di Rosa Ana De Santis

Breve, come preannunciato, il Conclave è arrivato, questa sera di mercoledì 13 marzo, alla tanto attesa fumata bianca, nella seconda giornata delle votazioni solenni. Roma si riempie di pellegrini, mentre il nuovo Papa, Francesco I, Jorge Mario Bergoglio, saluta dalla casa di Pietro la sua Chiesa. Arcivescovo di Buenos Aires, gesuita, è il primo papa sudamericano nella storia della Chiesa. Non era tra i favoriti, il suo nome non era nemmeno considerato come possibile outsider per la nomina.

“Mi hanno preso alla fine del mondo” - esordisce il nuovo Pontefice - ricordando  con un’efficace immagine i luoghi e la storia da cui proviene: quel Sud delle sue origini che insieme alla scelta del nome, ispirata al santo di Assisi, rimanda il popolo dei credenti e non solo alla speranza che siano i poveri ad entrare in Vaticano.

La sua storia, fatta di studi di filosofia e letteratura, è segnata da tappe simboliche importanti, quale quella dell’anno santo 2000 in cui richiamò platealmente le responsabilità della Chiesa argentina ai tempi della genocida dittatura militare. Sebbene critico nei confronti di quei confratelli gesuiti che hanno aperto le porte alla Teologia della liberazione, è comunque sempre stato “resistente” alla Chiesa degli incarichi curiali, ai lussi e ad un certo sfarzo di circostanza del potere ecclesiastico.

Una vita modesta e semplice lo ha sempre contraddistinto fino al punto di ordinare ai suoi compatrioti, quando fu nominato cardinale, di rimanere in Argentina e donare ai poveri i soldi raccolti per finanziare il viaggio di partecipazione alla cerimonia di Roma. La riforma della Curia, iniziata da Ratzinger, sul quale otto anni fa Bergoglio vicino per un soffio alla soglia papale aveva fatto convogliare i voti, trova ora nelle mani della Chiesa del Sud del mondo un suo prosecutore dai tratti senza dubbio innovativi e per alcuni versi di rottura.

Non è un caso che le parole di saluto vadano al papa emerito, Benedetto XVI, quasi con la promessa di proseguire l’opera di rinnovamento profondo che Ratzinger per primo aveva avviato e solo parzialmente portato allo scoperto.

La scelta dei cardinali conferma che la Chiesa ha bisogno di rimanere sulla rotta del cambiamento e i 77 anni del nuovo Pontefice non inficiano, in controtendenza con l’onda dello sciocco giovanilismo tanto in voga nella politica nazionale, la speranza che un francescanesimo-pensiero pervada il cuore della Chiesa cattolica con quel rigore che la formazione dei gesuiti vanta nella storia del pensiero teologico.

Non può non cogliersi un riconoscimento al ruolo e al peso della comunità cattolica latinoamericana nel quadro generale della chiesa e il vento di rinnovamento radicale di cui l’America Latina è portatrice non pare alieno alla scelta. E, nello stesso tempo, appare nello specifico un riconoscimento proprio ai gesuiti, che nella chiesa latinoamericana svolgono da sempre un ruolo di guida spirituale universalmente apprezzato.

Semplice, spontaneo, con un lapsus che lo ha reso da subito vicino alla piazza quando ha salutato i fedeli con un “ci vediamo domani” e con la singolare richiesta della benedizione di tutti i cattolici oltre che della sua ai suoi fedeli, Francesco I è già un papa della storia. E’ la prima volta che un papa dimissionario vede in tv la nomina del suo successore, è la prima volta che sia papa un cardinale della periferia del mondo che gira in autobus e metropolitane. E’ la prima volta di un Francesco.

