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di Michele Paris
Qualche giorno fa, il primo ministro giapponese, Yoshihiko Noda, ha deciso di sciogliere la Camera bassa del Parlamento nazionale, fissando la data delle elezioni anticipate al 16 dicembre prossimo. La mossa dell’impopolare leader del Partito Democratico (DPJ) era attesa da tempo e, con ogni probabilità, finirà per riconsegnare il paese del Sol Levante ai liberal-democratici che avevano dovuto incassare una pesantissima sconfitta soltanto tre anni fa dopo cinque decenni di dominio pressoché incontrastato.
L’imminente appuntamento con le urne in Giappone segna dunque la fine della travagliata parabola del DPJ alla guida del paese, caratterizzata da promesse mancate, lotte intestine e dalla pessima gestione della catastrofe naturale e nucleare del marzo 2011. Il DPJ aveva trionfato nelle elezioni del settembre 2009 grazie ad un progetto di cambiamento basato sulla promessa di aumentare la spesa pubblica destinata ai programmi sociali, sul ridimensionamento della onnipotente burocrazia statale e sul riequilibrio di una politica estera troppo appiattita sulle posizioni di Washington a fronte di legami commerciali sempre più intensi con la Cina.
Le speranze alimentate dal partito di centro-sinistra erano state però ben presto frustrate e le dimissioni già nel giugno 2010 del premier Yukio Hatoyama, in seguito al fallito tentativo di far chiudere una base militare americana sull’isola di Okinawa, avevano segnato l’inizio del progressivo tracollo del DPJ. Con il successore di Hatoyama, Naoto Kan, e l’attuale primo ministro Noda, infine, il Giappone è tornato ad allinearsi fedelmente agli Stati Uniti in politica estera, mentre sul fronte interno nuove tasse e tagli alla spesa per combattere un debito pubblico gigantesco hanno definitivamente gettato in mare le ambiziose promesse elettorali.In particolare, a segnare la sorte del governo Noda è stata la contestatissima approvazione la scorsa estate del raddoppio dell’imposta sui consumi, decisa per cercare di mettere un freno al deficit nipponico. Questo provvedimento, escluso dal DPJ in campagna elettorale, ha provocato una scissione all’interno del partito con la fuoriuscita di una minoranza guidata dall’eminenza grigia Ichiro Ozawa, così che Noda ha dovuto fare affidamento sul voto decisivo dell’opposizione del Partito Liberal Democratico (LDP).
Quest’ultimo, in cambio dell’appoggio all’aumento della tassa, ha però chiesto lo scioglimento anticipato della Camera bassa della Dieta Nazionale, giunto alla fine venerdì scorso dopo settimane di esitazioni e manovre da parte di un primo ministro consapevole di andare incontro ad una dura resa dei conti con gli elettori.
Il collasso del DPJ non si traduce peraltro in una particolare popolarità dell’LDP, tanto che secondo i più recenti sondaggi, che danno il partito di governo ben al di sotto del 20%, lo indicano a non più del 30%. Ciò significa che, assieme, il partito che detiene attualmente la maggioranza in Parlamento e quello che ha monopolizzato la scena politica giapponese per oltre mezzo secolo non raccolgono nemmeno il consenso della metà degli elettori. Nelle elezioni del 2009, questi due partiti ottennero oltre l’80% del voto popolare.
Il discredito delle principali formazioni politiche giapponesi determinerà probabilmente, oltre ad una maggiore frammentazione e la probabile necessità di alleanze allargate per formare un nuovo governo, l’esplosione del voto di protesta che potrebbe premiare, tra gli altri, due partiti fondati di recente da altrettanti politici di orientamento populista.
Uno di loro è l’80enne Shintaro Ishihara, dimessosi dalla carica di governatore dell’area metropolitana di Tokyo ad un anno di distanza dalla sua rielezione per creare il Partito dell’Alba (SPJ). Ishihara è un ex parlamentare di estrema destra, nonché autore di alcuni best-seller, che qualche mese fa aveva contribuito a far precipitare le relazioni tra Giappone e Cina manifestando l’intenzione di acquistare dai loro proprietari privati le isole Senkaku (Diaoyu in cinese), rivendicate da Pechino. L’acquisto sarebbe stato effettuato successivamente dal governo centrale, suscitando ugualmente le ire del governo cinese.
Nel panorama politico nipponico ha fatto poi irruzione anche il 43enne Toru Hashimoto, carismatico sindaco di Osaka e recente fondatore del Partito per la Restaurazione del Giappone. Nonostante le differenze irrisolte tra Ishihara e Hashimoto, i due hanno deciso qualche giorno fa di unire le loro forze e di presentarsi con un’unica formazione alle prossime elezioni, con la speranza di diventare la terza forza politica del paese e di fungere da ago della bilancia nella formazione del futuro governo.Un altro inedito raggruppamento che si presenterà agli elettori è infine quello del già ricordato Ozawa, artefice del successo del DPJ del 2009 e uscito indenne da una serie di vicende legali. A luglio, Ozawa aveva abbandonato il partito in polemica con la leadership di Noda assieme a una cinquantina di parlamentari, con i quali ha creato un nuovo partito, chiamato “Kokumin no Seikatsu ga Daiichi” (“Prima la vita dei cittadini”), che minaccia di sottrarre ulteriori voti al già screditato DPJ.
