di Michele Paris

L’attentato suicida che mercoledì ha causato la morte di almeno tre membri di primo piano della cerchia di potere del presidente Bashar al-Assad sembra aver segnato una tappa decisiva nel conflitto per rovesciare il regime siriano. I tentativi occidentali di far approvare una risoluzione alle Nazioni Unite che autorizzi l’uso della forza per risolvere la crisi sono però nuovamente naufragati giovedì in seguito al veto posto ancora una volta da Russia e Cina.

Le autorevoli vittime dell’azione terroristica sono state il ministro della Difesa, il generale cristiano Dawoud Rajha, il suo vice, nonché cognato di Assad, Asef Shawkat, e il generale Hassan Turkmani, consigliere del presidente ed ex ministro della Difesa. Il ministro dell’Interno, Muhammad Ibrahim al-Shaar, era stato anch’egli incluso tra le vittime da alcuni resoconti giornalistici, anche se la Reuters, citando fonti dei servizi di sicurezza siriani, ha poi affermato che è stato soltanto ferito e si trova ora in condizioni stabili. Sopravvissuto all’attentato è anche il capo dell’intelligence, Hisham Bekhtyar.

L’esplosione è avvenuta nel corso della riunione giornaliera tenuta dai vertici del regime all’interno dell’edificio che ospita gli uffici della Sicurezza Nazionale, teoricamente tra i più sicuri e meglio protetti di Damasco. L’attentato, secondo la stampa ufficiale, sarebbe stato portato a termine da una guardia del corpo ed è stato rivendicato dal gruppo estremista islamico Liwa al-Isla (“Brigata dell’Islam”) e successivamente anche dal cosiddetto Libero Esercito della Siria. Secondo un portavoce di quest’ultimo gruppo dell’opposizione armata, l’azione di mercoledì “è solo l’inizio di una lunga serie di operazioni per distruggere Assad, il suo regime e tutti i suoi simboli e pilastri”.

L’assassinio deliberato di alcuni degli uomini più vicini al presidente conferma dunque i timori legati alla presenza tra le file dell’opposizione al regime di gruppi terroristici, verosimilmente  provenienti dai paesi vicini alla Siria. Queste cellule hanno già messo a segno nei mesi scorsi svariate operazioni eclatanti, tra cui quella del 10 maggio, quando due autobombe esplose di fronte ad un edificio dell’intelligence a Damasco fecero più di 50 vittime.

Il più recente episodio di violenza in Siria arriva dopo giorni di duri scontri tra le forze di sicurezza e i “ribelli” nella capitale, nei mesi precedenti in gran parte risparmiata dal caos diffuso in altre aree del paese. Proprio domenica, inoltre, il Comitato Internazionale della Croce Rossa ha sanzionato ufficialmente il precipitare della situazione, dichiarando il conflitto in corso una guerra civile a tutti gli effetti.

La progressiva perdita del controllo su aree sempre maggiori del paese da parte delle forze di sicurezza, assieme ad alcune recenti defezioni di ufficiali di alto livello, sembrano indicare, almeno secondo le opposizioni e i governi occidentali, che il regime sta entrando nella sua fase terminale.

Una tale evoluzione non sarebbe in ogni caso il risultato di un’ondata inarrestabile di proteste pacifiche che si sta diffondendo in tutta la Siria. L’aggravamento della situazione in Siria di queste settimane indica piuttosto come i “ribelli” possano contare su forniture di armi sempre più massicce dai propri sponsor, così come su forze straniere addette all’addestramento dei guerriglieri e, con ogni probabilità, in qualche misura anche alle operazioni sul campo. Il tutto nel quadro del piano orchestrato dagli Stati Uniti e dai loro alleati nel Golfo, in particolare Arabia Saudita e Qatar, per innalzare il livello dello scontro settario nel paese in modo da giustificare un intervento armato esterno.

Dopo i fatti di mercoledì, i governi occidentali hanno infatti ancora una volta aumentato la retorica, facendo pressioni su Assad e chiedendo a gran voce una risposta incisiva da parte della comunità internazionale. Ben pochi sono stati i commentatori che hanno fatto notare come l’innalzamento dei toni da Washington o da Londra nei confronti di Damasco in questi giorni sia singolarmente seguito ad un fatto sanguinoso ai danni del regime e non, come spesso accaduto in precedenza, alla presunta repressione di civili innocenti.