“Domine, adiuva eum et nos omnes” pensa il fedele raccolto in preghiera a Piazza san Pietro. Quello cui il nuovo pastore ha chiesto una preghiera per Benedetto XVI in ritiro a Castel Gandolfo. Preghiera per il coraggio di traghettare una Chiesa in tempesta verso quella bella seduzione del bene, quella fratellanza più volte richiamata nel saluto solenne di questa sera, che assomiglia già, almeno questa la speranza, alla forza di una rivoluzione. Anche quella di chiamarsi come il fraticello di Assisi: pura incarnazione di Gesù tornato a riportare candore nel tempio.

di Mario Lombardo

Il prolungato assalto ai diritti democratici in Ungheria, messo in atto dal governo conservatore del premier Viktor Orbán, ha fatto segnare questa settimana un altro passo avanti quando il Parlamento di Budapest ha approvato a larga maggioranza una nuova serie di emendamenti alla Costituzione del paese. La più recente iniziativa del partito di potere Fidesz ha suscitato le dure critiche dei burocrati di Bruxelles e degli Stati Uniti, preoccupati però non tanto per l’erosione della democrazia in questo paese quanto per la crescente retorica populista e anti-europeista del primo ministro ungherese.

Nonostante gli avvertimenti lanciati dai vertici dell’Unione Europea nei giorni scorsi, le modifiche costituzionali hanno ottenuto il via libera nella giornata di lunedì grazie al voto favorevole di 265 parlamentari. 11 sono stati i contrari e 33 gli astenuti, mentre la gran parte dei deputati socialisti dell’opposizione ha disertato la seduta in segno di protesta. Grazie alla maggioranza schiacciante ottenuta da Fidesz nelle elezioni del 2010, il partito di governo può contare sui due terzi dei 386 seggi del Parlamento, approvando a piacimento qualsiasi cambiamento alla carta costituzionale.

Una delle modifiche più discusse è quella che impedisce alla Corte Costituzionale di prendere in considerazione la legittimità degli emendamenti alla Costituzione, così come di utilizzare nei propri procedimenti i precedenti legali anteriori alla cosiddetta “legge fondamentale”, ovvero la nuova Costituzione, entrata in vigore il primo gennaio del 2012. Lo scontro tra l’esecutivo guidato da Orbán e la Corte Costituzionale ungherese ha caratterizzato i quasi tre anni del governo conservatore e alcune delle stesse modifiche appena adottate erano state respinte dal supremo tribunale nei mesi scorsi.

Tra le altre modifiche costituzionali vi sono poi la definizione del matrimonio come un’unione esclusiva tra persone di sesso opposto, il divieto ai media privati di pubblicare o trasmettere spot elettorali alla vigilia degli appuntamenti con le urne, la facoltà concessa alle autorità locali di punire o arrestare i senzatetto in nome della pubblica sicurezza, l’obbligo di rimanere in Ungheria per gli studenti che ottengono una borsa di studio pubblica, pena la restituzione dell’intera somma, e nuovi limiti alla libertà di stampa e di espressione in nome della difesa della “dignità umana di comunità etniche, razziali e religiose”.

In previsione del voto in Parlamento, la settimana scorsa erano andate in scena delle manifestazioni di protesta contro il governo, in particolare di fronte alla sede del partito del premier nella capitale.

Sempre lunedì, poi, migliaia di manifestanti sono tornati in piazza, chiedendo al presidente Janos Ader, anch’egli di Fidesz, di non firmare le modifiche alla Costituzione appena approvate dal Parlamento. Ader, da parte sua, ha fatto sapere che esprimerà il proprio parere sulle misure al ritorno da una visita di stato in Germania, ma, vista la vicinanza ad Orbán, appare scontato il suo via libera agli emendamenti.

I manifestanti che hanno protestato contro il governo, in ogni caso, sono stati accolti da un massiccio dispiegamento delle forze di sicurezza, comprese le speciali unità dell’anti-terrorismo, che hanno sbarrato la strada alle dimostrazioni dirette verso il palazzo presidenziale.

Come già anticipato, la condanna internazionale del governo Orbán e delle modifiche costituzionali non si è fatta attendere. Subito dopo il voto del Parlamento, l’Unione Europea e il Consiglio d’Europa hanno emesso un comunicato congiunto per esprimere le proprie preoccupazioni, visto che sono rimasti inascoltati i loro appelli a rivedere il contenuto degli emendamenti.

Da Washington, la portavoce del Dipartimento di Stato americano, Victoria Nuland, ha a sua volta avvertito che i provvedimenti voluti da Fidesz in Ungheria “potrebbero minacciare i principi di indipendenza istituzionale, i sistemi di controllo e la divisione dei poteri che sono la caratteristica distintiva di una democrazia”. Per il New York Times, più in generale, la vicenda ungherese sta “mettendo inoltre in luce tutti i limiti dell’Unione Europea nel richiamare all’ordine un paese membro che trasgredisce alle proprie norme democratiche”.

