di Michele Paris

A più di una settimana dalle esplosioni alla maratona di Boston, l’individuazione dei due presunti responsabili dell’attentato continua a sollevare parecchi dubbi e perplessità. Svariate rivelazioni della stampa hanno infatti dimostrato come l’FBI fosse da tempo a conoscenza dei fratelli Tsarnaev, confermando come un altro atto terroristico - reale o fabbricato - messo in atto negli Stati Uniti nell’ultimo decennio sia con ogni probabilità ancora una volta da attribuire a individui le cui attività, quantomeno, erano finite all’attenzione dell’apparato della sicurezza nazionale americana.

Per cominciare, il governo russo un paio di anni fa aveva richiesto all’FBI informazioni sul fratello maggiore - Tamerlan Tsarnaev, ucciso la settimana scorsa dalle forze di polizia USA - qualche mese prima di una sua visita ai familiari in Cecenia e in Dagestan perché sospettato di essere in contatto con la rete terroristica internazionale di matrice islamica.

Secondo l’FBI, la risposta alle autorità russe era stata inoltrata nell’estate del 2011 dopo che una ricerca tra i propri archivi non aveva evidenziato “alcuna attività terroristica, né sul fronte domestico né su quello estero”. Alcuni agenti sarebbero anche stati inviati a Boston con l’incarico di fare domande allo stesso Tamerlan e ad alcuni suoi familiari. I media russi hanno però scritto in questi giorni che i servizi di sicurezza di Mosca avevano nuovamente contattato l’FBI nel novembre scorso in merito al 26enne ceceno.

Soprattutto, la versione della polizia federale statunitense contrasta con quella fornita dai genitori dei due fratelli in un’intervista pubblicata nel fine settimana appena trascorso dal network Russia Today (RT). La madre, Zubeidat Tsarnaeva, ha infatti descritto frequenti contatti tra la sua famiglia e gli agenti dell’FBI, i quali avevano definito Tamerlan un “leader estremista” di cui temevano le attività”. Per la donna, dunque, i suoi due figli sarebbero stati “incastrati”, visto che il maggiore è stato “sotto il controllo dell’FBI per un periodo compreso tra i tre e i cinque anni”.

Il padre, inoltre, ha aggiunto che l’FBI aveva visitato la loro abitazione a Cambridge, nel Massachusetts, almeno cinque volte alla ricerca di Tamerlan, così da prevenire possibili “esplosioni nelle strade di Boston”.

Altri dubbi sul fatto che l’FBI fosse stato a conoscenza di possibili minacce terroristiche durante la maratona sono emersi in seguito a dichiarazioni come quella dell’allenatore della squadra di corsa campestre dell’Università di Mobile, nell’Alabama, che ha partecipato all’evento di lunedì scorso.

Quest’ultimo ha raccontato di aver visto svariati agenti con cani in grado di fiutare esplosivi sia alla partenza della maratona che sul traguardo, ma anche cecchini sui tetti degli edifici circostanti. Avendo partecipato a decine di maratone negli Stati Uniti e in Europa, l’allenatore ha definito come insolite queste misure di sicurezza, mentre gli agenti impegnati avevano cercato di rassicurare i partecipanti dicendo che si trattava soltanto di normali esercitazioni.

Questa testimonianza va considerata con la massima attenzione e potrebbe dare credito alla tesi di qualche commentatore che, soprattutto nei siti di news alternativi, ha fatto notare come negli ultimi anni l’FBI abbia condotto una lunga serie di operazioni per incastrare potenziali terroristi che, da soli, mai avrebbero rappresentato una minaccia per la sicurezza nazionale.

In quelle che vengono definite “sting operations”, gli agenti federali individuano quasi sempre giovani disadattati appartenenti ad una minoranza etnica o religiosa e che hanno manifestato opinioni relativamente estremiste, per poi coinvolgerli in un complotto terroristico fornendo loro tutti gli strumenti necessari, compresi finti esplosivi. Simili operazioni hanno già portato a numerose pesanti condanne e, secondo alcuni, non è da escludere che in più di una circostanza l’esito finale possa essere risultato tutt’altro che inoffensivo per la sicurezza degli americani.

Ancora più inquietante è infine la ricostruzione fatta dal sito DebkaFile che vanta legami con l’intelligence e gli ambienti militari israeliani. Anche se spesso dall’attendibilità non esattamente indiscutibile, DebkaFile sostiene che i fratelli Tsarnaev erano agenti che stavano facendo il doppio gioco. Assoldati dagli Stati Uniti e dall’Arabia Saudita per penetrare la rete jihadista Wahabita che si è diffusa nella regione del Caucaso russo, Tamerlan e il 19enne Dzhokhar avrebbero finito per tradire la loro missione, offrendo i loro servizi al terrorismo islamico.

