di Michele Paris

NEW YORK. Qualche giorno fa, il blogger americano Richard Silverstein ha pubblicato un memorandum segreto prodotto dall’ufficio del premier israeliano, Benjamin Netanyahu, che conferma le intenzioni di quest’ultimo di lanciare un attacco militare preventivo contro l’Iran in tempi brevi. Il documento coincide con una valanga di articoli apparsi negli ultimi giorni sui media israeliani e occidentali su un imminente blitz e sarebbe stato preparato nel tentativo da parte di Netanyahu, così come del suo ministro della Difesa, Ehud Barak, di convincere il Consiglio di Sicurezza Israeliano della necessità di passare all’azione contro la Repubblica Islamica.

Secondo la traduzione in lingua inglese del memorandum, “l’operazione israeliana inizierà con un’offensiva coordinata che include un attacco informatico per paralizzare totalmente il regime iraniano”, in modo da bloccare tutte le comunicazioni tra i vertici del governo di Teheran, l’esercito e le installazioni nucleari. Questa prima fase sarebbe accompagnata dal lancio di missili balistici e missili Cruise, diretti verso le strutture di difesa iraniane, quelle nucleari e di comando, ma anche verso le residenze dei membri dell’élite politica e militare di Teheran.

Successivamente, prosegue il documento, sarebbe la volta di “incursioni aeree contro quei bersagli che richiedono ulteriori attacchi”. Un piano, quello dettagliato da Netanyahu, che provocherebbe un numero enorme di vittime civili in Iran e scatenerebbe con ogni probabilità un conflitto di più ampie dimensioni nella regione mediorientale.

Simili preparativi appaiono la logica conseguenza delle posizioni sempre più minacciose assunte da esponenti di spicco del governo di Tel Aviv negli ultimi tempi. Mercoledì, ad esempio, il neo-ambasciatore in Cina, ed ex ministro della Difesa Interna, Matan Vilnai, in un’intervista al quotidiano Maariv ha reso note le previsioni del governo sull’impatto in Israele della guerra contro l’Iran. Per Vilnai le stime indicano perdite civili israeliane pari a circa 500 persone, causate dalla risposta iraniana all’aggressione militare.

Cinicamente, lo stesso Vilnai ha anche affermato che i cittadini del suo paese non hanno scelta, poiché “come i giapponesi devono rassegnarsi a convivere con i terremoti, gli israeliani devono essere preparati ad essere il bersaglio di attacchi missilistici”, dal momento che questa è l’ovvia reazione alla politica guerrafondaia del loro governo. La guerra dovrebbe durare una trentina di giorni e sarebbe combattuta “su più fronti”. Israele, infatti, si aspetta il coinvolgimento nel conflitto di Hezbollah in Libano e di Hamas nella Striscia di Gaza.

A gettare benzina sul fuoco è stato poi giovedì l’ambasciatore israeliano negli Stati Uniti, Michael Oren, il quale ha detto al Jerusalem Post che il suo governo è pronto ad attaccare l’Iran anche se un’eventuale operazione militare dovesse ritardare la produzione di armi nucleari da parte di Teheran di appena un anno. Per giustificare il blitz, l’ambasciatore ha fatto riferimento ad un’altra azione illegale nella storia di Israele, cioè l’incursione aerea del 1981 contro il reattore nucleare di Osirak, in Iraq.

Oren, per il quale la minaccia nucleare iraniana è senza precedenti anche se in realtà inesistente, sostiene che un anno è un periodo lungo per il Medio Oriente e molte cose possono accadere in dodici mesi tra cui, come auspica Israele, un cambio di regime a Teheran, obiettivo a cui Tel Aviv e Washington lavorano peraltro da tempo sia apertamente che in maniera clandestina.

Ribaltando poi completamente la realtà, nella sua intervista il capo della missione diplomatica israeliana a Washington ritiene che un’azione militare contro l’Iran sia necessaria perché la Repubblica Islamica non ha mostrato finora alcuna flessibilità nelle trattative sulla questione del programma nucleare. In realtà è vero esattamente il contrario, visto che sono gli USA, in accordo con Israele, ad aver assunto una posizione inflessibile nel corso dei vertici sul nucleare, allo scopo di far irrigidire i rappresentanti iraniani e giustificare l’adozione di misure sempre più dure contro Teheran.