Di fronte ad una simile scelta, non è da escludere che il voto del 16 dicembre si risolverà nel caos e nella paralisi politica in un paese segnato dal continuo declino della sua economia. La quota maggiore di voti dovrebbe però assicurarsela comunque il Partito Liberal Democratico, il quale a settembre ha eletto come proprio leader l’ex primo ministro Shinzo Abe. Abe era già stato a capo di un gabinetto a Tokyo tra il 2006 e il 2007 per poi dimettersi ufficialmente a causa di problemi di salute, ma più che altro a causa della sua impopolarità e in seguito ad alcuni scandali che avevano coinvolto membri del governo.
Un eventuale esecutivo guidato da Abe lascia intravedere una serie di problemi, soprattutto per il marcato nazionalismo di cui è portatore. Dopo la sua nomina alla guida dell’LDP, l’ex premier ha infatti visitato provocatoriamente il controverso Santuario di Yasukuni, dedicato alle anime dei soldati giapponesi che sono morti al servizio dell’Imperatore, tra cui vi sono numerosi condannati per crimini di guerra commessi durante il secondo conflitto mondiale.
Ogni visita di politici giapponesi a questo santuario suscita le critiche di Cina e Sud Corea, vittime dell’imperialismo nipponico nella prima metà del secolo scorso, così che l’iniziativa di Abe è stata universalmente intesa come un messaggio lanciato a Pechino in previsione di un probabile ulteriore deterioramento dei rapporti bilaterali nei prossimi mesi.
Nel degrado generale del clima politico giapponese e con il peggioramento delle condizioni di vita della maggior parte della popolazione, tutti i partiti stanno peraltro giocando la carta del nazionalismo per distogliere l’attenzione degli elettori dalle responsabilità di una classe politica incapace di affrontare i veri problemi del paese.
Questa strategia irresponsabile continuerà ad essere impiegata quasi certamente anche dopo il voto di dicembre quando, indifferentemente da chi uscirà vincitore, il nuovo governo sarà chiamato ad implementare pesanti e impopolari misure di austerity, richieste a gran voce dalle élite economiche interne e dagli ambienti finanziari internazionali, preoccupati per una crescita inesistente e un debito pubblico che supera abbondantemente il 200% del PIL nazionale.
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di Michele Paris
Per il primo viaggio ufficiale all’estero dopo la rielezione alla Casa Bianca, Barack Obama ha significativamente scelto l’Asia sud-orientale al centro della cosiddetta “svolta” americana verso questo continente in funzione anti-cinese, toccando tre paesi - Thailandia, Myanmar e Cambogia - due dei quali a lungo sotto la quasi esclusiva influenza di Pechino. Il tour di tre giorni del presidente democratico si è chiuso martedì con la partecipazione al vertice dell’Associazione dei Paesi del Sud Est Asiatico (ASEAN), ospitato dalla capitale cambogiana, Phnom Penh.
Gran parte dell’attenzione mediatica per la trasferta di Obama si è concentrata sulla manciata di ore trascorse nella giornata di lunedì in Myanmar, dove l’attuale inquilino della Casa Bianca è stato il primo presidente USA in carica a mettere piede. Accolto da una folla festante, Obama ha incontrato nella capitale commerciale della ex Birmania, Yangon, il presidente Thein Sein e la leader dell’opposizione, nonché parlamentare, Daw Aung San Suu Kyi, presso la sua abitazione dove ha trascorso buona parte degli ultimi due decenni agli arresti domiciliari.
L’amministrazione Obama ha insistito fortemente per una visita del presidente in Myanmar nonostante le critiche provenienti da svariate organizzazioni a difesa dei diritti umani, preoccupate per la possibile legittimazione di un regime che, pur avendo intrapreso un percorso di riforme democratiche di facciata, è tuttora sotto la tutela dei militari e si macchia quotidianamente di crimini contro l’umanità, in particolare nei confronti delle minoranze etniche che vivono entro i confini del paese.
A Yangon, in ogni caso, Obama ha affermato che la sua visita non rappresenta un’aperta approvazione del regime, bensì una sorta di incoraggiamento a proseguire sulla strada delle riforme in cambio dell’assistenza statunitense. Il presidente ha annunciato anche la riapertura dell’ufficio dell’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale (USAID) in Myanmar e lo stanziamento di 170 milioni di dollari in aiuti per i prossimi due anni.
Se le aperture di Washington dipendono soprattutto dalla riabilitazione di San Suu Kyi e del suo partito, la Lega Nazionale per la Democrazia (NLD), al quale lo scorso anno è stato consentito di partecipare ad un’elezione suppletiva, la tanto celebrata opposizione ufficiale della ex Birmania difficilmente può essere accredita come il garante della transizione democratica nel paese asiatico.