Probabilmente non a caso, l’attentato di mercoledì è giunto nel pieno delle discussioni al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sulla crisi in Siria. Il voto su una nuova risoluzione è stato oggetto di frenetiche trattative e di enormi pressioni esercitate dai governi occidentali sulla Russia e sulla Cina per approvare un testo che, oltre a prolungare di 45 giorni la missione degli osservatori promossa da Kofi Annan, consentisse l’uso della forza militare contro il regime, secondo il Capitolo VII della Carta dell’ONU, in caso di mancata applicazione delle misure previste dall’accordo sul cessate il fuoco entro dieci giorni.

La Russia e la Cina hanno come previsto posto il veto, dopo che nei giorni scorsi avevano espresso una ferma opposizione ad una soluzione che avrebbe aperto la strada ad un intervento esterno, come accadde per la Libia nel marzo del 2011. La risoluzione ha raccolto 11 voti a favore, mentre Sud Africa e Pakistan si sono astenuti.

Il voto contrario di Mosca e Pechino è stato condannato duramente dall’ambasciatore britannico all’ONU, Marc Lyall Grant, il quale ha accusato i due paesi alleati di Assad di “aver posto i propri interessi nazionali davanti alle vite di milioni di siriani”.

Il terzo fallimento da parte del Consiglio di Sicurezza nel trovare una posizione comune sulla crisi spingerà ora gli Stati Uniti e gli altri governi che appoggiano l’opposizione ad intensificare i loro sforzi nella destabilizzazione del regime, con un conseguente ulteriore innalzamento del livello di scontro nel paese.

Inoltre, come ha spiegato un analista russo all’agenzia di stampa Ria Novosti, è probabile che a breve “alcuni paesi riconosceranno ufficialmente il Consiglio Nazionale Siriano come l’unico legittimo governo” del paese mediorientale.

Il Consiglio di Sicurezza avrà ora tempo fino alla mezzanotte di venerdì per provare a trovare una soluzione alla questione dell’eventuale prolungamento della missione Annan, sospesa ormai da qualche settimana a causa del drammatico aumento del livello di violenza nel paese.

di Michele Paris

La campagna elettorale per le presidenziali americane è caratterizzata in questi giorni da toni sempre più aspri con ripetuti scambi di accuse tra i due principali candidati. Le polemiche si stanno concentrando attorno al ruolo del repubblicano Mitt Romney al vertice della compagnia operante nel “private equity” da lui fondata, Bain Capital. Le critiche provenienti dai democratici riguardano in particolare le responsabilità del miliardario mormone nell’aver contribuito ad esportare posti di lavoro dagli Stati Uniti verso paesi emergenti.

In una serie di messaggi pubblicitari, la campagna di Barack Obama ha portato al centro del dibattito politico gli anni di Romney ai vertici della sua compagnia finanziaria, durante i quali essa mise a segno svariate acquisizioni di aziende in difficoltà, per poi chiudere gli impianti sul suolo americano e riaprire nuove strutture a basso costo in Messico o altrove.

L’ex governatore repubblicano del Massachusetts e i suoi si difendono sostenendo che le politiche di “outsourcing” messe in atto da Bain Capital furono decise in gran parte negli anni immediatamente successivi al suo addio formale alla compagnia, avvenuto nel 1999 per assumere il comando dell’organizzazione dei giochi olimpici invernali del 2002 a Salt Lake City, nello Utah.

Molti giornali d’oltreoceano hanno però smentito questa versione e, la settimana scorsa, un articolo del Boston Globe ha rivelato che, secondo quanto riportato dai documenti ufficiali depositati presso la Securities and Exchange Commission (SEC), l’ente federale USA incaricato di vigilare sulla borsa americana, Romney era identificato ancora come presidente, amministratore delegato e unico proprietario di Bain Capital fino al 2001.

Quando Romney lo scorso anno rese pubbliche alcune delle sue dichiarazioni dei redditi, aveva al contrario sostenuto di non aver ricoperto alcun ruolo dirigenziale nella compagnia dopo il 1999. Le accuse di aver mentito devono avere creato il panico nell’organizzazione di Romney. Il candidato repubblicano alla Casa Bianca, infatti, nel fine settimana è insolitamente apparso in una serie di interviste sui principali network americani per cercare di limitare i danni.

