questi due presunti punti fermi fissati dai democratici sono però tutt’altro che inviolabili e servono unicamente a gettare fumo negli occhi dei cittadini americani, in particolare dei sostenitori liberal del presidente Obama, così da dare l’illusione che i democratici stiano perseguendo politiche a difesa di lavoratori, anziani e classe media mentre in realtà si stanno preparano assalti senza precedenti alle loro condizioni di vita.

In altre parole, la Casa Bianca, sull’onda del successo elettorale del mese scorso, intende puntare i piedi sul “fiscal cliff”, così da incassare una vittoria simbolica ai danni dei repubblicani per mezzo di un aumento a dir poco modesto delle tasse a carico degli americani più ricchi.

Un capitale politico, quello a disposizione di Obama in caso di raggiungimento di un accordo bipartisan secondo le proprie condizioni, che potrebbe poi spendere il prossimo anno quando si negozierà sulle “riforme” di fisco e spesa sociale, con provvedimenti che si tradurranno in un nuovo colossale trasferimento di ricchezza dalle classi più disagiate a quelle privilegiate.

Infatti, Obama e i leader democratici hanno lasciato intendere chiaramente in questi giorni di essere più che disponibili a trattare con i repubblicani su entrambe le questioni nei prossimi mesi. Lo stesso Geithner domenica scorsa è apparso a questo scopo in svariati programmi televisivi americani per ribadire che la Casa Bianca vuole “riformare” Medicare, Medicaid e Social Security. Questi programmi, ha avvertito il Segretario al Tesoro, non devono però essere inclusi nella discussione in corso sul “fiscal cliff”, ma saranno oggetto di trattative separate nel 2013.

L’amministrazione Obama, insomma, pur rifiutando la proposta di John Boehner di lunedì, ha fatto capire che tutto ciò che i repubblicani devono fare per ottenere la disponibilità democratica a mettere sul tavolo i tagli alla spesa federale nei prossimi mesi è accettare ora un lieve e momentaneo aumento delle tasse per i più ricchi.

Il concetto lo ha chiarito in prima persona e con il consueto cinismo anche il presidente Obama nel corso di una recente intervista a Bloomberg TV. L’inquilino della Casa Bianca ha spiegato che la sua proposta consiste appunto in un temporaneo innalzamento delle tasse per una ristretta cerchia di super-ricchi, poiché “alla fine del 2013 o il prossimo autunno potremmo avviare un processo nel quale lavorare ad una riforma fiscale… ed è possibile che le aliquote verranno abbassate allargando la base dei contribuenti”.

Allo stesso modo, il presidente americano ha ripetuto più volte di essere “pronto a lavorare con i leader democratici e repubblicani per tagliare gli eccessi della spesa sanitaria”. Quando poi gli è stato chiesto quale sia la sua posizione riguardo le proposte repubblicane di alzare l’età di accesso a Medicare e di ridurre gli adeguamenti legati all’inflazione per i benefit previsti da Social Security, Obama ha affermato di essere “disposto a valutare qualsiasi iniziativa che rafforzi (smantelli) il nostro sistema” sociale.

In definitiva, leggendo attraverso i resoconti dei media ufficiali, si comprende come un eventuale accordo che eviti il “fiscal cliff” entro la fine dell’anno, che in ogni caso comprenderebbe già importanti tagli alla spesa sociale, sarebbe solo un antipasto dei cambiamenti strutturali che verranno negoziati nel 2013 e che rimetteranno indietro di qualche decennio le lancette degli orologi per quanto riguarda l’estensione delle coperture garantite da programmi pubblici come Medicare, Medicaid e Social Security.

Sul fronte delle trattative, intanto, la parte relativamente moderata del Partito Repubblicano sembra essere vicina ad accettare il compromesso con Obama, tanto che nei giorni scorsi alcuni deputati hanno apertamente invitato i loro colleghi a dare il via libera all’aumento temporaneo delle tasse per il 2% dei contribuenti al vertice della piramide sociale negli Stati Uniti.