I suoi esponenti, infatti, oltre a rappresentare poco più che una sezione della borghesia indigena ansiosa di sfruttare a proprio beneficio le aperture al capitale straniero, condividono sostanzialmente la durissima repressone messa in atto dal governo centrale e dagli amministratori locali, assieme ai monaci buddisti, protagonisti della fallita “Rivoluzione Zafferano” del 2007, ai danni della minoranza Rohingya di fede musulmana che vive nello stato occidentale di Rakhine al confine con il Bangladesh.
D’altra parte, i cambiamenti nelle relazioni tra USA e Myanmar di questi mesi hanno ben poco a che fare con i diritti democratici della popolazione birmana. Piuttosto, l’interesse di Washington va ricercato nella possibilità di stabilire legami più stretti con un regime che ha rappresentato finora un’importante risorsa strategica per la Cina, nonché nella creazione di nuove opportunità di investimento per le corporation a stelle e strisce in un paese di 60 milioni di abitanti ancora tutto da sfruttare.
Il nuovo approccio americano al regime del Myanmar, ratificato anche dalla cancellazione di numerose sanzioni economiche, viene così propagandato come al solito dietro le apparenze della promozione dei principi di democrazia, di cui la storica visita di Obama, così come quella di Hillary Clinton poco meno di un anno fa, è ora il suggello mediatico. Dell’importanza del Myanmar e dell’intera regione per gli Stati Uniti ne è conferma anche la presenza al fianco di Obama del Segretario di Stato nelle fasi finali del suo mandato dopo quattro anni durante i quali è stata la principale artefice della svolta asiatica decisa dalla Casa Bianca.
La strategia di Washington nei confronti del Myanmar appare come un modello per attrarre nella propria orbita anche altri stretti alleati della Cina in Asia, a cominciare dalla Cambogia, terza e ultima tappa del viaggio di Obama di questa settimana. Con il paese guidato fin dal 1998 dal primo ministro ed ex comandante dei Khmer Rossi, Hun Sen, le manovre di avvicinamento sembrano già iniziate da qualche tempo, anche se in maniera più discreta rispetto al Myanmar.
La conferma dei passi avanti compiuti tra i due paesi è giunta, tra l’altro, da un recente articolo del Washington Post che ha descritto diffusamente come gli Stati Uniti, nonostante le riserve relativamente alla situazione dei diritti umani, abbiano intensificato la collaborazione e l’assistenza militare alla Cambogia, ovviamente sempre con l’obiettivo ufficiale di combattere il terrorismo, nonostante questo paese non abbia mai dovuto affrontare minacce significative di questo genere. Un altro paese vicino a Pechino e candidato al riallineamento con gli USA, sia pure in futuro più lontano, è infine la Corea del Nord, il cui regime stalinista non a caso è stato sollecitato da Obama nel suo discorso a Yangon a intraprendere un percorso di riforme simile a quello del Myanmar.
La cooperazione militare con le forze armate di paesi come Cambogia e Myanmar è altrettanto importante quanto quella economica, dal momento che la strategia di contenimento della Cina in Asia si basa in gran parte sull’accerchiamento di questo paese e sul rafforzamento della presenza militare americana nella regione. Per quanto riguarda il Myanmar, colloqui bilaterali per ristabilire legami tra le rispettive forze armate sono iniziati qualche settimana fa a Washington, mentre, secondo alcune indiscrezioni, il regime birmano potrebbe addirittura essere invitato a partecipare all’annuale esercitazione che si terrà nella regione di qui a pochi mesi e che vedrà protagonisti gli USA, la Thailandia e altri paesi asiatici.
È importante notare che, di fronte a scenari simili, gli esponenti dell’amministrazione Obama continuano ad affermare pubblicamente che la “svolta” asiatica non è diretta al contenimento della Cina, anche se le manovre americane nel continente, in realtà, hanno precisamente questo scopo. Tramite la presenza di propri contingenti militari nei paesi della regione, Washington intende mantenere il controllo sulle rotte navali da cui transita la maggior parte dei traffici commerciali di Pechino, così come i rifornimenti energetici provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente diretti verso la Cina.
La linea dura degli Stati Uniti, prevedibilmente nascosta dietro toni moderati, è stata confermata durante il vertice ASEAN di Phnom Penh, dove Obama ha incontrato il premier cinese uscente Wen Jiabao, al quale ha ribadito che “le due principali potenze economiche del pianeta devono lavorare affinché vengano create regole chiare attorno al commercio e agli investimenti internazionali”. In altre parole, il presidente democratico ha così lanciato un nuovo avvertimento alla Cina per invitarla a sottostare alle regole dettate dall’imperialismo americano.
Con un’altra provocazione, poi, la delegazione americana al summit ASEAN - composto da Brunei, Cambogia, Filippine, Indonesia, Laos, Malaysia, Myanmar, Singapore, Thailandia e Vietnam - lunedì ha lanciato un nuovo progetto di cooperazione con i paesi che ne fanno parte per facilitare le trattative in corso in vista della stipula dell’accordo di libero scambio tra l’Asia sud-orientale, l’Oceania e alcuni paesi del continente americano definito “Partnership Trans-Pacifica”, da cui significativamente continua ad essere esclusa la Cina.