Le difficoltà nel trovare una spiegazione plausibile sono emerse chiaramente dalle parole del consigliere di Romney, Ed Gillespie, il quale domenica alla CNN ha dichiarato che il suo superiore si era “ritirato retroattivamente nel febbraio 1999” da Bain Capital. Una definizione a dir poco singolare del “pensionamento” di Romney che è subito rimbalzata sui media americani, danneggiando ulteriormente la credibilità del candidato.

I democratici chiedono ora insistentemente la pubblicazione delle sue dichiarazioni dei redditi relative agli anni in questione, cosa che Romney per il momento ha rifiutato di fare. Con ogni probabilità il suo team considera meno dannose le critiche per la mancata trasparenza rispetto alla rivelazione dei modi, sia pure legali, con cui lo sfidante di Obama per la presidenza ha accumulato una fortuna stimata in oltre 250 milioni di dollari.

Secondo molti commentatori americani di area conservatrice, il danno maggiore per Romney deriverebbe dal fatto che è la campagna di Obama che sta definendo i contorni del candidato repubblicano, ancora prima che egli stesso sia stato in grado di proporre agli elettori un’immagine di se stesso.

E la forma che sta prendendo la figura di Romney in seguito alla campagna mediatica democratica è tutt’altro che positiva. L’immagine che ne esce, peraltro in gran parte corrispondente alla realtà, è quella di un uomo d’affari senza scrupoli, pronto a distruggere migliaia di posti di lavoro per massimizzare i profitti e che, oltretutto, ha nascosto parte delle proprie ricchezze in paradisi fiscali all’estero.

La polemica attorno a Bain Capital è stata alimentata dallo stesso Obama nella giornata di lunedì durante un comizio a Cincinnati, nell’Ohio, non a caso uno stato in bilico in vista di novembre e con una forte presenza di operai del settore manifatturiero.

Riferendosi alla proposta del suo rivale di azzerare il carico fiscale sui profitti delle corporation realizzati all’estero, il presidente democratico ha ricordato la recente apparizione di “un nuovo studio condotto da alcuni economisti indipendenti che sostiene che il piano economico del governatore Romney potrebbe creare 800 mila posti di lavoro. C’è solo un problema”, ha aggiunto Obama incitando il pubblico presente, “i posti di lavoro creati non saranno negli Stati Uniti”.

Romney da parte sua ha cercato di contrattaccare con un nuovo spot elettorale nel quale mette in discussione l’integrità etica del presidente, accusato apertamente di avere destinato risorse economiche federali ai propri sostenitori politici. Nonostante lo sforzo, tuttavia, appare chiaro che l’inerzia della campagna elettorale, quanto meno nel dibattito in corso sui media mainstream, si sia spostata per il momento a favore di Obama.

L’intera polemica sull’outsourcing, come sostanzialmente tutta la lunga campagna che porterà al voto di novembre, è in ogni caso del tutto artificiosa. Le accuse contro Romney da parte democratica intendono presentare il presidente come il paladino della classe media, proponendo cioè una caratterizzazione che sfiora l’assurdo, dal momento che, al di là dei proclami e della retorica populista, Obama e il suo partito rappresentano esclusivamente quelle sezioni delle élite economico-finanziarie americane non allineate al Partito Repubblicano.

Ciò è dimostrato anche dal fatto che le critiche di Obama a Romney si limitano al comportamento tenuto da quest’ultimo in veste di top manager e non mettono invece nemmeno lontanamente in discussione l’interno sistema e l’edifico legale che continua a consentire pratiche predatorie come quelle messe in atto da Bain Capital.

di Michele Paris

Uno dei paesi che negli ultimi anni ha attirato maggiormente l’attenzione degli Stati Uniti è senza dubbio lo Yemen. L’impoverito paese della Penisola Arabica, a partire dallo scorso anno, è stato anch’esso attraversato da un massiccio movimento popolare di protesta che, come altrove, si è risolto in una soluzione inoffensiva per gli interessi di Washington. Le manifestazioni contro il regime trentennale di Ali Abdullah Saleh, già stretto alleato degli USA, sono infatti finite con la deposizione del presidente grazie ad una iniziativa patrocinata da quegli stessi americani che continuano a mantenere uno stretto controllo sulle sorti dello Yemen.