L’escalation delle minacce israeliane delle ultime settimane, va detto, non è la conseguenza di nuove valutazioni dell’intelligence che indicano progressi dell’Iran verso la costruzione di ordigni nucleari, ma è piuttosto una decisione politica di Netanyahu e Barak che, come ha sostenuto un recente articolo del quotidiano Haaretz, sarebbero intenzionati ad attaccare unilateralmente l’Iran alla vigilia delle elezioni americane per trascinare Washington nel conflitto.

Di fronte alla ritorsione iraniana, infatti, l’amministrazione Obama si vedrebbe costretta ad intervenire per evitare di subire gli attacchi dei rivali repubblicani a pochi giorni dal voto. Di una possibile offensiva repubblicana contro la Casa Bianca in caso di blitz israeliano deve avere discusso proprio il candidato alla presidenza, Mitt Romney, nel corso di una recente visita a Tel Aviv.

L’innalzamento dei toni del governo di Israele, secondo alcuni, avrebbe invece lo scopo di spingere gli Stati Uniti ad assumere una posizione ancora più dura nei confronti dell’Iran, anche se in ultima analisi una tale strategia prevede comunque una soluzione militare, sia pure in futuro relativamente più lontano. Il giornalista investigativo americano, Gareth Porter, ha scritto ad esempio sull’agenzia di stampa IPS News che Netanyahu e Barak vogliono per ora solo un cambiamento della posizione ufficiale di Washington.

I due leader israeliani, cioè, desiderano che Obama affermi apertamente che gli USA valuteranno l’opzione militare non più se il regime di Teheran prenderà la decisione di costruire armi nucleari ma anche solo se otterrà le capacità tecniche per fare questa scelta, trovandosi in una situazione peraltro simile a quella di molti altri paesi.

Le pressioni di Israele sugli Stati Uniti, alimentate dai media, derivano dal fatto che l’amministrazione Obama ritiene inopportuna un’azione militare contro l’Iran prima delle elezioni presidenziali di novembre. L’ansia di Netanyahu di far cambiare idea alla Casa Bianca si accompagna poi anche alla necessità di convincere coloro che in Israele sono contrari ad un’aggressione unilaterale.

Ai vertici delle forze di sicurezza di Tel Aviv persistono infatti forti resistenze contro una simile avventura e, come ha sostenuto Richard Silverstein, anche tra gli otto membri del Consiglio di Sicurezza Israeliano al momento c’è una maggioranza contraria ad un’operazione militare contro Teheran.

Per ribaltare questo equilibrio dovrebbe servire appunto il piano dettagliato descritto dal memorandum di Netanyahu, nel quale il premier singolarmente si astiene dal descrivere gli effetti di una reazione iraniana per il proprio paese, forse perché vuol far credere che l’operazione israeliana paralizzerebbe del tutto il governo di Teheran.

Una prospettiva, quest’ultima, alquanto improbabile, come di certo si rende conto lo stesso Netanyahu. Il primo ministro conservatore, tuttavia, non sembra avere alcuno scrupolo per le possibili vittime civili israeliane e appare piuttosto convinto a perseguire il rovesciamento del regime iraniano attraverso un’operazione che andrebbe contro quel diritto internazionale che  il suo paese dimostra quotidianamente di ignorare.

di Michele Paris

NEW YORK. Gli agenti dell’Amministrazione per la Sicurezza dei Trasporti americana (TSA), in servizio presso l’aeroporto internazionale Logan di Boston, hanno ripetutamente distorto il programma utilizzato al fine di individuare potenziali terroristi per schedare passeggeri appartenenti a minoranze etniche. A rivelarlo è un recente articolo del New York Times basato sulle dichiarazioni segrete di una trentina di agenti federali impiegati nel terminal della metropoli del Massachusetts.