La questione più controversa rimane tuttavia quella legata alle varie dispute territoriali nel Mare Cinese Meridionale tra Pechino e vari paesi ASEAN, sulle quali da tempo si sono inseriti gli Stati Uniti alimentando pericolosamente le tensione nella regione. Come già accaduto nel precedente vertice del luglio scorso, anche in questa occasione Cina e Cambogia hanno impedito l’adozione di un sistema condiviso all’interno dell’Associazione per risolvere le contese in maniera multilaterale, come vorrebbe l’amministrazione Obama e contro il volere di Pechino che predilige al contrario negoziati bilaterali senza interferenze esterne.
L’ennesimo schiaffo a Washington su tale questione ha messo in luce, oltre al sostanziale fallimento della visita di Obama in Asia, le difficoltà con cui gli americani devono fare i conti nel contrastare l’avanzata della Cina in un continente nel quale molti paesi, nonostante nuovi o consolidati legami diplomatici e militari con gli Stati Uniti, continuano a gravitare sempre più nell’orbita di Pechino in ambito economico e commerciale.
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di Fabrizio Casari
Agosto 1995. Nel pieno della guerra nella ex-Jugoslavia, mentre il cosiddetto mondo libero che quella guerra civile aveva voluto, finanziato e sostenuto, lanciava grida furenti contro la Serbia, certamente colpevole dell’odiosa pulizia etnica, i croati si occupavano di fare altrettanto senza troppo clamore. Il Presidente croato Tudjman, fascista fino al midollo, diede incarico al Generale Ante Gotovina (che si avvalse della speciale collaborazione del Generale Mladen Marcak, a capo di un reparto speciale di polizia) di fare terra bruciata della enclave serba in Croazia.
A Zagabria non c’erano dubbi di sorta: per un massacro su base etnica il generale Gotovina era l’uomo giusto al posto giusto. Fedelissimo di Tudjman, si era fatto le ossa nella Legione Straniera, che sui massacri in Africa ha costruito la sua infame leggenda. I serbi di Krajna erano stati la difesa morale e materiale dall’esercito Ottomano e dalla penetrazione islamica ma, certo, appartenevano in primo luogo alla Chiesa ortodossa e, soprattutto, all’etnia serba. Un tumore da rimuovere, secondo Tudjman.
Fu così che nella Krajna, dove circa trecentomila serbi vivevano, si scatenò l’Operazione Tempesta. Centotrentottomilacinquecento soldati e poliziotti croati, coadiuvati da legionari della Bosnia-Herzegovina di nazionalità croata, si lanciarono all’assalto. I novelli Ustascia poterono agire con il consenso esplicito degli Stati Uniti e sotto la copertura della Nato, che prima di dare inizio all’operazione si occupò di bombardare segretamente i ripetitori di Knin.
L’Operazione Tempesta raggiunse il risultato che si prefiggeva: vennero uccise sommariamente circa duemila persone (quasi tutte anziane e donne che non vollero abbandonare le proprie case) e ogni essere umano di etnia serba fu costretto ad abbandonare la Krajna. Fu la più grande deportazione di massa del conflitto nella ex-Jugoslavia; un orrendo crimine di guerra perpetrato nel silenzio dei media internazionali, impegnati come in ogni conflitto a definire i “buoni” e i “cattivi” a seconda degli interessi economici e politici dell’Occidente.
Gotovina e Markac furono i capi indiscussi delle operazioni. Perseguiti dal procuratore Carla Del Ponte, i due vennero catturati solo perché condizione indispensabile per l’ingresso di Zagabria in Europa. Ma sette mesi dopo la loro condanna nel primo processo, che gli comminò rispettivamente 24 e 18 anni di carcere, il Tribunale penale Internazionale per i crimini di guerra nella ex-Jugoslavia, ha deciso qualche giorno fa di ribaltare il verdetto.
I cinque giudici che hanno composto la Corte, hanno infatti ritenuto di dover assolvere i due carnefici, il cui rientro a Zagabria è stato festeggiato con cortei di giubilo e fuochi d’artificio. Una sentenza tutta politica che nega la storia e priva di giustizia le vittime della Krajina, ma che accontenta Zagabria.
A poco è servito, pare, il tentativo del governo di centrosinistra di invitare a rileggere la storia dell’ultranazionalismo croato, visto che i sondaggi affermano che otto croati su dieci ritengono i due eroi e non carnefici. La destra nazionalista, che giudica “santa” una guerra che costò decine di migliaia di vittime e l’ingresso inglorioso del paese nel novero degli stati etnici, definisce Gotovina appunto un “eroe” e non fa velo a tanto ardore il fatto che dall’incriminazione alla cattura “l’eroe” abbia passato poco eroicamente quattro anni in un albergo delle Canarie da latitante extralusso.
La chiesa croata ha robustamente contribuito all’operazione di trasformazione dei criminali in “eroi” e a seguito dell’assoluzione dei due boia, dalla cattedrale di Zagabria il Cardinale Bosanic si è scatenato in una omelia che si è rivelata un entusiastico richiamo al patriottismo croato, confermando il ruolo di guida del nazionalismo estremista già diffusamente dimostrato negli ultimi venti anni. La differenza tra eroi e criminali, a Zagabria, evidentemente è labile. In chiesa, addirittura, inesistente.