In realtà, l’evoluzione del governo conservatore di Budapest sta confermando piuttosto come un’Unione Europea creata interamente al fine di promuovere i grandi interessi economici e finanziari non possa fare sostanzialmente nulla per impedire la deriva autoritaria di un paese che ne fa parte.

Anzi, le lezioni di democrazia impartite al governo ungherese dal presidente della Commissione Europea, José Manuel Barroso, e dai suoi colleghi suonano totalmente vuote, dal momento che le autorità di Bruxelles sono responsabili esse stesse dell’imposizione di misure profondamente anti-democratiche che stanno devastando il tessuto sociale dei paesi messi in maggiore difficoltà dalla crisi economica in atto, a cominciare da Grecia e Portogallo.

Ancora più cinica, se possibile, è la presa di posizione degli Stati Uniti, il cui messaggio di condanna del governo Orbán è giunto, ad esempio, pochi giorni dopo la discussione al Senato di Washington della facoltà auto-assegnatasi dal presidente Obama di assassinare senza prove né processo chiunque venga sospettato di legami con il terrorismo internazionale, cittadini americani compresi.

La svolta autoritaria del governo ungherese, in ogni caso, è iniziata fin dall’ascesa al potere della formazione conservatrice Fidesz nel 2010, resa possibile in primo luogo dall’impopolarità e dal discredito del precedente gabinetto a maggioranza socialista.

Assieme alla riscrittura della Costituzione, Viktor Orbán e il suo partito hanno lavorato da subito alla concentrazione dei poteri nelle mani dell’esecutivo, mettendo in atto “riforme” in ambito economico e giudiziario, ma anche nuove leggi che limitano drasticamente la libertà di stampa. In particolare, un duro confronto con l’Europa è avvenuto sulla riduzione dell’indipendenza della Banca Centrale ungherese, alla cui guida il primo marzo scorso Orbán ha nominato il suo ex ministro dell’Economia, Gyorgy Matolcsy, al posto del precedente governatore con il quale il premier si era frequentemente scontrato.

Le critiche degli ambienti di potere internazionale sono comunque dovute in gran parte ai toni e alle iniziative populiste di Orbán, il quale continua a sfruttare la profonda opposizione tra gli ungheresi alle politiche di austerity dettate da Bruxelles e dal Fondo Monetario Internazionale, con il quale il governo di Budapest ha da qualche tempo rotto le trattative che erano in corso per ottenere un pacchetto di aiuti economici a favore del paese mitteleuropeo.

In risposta al coro di proteste seguite alle modifiche alla Costituzione, nella giornata di martedì Orbán ha così riproposto le consuete tirate nazionaliste e anti-UE, affermando ad esempio che l’Ungheria ha troppi creditori stranieri e promettendo alle aziende locali di convertire i loro debiti in valuta estera in prestiti in fiorini. Inoltre, il premier ha anche annunciato di volere creare un sistema bancario domestico pubblico, facendo perciò intravedere, secondo quanto riportato dalla Reuters, una svolta rispetto alle politiche neo-liberiste che hanno contraddistinto nell’ultimo decennio i governi dei paesi dell’ex blocco sovietico.

Una simile strategia non può però nascondere la vera natura del governo di estrema destra del premier Viktor Orbán, impegnato fin dal suo primo mandato alla guida del paese tra il 1998 e il 2002 a indebolire le strutture democratiche dell’Ungheria per consolidare il potere dell’esecutivo. Una tendenza marcatamente autoritaria, quella del leader di Fidesz, confermata anche dopo il trionfo elettorale del 2010 ma accompagnata ora ad una retorica populista di facciata per fare leva sul più che giustificato malcontento domestico verso le istituzioni europee e le rovinose politiche di rigore che esse continuano a promuovere senza scrupoli in tutto il continente.

di Michele Paris

L’inizio di questa settimana ha segnato un ulteriore pericoloso passo avanti nell’escalation di minacce e contro-minacce nella penisola coreana tra Pyongyang e il governo di Seoul sostenuto dagli Stati Uniti. A scatenare nuovamente le ire del sempre più isolato regime del giovane leader Kim Jong-un sono state le ulteriori sanzioni contro il suo paese approvate settimana scorsa dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite in risposta al test nucleare nordcoreano di febbraio, seguite dall’avvio delle annuali esercitazioni militari tra la Corea del Sud e il contingente americano nella penisola.