Secondo costoro, porre fine in questo modo allo scontro in atto consentirebbe ai repubblicani di presentarsi in una posizione di vantaggio in vista del confronto di più ampio respiro con i democratici nel 2013 e che, come si è visto, potrebbe portare anche ad un abbassamento del carico fiscale per i più ricchi.

Già a fine gennaio o a febbraio, poi, scatterà una nuova scadenza, quando cioè verrà raggiunto il tetto massimo dell’indebitamento americano e il Congresso sarà chiamato ad autorizzarne l’innalzamento. Questo appuntamento già viene preannunciato da media e politici con toni apocalittici e sarà dunque nuovamente sfruttato per far digerire alla popolazione altri “necessari” tagli alla spesa sociale.

L’ala più conservatrice del Partito Repubblicano continua però a respingere qualsiasi minimo provvedimento che minacci di intaccare la ricchezza delle classi privilegiate che rappresenta, tenendo perciò ancora lontano un possibile accordo. Tra i più fermi oppositori figura ad esempio il senatore ultra-conservatore della Carolina del Sud, Jim DeMint, il quale l’altro giorno ha criticato senza mezzi termini lo speaker John Boehner per avere proposto nuove entrate per 800 miliardi di dollari, anche se da ottenere senza aumenti di tasse ma soltanto riducendo alcuni rimborsi fiscali ed eliminando qualche scappatoia legale che permette ai più ricchi e alle aziende di abbattere il proprio carico fiscale.

Alla luce di queste persistenti divisioni, toccherà ai leader repubblicani raggiungere un qualche equilibrio all’interno del proprio partito, così da evitare possibili rotture ma anche le conseguenze politiche di avere fatto naufragare un’intesa che, in definitiva, entrambi gli schieramenti sono ansiosi di raggiungere al più presto.

di Michele Paris

Il 19 dicembre prossimo, gli elettori della Corea del Sud si recheranno alle urne per scegliere il nuovo presidente in un clima di crescenti tensioni in Asia nord-orientale. L’appuntamento sarà animato principalmente dalla sfida tra la favorita, la leader del partito conservatore Saenuri (“Nuova Frontiera”), Park Geun-hye, e il numero uno del Partito Democratico Unito (DUP) di centro-sinistra, Moon Jae-in, le cui quotazioni sono state rilanciate dal recente ritiro di un popolare candidato indipendente.

L’imprenditore informatico milionario ed ex insegnante Ahn Cheol-soo aveva infatti annunciato la propria rinuncia alla corsa alla presidenza lo scorso 23 novembre dopo settimane di discussioni per giungere ad una possibile fusione della sua campagna elettorale con quella del candidato del DUP. Alla fine, il 50enne Ahn ha dato il proprio appoggio tutt’altro che appassionato a Moon, sottolineando lunedì nel corso di un raduno con i propri sostenitori a Seoul che, in ogni caso, il voto “andrà contro le aspirazioni popolari per un nuovo tipo di politica” e criticando entrambi i candidati per una campagna all’insegna degli insulti e degli attacchi personali.

La sua ascesa politica è stata resa possibile d’altra parte dalla capacità di capitalizzare la profonda ostilità diffusa tra la popolazione sudcoreana nei confronti di tutto l’establishment politico, correttamente ritenuto responsabile della corruzione in aumento, del ristagno economico e soprattutto delle crescenti disuguaglianze sociali nel paese. Come il candidato progressista Moon, anche Ahn si era presentato inoltre agli elettori come un acceso critico dei cosiddetti “chaebol”, i giganteschi conglomerati dell’industria che dominano l’economia della Corea del Sud.