Mandare liberi i responsabili di un genocidio etnico, solo perché croati e quindi schierati internazionalmente con l’Occidente, spiega bene l’ipocrisia delle istituzioni come il TPI e propone una ennesima lettura truccata del conflitto che dal 1991 in poi coinvolse Slovenia, Bosnia, Croazia, Serbia, Macedonia e Albania, ma che assegna solo a Belgrado e ai serbi di Bosnia il carico degli orrori.
Nel tourbillon immondo della guerra etnica, purtroppo, la propaganda occidentale ha travasato una lettura falsa sia delle ragioni del conflitto, sia del ruolo di tutti i protagonisti, indicando nei soli serbi gli autori delle nefandezze peggiori. I serbi condussero la guerra come criminali, certo, ma i croati non furono da meno e i bosniaci anche. La differenza è che i serbi vengono condannati e gli altri criminali assolti, negando quindi le responsabilità comuni nel genocidio e rinfocolando così nazionalismi e giustificazionismi storici utili solo a perpetrare crimini futuri. Soprattutto quando, come a Zagabria, le vittime diventano feccia e i criminali eroi.
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di Michele Paris
Il bilancio delle vittime civili nella striscia di Gaza ha continuato ad aumentare nel fine settimana e nella giornata di lunedì in seguito all’intensificarsi della campagna militare scatenata mercoledì scorso da Israele. Negli ultimi giorni il bilancio complessivo è salito a quasi un centinaio di palestinesi assassinati, in buona parte bambini, vittime di oltre mille bombardamenti lanciati dall’aviazione e dalla marina israeliane. Nonostante l’appello di Tel Aviv all’autodifesa contro i razzi di Hamas, l’escalation di violenze è da attribuire unicamente al governo di Netanyahu e a criminali calcoli politici in vista delle elezioni generali di gennaio nonché, soprattutto, di un possibile spiraglio diplomatico apertosi in Medio Oriente dopo la rielezione di Barack Obama alla Casa Bianca.
Il nuovo massacro in corso a Gaza viene come al solito aggravato dalle condizioni in cui Israele costringe a vivere i suoi 1,7 milioni di abitanti, così che gli ospedali, dotati di scarso materiale per trattare i feriti, sono stati rapidamente sopraffatti dal numero di pazienti ricevuti, mentre la popolazione civile è in parte già a corto di acqua, cibo ed energia elettrica per parecchie ore al giorno.
I media di tutto il mondo stanno mostrando in questi giorni le stragi compiute dai bombardamenti israeliani, tra cui il più grave finora ha quasi sterminato l’intera famiglia di un commerciante nella mattinata di domenica. A morire sotto le macerie dell’abitazione a due piani di Gaza City sono state una sorella, due figlie, una nuora e quattro nipoti tra due e sei anni di Jamal Dalu, così come due vicini - un 18enne e la nonna - colpiti dalla violenza dell’esplosione.
Nel commentare il bombardamento, il portavoce dell’esercito israeliano, Yoav Mordechai, ha affermato che, per quanto lo riguarda, ciò che conta è la sicurezza dei cittadini dello stato ebraico e che il blitz aveva come bersaglio un membro di Hamas, Mohamed Dalu, responsabile del lancio di decine di missili in territorio di israeliano, tutti con ogni probabilità senza conseguenze significative, vista anche la propagandata efficienza del sistema difensivo “Iron Dome”.
Per giustificare le operazioni contro obiettivi civili, Israele sostiene che Hamas utilizza donne e bambini come scudi umani, anche se in realtà ciò significa che gli esponenti del movimento islamista, quando vengono colpiti dalle bombe di Tel Aviv, si trovano nelle proprie abitazioni con i loro familiari, i quali diventano inevitabilmente “danni collaterali” del presunto diritto all’autodifesa israeliana. Quanto poi ai razzi che verrebbero stoccati in aree densamente popolate e in edifici civili, non sembra che di questo materiale bellico sia stata trovata traccia, ad esempio, nell’edificio bombardato domenica e che ospitava gli uffici dei media locali e i corrispondenti di molte testate internazionali, come Fox News, Al-Arabiya, Sky News e CBS.
Nella notte e nella prima mattinata di lunedì, secondo Tel Aviv, da Gaza non ci sono stati lanci di missili, anche se le forze armate israeliane hanno comunque bombardato circa 80 siti nella striscia, facendo più di dieci vittime e decine di feriti. Nelle ore successive di lunedì il bilancio è salito a una trentina di morti, mentre è ripresa anche la ritorsione da Gaza, ma i razzi approdati entro i confini di Israele non hanno causato danni significativi.
L’assalto in corso contro Gaza, come previsto, ancora una volta ha trovato il sostanziale appoggio europeo e americano, come dimostra il fatto che, nonostante le divergenze tra Obama e Netanyahu, l’inquilino della Casa Bianca, nel corso di una visita in Tailandia, pur lanciando un vuoto appello per fermare l’escalation di violenze in corso, ha ribadito l’appoggio del suo paese al governo di Israele e al suo diritto all’autodifesa.