Innalzando sensibilmente i toni delle consuete minacce, il regime stalinista di Pyongyang aveva avvertito Seoul e Washington a non procedere con le esercitazioni, in caso contrario la Corea del Nord si sarebbe riservata di esercitare il proprio diritto a condurre un attacco nucleare preventivo per difendere il paese.

Con la partecipazione di 10 mila soldati sudcoreani e 3 mila americani, l’esercitazione “Key Resolve” è invece regolarmente iniziata nella giornata di lunedì, aggiungendosi a quella denominata “Foal Eagle”, scattata il primo marzo scorso e destinata a durare fino alla fine di aprile. I comandi delle forze armate di Sud Corea e Stati Uniti hanno fatto sapere di avere avvertito Pyongyang dell’esercitazione già il 21 febbraio scorso, anche se la nuova iniziativa nel bel mezzo della grave crisi diplomatica in atto è comunque suonata come un’ulteriore provocazione per il regime di Kim.

Lunedì, infatti, per tutta risposta quest’ultimo ha annunciato due misure che rischiano di aggravare le tensioni già ben al di sopra dei livelli di guardia. Dando seguito alla minaccia lanciata qualche giorno fa, il principale quotidiano nordcoreano, Rodong Sinmun, ha riferito che il regime avrebbe “dichiarato nullo” l’armistizio del 1953 che pose fine alla guerra di Corea.

Inoltre, secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa sudcoreana Yonhap, Pyongyang avrebbe anche interrotto la linea telefonica diretta con il vicino meridionale nella città di confine di Panmunjom, situata a pochi chilometri dal complesso industriale di Kaesong, dove operano alcune compagnie di Seoul sfruttando manodopera nordcoreana a basso costo.

Le autorità sudcoreane, da parte loro, nei giorni scorsi avevano risposto alle minacce con toni ugualmente aggressivi, anche se il nascente governo della neo-presidente Park Geun-hye nelle ultime ore ha emesso una serie di comunicati relativamente concilianti.

Ad esempio, il nuovo ministro degli Esteri, Yun Byung-se, ha affermato di volere “trasformare questa fase di scontro e diffidenza in un’era di fiducia reciproca e di cooperazione con la Corea del Nord”. Il neo-ministro dell’Unificazione, invece, pur ammettendo le difficoltà nel “discutere altre questioni mentre il Nord lancia minacce”, ha dichiarato che il suo governo prenderà in considerazione la ripresa degli aiuti umanitari verso Pyongyang.

Gli avvertimenti e le minacce nordcoreane, in ogni caso, sono tutt’altro che nuove, soprattutto in concomitanza con le provocatorie esercitazioni militari congiunte tra Seoul e Washington.

Inoltre, secondo la maggior parte degli analisti, la Corea del Nord non possiede ancora la necessaria tecnologia per lanciare un attacco preventivo con testate nucleari contro la Corea del Sud né, tantomeno, contro gli Stati Uniti. Un’iniziativa di questo genere, oltretutto, scatenerebbe una durissima reazione da parte dei due paesi alleati, determinando con ogni probabilità la fine del regime di Kim Jong-un.

L’atteggiamento sempre più provocatorio di Pyongyang sembra piuttosto indicare un certo grado di disperazione nel tentativo di bilanciare esigenze di politica interna con la necessità ultima di giungere ad un qualche accordo con gli Stati Uniti per porre fine all’isolamento e all’arretratezza in cui versa il paese.

I più recenti segnali di una disponibilità a trattare con Washington sono stati infatti lanciati in qualche modo ancora nelle ultime settimane, quando Kim ha ospitato nel mese di gennaio il CEO di Google, Eric Schmidt, assieme all’ex ambasciatore USA presso l’ONU, Bill Richardson, nonché più recentemente l’ex stella dell’NBA, Dennis Rodman, al quale avrebbe detto tra l’altro di confidare addirittura in una chiamata del presidente Obama.