Con l’uscita di scena di Ahn, così, la competizione per la presidenza è diventata improvvisamente incerta. Park Geun-hye, figlia 60enne dell’ex dittatore sudcoreano Park Chung-hee, rimane comunque in vantaggio anche se il rivale sembra essersi notevolmente avvicinato grazie al probabile sostegno di quanti intendevano votare per Ahn. Secondo un recente sondaggio di Gallup Corea, alla vigilia del primo dei tre dibattiti televisivi, andato in onda martedì, Park avrebbe un margine di circa due punti percentuali su Moon, mentre un’altra rilevazione dell’istituto Realmeter le assegna un vantaggio di poco inferiore al 5%.

Nonostante le conseguenze delle politiche liberiste implementate in questi cinque anni dall’amministrazione dell’attuale presidente - l’ex CEO del colosso delle costruzioni Hyundai Engineering and Construction, Lee Myung-bak - il Partito Saenuri aveva ottenuto una netta vittoria nelle elezioni parlamentari dello scorso mese di aprile, infliggendo una pesante sconfitta al Partito Democratico Unito.

Questo risultato e le difficoltà mostrate dai sondaggi per il candidato del DUP indicano quindi il persistente discredito di un partito che, con i presidenti Kim Dae-jung e Roh Moo-hyun, ha governato per dieci anni tra il 1998 e il 2008, durante i quali sono state ugualmente adottate misure di liberalizzazione dell’economia e sostanzialmente smantellati i diritti dei lavoratori.

Queste politiche sono state messe in atto in risposta alla crisi economica asiatica del 1997-98 e, tra l’altro, hanno trasformato la Corea del Sud in uno dei paesi avanzati con il maggior numero di lavoratori assunti con contratti temporanei. La retorica del DUP, che si presenta con un programma volto a spezzare il monopolio dei grandi interessi del paese e a rafforzare lo stato sociale sudcoreano, non sembra perciò convincere troppo la maggioranza degli elettori, ben consapevoli che il partito di Moon Jae-in rappresenta in realtà soprattutto la piccola e media borghesia del paese penalizzata dalla concentrazione del potere economico nelle mani dei “chaebol”.

Il disprezzo ampiamente diffuso verso questi ultimi è stato cavalcato anche dalla conservatrice Park, nonostante il suo partito sia tradizionalmente il punto di riferimento dei giganti dell’economia sudcoreana. Per dare un’impressione di cambiamento e di rottura con il passato, il più importante partito sudcoreano di centro-destra lo scorso febbraio ha anche portato a termine un’operazione puramente cosmetica, cambiando il proprio nome da Grande Partito Nazionale a Partito Saenuri.

Park Geun-hye, inoltre, sta cercando in tutti i modi di prendere le distanze dai vertici del suo partito e dal presidente Lee, sposando anche svariate proposte elettorali avanzate dal suo rivale, in particolare riguardo la riduzione dei privilegi di cui gode la classe politica della Corea del Sud e la promozione di una maggiore trasparenza dei partiti.

In merito ai rapporti con la Corea del Nord, invece, Moon Jae-in e il suo partito si caratterizzano per un atteggiamento più conciliante e per la ricerca di un dialogo incondizionato, sull’esempio dei defunti presidenti Roh e Kim, il quale nel 2000 fu protagonista di una storica visita a Pyongyang, dove fu accolto da Kim Jong-il.

Moon auspica dunque un allentamento delle tensioni nella penisola coreana, mettendo fine alla linea dura perseguita da Lee Myung-bak in questi anni, così come propone un riassetto delle relazioni diplomatiche di Seoul, puntando ad un certo avvicinamento alla Cina, il principale partner commerciale della Corea del Sud, senza compromettere il rapporto privilegiato con gli Stati Uniti, tradizionalmente il principale alleato del paese.