A mettere in luce come il presunto nuovo corso del quadro politico yemenita sia manovrato in gran parte dagli USA è stato un articolo pubblicato la settimana scorsa dal quotidiano libanese Al Akhbar. L’intermediario tra l’amministrazione Obama e il nuovo regime è rappresentato dall’ambasciatore americano a Sana’a, Gerald Feierstein, che la testata libanese non esita a definire “il nuovo dittatore” del paese più povero dell’intero mondo arabo.

La realtà dello Yemen smentisce in maniera clamorosa ogni pretesa da parte di Washington di aver favorito una transizione democratica in seguito ai disordini provocati dalla rivolta esplosa sull’onda della Primavera Araba. Con il presidente Saleh deciso a rimanere al potere ad ogni costo, dopo lunghe trattative gli Stati Uniti e i paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC), con Arabia Saudita in prima fila, qualche mese fa erano finalmente riusciti a trovare un accordo per sbloccare la situazione di stallo.

Grazie alla cosiddetta “Iniziativa del Golfo”, infatti, Saleh ha accettato di farsi da parte, così che lo scorso febbraio sono potute andare in scena elezioni-farsa che hanno portato al potere il suo vice, Abd Rabbuh Mansour al-Hadi, solo ed unico candidato ad apparire sulle schede elettorali.

La “transizione” senza scosse pilotata da Washington e Riyadh ha fatto in modo che la situazione non sfuggisse di mano ai due paesi che esercitano la maggiore influenza sullo Yemen, così da evitare un contagio della rivolta in Arabia Saudita e poter mantenere il controllo su un paese situato in posizione strategica nella Penisola Arabica. L’importanza dello Yemen è d’altra parte testimoniata dal coinvolgimento degli Stati Uniti, i quali hanno rafforzato i legami con il regime e avviato una intensa campagna militare per mezzo dei droni. Il pretesto per l’interventismo USA in Yemen è dato dalla presenza nel paese di Al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP), secondo la propaganda ufficiale l’organizzazione terroristica attualmente più pericolosa per la sicurezza americana e dell’Occidente.

In questo modo, lo Yemen sembra essere diventato poco più che un protettorato degli Stati Uniti, come conferma, ad esempio, la vicenda descritta da Al Akhbar del giornalista Abdel Ilah Shaeh, condannato a 5 anni di carcere per aver rivelato che un attacco con un drone americano nel dicembre 2009 aveva causato la morte di 35 tra donne e bambini.

In un’apparizione alla TV yemenita, l’ambasciatore Feierstein ha recentemente dichiarato che gli USA “non avrebbero permesso” la liberazione di Shaeh poiché, a causa dei suoi presunti legami con Al-Qaeda, il giornalista rappresenta una minaccia per gli Stati Uniti. Secondo Al Akhbar, questa è stata la seconda volta che gli USA hanno messo il veto sulla scarcerazione di Shaeh, il quale aveva ottenuto la grazia dal presidente Saleh prima dello scoppio della rivolta nel paese. La prima fu tramite una telefonata di Barack Obama allo stesso Saleh.

Inoltre, quando un gruppo di giornalisti yemeniti ha tenuto una marcia di protesta contro la mancata liberazione del collega davanti all’ambasciata USA di Sana’a, in molti hanno notato veicoli delle forze di sicurezza locali, utilizzate per il trasferimento di prigionieri, entrare nell’ambasciata stessa, con ogni probabilità per trasportare da una vicina struttura detentiva sospettati di terrorismo da sottoporre a interrogatori ad opera di personale americano.

L’ambasciatore Feierstein è stato bersaglio di accese critiche anche per una serie di lettere, pubblicate recentemente dalla stampa yemenita, inviate al ministro degli Interni, Abdul Qadir Qathan, per “suggerirgli” alcuni cambiamenti ai vertici delle forze di sicurezza, necessari per mantenere la pace nel paese. Feierstein, infine, appare costantemente sui media locali dove, violando le consuete regole diplomatiche, discute apertamente le questioni politiche all’ordine del giorno in Yemen. Per Al Akhbar, in definitiva, il potente ambasciatore americano “ha assunto di fatto un ruolo di governo in Yemen, agevolando il progresso ma solo nella misura in cui esso non contrasti con gli interessi USA”.