Qualsiasi minima apertura da parte di Pyongyang continua però ad essere respinta fermamente dalla Casa Bianca, da dove si insiste ad imporre come condizione preventiva per la riapertura del dialogo lo stop al programma nucleare nordcoreano. Il governo di Washington, d’altra parte, ha tutto l’interesse a vedere aumentare le tensioni nella penisola di Corea, dal momento che l’aggravarsi della situazione giustifica un maggiore impegno delle forze armate americane in questa parte del globo, ufficialmente per difendere Seoul ma in realtà con l’obiettivo di aumentare le pressioni sulla Cina nell’ambito della cosiddetta “svolta” asiatica dell’amministrazione Obama.

Pechino, infatti, si ritrova in una situazione sempre più delicata in seguito all’aggravamento delle tensioni al suo confine nord-orientale. Le provocazioni di Pyongyang sono chiaramente viste con apprensione crescente dal regime cinese, tanto che quest’ultimo ha dato il proprio sostegno anche all’ultimo round di sanzioni ONU seguite al terzo test nucleare nordcoreano, visto che la situazione sempre più tesa nella penisola di Corea consente appunto agli Stati Uniti di mantenere una significativa presenza nel paese alleato e di adoperarsi per la costruzione di uno scudo anti-missile diretto principalmente, anche se non ufficialmente, contro la Cina.

L’eventuale ottenimento di armi atomiche efficaci da parte nordcoreana provocherebbe inoltre una probabile corsa al nucleare nella regione, in particolare da parte dei due principali alleati di Washington: Giappone e Corea del Sud. Di questa possibilità si discute già da qualche tempo a Seoul e a Tokyo, sia in risposta al programma militare di Pyongyang che nell’ambito delle dispute territoriali tra la Cina e svariati altri paesi dell’Asia orientale, anch’esse alimentate dall’offensiva diplomatica e militare statunitense nel continente.

Allo stesso tempo, Pechino non intende però rompere del tutto con la Corea del Nord, così da mantenere una certa capacità di influenzare a proprio vantaggio le decisioni di Pyongyang grazie soprattutto alle relazioni commerciali bilaterali relativamente solide. Un crollo del regime di Kim provocherebbe d’altra parte uno sgradito flusso di profughi entro i confini cinesi e una più che probabile riunificazione della penisola sotto l’influenza americana.

In ultima analisi, dunque, il deterioramento in atto dei rapporti tra le due Coree è in primo luogo il risultato della strategia americana volta ad isolare Pyongyang e a contenere l’espansionismo cinese. Una politica sconsiderata quella dell’amministrazione Obama, che continua a spingere inevitabilmente Kim Jong-un e il suo entourage ad adottare una linea sempre più dura nei confronti di Washington e del vicino meridionale, facendo aumentare vertiginosamente le probabilità di un rovinoso conflitto nella penisola di Corea a 60 anni di distanza dalla fine della guerra che continua a divedere i due paesi.

di Michele Paris

Il Senato degli Stati Uniti qualche giorno fa ha dato il via libera definitivo alla nomina alla guida della CIA di uno degli uomini più compromessi con le pratiche criminali della “guerra al terrore” inaugurate più di un decennio fa dal presidente George W. Bush. Già funzionario di vertice della più importante agenzia di intelligence americana per un quarto di secolo, John Brennan è inoltre il principale architetto all’interno dell’amministrazione Obama del programma illegale di assassini mirati contro presunti terroristi in ogni angolo del pianeta.

La conferma del nuovo direttore della CIA è giunta dopo una lunga discussione al Senato, caratterizzata dal “filibuster” messo in atto dal senatore repubblicano libertario del Kentucky, Rand Paul. Grazie a questa procedura, il figlio dell’ex candidato alla presidenza, il deputato del Texas Ron Paul, ha di fatto bloccato il voto sulla nomina di Brennan parlando per ben 13 ore consecutive in aula.

La prolungata opposizione di Rand Paul ha messo in luce ancora una volta lo stato di avanzato degrado delle istituzioni democratiche negli Stati Uniti, offrendo al mondo lo spettacolo di una discussione nella camera alta del Congresso sulla facoltà del presidente di assassinare extra-giudiziariamente sul territorio del proprio paese qualsiasi cittadino americano considerato una minaccia per la sicurezza nazionale.