Il presidente conservatore Lee, nel corso del suo mandato, è stato invece un fedele sostenitore della svolta asiatica dell’amministrazione Obama in funzione anti-cinese, anche se ha sollevato qualche malumore a Washington per avere fatto naufragare il progetto per una più stretta partnership - diplomatica e militare - con il Giappone, alimentando piuttosto il sentimento nazionalista e anti-nipponico per sfruttare a fini domestici la storica rivalità con un paese che ha occupato in maniera brutale la penisola di Corea per oltre tre decenni nella prima metà del secolo scorso.

Un fattore importante nelle presidenziali del 19 dicembre sarà come al solito proprio la Corea del Nord, con la quale le tensioni sono nuovamente aumentate in questi giorni in seguito alla decisione del regime stalinista del giovane leader Kim Jong-un di programmare il lancio di un missile a lungo raggio. Secondo Pyongyang il lancio servirebbe per mandare in orbita un satellite nordcoreano, mentre per Seoul e Washington sarebbe al contrario un’esercitazione per testare un missile balistico proibito.

Se il messaggio proveniente dalla Corea del Nord appare ben coordinato con il voto nel vicino meridionale, il lancio confermato tra pochi giorni, nonostante gli inviti a fermare le operazioni giunti anche da Russia e Cina, annuncia un possibile ulteriore deterioramento dei rapporti con Pyongyang e consente al partito di governo a Seoul di innalzare i toni nazionalistici, sfruttando la nuova crisi a tutto favore della propria candidata alla guida del paese.

di Michele Paris

Il mese di dicembre si è prevedibilmente aperto con il consueto elenco di violenze e di massacri in Siria, così come con le crescenti manovre dei governi occidentali per facilitare il crollo del regime di Bashar al-Assad. Ancora una volta, la diplomazia internazionale sta rivolgendo la propria attenzione in questi giorni verso la Turchia, uno dei paesi più attivi nel promuovere il cambio di regime a Damasco, dove lunedì è giunto in visita ufficiale il presidente russo, Vladimir Putin, al contrario uno dei principali alleati del governo siriano.

Sul terreno, nelle ultime ore le forze dell’esercito regolare sembrano avere intensificato le operazioni per respingere i “ribelli” in alcuni quartieri della capitale, dove l’aeroporto internazionale e le arterie stradali circostanti sono state teatro di cruenti scontri per conquistarne il controllo.

Gli Stati Uniti, intanto, hanno rispolverato la minaccia delle armi chimiche attribuite alla Siria. Nel fine settimana un articolo del New York Times ha infatti citato rapporti di intelligence che indicherebbero movimenti dell’arsenale chimico ad opera delle forze armate siriane e che hanno spinto Washington e alcuni loro alleati a mandare un avvertimento ad Assad tramite la Russia.

La rivelazione ha prodotto immediatamente una serie di congetture sull’uso che Damasco intenderebbe fare delle proprie armi chimiche, consentendo alla Casa Bianca di sfruttare la questione per preparare un possibile intervento diretto in Siria, sulla scia dell’invasione dell’Iraq nel 2003. Già lo scorso mese di agosto, Obama aveva definito l’eventuale minaccia di utilizzare le proprie armi chimiche da parte della Siria come “una linea rossa”, oltrepassata la quale gli USA sarebbero costretti ad intervenire direttamente. Più recentemente, inoltre, il Segretario alla Difesa, Leon Panetta, ha sostenuto che per neutralizzare le armi chimiche siriane sarebbe necessario impiegare addirittura 75 mila soldati americani.

Al coro degli avvertimenti diretti a Damasco, lunedì si è unita anche Hillary Clinton. Da Praga, nel corso di un incontro con il ministro degli Esteri ceco, Karel Schwarzenberg, il Segretario di Stato americano ha ribadito che il suo paese non sarebbe disposto ad accettare l’uso di armi chimiche da parte del regime di Assad, pur senza entrare nel merito delle informazioni fornite dall’intelligence né di come intenderebbero agire gli Stati Uniti nel concreto.