Il ruolo di Feierstein riflette l’intreccio esistente tra Washington e Sana’a, un rapporto fondamentale per la salvaguardia degli interessi di entrambi i governi. Come ha spiegato il ricercatore di Princeton, Gregory Johnsen, in un’intervista all’agenzia di stampa IPS a fine giugno, “il presidente Hadi e Obama si trovano in un rapporto di mutua dipendenza sempre più profondo.

Quando Hadi è salito al potere non aveva una base di supporto sicura in Yemen, perciò aveva bisogno dell’appoggio americano e della comunità internazionale. Allo stesso tempo, gli USA necessitavano di Hadi per continuare a colpire AQAP” o, meglio, per mantenere la propria influenza sul paese della Penisola Arabica.

Precisamente per quest’ultimo scopo, Washington ha promosso assieme all’Arabia Saudita l’Iniziativa del Golfo, cioè l’accordo che ha rimosso il presidente Saleh, tanto che recentemente Obama ha emesso un decreto esecutivo che consente agli Stati Uniti di adottare misure punitive contro qualsiasi individuo o gruppo che ostacoli l’implementazione dell’accordo stesso.

La difesa dei termini dell’Iniziativa del Golfo, assieme alla minaccia terroristica, hanno così fornito agli USA la giustificazione per intervenire in maniera diretta a fianco del regime yemenita, trovandosi ufficialmente a combattere con organizzazioni estremiste che, in realtà, risultano essere in gran parte forze di resistenza che si oppongono al governo centrale, come i separatisti attivi nel sud del paese e i ribelli sciiti a nord.

L’impegno americano in Yemen continua in ogni caso a crescere sia in termini di aiuti finanziari sia dal punto di vista militare. Un articolo del Los Angeles Times del 21 giugno scorso ha ad esempio rivelato che Washington starebbe addirittura valutando la possibilità di inviare per la prima volta nel paese aerei militari americani per facilitare il movimento delle truppe governative nelle zone coinvolte nel conflitto con Al-Qaeda nella Penisola Arabica. Questo ulteriore sforzo per aiutare il regime a soffocare il dissenso interno arriverebbe in aggiunta alle decine di truppe delle Operazioni Speciali americane da tempo presenti in territorio yemenita.

Dietro le apparenze di cambiamento, insomma, il regime che guida lo Yemen e i rapporti con i propri sponsor internazionali rimangono pressoché immutati anche dopo le oceaniche manifestazioni di protesta dell’ultimo anno e mezzo.

Non solo Saleh e il suo clan continuano a mantenere un forte ascendente sulla vita politica del paese, ma la transizione voluta dagli USA e dall’Arabia Saudita ha fatto in modo che a tutt’oggi non sia stata avviata alcuna forma di dialogo nazionale tra il governo, le opposizioni e la società civile. Allo stesso modo, non è stata approvata una nuova Costituzione né sono state indette elezioni credibili.

La strategia americana e dei paesi del Golfo in Yemen rischia perciò di risolversi in una ricetta che finirà per alimentare sempre maggiore instabilità e malcontento in un paese che fa segnare un livello ufficiale di disoccupazione superiore al 40 per cento.

L’insofferenza verso il regime, infatti, rimane intatta, mentre la campagna di assassini condotta con i droni contribuisce a diffondere tra la popolazione un odio sempre più profondo verso gli Stati Uniti e i loro alleati.

di Michele Paris

Il tour in Asia orientale del Segretario di Stato americano, iniziato domenica scorsa a Tokyo, si concluderà in questi giorni con la sua partecipazione al vertice dell’Associazione dei Paesi del Sud-Est Asiatico (ASEAN) a Phnom Penh, in Cambogia. La trasferta di Hillary Clinton fa parte della strategia adottata da alcuni anni a questa parte dall’amministrazione Obama per riproporre una presenza aggressiva degli Stati Uniti in questo continente, con l’obiettivo principale di contenere la crescente espansione della Cina nella regione.