I missili lanciati da Gaza, in realtà, sono la risposta di Hamas e di vari gruppi islamisti all’aggressione israeliana e, sia pure diretti per la prima volta da due decenni contro Tel Aviv e non lontano da Gerusalemme, sono in gran parte inefficaci e provocano conseguenze nemmeno lontanamente paragonabili a quelle sofferte dalla popolazione palestinese. Ad oggi, le vittime israeliane sarebbero 3 e circa 80 i feriti.
Ciò che più conta, però, è che Israele, per stessa ammissione del suo governo, ha dato il via alla cosiddetta operazione “Pilastro della Difesa” quando la settimana scorsa era quasi del tutto cessato il lancio di razzi da Gaza. A innescare il conflitto è stato soprattutto l’assassinio mirato del leader militare di Hamas, Ahmed al-Jaabari, colpito il 14 novembre da un missile israeliano che ha di fatto spezzato una fragile tregua negoziata in precedenza.
L’irresponsabilità e il cinismo del governo Netanyahu sono emerse dai resoconti giornalistici apparsi in seguito alla morte di Jaabari. Quest’ultimo è stato infatti eliminato poche ore dopo aver ricevuto una bozza di tregua permanente tra Hamas e Israele negoziata dall’Egitto. Jaabari, inoltre, come ha scritto il quotidiano israeliano Haaretz era una sorta di “subappaltatore della sicurezza di Israele nella striscia di Gaza” e, ad esempio, dopo l’operazione “Piombo Fuso” del 2008-2009 si era adoperato per limitare il lancio di razzi da parte delle formazioni jihadiste che operano all’ombra di Hamas.
In sostanza, Israele ha rotto deliberatamente una tregua più o meno stabilmente in vigore, definendo poi la successiva reazione di Hamas come l’atto di aggressione originario che ha scatenato l’inferno su Gaza. Molti commentatori hanno anche ricordato le svariate provocazioni messe in atto da Tel Aviv nei confronti dei palestinesi fin dai primi di novembre, in concomitanza con il voto negli Stati Uniti, per cercare la reazione di Hamas e iniziare un’offensiva già preparata a tavolino.
Le manovre di questi giorni, in ogni caso, potrebbero essere solo l’inizio di un’operazione su vasta scala che comprende una possibile invasione di terra. Dell’altro giorno è l’annuncio della messa in allerta di ben 75 mila riservisti dell’esercito, un numero che appare tanto più consistente se paragonato ai 10 mila richiamati in occasione dell’operazione “Piombo Fuso” che uccise circa 1.400 palestinesi, quasi tutti civili.
Nel frattempo, continua senza sosta l’attività diplomatica con il governo egiziano in prima linea per negoziare un cessate il fuoco. Al Cairo è giunto anche il segretario generale dell’ONU, Ban Ki-moon, assieme, secondo una notizia diffusa dai media israeliani ma smentita da Netanyahu, ad una delegazione israeliana. Le difficoltà nel trovare una soluzione alla crisi dipendono anche dall’irrigidimento di Hamas che, forte del sostegno raccolto nel mondo arabo sunnita dopo la rottura nei mesi scorsi con Damasco, ha alzato la posta chiedendo, tra l’altro, la fine dell’embargo israeliano su Gaza per acconsentire ad una tregua.
I sostenitori di Hamas coinvolti negli sforzi per fermare le violenze sono anche Turchia e Qatar, i quali nonostante la loro sudditanza verso Washington non sembrano però avere alcuna influenza sull’amministrazione Obama quando si tratta di contenere Israele. Per l’Egitto del presidente islamista Mursi, invece, il prolungamento della crisi a Gaza costituisce un grave motivo di imbarazzo.
Il governo guidato dai Fratelli Musulmani, di cui Hamas è una costola, si trova a dover fronteggiare, da un lato, forti pressioni popolari per rompere ogni legame con Israele e, dall’altro, un esercito e un servizio segreto che vedono con sospetto Hamas, così come la necessità di rispettare il trattato di pace con Tel Aviv del 1978, condizione imposta dagli Stati Uniti per continuare a erogare gli ingenti aiuti economici destinati al Cairo.
La già ricordata cronologia degli eventi che hanno portato all’intensificarsi delle operazioni su Gaza suggerisce dunque che Tel Aviv stia nuovamente ricorrendo a pratiche criminali per sviare l’attenzione della popolazione israeliana dai problemi interni - povertà in aumento, disuguaglianze sociali tra le più marcate tra i paesi avanzati - facendo appello al militarismo e all’unità del paese contro una presunta minaccia esistenziale. Anche se il Likud di Netanyahu appare nettamente favorito per le elezioni di gennaio, le tensioni sociali in Israele hanno più volte superato il livello di guardia negli ultimi mesi, quando decine di migliaia di manifestanti sono scesi nelle piazze per protestare contro le politiche del governo di estrema destra.