Il pretesto delle armi chimiche era stato citato anche qualche mese fa come giustificazione per l’invio di circa 150 soldati americani in Giordania, in previsione appunto di un intervento in Siria per prendere controllo dell’arsenale di Assad in caso di un crollo improvviso del regime. Lo stesso discorso vale anche per la richiesta fatta già da qualche settimana dalla Turchia alla NATO per posizionare batterie di missili Patriot sul proprio territorio al confine con la Siria, per i quali Ankara dovrebbe ottenere il via libera dall’Alleanza questa settimana dopo un recente sopralluogo di un team di tecnici militari per individuare i siti più adatti all’installazione.

Il governo islamista di Recep Tayyip Erdogan ha anch’esso citato improbabili rapporti di intelligence che indicherebbero il possibile riscorso di Damasco a incursioni missilistiche anche con testate chimiche contro la Turchia, da cui la presunta necessità dei Patriot a scopi difensivi. La stessa Clinton dalla Repubblica Ceca ha anticipato il parere favorevole della NATO alla fornitura di missili da parte di Stati Uniti, Germania e Olanda.

Un esito positivo della richiesta turca appare del tutto scontato, visto che il dispiegamento dei Patriot rientra nella strategia occidentale per giungere ad una sorta di no-fly zone o di un’area sottratta al controllo dell’esercito nel nord della Siria senza passare attraverso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Da qui i ribelli potrebbero preparare l’offensiva finale contro il regime, con l’aiuto decisivo di Turchia, Stati Uniti e dei loro alleati in Europa e nel mondo arabo. Ufficialmente, in ogni caso, entrambe le opzioni continuano ad essere smentite, almeno per il momento, sia dai vertici NATO che da Ankara e Washington.

Nonostante la fermezza con cui il premier Erdogan persegue il cambio di regime in Siria, l’allungamento dei tempi gioca a suo sfavore, poiché l’opinione pubblica turca, tra cui vi è una consistente minoranza sciita e alauita a cui appartengono anche Assad e il suo entourage, appare in buona parte contraria ad un intervento del proprio paese nel conflitto a sud del confine. A conferma delle crescenti tensioni, lunedì alcuni media hanno raccontato di manifestazioni di protesta andate in scena a Istanbul contro il dispiegamento di Patriot sul suolo turco.

Contro i missili NATO in Turchia si è ovviamente espressa anche la Russia, il cui governo ha manifestato più di una preoccupazione per il fatto che una simile iniziativa potrebbe scatenare un conflitto più ampio in Medio Oriente, con il coinvolgimento della stessa Alleanza Atlantica e delle altre potenze che hanno interessi nella regione.

Anche di questo argomento hanno discusso lunedì Erdogan e Putin nell’ambito di colloqui bilaterali che registrano posizioni diametralmente opposte dei rispettivi governi sulla crisi in Siria. Le relazioni diplomatiche tra Russia e Turchia sono state segnate negli ultimi tempi non solo dalle accuse di Ankara al Cremlino per il sostegno garantito ad Assad al Consiglio di Sicurezza ONU, ma anche da un episodio controverso che lo scorso ottobre ha contribuito ad innalzare le tensioni tra i due paesi.

In quell’occasione, le autorità turche costrinsero un velivolo civile in viaggio da Mosca a Damasco ad atterrare ad Ankara perché sospettato di trasportare materiale bellico destinato al regime di Assad. Mosca, secondo cui il carico era perfettamente legale, protestò in maniera decisa nei confronti del governo turco, sia per il forzato atterraggio che per il trattamento riservato ai passeggeri, in gran parte cittadini russi. L’episodio portò alla cancellazione di una visita di Putin in Turchia programmata pochi giorni più tardi e rimandata a questa settimana.