Secondo gli agenti che hanno presentato una formale protesta alla stessa TSA, un’agenzia federale che fa parte del Dipartimento per la Sicurezza Interna, quei passeggeri che corrispondono ad un determinato profilo hanno maggiori possibilità di essere fermati e sottoposti a più scrupolosi controlli di sicurezza da parte dei loro colleghi, incaricati invece di monitorare esclusivamente comportamenti sospetti. Tali passeggeri risultano essere, nella grande maggioranza dei casi, ispanici, neri, mediorientali o di altre minoranze etniche.

Uno degli agenti che hanno denunciato la situazione a Boston ha dichiarato che “chiunque abbia un aspetto che non piace agli agenti della TSA - cioè, ad esempio, se è una persona di colore che indossa abiti o gioielli costosi, oppure se è ispanico - viene con ogni probabilità fermato e sottoposto a controlli più severi”.

In seguito alla pubblicazione dell’articolo del New York Times, la TSA ha aperto un’indagine all’aeroporto Logan, mentre il deputato del Massachusetts, William Keating, membro della commissione per la Sicurezza Interna, ha chiesto un’audizione al Congresso per fare luce sulla vicenda.

Le più recenti rivelazioni riguardano Boston ma è altamente probabile che i programmi utilizzati dalla TSA, che teoricamente dovrebbero servire a prevenire minacce terroristiche, vengano distorti allo stesso modo anche in altri aeroporti statunitensi. Già lo scorso anno, infatti, erano emersi episodi simili, sia pure su scala minore, presso gli aeroporti delle Hawaii e di Newark, il terzo aeroporto di New York.

I metodi messi in atto a Boston, oltretutto, dovrebbero essere da modello per gli altri aeroporti americani. In questi ultimi sono in realtà già in funzione programmi per valutare il comportamento dei passeggeri ma nel prossimo futuro è prevista l’adozione di quelli sperimentati al Logan perché ritenuti innovativi e più efficaci. A Boston, ad esempio, il programma non prevede solo l’osservazione dei passeggeri in coda ai controlli ma anche una serie di domande individuali per studiare le risposte e le loro reazioni emotive.

Metodi simili sono tuttavia messi in dubbio dagli esperti, poiché non darebbero alcuna indicazione certa delle eventuali intenzioni di natura terroristica dei passeggeri. I programmi di studio del comportamento dei passeggeri negli aeroporti, spiega il Times, erano stati adottati per la prima volta nel 2003 proprio a Boston e si basavano sulle tecniche utilizzate dai servizi di sicurezza in Israele. Le basi scientifiche erano quanto meno approssimative e dopo nove anni la situazione, da questo punto di vista, rimane pressoché invariata.

Secondo le stime fornite dagli agenti che hanno denunciato i loro colleghi, pur senza statistiche precise, circa l’80% dei passeggeri fermati a Boston farebbe parte di minoranze etniche. Di fronte ad una tale sproporzione, anche la polizia della città ha chiesto alla TSA il motivo del così alto numero di casi riguardanti passeggeri mediorientali, neri o ispanici che vengono portati alla propria attenzione.

Per il New York Times, gli agenti della TSA agirebbero in questo modo in seguito alle pressioni esercitate dai loro superiori, i quali chiedono il raggiungimento di un certo numero di passeggeri fermati in tempi prestabiliti. Scegliendo appartenenti alle minoranze etniche, ritengono gli agenti, aumenterebbero le probabilità di scoprire reati legati al narcotraffico o a violazioni delle leggi sull’immigrazione.

In questo modo, ai politici di Washington viene fatto credere che il programma funziona, ma il tutto è solo una cortina fumogena che calpesta i diritti civili dei passeggeri e non fa nulla per individuare eventuali reali minacce di terrorismo.

I controlli effettuati in base al profilo razziale all’aeroporto di Boston confermano dunque ancora una volta come le misure di sicurezza adottate negli Stati Uniti per combattere la cosiddetta “guerra al terrore” dopo l’11 settembre vengano puntualmente manipolate per indebolire i diritti democratici dei cittadini e tenere sotto controllo gli appartenenti a gruppi sociali o etnici che la classe dirigente americana, sempre più impopolare, percepisce come una minaccia al proprio potere.

di Michele Paris

NEW YORK. Il presidente Mohamed Mursi ha sollevato dal proprio incarico di ministro della Difesa il dittatore de facto dell’Egitto post-Mubarak, feldmaresciallo Mohamed Hussein Tantawi, concentrando nelle proprie mani i poteri assoluti finora assunti dal Consiglio Supremo delle Forze Armate. Mursi ha pensionato anche il comandante delle Forze Armate egiziane, Sami Anan, e altre figure importanti tra i vertici militari; ma, soprattutto, ha revocato la modifica costituzionale decisa dalla giunta nel mese di giugno con la quale aveva assunto poteri pressoché assoluti, limitando drasticamente quelli presidenziali.