Le operazioni a Gaza hanno anche a che fare con l’Iran e le minacce di un’aggressione unilaterale contro la Repubblica Islamica. Il massacro di civili palestinesi potrebbe perciò essere stato deciso sia per testare le reazioni della comunità internazionale, a cominciare dagli Stati Uniti agli albori del secondo mandato di Obama, e le capacità miliari di Israele in vista di una guerra contro l’Iran, sia soprattutto per far naufragare sul nascere le timide aperture della Casa Bianca per trovare una soluzione diplomatica alla crisi fabbricata attorno al programma nucleare di Teheran.
Al di là delle ragioni della guerra, in ogni caso, ciò che appare evidente in questi giorni è la continua totale impunità garantita ad Israele nel perpetrare un vero e proprio massacro contro una popolazione pressoché inerme come quella palestinese di Gaza. Tutto questo dopo le condanne internazionali e le accuse rivolte a Tel Aviv di avere commesso crimini contro l’umanità tra il 2008 e il 2009 in un’operazione il cui agghiacciante bilancio, grazie alla complicità degli Stati Uniti e dei governi europei, potrebbe essere ben presto eguagliato.
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di Michele Paris
Subito dopo la chiusura delle urne lo scorso 6 novembre, al centro del dibattito politico negli Stati Uniti ha come previsto fatto irruzione la presunta emergenza fiscale che si potrebbe abbattere sull’economia americana il primo gennaio prossimo se non verrà raggiunto un qualche accordo bipartisan tra democratici e repubblicani. Ad inserirsi nella discussione sul cosiddetto “fiscal cliff” è stato nella giornata di mercoledì anche un presidente Obama che, nella sua prima conferenza stampa dopo la rielezione, ha assicurato di essere pronto per una battaglia con il Partito Repubblicano dalla quale, qualunque sarà l’esito, a uscire sconfitti saranno comunque lavoratori, pensionati e classe media.
Entrato ormai a far parte del vocabolario politico d’oltreoceano e non solo, il termine “fiscal cliff” (“precipizio fiscale”) era stato usato per la prima volta lo scorso febbraio nel corso di un’audizione alla Camera dei Rappresentanti dal governatore della Fed, Ben Bernanke, per definire una serie di tagli alla spesa pubblica e l’estinzione dei benefici fiscali adottati per la prima volta nel 2001 che potrebbero scattare simultaneamente all’inizio del nuovo anno.
Quella che viene definita oggi come una vera e propria catastrofe che potrebbe travolgere un’economia USA ancora in affanno è in realtà il frutto di un’intesa siglata nell’estate del 2011 tra l’amministrazione Obama e i repubblicani al Congresso nell’ambito delle trattative sull’innalzamento del tetto del debito pubblico americano. In quell’occasione venne stabilito che, in assenza di un futuro accordo per la riduzione del debito federale, sarebbero appunto entrati in vigore tagli automatici alla spesa e aumenti delle tasse pari a oltre 600 miliardi di dollari.
Un accordo di ampio respiro su tali questioni è stato più volte rimandato da entrambi i partiti, i quali alla fine hanno opportunamente stabilito di fissare un ultimatum per il primo gennaio 2013, così da potere raggiungere un punto d’incontro su provvedimenti che causeranno un netto peggioramento delle condizioni di vita per decine di milioni di americani solo a urne chiuse.
L’emergenza “fiscal cliff” viene trattata in questi giorni dai media mainstream con toni apocalittici, in modo da convincere gli americani che la scadenza artificiale fissata da democratici e repubblicani rappresenti una sorta di minaccia senza precedenti da affrontare con soluzioni drastiche e impopolari, a cominciare dal ridimensionamento di programmi pubblici come Medicare, Medicaid e Social Security.
La necessità di sottrarsi allo spettro del “fiscal cliff” viene allo stesso modo affermata dai grandi interessi economici e finanziari del paese, i quali si sono ritrovati tra le mani uno strumento da utilizzare per contenere l’opposizione popolare nei confronti di politiche che verranno prese nelle prossime settimane a loro totale beneficio. Ciò che esclude quasi certamente lo scivolamento degli Stati Uniti verso il precipizio fiscale è inoltre il timore della classe politica di Washington per i consistenti tagli previsti anche per il settore militare.
Nonostante gli exit poll durante il recente voto per le presidenziali abbiano indicato chiaramente come il problema del debito sia stata la principale preoccupazione per non più di un elettore su dieci, esso è balzato dunque in cima alla lista delle questioni da affrontare senza esitazioni. Del “fiscal cliff” ha parlato l’altro giorno anche il presidente Obama di fronte ai giornalisti alla Casa Bianca, riaffermando la volontà della sua amministrazione di respingere qualsiasi formula che non comprenda la fine dei tagli alle tasse per i redditi superiori ai 250 mila dollari l’anno.
La posizione della Casa Bianca, già affermata e poi abbandonata nel 2010 all’indomani della vittoria repubblicana nelle elezioni di medio termine, non è tuttavia così ferma come potrebbe apparire a prima vista. Obama, infatti, ha lasciato intendere di essere disponibile ad un compromesso che porti le aliquote massime a livelli inferiori a quelli in vigore durante l’amministrazione Clinton, recuperando poi la parte di introiti mancanti con l’abolizione di alcune scappatoie legali che consentono di ridurre il prelievo fiscale e con la cancellazione di molte deduzioni di cui beneficia soprattutto la classe media.