Nel primo viaggio all’estero di Putin da due mesi a questa parte, dopo la convalescenza seguita ad un infortunio alla schiena, è probabile tuttavia che eventuali lamentele risulteranno piuttosto caute visto che i due paesi hanno stabilito solidissime relazioni commerciali ed energetiche negli ultimi anni. Gli scambi bilaterali tra Russia e Turchia hanno toccato i 32 miliardi di dollari nel 2011 e i due governi sono intenzionati a sfondare il tetto dei 100 miliardi nei prossimi anni.

L’importanza di Mosca per una via d’uscita alla crisi in Siria è stata comunque riconosciuta pubblicamente da Erdogan alla vigilia dell’arrivo di Putin ad Ankara. Secondo il premier turco, “la Russia deve essere coinvolta nel processo” di risoluzione della crisi ed “è più probabile ed importante riuscire a convincere Mosca a persuadere Assad affinché scenda a compromessi” che chiedere al Cremlino di appoggiare l’opposizione siriana.

Come la Russia, anche la Turchia è però uno dei paesi chiave per l’uscita dalla paralisi. Nonostante le parole di Erdogan, il suo governo e gli alleati hanno però da tempo dimostrato di non essere disposti ad accettare qualsiasi apertura o concessione di Assad per una soluzione pacifica della crisi, mentre i loro sforzi sono diretti piuttosto a provocare una continua escalation militare e delle violenze tramite il sostegno incondizionato ai cosiddetti ribelli.

Per quanto riguarda Ankara, la politica di “zero problemi con i vicini”, teorizzata dal ministro degli Esteri Davutoglu, ha così lasciato spazio ad un sostanziale allineamento alle posizioni degli Stati Uniti riguardo la Siria, traducendosi inevitabilmente in un irrigidimento persistente della propria posizione nel conflitto in corso ormai da venti mesi.

Per quanto importante appaia il vertice tra Putin e Erdogan in relazione alla Siria, perciò, come ha scritto qualche giorno fa sulla testata on-line Asia Times l’ex ambasciatore indiano M K Bhadrakumar, “i tempi non sembrano ancora maturi per una iniziativa congiunta russo-turca, anche se Mosca e Ankara possono svolgere un ruolo cruciale per rompere l’attuale stallo” nel tormentato paese mediorientale.

di Michele Paris

A sole 24 ore dallo storico voto dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che ha riconosciuto la Palestina come stato osservatore non-membro, il governo di Israele ha risposto autorizzando la costruzione di tremila nuove unità abitative in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, nonché accelerando le procedure per il rilascio di un altro migliaio di permessi per colonie considerate illegali da tutta la comunità internazionale.

La ritorsione di Tel Aviv rappresenta l’ennesimo esplicito tentativo di boicottare una soluzione di pace fondata su due stati e contribuisce ulteriormente a rendere pressoché impossibile la continuità territoriale palestinese.

Le aree di insediamento appena autorizzate da Netanyahu comprendono, tra l’altro, nuove abitazioni a Ma’ale Adumim, una località che separa Gerusalemme Est dal resto della Cisgiordania e la cui espansione complica notevolmente i collegamenti tra le città di Ramallah e Betlemme con i quartieri palestinesi di Gerusalemme Est. Ma’ale Adumim è il terzo più grande insediamento israeliano in Cisgiordania e ospita attualmente circa 40 mila coloni ebrei. In totale, a Gerusalemme Est e in Cisgiordania vivono 500 mila coloni in più di cento insediamenti illegali.

La nuova iniziativa israeliana punta ad aggiungere un nuovo fatto compiuto sul terreno, così da rendere ancora più improbabile il raggiungimento di un eventuale accordo di pace per la creazione di uno stato palestinese entro i confini precedenti alla guerra dei Sei Giorni del 1967.

La comunità internazionale ha ancora una volta condannato quasi all’unanimità i nuovi insediamenti israeliani. Gli Stati Uniti nella giornata di venerdì hanno definito il piano di Netanyahu “controproducente” ai fini di una soluzione negoziata al conflitto mediorientale, anche se di fatto la reazione di Washington è stata sia nei toni che nelle azioni di gran lunga più pacata rispetto agli sforzi messi in atto per fare desistere il presidente dell’Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas (Abu Mazen), dal cercare il riconoscimento dell’ONU.