Con il colpo di mano di domenica, il presidente islamista ha anche assegnato a se stesso il controllo, in precedenza attribuito ai militari, del processo di scrittura della nuova Costituzione. In sostanza, cioè, se l’attuale assemblea non risultasse in grado di produrre una carta costituzionale per qualsiasi motivo, il presidente avrebbe il potere di nominare una nuova.

Oltre a Tantawi e Anan, Mursi ha rimpiazzato a sorpresa anche i comandanti delle forze navali e aeree dell’Egitto. Al posto del maresciallo fino a pochi giorni fa a capo della giunta militare al potere, il presidente ha nominato nuovo ministro della Difesa il capo dell’intelligence militare, Abdel Fattah al-Sissi, un generale con simpatie islamiste, diventato tristemente famoso lo scorso anno per aver difeso i cosiddetti “test di verginità” sulle manifestanti donne nel corso della rivolta.

Il nuovo capo di stato maggiore, al posto di Anan, sarà invece il generale Sidki Sobhi, già comandante delle forze armate egiziane dispiegate a Suez. Mursi ha infine nominato un nuovo vice-presidente, il giudice riformista Mahmoud Mekki.

Se dovesse andare a buon fine, la mossa del presidente Mursi rappresenterebbe una svolta significativa nel panorama egiziano, dal momento che ridimensionerebbe per la prima volta il ruolo dei militari, i quali hanno costituito il fulcro del potere fin dalla rivoluzione degli “Ufficiali liberi”, guidata da Nasser nel 1952. Un ribaltamento degli equilibri, quello tentato da Mursi, che vede oltretutto come protagonista il movimento dei Fratelli Musulmani, considerato ai limiti della legalità fino alla deposizione di Mubarak.

Lo sconvolgimento del quadro politico al Cairo giunge probabilmente non a caso in un momento di grandi tensioni, causate sia dalla crescente impopolarità dei militari e dei partiti politici egiziani nel quadro di un fallimentare processo di transizione democratica, sia dalle polemiche seguite alla recente uccisione di 16 soldati egiziani da parte di integralisti islamici nella penisola del Sinai. Un’azione, quest’ultima, a cui Mursi ha risposto molto duramente, ordinando tra l’altro bombardamenti aerei sul Sinai per la prima volta dalla guerra del 1973.

Proprio la risposta ai fatti del Sinai da parte di Mursi deve avere impressionato gli Stati Uniti, da dove rimaneva ancora qualche perplessità sui Fratelli Musulmani. L’offensiva militare del Cairo avrebbe cioè convinto Washington che il nuovo governo civile egiziano ha a cuore la sicurezza nella regione, a cominciare da quella di Israele. Per questo, è probabile che la mossa di domenica abbia ottenuto almeno il tacito assenso dell’amministrazione Obama.

Per alcuni, poi, la decisione di Mursi sarebbe servita per sventare una possibile azione contro il governo dei Fratelli Musulmani da parte degli ambienti secolari legati al vecchio regime. Secondo i media egiziani, infatti, dietro alla manifestazione di protesta indetta contro gli islamisti il 24 agosto prossimo poteva nascondersi un qualche tentativo di golpe.

In ogni caso, la manovra di Mursi ha contorni ancora non del tutto chiari ed effetti tutti da verificare. Significativo appare, tra l’altro, il fatto che l’estromissione di Tantawi e la nuova “dichiarazione costituzionale” emessa dal presidente sembrano essere state in qualche modo concordate con i militari stessi, i quali infatti non hanno reagito alla limitazione improvvisa del loro potere. Secondo quanto riferito in un’intervista alla Reuters dal neo vice-ministro della Difesa, Mohamed al-Assar, la decisione di Mursi sarebbe stata presa proprio in seguito a consultazioni con la giunta militare. Tantawi e Anan, peraltro, sono stati entrambi nominati consiglieri del presidente.