L’arrivo della ex first lady in Cambogia è stato preceduto da una storica visita nel Laos, dove un Segretario di Stato USA non metteva piede dal 1955. Devastato dai bombardamenti americani nel corso della Guerra del Vietnam per il sostegno fornito dalla guerriglia del Pathet Lao al Vietnam del Nord, questo paese intrattiene rapporti molto stretti con Pechino. La Cina in questi anni ha assicurato al regime stalinista al potere in Laos centinaia di milioni di dollari in programmi assistenziali, mentre gli investimenti diretti nei settori minerario, energetico e agricolo superano i 4 miliardi di dollari.

Nella capitale, Vientiane, la Clinton ha incontrato il premier e il ministro degli Esteri laotiani, con i quali ha discusso la possibilità di aprire il paese agli investimenti americani, mentre ha lasciato intendere che in cambio Washington potrebbe appoggiare un futuro ingresso del Laos nell’Organizzazione Mondiale del Commercio.

In Laos rimane una certa diffidenza nei confronti degli Stati Uniti, responsabili di una strage silenziosa dovuta alla quantità enorme di bombe inesplose risalenti al conflitto in Vietnam e che dalla fine delle ostilità hanno fatto almeno 20 mila vittime. Come in altri paesi vicini, tuttavia, anche il Laos è disponibile ad instaurare rapporti amichevoli con Washington, così da svincolarsi dai legami di dipendenza con Pechino.

L’esempio più lampante in questo senso è quello del Myanmar, anch’esso meta di una recente visita di Hillary Clinton. Proprio questa settimana, la Casa Bianca  ha annunciato lo smantellamento delle restrizioni agli investimenti nella ex Birmania per le proprie aziende. Una mossa annunciata quella americana che arriva ufficialmente in risposta alle “riforme” democratiche portate avanti dal regime nominalmente civile al potere dopo le elezioni del 2010, ma che in realtà serve per intensificare i rapporti con un paese strategicamente fondamentale per gli interessi cinesi. A suggellare il nuovo corso nelle relazioni dei due paesi, la Clinton incontrerà nuovamente il presidente birmano, Thein Sein, nella giornata di venerdì in Cambogia a margine del vertice ASEAN.

In precedenza, oltre che in Giappone il Segretario di Stato USA ha fatto visita anche in Mongolia e in Vietnam. Nel paese al confine settentrionale cinese, pur senza nominare esplicitamente Pechino, Hillary ha rilasciato dichiarazioni inequivocabili, criticando quei paesi che ancora negano i diritti democratici dei propri cittadini. In Vietnam, invece, la questione dei diritti umani è stata toccata solo marginalmente, mentre l’incontro con le autorità locali è stata l’occasione per sottolineare il crescente volume di scambi commerciali tra i due paesi.

Come gesto di sfida nei confronti della Cina, inoltre, gli Stati Uniti appoggiano più o meno apertamente le rivendicazioni vietnamite su alcune isole nel Mar Cinese Meridionale che Pechino considera parte del proprio territorio. Nella più recente provocazione, con ogni probabilità con il consenso USA, il Vietnam ha ad esempio approvato una nuova legge che afferma la propria sovranità sulle isole di Spratly e Paracel, rivendicate appunto anche dalla Cina.

Le dispute attorno alle acque e alle isole nel Mar Cinese Meridionale rappresentano la causa principale delle tensioni tra la Cina e paesi come Filippine, Vietnam, Brunei, Taiwan e Malaysia, nonché indirettamente con gli Stati Uniti. Le Filippine, in particolare, con il sostegno americano sono coinvolte da aprile in una crisi navale con Pechino attorno ad un gruppo di isole contese al largo delle proprie coste nord-occidentali.

Su tale questione gli Stati Uniti fanno leva per aumentare le pressioni sulla Cina e, almeno a partire dal vertice ASEAN del 2010, promuovono un negoziato multilaterale per risolvere le varie dispute. Una simile soluzione è precisamente quanto aborrisce Pechino, da dove si preferisce piuttosto cercare soluzioni bilaterali senza l’intrusione di paesi terzi.

In un’altra conferenza ASEAN, tenuta nel novembre 2011 a Bali, in Indonesia, anche il presidente Obama aveva insistito su questo punto e, a fronte delle obiezioni cinesi, aveva spinto sui paesi membri per aprire una discussione attorno alle dispute nel Mar Cinese Meridionale. La stessa posizione è stata ribadita giovedì da Hillary Clinton e, infatti, l’ASEAN ha deciso di mettere all’ordine del giorno del summit un codice di condotta per regolare le dispute territoriali nella regione, anche se i paesi membri non sono riusciti a raggiungere un accordo condiviso.