L’aliquota massima durante l’amministrazione Clinton era del 39%, mentre con i tagli introdotti da George W. Bush è scesa al 35%, livello a cui si trova attualmente. Al momento, lo speaker repubblicano della Camera, John Boehner, sostiene di essere del tutto contrario a qualsiasi aumento delle aliquote più elevate ma non esclude di dare il proprio assenso alla proposta di mettere fine alle deduzioni fiscali, così che un possibile accordo a metà strada con un limitato aumento delle aliquote massime sembra essere a portata di mano.
Anche se Obama dovrebbe avere quest’anno una maggiore influenza nelle trattative con i repubblicani in seguito alla sua rielezione e ai progressi dei suoi colleghi di partito al Congresso, è tutt’altro che certo che il presidente intenda utilizzarla fino in fondo o che essa sarà sufficiente per superare le resistenze di un partito che ha conservato una solidissima maggioranza alla Camera.
La determinazione di Obama di far pagare più tasse alle classi privilegiate appare, in ogni caso, poco più di una farsa, come lo è peraltro l’intera emergenza fabbricata ad arte del “fiscal cliff”. Qualsiasi aumento del carico fiscale per i ricchi americani avrà un’incidenza del tutto trascurabile, mentre in cambio verranno adottati pesantissimi tagli alla spesa pubblica, come deve avere assicurato lo stesso presidente alla dozzina di amministratori delegati delle maggiori compagnie americane, riuniti mercoledì alla Casa Bianca.
Il vago principio di equità a cui Obama fa appello per affrontare la riduzione del debito non può nascondere il vero e proprio assalto che si sta preparando a programmi pubblici estremamente popolari. Come ha confermato in una recente intervista a Bloomberg News l’ex capo di gabinetto di Obama e già top manager di JP Morgan, William Daley, nelle trattative con i repubblicani per un “grande accordo” sul “fiscal cliff” la Casa Bianca partirà in gran parte dall’offerta che aveva proposto alla sua controparte nelle già ricordate negoziazioni dell’estate 2011.
Dell’entità delle misure considerate in quella circostanza ne ha dato un’idea qualche giorno fa il noto giornalista investigativo del Washington Post, Bob Woodward, durante un’apparizione alla NBC. Il reporter diventato famoso per aver rivelato i retroscena dello scandalo Watergate ha infatti presentato una copia fino ad ora segreta della proposta finale fatta da Obama a Boehner nel luglio 2011. Da essa, ha affermato Woodward, si deduce la volontà del presidente democratico di “tagliare qualsiasi cosa”, da Tricare (il programma di copertura sanitaria per i militari) a Medicare a Social Security. Sul fronte fiscale, invece, Obama “vuole abbassare le aliquote non solo per i singoli contribuenti ma anche per le aziende”.
I tagli a questi programmi pubblici che si prospettano sotto la gestione democratica saranno senza precedenti e, va ricordato, non sono mai stati possibili in passato nemmeno durante le precedenti amministrazioni repubblicane più conservatrici a causa della decisa opposizione popolare. Concretamente, il punto di partenza della proposta di Obama include, tra l’altro, tagli a Medicare pari ad almeno 250 miliardi di dollari entro il 2012 e a 800 miliardi nel decennio successivo. Per Sociali Security si parla di 112 miliardi in meno in dieci anni, di 16 miliardi per Tricare, altrettanti per i fondi destinati all’educazione superiore e così via.
La riforma fiscale “equa” in preparazione prevede invece misure che “migliorino la competitività internazionale” delle aziende americane, nonché incentivi per le compagnie che vorranno investire negli USA. In altre parole, si cercherà di creare un clima favorevole al business abbassando le tasse sui profitti delle corporation, da compensare con tagli alla spesa pubblica per programmi destinati alle classi più disagiate.
Simili iniziative, molto difficilmente potrebbero essere adottate senza la campagna mediatica fuorviante in atto, ma anche senza il supporto decisivo delle organizzazioni sindacali che hanno il compito di neutralizzare l’opposizione dei lavoratori americani. L’amministrazione Obama può però contare sulla connivenza dei sindacati ufficiali che, dopo avere speso centinaia di milioni di dollari per la rielezione del presidente democratico, hanno confermato di essere sulla stessa lunghezza d’onda di quest’ultimo anche in seguito all’incontro organizzato alla Casa Bianca martedì per discutere appunto delle misure legate al “fiscal cliff”.
Ben consapevole di ciò che attende la maggioranza degli americani, compresi gli affiliati alla sua organizzazione, Richard Trumka, presidente dell’AFL-CIO, la più grande federazioni sindacale degli Stati Uniti, dopo il vertice con Obama si è nondimeno presentato alla stampa affermando il suo impegno e quello degli altri sindacati per “assicurare che la classe media e i lavoratori non finiscano per pagare il conto di una festa a cui non hanno partecipato”.