Dall’evoluzione dei fatti appare dunque possibile che i militari abbiano acconsentito alla cessione dei poteri politici al governo civile in cambio della rassicurazione che i loro enormi interessi economici nel paese non verranno toccati. Lo scontro tra i Fratelli Musulmani e il Consiglio Supremo delle Forze Armate degli ultimi mesi si era consumato proprio sulle questioni economiche, con i primi fattisi promotori di una liberalizzazione del mercato egiziano che potrebbe penalizzare fortemente il potere economico detenuto dai militari.

Le due parti, tuttavia, concordano sulla necessità di evitare l’esplosione di nuove proteste popolari che minaccerebbero la posizione di entrambi. Da qui, dunque, il raggiungimento di un accordo condiviso, giunto con la mossa di Mursi di domenica che, com’è ovvio, ha ottenuto il beneplacito di Washington.

L’assunzione dei poteri semi-dittatoriali finora nelle mani dei militari da parte del presidente è stata singolarmente salutata con entusiasmo da quasi tutti i partiti politici egiziani, compresi quelli di opposizione, come l’Alleanza Popolare Socialista e il movimento dei giovani manifestanti “6 Aprile”. Per tutti costoro i fatti dello scorso fine settimana rappresenterebbero un progresso per la democrazia egiziana.

In molti mettono però anche in guardia dalla concentrazione dei poteri nella figura del presidente, per di più islamista. Per il leader del Partito Social Democratico, Mohamed Abul-Ghar, “il problema ora è che l’Egitto non dispone di una costituzione che definisca i poteri presidenziali”, perciò il rischio è quello di avere “un presidente che concentri tutti i poteri di cui disponeva Mubarak”.

L’ex direttore dell’AIEA e premio Nobel per la pace, Mohamed ElBaradei, da parte sua ha affermato che la fine del monopolio del potere da parte dei militari rappresenta un passo avanti, ma la concentrazione dei poteri esecutivo e legislativo nelle mani di Mursi deve essere temporanea e quest’ultimo andrà conferito al più presto all’Assemblea Costituente.

A criticare duramente la presa di posizione di Mursi sono stati invece alcuni autorevoli giuristi egiziani. Secondo il quotidiano locale Al-Ahram, per molti esperti la revoca da parte del presidente della “dichiarazione costituzionale” fatta dai militari a giugno sarebbe incostituzionale e, anzi, Mursi andrebbe sottoposto ad azione legale.

Da questo punto di vista, dal momento che Mursi, assumendo la presidenza, ha giurato di fronte all’Alta Corte Costituzionale sottomettendosi a quella stessa costituzione modificata dalla giunta militare poco prima, non gli sarebbe consentito ora annullarla o cambiarla. Mursi avrebbe dovuto piuttosto rispettare la costituzione, anche se temporanea, in attesa della scrittura di una nuova carta.

di Michele Paris

NEW YORK. Dopo innumerevoli ipotesi e congetture giornalistiche, Mitt Romney ha finalmente sciolto le riserve sulla scelta del candidato alla vicepresidenza per il Partito Repubblicano, optando per l’astro nascente ultra-conservatore Paul Ryan, giovane deputato cattolico del Wisconsin. La decisione, annunciata ufficialmente nella prima mattinata di sabato, è stata subito accompagnata da una valanga di commenti negli Stati Uniti sui pro e i contro della presenza nel “ticket” repubblicano del 42enne presidente della Commissione Bilancio della Camera dei Rappresentanti.

Secondo la ricostruzione fatta dal Wall Street Journal, Romney avrebbe informato della sua scelta la consigliera Beth Myers, anche responsabile del team per la scelta del candidato vice-presidente, già il primo agosto e si sarebbe incontrato con Ryan poco più tardi. Nell’ultima settimana erano circolati molti nomi di possibili prescelti dal miliardario mormone, anche se nei due giorni precedenti la decisione finale l’ipotesi Paul Ryan aveva cominciato a prendere consistenza. Nella serata di venerdì, poi, i giornali USA hanno diffuso la notizia dell’annuncio imminente, arrivato il giorno successivo durante un evento pubblico di Romney a bordo della nave da guerra “Wisconsin” a Norfolk, in Virginia.