La decisione del senatore Rand Paul di ricorrere al “filibuster” era scaturita dalle sue perplessità e da quelle espresse da una manciata di suoi colleghi repubblicani e democratici dopo la testimonianza del ministro della Giustizia, Eric Holder, di fronte alla commissione Giustizia mercoledì scorso nell’ambito del programma di assassini con i droni, il cui responsabile principale è appunto John Brennan.

Il punto più controverso dell’audizione ha riguardato la mancanza di chiarezza da parte di Holder sulla legittimità di un’eventuale operazione con i droni nel territorio degli Stati Uniti per uccidere senza processo qualsiasi cittadino americano definito dal governo una minaccia imminente per il paese.

Andando al cuore della questione, Paul ha invitato Holder a chiarire la posizione dell’amministrazione Obama su un programma che potrebbe facilmente essere utilizzato per colpire oppositori interni, chiedendo se “manifestare obiezioni contro il vostro governo corrisponda a simpatizzare con il nemico”, così che, ad esempio, “un missile Hellfire possa essere lanciato con un drone contro Jane Fonda”, riferendosi all’impegno contro la guerra in Vietnam negli anni Sessanta e Settanta dell’attrice americana.

La risposta di Holder è stata inizialmente ambigua, alimentando l’irritazione di Paul e di altri senatori. Successivamente, lo stesso ministro della Giustizia ha indirizzato una breve lettera a Paul, affermando che il presidente “non ha l’autorità di utilizzare un drone armato per uccidere un americano non impegnato in combattimento sul territorio americano”. In una precedente lettera, tuttavia, Holder non aveva escluso la possibilità di impiegare i droni a questo scopo in circostanze eccezionali, simili a quelle seguite all’attacco di Pearl Harbor nel 1941 o a quello del World Trade Center nel 2001.

Le rassicurazioni offerte dalla Casa Bianca, in ogni caso, sono a dir poco da prendere con le molle, dal momento che gli assassini extra-giudiziari decisi esclusivamente dal presidente Obama avvengono già da tempo in paesi come Pakistan, Yemen o Somalia, anche ai danni di cittadini americani. Soprattutto, la contraddittorietà delle risposte fornite ai senatori da Holder conferma come il dibattito sull’opportunità di assassinare liberamente oppositori politici in territorio americano sia già in atto all’interno dell’amministrazione Obama.

Questa inquietante evoluzione verso un vero e proprio stato di polizia è confermato d’altra parte dalla stessa nomina di John Brennan alla direzione della CIA dopo i servizi offerti al presidente democratico nella creazione di una struttura pseudo-legale per l’utilizzo dei droni come arma principale nella “guerra al terrore”.

Nel 2009, inoltre, la candidatura di Brennan per la posizione che si appresta ora a ricoprire era stata ritirata dallo stesso Obama a causa delle polemiche sollevate negli ambienti liberal per il suo coinvolgimento nelle torture e negli altri abusi commessi dalla CIA. Quattro anni più tardi, invece, la nomina di una simile figura dell’establishment della sicurezza nazionale statunitense ha incontrato in definitiva solo una timida opposizione, in gran parte legata all’eccessiva segretezza del programma di assassini mirati con i droni.

Lo stesso ultra-conservatore Rand Paul, infatti, ha alla fine ritenuto soddisfacenti le garanzie dell’amministrazione Obama sull’uso dei droni negli Stati Uniti, interrompendo il “filibuster” e consentendo al Senato di esprimersi sulla nomination di John Brennan, confermato definitivamente nella serata di giovedì con 63 voti favorevoli e 34 contrari.

di Michele Paris

Il perseguimento degli obiettivi strategici degli Stati Uniti in Asia centrale continua a scontrarsi con una serie di ostacoli che sono il risultato degli interessi contrastanti in gioco in un’area del pianeta ricca di risorse energetiche. Nonostante la netta opposizione di Washington, infatti, i governi di uno stato alleato - il Pakistan - e di un arcinemico - l’Iran - hanno fatto passi avanti significativi negli ultimi giorni verso una possibile partnership strategica che si intreccia con l’espansione dell’influenza cinese nella regione.