Per Pechino, il Mar Cinese Meridionale riveste un’importanza strategica fondamentale, dal momento che da esso transitano rotte commerciali vitali per la Cina e, oltretutto, al di sotto di queste acque sono conservate ingenti risorse energetiche. All’apertura del vertice ASEAN, in ogni caso, Hillary ha sostenuto che “gli Stati Uniti non intendono prendere le parti di nessun paese nelle contese territoriali”, anche se, come è evidente, paesi come Filippine o Vietnam, alla luce della loro evidente inferiorità militare nei confronti di Pechino, difficilmente rischierebbero azioni provocatorie verso la Cina senza essere certi del sostegno americano.

A questa iniziativa ASEAN, come era prevedibile, la Cina ha risposto molto duramente. Un’editoriale pubblicato mercoledì dall’agenzia di stampa Xinhua ha avvertito i ministri riuniti in Cambogia a non farsi distrarre dalle questioni relative al Mar Cinese Meridionale, dal momento che l’ASEAN non è la sede adatta per discuterne.

Le dispute nelle acque al largo della Cina potrebbero facilmente sfociare in un aperto conflitto. Gli episodi che certificano le tensioni tra i vari paesi sono estremamente frequenti e il più recente è stato registrato mercoledì, quando una nave da ricognizione cinese è entrata nelle acque rivendicate da Tokyo nei pressi delle isole Diaoyu (Senkaku per i giapponesi) nel Mar Cinese Orientale. Il governo nipponico ha fatto intervenire la propria Guardia Costiera e ha successivamente convocato l’ambasciatore cinese a Tokyo, al quale è stata presentata una protesta formale.

Lo scontro è giunto in seguito non solo alla già ricordata visita di Hillary Clinton in Giappone ma anche all’uscita del premier Yoshihiko Noda che qualche giorno fa aveva proposto l’acquisto da parte dello stato delle suddette isole, attualmente proprietà di privati. Anche se smentito ufficialmente, è estremamente probabile che la mossa del primo ministro nipponico, subito criticata da Pechino, abbia trovato quanto meno l’approvazione del Segretario di Stato americano.

La rinnovata intraprendenza degli Stati Uniti in Asia sud-orientale in funzione anti-cinese non si limita al rafforzamento dei rapporti commerciali e diplomatici con gli alleati tradizionali o all’apertura di nuovi canali di comunicazione con paesi finora molto vicini alla Cina. Anche sul fronte militare Washington sta facendo sentire la propria presenza in quest’area cruciale del pianeta.

Lo scorso anno, ad esempio, Obama ha siglato con l’Australia un accordo che consente agli USA di dispiegare a rotazione un contingente militare in una base nel nord del paese, mentre da qualche tempo sono in corso trattative per riaprire una base permanente nelle Filippine. Con quest’ultimo paese, così come con il Vietnam, sono inoltre andate in scena svariate esercitazioni militari in questi mesi, tutte con un occhio alla Cina.

Lo scorso mese di giugno, infine, il Segretario alla Difesa, Leon Panetta, durante una conferenza a Singapore ha dichiarato che, nell’ambito della nuova politica asiatica dell’amministrazione Obama, gli USA entro il prossimo decennio schiereranno nelle regione Asia orientale/Oceano Pacifico almeno il 60 per cento delle proprie forze navali, pronte a intervenire in caso di conflitto con il principale rivale americano sullo scacchiere internazionale.

di Michele Paris

Il caos politico-istituzionale che sta travagliando l’Egitto del dopo Mubarak si è ulteriormente aggravato in questi ultimi giorni con l’intensificarsi delle tensioni tra il presidente islamista Mohamed Mursi e il Consiglio Supremo delle Forze Armate (CSFA), vero detentore del potere nel paese nord-africano. L’ultimo capitolo dello scontro esploso dopo le recenti elezioni presidenziali tra i militari e i Fratelli Musulmani era iniziato domenica scorsa, quando Mursi aveva emesso un decreto per reinsediare il Parlamento, sciolto dal CSFA alla vigilia del ballottaggio del 16 e 17 giugno nell’ambito di un vero e proprio colpo di stato.