Paul Ryan è una figura estremamente controversa a Washington, amato dai conservatori e dai falchi del deficit, è il bersaglio prediletto di politici e commentatori liberal. Allo stesso modo, Ryan è visto con sospetto dai moderati del Partito Repubblicano, i quali ritengono che la sua presenza al fianco di Romney possa attirare troppo facilmente le critiche dei democratici. Dopo aver conquistato la presidenza della Commissione Bilancio della Camera in seguito alle elezioni di medio termine del 2010, Ryan è stato costantemente al centro del dibattito sulla questione del debito come principale sostenitore della necessità di ridurre il deficit federale tramite il drastico ridimensionamento dei programmi pubblici di assistenza.

Nell’annunciare ai suoi sostenitori la scelta di Ryan, Mitt Romney ha subito tenuto a sottolineare che i due candidati repubblicani, se vittoriosi a novembre, lavoreranno per la salvaguardia di Medicare - il programma pubblico di assistenza sanitaria riservato agli over 65 - e Social Security (pensione), anche se il possibile futuro vice-presidente ha più volte sostenuto la necessità di privatizzare entrambi i programmi. Romney ha anche significativamente definito Ryan uno dei “leader ideologici” repubblicani, confermando così di avere ormai abbracciato completamente l’ala conservatrice del partito, una mossa che gli consentirà ora di avere tutto l’establishment repubblicano al suo fianco dopo i dubbi del passato nei confronti di un candidato ritenuto troppo moderato.

Se la selezione del candidato vice-presidente, in genere, difficilmente ha un effetto decisivo sull’esito del voto a novembre, quella operata da Romney lancia però un segnale chiarissimo circa il suo spostamento a destra in questa campagna per la Casa Bianca. Con Ryan al suo fianco, infatti, Romney sembra annunciare che una sua eventuale futura amministrazione opererà senza scrupoli nell’ambito dei tagli alla spesa pubblica, mentre si adopererà per garantire nuovi benefici fiscali ai redditi più elevati.

La decisione presa da Romney rappresenta perciò anche una concessione alla fazione più radicale del proprio partito che nell’ultimo periodo aveva aumentato le pressioni sul candidato alla presidenza per scegliere un “running mate” dalle credenziali rigorosamente conservatrici. Paul Ryan è oltretutto apprezzato da testate molto influenti a destra, come il Wall Street Journal e il Weekly Standard, le quali entrambe nei giorni precedenti la nomina avevano pubblicato editoriali molto benevoli nei suoi confronti.

Per i giornali d’oltreoceano, la scelta del candidato alla vice-presidenza da parte di Romney avrebbe potuto ricadere su un repubblicano di basso profilo, come l’ex governatore del Minnesota, Tim Pawlenty, o il senatore dell’Ohio, Rob Portman, così da non sconvolgere le dinamiche della competizione, oppure su una figura, come appunto Paul Ryan, in grado di animare una parte dell’elettorato ma anche portatrice di rischi perché considerata troppo faziosa.

Quest’ultimo è infatti immediatamente identificabile come uno dei più accesi sostenitori a Washington delle ricette ultra-liberiste che hanno prodotto sia la crisi economica in atto che le crescenti diseguaglianze sociali negli Stati Uniti. In ogni caso, oltre ai già citati Pawlenty e Portman, Ryan ha dovuto superare la concorrenza anche di altri possibili candidati ben visti dalla destra del partito, come il senatore cubano-americano della Florida, Marco Rubio, e i governatori di Louisiana e New Jersey, rispettivamente Bobby Jindal e Chris Christie.

Paul Ryan è salito alla ribalta delle cronache di Washington nell’aprile del 2011, quando presentò un progetto di bilancio, chiamato “Percorso verso la prosperità”, che conteneva tagli alla spesa pubblica pari a 6.200 miliardi di dollari in dieci anni e la sostanziale liquidazione di Medicare, da trasformare in un programma sovvenzionato con fondi limitati per acquistare prestazioni sul mercato delle assicurazioni private.