Il rimettersi in moto della collaborazione tra Iran e Pakistan è coinciso a fine febbraio con la visita di due giorni a Teheran del presidente pakistano, Asif Ali Zardari, dove assieme alla guida suprema della Repubblica Islamica, ayatollah Ali Khamenei, ha evidenziato l’importanza dei progetti energetici tra i due paesi confinanti. La questione delle violenze subite quotidianamente dalla minoranza Hazara di fede sciita in Pakistan, al contrario di quanto si attendevano molti analisti, è sembrata finire in secondo piano, con Teheran che ha evitato di puntare il dito contro il governo di Islamabad per non aver saputo evitare i più recenti sanguinosi attentati ad opera di estremisti sunniti che hanno fatto decine di morti.

Khamenei, da parte sua, ha invece affermato che “solo la Repubblica Islamica possiede risorse energetiche sicure nella regione” e che il suo governo è preparato a soddisfare le esigenze del Pakistan in questo ambito. Zardari, a sua volta, ha fatto riferimento alle pressioni fatte dalle potenze regionali e internazionali sul suo governo per impedire un avvicinamento a Teheran, respingendo con forza questi tentativi e rivendicando l’adozione di politiche che, nella piena sovranità del suo paese, possano far fronte efficacemente ai problemi del Pakistan.

Nel concreto, il summit di Teheran è servito a lanciare definitivamente il cosiddetto “gasdotto della pace” che dovrebbe collegare l’Iran e il Pakistan per trasportare verso quest’ultimo paese più di 20 milioni di metri cubi di gas naturale al giorno per alleviare le carenze energetiche che lo affliggono cronicamente. Secondo i resoconti della stampa locale, a Teheran Zardari ha per la prima volta espresso pubblicamente il proprio sostegno per questo progetto attorno al quale le trattative proseguono da almeno due decenni.

L’ostacolo principale alla realizzazione del gasdotto, oltre ai problemi finanziari di Islamabad e all’instabilità della regione che dovrebbe attraversare, è rappresentato proprio dalla contrarietà ripetutamente espressa dagli Stati Uniti. Washington ha ribadito la propria posizione più recentemente alla fine di gennaio, quando il governo pakistano ha dato l’approvazione finale alla costruzione del gasdotto sul proprio territorio dopo che l’Iran ha assicurato la propria assistenza tecnica e finanziaria.

La sezione iraniana del gasdotto è già stata completata, mentre quella pakistana dovrebbe vedere l’inizio ufficiale dei lavori nel corso di una cerimonia prevista per l’11 marzo prossimo. Il costo totale dell’opera in territorio pakistano sarà di circa 1,5 miliardi di dollari e Teheran ha offerto un prestito agevolato pari a 500 milioni, da erogare se Islamabad non cederà alle pressioni americane.

Lo scorso mese di febbraio, in una conferenza stampa a Washington, la portavoce del Dipartimento di Stato, Victoria Nuland, aveva nuovamente avvertito il Pakistan “ad evitare attività proibite dalle sanzioni dell’ONU oppure sanzionabili” secondo la legge USA. Pur mostrando comprensione per i “significativi” bisogni energetici del Pakistan, la Nuland aveva aggiunto che “esistono altre soluzioni a lungo termine che a nostro parere avrebbero maggiore potenzialità di successo” e, perciò, Islamabad non dovrebbe “spendere le proprie scarse risorse in progetti” come il gasdotto proveniente dall’Iran.

Quest’ultimo progetto, va ricordato, avrebbe dovuto inizialmente estendersi fino all’India ma il governo di Nuova Delhi ha alla fine rinunciato proprio in seguito alle pressioni statunitensi e in cambio della firma di uno speciale accordo sul nucleare con l’amministrazione Bush nel 2005.

Se il Pakistan ha deciso di rivolgersi alla Repubblica Islamica contro il parere di Washington alla luce soprattutto della crisi energetica domestica con cui deve fare i conti, anche l’Iran ha un enorme interesse nel progetto, visto il danno causato alla sua economia dalle sanzioni internazionali, nonché il limitatissimo sbocco verso i mercati esteri che trovano finora le proprie ingenti riserve di gas naturale. Tanto più che un altro progetto di gasdotto che avrebbe dovuto attraversare l’Iraq e la Siria per raggiungere il Mediterraneo sembra essere definitivamente naufragato con l’aggravarsi del conflitto in corso in quest’ultimo paese.