Il voto in gran parte simbolico e a larghissima maggioranza (138 favorevoli, 9 contrari e 41 astenuti) assicurato giovedì alla Palestina dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha mostrato nuovamente il totale isolamento internazionale degli Stati Uniti, assecondato solo da qualche sparuto alleato (Canada, Repubblica Ceca, Panama e quattro staterelli dell’Oceano Pacifico) nel difendere strenuamente l’occupazione israeliana e l’oppressione del popolo palestinese.

Nonostante questa realtà, i commenti della diplomazia americana al voto dell’Assemblea Generale sono stati molto duri ed hanno fatto riferimento alle complicazioni che si prospettano per i colloqui di pace. Decenni di negoziati con la supervisione statunitense, tuttavia, non hanno prodotto fin qui alcun risultato tangibile e hanno anzi consentito la progressiva conquista di nuovi territori palestinesi da parte di Israele.

La formale, sostanzialmente vuota condanna di Washington dei più recenti insediamenti autorizzati dal governo di estrema destra di Netanyahu, inoltre, si accompagna a due proposte di legge presentate al Senato di Washington che sono esse stesse autentiche ritorsioni contro il voto dell’ONU.

La prima è firmata dal senatore repubblicano dello Utah, Orrin Hatch, e chiede addirittura la soppressione di tutti i finanziamenti americani alle Nazioni Unite. La seconda, opera dello sforzo di due senatori repubblicani e due democratici, è invece un emendamento allo stanziamento di fondi al Dipartimento della Difesa e prevede lo stop al denaro destinato all’Autorità Palestinese in caso quest’ultima intenda avviare procedimenti legali contro Israele presso il Tribunale Penale Internazionale.

Dopo il voto di giovedì scorso, peraltro, nonostante qualche festeggiamento nei territori palestinesi, ciò che prevale è un diffuso scetticismo e la consapevolezza che le condizioni di vita della popolazione sotto l’occupazione israeliana non cambieranno di molto nel prossimo futuro.

Il riconoscimento della Palestina, garantito anche da paesi occidentali considerati fedeli alleati di Israele, è servito soprattutto a risollevare in qualche modo il prestigio di Abbas, la cui rilevanza è stata virtualmente cancellata, a favore di Hamas, durante il recente assalto di Tel Aviv contro Gaza che ha fatto 165 vittime tra la popolazione della striscia.

Anche i paesi che hanno votato a favore del riconoscimento o che si sono astenuti, come Francia e Gran Bretagna, si sono adoperati poi per ottenere rassicurazioni da parte dell’Autorità Palestinese a non intraprendere azioni legali contro membri del governo o delle forze armate israeliane presso il Tribunale Penale Internazionale. Ciò significa che questi governi intendono comunque continuare a garantire la totale impunità dei crimini di Israele nell’occupazione e negli attacchi contro il popolo palestinese.

L’iniziativa dell’Autorità Palestinese, in definitiva, ha ben poco a che vedere con la liberazione della Palestina quanto piuttosto con una strategia per rimettere in sesto il proprio leader e la sua cerchia di potere. Infatti, come ha scritto qualche giorno fa sul Guardian il docente di politica araba presso la Columbia University di New York, Joseph Massad, il riconoscimento dell’ONU ha di fatto “geograficamente ridotto lo stato palestinese dal 43% della Palestina storica previsto dalla ripartizione” del 29 novembre 1947 “a meno del 18%” odierno. Il voto ONU, perciò, assicura infine ai “coloni ebrei e ai loro discendenti l’80-90% della Palestina, lasciando il resto agli abitanti nativi, e rischia di cancellare il diritto dei profughi al ritorno nelle proprie terre”.


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