Proprio l’identificazione di Ryan con lo smantellamento di Medicare potrebbe trasformare il voto di novembre in una sorta di referendum su questo programma pubblico, come temono in molti nel Partito Repubblicano, spostando il dibattito dalla prestazione di Obama in ambito economico.

Gli attacchi a Medicare sono infatti tradizionalmente un tema molto delicato nelle campagne elettorali americane, tanto che, ad esempio, i repubblicani vinsero le elezioni del 2010 soprattutto presentandosi come difensori di questo programma di fronte ai tagli contenuti nella riforma sanitaria approvata dai democratici qualche mese prima.

Le posizioni di Ryan sui programmi di assistenza pubblica non sono peraltro così lontane da quelle di alcuni membri democratici del Congresso. Nella versione della proposta di budget per il 2013, infatti, il parlamentare del Wisconsin ha presentato una proposta relativa a Medicare in parte modificata rispetto all’anno scorso dopo averla concordata con il senatore democratico dell’Oregon, Ron Wyden. Inoltre, lo stesso Obama lo aveva incluso tra i tre deputati repubblicani scelti per far parte della speciale commissione sulla riduzione del debito istituita nel 2010.

Ryan, infine, è anche attestato su posizioni di estrema destra sui temi sociali, essendosi in questi anni mostrato favorevole ad un emendamento costituzionale che definisca il matrimonio come un’unione tra persone di sesso opposto e fermamente contrario all’aborto in tutti i casi, alla legge che proibisce la discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale sui luoghi di lavoro e all’adozione per coppie omosessuali.

Solo 42enne, Paul Ryan dovrebbe in teoria portare, almeno in termini di immagine, una ventata di freschezza ai vertici del Partito Repubblicano, anche se tutta la sua carriera si è svolta finora esclusivamente all’interno dell’istituzione più screditata nel panorama politico americano, il Congresso, dove è entrato per la prima volta nel 1999.

In termini più concreti, nelle aspettative del team di Romney la candidatura di Paul Ryan alla vice-presidenza dovrebbe aiutare i repubblicani a conquistare i voti elettorali del Wisconsin, stato considerato in bilico quest’anno dopo che Obama lo aveva vinto a mani basse nel 2008. Dal momento che Romney è nato nel vicino Michigan, dove suo padre era stato governatore, il candidato repubblicano spera così di ribaltare gli equilibri elettorali nei fondamentali stati manifatturieri del Midwest.

 

di Michele Paris

NEW YORK. Il Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, sta ultimando un tour di quasi due settimane in Africa che l’ha portata a visitare svariati paesi, tra cui Senegal, Sudan del Sud, Uganda, Kenya e Sud Africa. In tutte le sue mete, la ex first lady ha invariabilmente cercato di promuovere maggiori legami politici ed economici con Washington, nel tentativo di contrastare gli interessi e i progetti commerciali cinesi nel continente.

In Senegal, tappa iniziale della sua trasferta africana, Hillary ha fatto ricorso al consueto appello al rispetto dei diritti umani e per l’avanzamento della democrazia, due obiettivi a cui gli Stati Uniti darebbero la precedenza assoluta nei rapporti con i propri partner stranieri, mentre altri paesi, come appunto la Cina, ritengono “sia più facile e redditizio fare finta di nulla”.

Secondo la Clinton, inoltre, il suo paese sarebbe determinato nel perseguire “un modello di partnership sostenibile che contribuisce ad aggiunge valore” al continente africano invece di estrarne soltanto. Anche in questo caso appare più che evidente il riferimento alla Cina, le cui attività in Africa nell’ultimo decennio sono state prevalentemente nel settore estrattivo.

Da simili dichiarazioni traspare tutto il cinismo di Hillary Clinton e della diplomazia americana, non solo perché gli Stati Uniti e i loro alleati europei sono in gran parte responsabili del saccheggio ai danni del continente africano durante e dopo il periodo coloniale, ma anche perché Washington intrattiene legami molto stretti con svariati regimi repressivi in ogni angolo del pianeta, senza scrupolo alcuno per i diritti democratici dei rispettivi abitanti.