Parallelamente al “gasdotto della pace”, i primi giorni di marzo hanno visto poi la promozione di un altro progetto congiunto tra Pakistan e Iran, questa volta per la costruzione di un oleodotto e di una raffineria nei pressi di una città portuale pakistana di grande importanza strategica.

La firma di quest’ultimo accordo dovrebbe giungere sempre il prossimo 11 marzo ed è il risultato della recente visita a Islamabad del ministro del Petrolio iraniano, Rostam Ghasemi. Il complesso industriale destinato alla raffinazione di 400 mila barili di petrolio al giorno costerà 4 miliardi di dollari. L’aspetto strategicamente più significativo è però la località in cui la raffineria dovrebbe sorgere, cioè Gwadar, dove il 18 febbraio scorso una compagnia pubblica cinese ha assunto ufficialmente il controllo dei lavori per lo sviluppo delle infrastrutture portuali.

Gwadar si trova nella provincia meridionale pakistana del Belucistan ed è affacciata sul Mare Arabico, a poco più di 300 chilometri dallo Stretto di Hormuz, all’imbocco del Golfo Persico, da cui transitano le principali rotte petrolifere provenienti dal Medio Oriente e dirette verso l’Asia centrale ed orientale. Come ha scritto un recente editoriale del quotidiano pakistano The Express Tribune, il nuovo progetto iraniano, con buona pace degli Stati Uniti, potrebbe dare un impulso decisivo alla ripresa delle operazioni, interrotte qualche anno fa, per costruire un’altra raffineria a Gwadar da parte di Pechino e di un oleodotto per collegare questa città alla Cina occidentale.

L’arrivo dei cinesi a Gwadar va visto nell’ottica della diversificazione delle rotte di approvvigionamento energetico cercata da Pechino nell’ambito dell’intensificarsi della rivalità con Washington. Una via di terra come quella offerta da un oleodotto che colleghi Gwadar al territorio cinese - così come un progetto simile allo studio in Myanmar - consentirebbe infatti di evitare almeno in parte lo Stretto di Malacca a sud-est, dove la massiccia presenza delle forze navali degli Stati Uniti e di quelle dei loro alleati nella regione potrebbe interrompere, in caso di crisi, le rotte di mare che lo attraversano.

Per quanto riguarda la raffineria iraniana, essa sarà completata tramite una joint venture con la compagnia petrolifera pakistana PSO e a sua volta rimpiazzerà un progetto fermo dal 2007 e fino ad allora portato avanti dagli Emirati Arabi Uniti. Questi ultimi, impegnati con l’azienda petrolifera di stato IPIC, avevano sospesi i lavori a causa della precaria situazione del Belucistan, dove è attivo un movimento separatista che, secondo le autorità pakistane, sarebbe sostenuto da India e Stati Uniti.

La sicurezza in Belucistan, assieme alle già ricordate pressioni statunitensi su Islamabad, è uno dei motivi principali anche della riluttanza cinese ad avviare finora lo sviluppo del porto di Gwadar e, allo stesso modo, rimane una minaccia sia sui progetti siglati in queste settimane tra Iran e Pakistan sia sulla nascita di una già non semplice partnership strategica tra i due paesi vicini.

Al di là dell’eventuale riuscita dei piani energetici che dovrebbero avvicinare ulteriormente un complicato alleato degli Stati Uniti, come il Pakistan, a due loro rivali strategici, come la Cina e l’Iran, quel che sembra emergere dal fermento diplomatico di Teheran, Islamabad e Pechino è la conferma del rimescolamento degli equilibri in atto nella delicatissima regione centro-asiatica sullo sfondo della corsa alle sue risorse energetiche e del relativo disimpegno americano dall’Afghanistan alla fine del 2014.

Un’evoluzione il cui esito è ancora tutto da verificare e che si intreccia con le tradizionali rivalità (tra India e Pakistan e tra India e Cina) ed alleanze (tra Cina e Pakistan) che caratterizzano i rapporti tra i principali attori nella regione, rispettivamente aggravate o rafforzate dalle trame messe in atto da Washington fin dall’occupazione afgana del 2001, decisa precisamente per rafforzare la presenza americana in quest’area cruciale del pianeta.


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