In risposta alla mossa del presidente, lunedì i militari hanno confermato la dissoluzione del Parlamento, ordinata il 14 giugno in seguito ad una sentenza della Corte Costituzionale, la quale aveva rilevato irregolarità nelle procedure di assegnazione di un terzo dei seggi della stessa assemblea legislativa dominata dai Fratelli Musulmani. Parallelamente allo scioglimento del Parlamento, il CSFA aveva assunto di fatto i pieni poteri nel paese, incluso quello di controllo sulla legislatura, sulle questioni di bilancio e sulla stesura della nuova carta costituzionale.

Con il pericolo di uno scontro aperto tra militari e islamisti, nonché del riesplodere delle proteste di piazza, le potenze occidentali, con Washington in testa, si sono mosse tempestivamente per spingere le due parti ad un compromesso, così da proseguire con un processo di “transizione” che salvaguardi i loro interessi strategici, a cominciare dal rispetto del trattato di pace tra Egitto e Israele del 1979.

Con ogni probabilità dietro consiglio americano, dunque, Mursi e il Parlamento si sono mossi con una certa cautela, evitando di sfidare frontalmente la giunta militare. L’assemblea legislativa si è così riunita martedì in una seduta di appena 15 minuti, durante la quale è stata presa soltanto la decisione di presentare appello contro la già ricordata sentenza della Corte Costituzionale.

Il presidente del Parlamento, Saad El-Katatny, ha tenuto a chiarire che l’assemblea si è riunita unicamente per “considerare il verdetto della Corte” e per “cercare un meccanismo che consenta di implementare la sentenza” stessa. Lo stesso presidente, peraltro, aveva attenuato la portata del suo decreto di domenica scorsa, affermando che esso non contraddiceva la sentenza della Corte Costituzionale, bensì ne ritardava soltanto l’applicazione, dal momento che ordinava nuove elezioni entro due mesi dalla ratifica di una nuova Costituzione.

La disponibilità a scongiurare un confronto con i Fratelli Musulmani da parte dei militari è stata dimostrata invece dal fatto che le forze di sicurezza hanno consentito ai deputati l’accesso all’edificio che ospita il Parlamento al Cairo per la seduta di martedì, mentre nei giorni precedenti l’ingresso era stato impedito.

Alla convocazione del Parlamento, in ogni caso, la Corte Costituzionale ha risposto duramente e, nella giornata di martedì, ha convocato una riunione di emergenza, in seguito alla quale ha confermato la sua prima sentenza, minacciando inoltre azioni legali contro il presidente Mursi se continuerà ad ignorare la decisione del supremo tribunale.

Il conflitto che sta opponendo la giunta militare con poteri pressoché dittatoriali e i Fratelli Musulmani in Egitto riflette le rivalità tra le due principali fazioni delle élite di potere del paese. Sia il Consiglio Supremo delle Forze Armate che la principale organizzazione islamista egiziana rappresentano forze che vantano importanti interessi economici ma con obiettivi contrastanti.

I militari da decenni controllano svariati settori dell’economia in Egitto e vedono con sospetto e timore la crescente influenza nel paese e sulle istituzioni dello stato dei Fratelli Musulmani e del loro partito Libertà e Giustizia.

Questi ultimi, infatti, appoggiano a loro volta un processo di ulteriore liberalizzazione e privatizzazione dell’economia con l’apertura del paese al capitale straniero. Una prospettiva, questa, che viene vista dai vertici militari come una minaccia ai loro privilegi ottenuti durante il regime di Mubarak.

Nonostante questa divergenza di interessi, tuttavia, lo scontro tra il CSFA e i Fratelli Musulmani sembra rimanere per il momento entro certi limiti. Ciò è dovuto soprattutto al sostanziale accordo tra le due parti, così come tra gli altri partiti di ispirazione secolare e islamista, sulla necessità di completare un qualche processo di transizione che blocchi sul nascere l’eventualità di una seconda rivoluzione o qualsiasi altro rigurgito di protesta proveniente dalle classi più disagiate, protagoniste assolute della caduta di Mubarak ma le cui aspettative nel nuovo Egitto appaiono ancora ampiamente disattese.


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