Quello che gli USA intendono contrastare in Africa, in ogni caso, è un traffico commerciale diventato negli ultimi anni sempre più consistente, tanto da risolversi in un rapporto di semi-dipendenza per più di un paese del continente. La Cina, che già nel 2007 aveva rimpiazzato gli Stati Uniti come principale partner commerciale dei paesi africani, ha infatti scambiato con questi ultimi merci per ben 166 miliardi di dollari nel 2011. Recentemente, inoltre, Pechino ha annunciato l’apertura di una linea di credito riservata all’Africa pari a 20 miliardi di dollari.

La seconda tappa del tour di Hillary è stato il Sud Sudan. Sull’indipendenza di questo paese, ottenuta da poco più di un anno, gli USA e l’Occidente hanno investito enormi risorse economiche e diplomatiche, principalmente per contrastare la Cina, che risulta essere uno dei principali acquirenti del greggio sudanese.

Per questo motivo, essi intendono evitare lo scivolamento in un rovinoso conflitto con il Sudan, preannunciato dagli scontri degli ultimi mesi tra i due paesi. A questo scopo, la Clinton ha invitato Juba a trovare un accordo con Khartoum sul transito del petrolio estratto dai giacimenti del Sud e trasportato all’estero tramite oleodotti situati nel territorio controllato dal presidente Omar al-Bashir.

La presenza americana in Africa, a differenza di quella cinese, si fa sentire anche sul piano militare. In Uganda, altro paese toccato dalla trasferta di Hillary Clinton e guidato dall’autoritario presidente filo-americano Yoweri Museveni, il capo della diplomazia di Washington ha ad esempio visitato una base che ospita un contingente di soldati USA e da dove partono i droni utilizzati nel conflitto in Somalia tra il governo di transizione e i ribelli islamisti.

Nella stessa area, inoltre, lo scorso anno il presidente Obama aveva dato il via libera al dispiegamento di un centinaio di soldati delle forze speciali, operanti tra la Repubblica Centrafricana, la Repubblica Democratica del Congo e il Sud Sudan con il pretesto di contrastare le operazioni del cosiddetto Esercito di Resistenza del Signore, formazione di guerriglieri comandata da Joseph Kony.

Nel fine settimana scorso Hillary è stata poi in Kenya, dove ha esortato il presidente, Mwai Kibaki, e il primo ministro, Raila Odinga, a fare di tutto per evitare il ripetersi delle violenze che avevano seguito le elezioni del 2007 nella tornata elettorale in programma nel marzo 2013.

Il Kenya è un paese di grande importanza strategica, non solo perché vanta la più grande economia dell’Africa orientale ma anche per la sua posizione che consente l’accesso e il controllo sulla Somalia, dove gli USA, sia direttamente che tramite le forze dell’Unione Africana, sono coinvolti nella guerra civile che da oltre due decenni dilania il vicino nord-orientale.

Il Kenya dovrebbe essere anche la destinazione finale di un oleodotto in fase di studio per collegare il Sud Sudan con la città costiera di Mombasa. Il progetto è fortemente appoggiato da Washington, poiché permetterebbe di trasportare verso i mercati il petrolio di Juba, svincolando il Sud Sudan dalla dipendenza dal Sudan, dove la Cina ha operato cospicui investimenti negli ultimi anni.

La penultima tappa del tour di Hillary, che si chiuderà il 10 agosto in Ghana, è stata infine il Sud Africa, anche per il quale il primo partner commerciale è la Cina. Qui, il Segretario di Stato USA, oltre all’incontro con Nelson Mandela, ha discusso dei possibili nuovi investimenti americani che, hanno assicurato i vertici del governo di Pretoria, verrebbero accolti da un’ulteriore apertura del mercato locale alle compagnie straniere.

Dopo il confronto innescato in Estremo Oriente fin dall’inizio del proprio mandato, dunque, l’amministrazione Obama appare sempre più intenzionata a contrastare gli interessi cinesi anche nel continente africano. Il più recente viaggio di Hillary Clinton, dopo quello nel mese di maggio in Asia, si inerisce in questa strategia aggressiva e, proprio come in Asia, minaccia di innescare anche in Africa pericolose tensioni tra le due principali potenze del pianeta.


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