Questa versione, a sua volta, ha il merito di ricordare gli effetti indesiderati dell’utilizzo delle reti terroristiche islamiche fatto dagli Stati Uniti, i quali le indicano alternativamente come il proprio nemico giurato oppure le sfruttano più o meno apertamente per raggiungere i propri obiettivi strategici. Nel caso del terrorismo ceceno, i cui affiliati stanno partecipando con l’appoggio americano al conflitto in Siria per rovesciare il regime di Assad, è ampiamente documentato il sostegno di Washington alle forze separatiste che negli anni Novanta hanno combattuto contro l’esercito russo.

Coloro che si aspettano qualche risposta ai dubbi sui fatti di Boston del 15 aprile scorso dall’interrogatorio di Dzhokhar Tsarnaev resteranno con ogni probabilità delusi. Il giovane accusato dell’attentato è tuttora ricoverato in condizioni critiche in un ospedale di Boston, dove agenti della sicurezza degli Stati Uniti gli starebbero però già ponendo domande sull’accaduto. Se il sindaco della metropoli del Massachusetts, Tom Menino, ha sostenuto che il giovane, viste le sue condizioni, potrebbe non essere mai più in grado di sostenere un interrogatorio, la ABC lunedì ha rivelato che Dzhokhar sarebbe “cosciente” e starebbe “rispondendo sporadicamente e per iscritto alle domande” postegli.

Al di là della sua capacità di esprimersi dopo le ferite riportate nello scontro a fuoco con la polizia prima della cattura, le risposte più significative di Dzhokhar Tsarnaev sono destinate a rimanere segrete. Infatti, l’amministrazione Obama ha deciso di negargli i cosiddetti “Miranda rights”, vale a dire i diritti garantiti dalla Costituzione di ottenere l’assistenza di un legale, il quale potrebbe rivelare pubblicamente il contenuto delle domande poste al sospettato, e di rimanere in silenzio, come stabilito da una sentenza della Corte Suprema del 1966 (“Miranda contro Arizona”).

Questa misura profondamente antidemocratica adottata dal presidente Obama poggia su un’altra sentenza del supremo tribunale americano emessa nel 1984 (“New York contro Quarles”) e viene giustificata dalle necessità di sicurezza nazionale in presenza di accuse legate ad attività terroristiche. Quella che dovrebbe rappresentare un’eccezione, si è però di fatto trasformata in un mezzo per svuotare la Costituzione stessa, dal momento che l’FBI è ormai autorizzato a continuare i propri interrogatori senza leggere ai detenuti i propri diritti anche per ottenere informazioni non collegate ad una minaccia imminente.

Dal Congresso americano, poi, stanno giungendo appelli di senatori e deputati repubblicani per definire Dzhokhar Tsarnaev come “nemico in armi”, così da consegnarlo alle autorità militari e, privato di tutti i diritti costituzionali, sottoporlo a detenzione indefinita. La Casa Bianca, tuttavia, ha fatto sapere di voler processare il giovane di origine cecena in un tribunale civile, dal momento che, come ha fatto notare lunedì il New York Times, “gli Stati Uniti sono impegnati in un conflitto armato con Al-Qaeda e non con ogni musulmano estremista” e “non ci sono prove che suggeriscano una sua affiliazione ad Al-Qaeda”.

Il trattamento dell’unico sospettato per i fatti di Boston non è che l’ennesima conferma del preoccupante deterioramento dei diritti democratici negli Stati Uniti in questi anni. Una situazione resa ancora più evidente dall’incredibile stato di assedio a cui è stata sottoposta la città di Boston e alcuni sui sobborghi la scorsa settimana durante l’operazione che ha portato all’uccisione di Tamerlan Tsarnaev e all’arresto del fratello.

Con la pressoché totale approvazione dei media ufficiali, più di un milione di persone sono state costrette a rimanere nelle loro case, mentre svariate abitazioni nella località di Watertown sono state sottoposte a perquisizioni arbitrarie senza alcun mandato di un giudice. Inoltre, nelle strade deserte il dispiegamento di forze di polizia, elicotteri, armi e mezzi pesanti per la cattura di un 19enne sembrava più adatto ad un teatro di guerra come Kabul o Baghdad che ad una città della East Coast statunitense.

Il senso di panico alimentato nella popolazione dalle autorità e dai media ha finito comunque per produrre un consenso diffuso per l’operato delle forze di polizia, tanto che, una volta conclusa l’operazione, per le strade di Boston in molti hanno festeggiato l’arresto di Dzhokhar Tsarnaev sventolando bandiere americane.

Una risposta all’attentato, quella messa in atto dal governo americano, che è sembrata in ogni caso assumere quasi i contorni di una prova generale di un’operazione su vasta scala in un contesto urbano volta a reprimere una rivolta popolare che, come è ben consapevole la classe dirigente di Washington, potrebbe esplodere in un futuro non troppo lontano a causa delle politiche anti-sociali messe in atto in questi anni per salvare il sistema capitalistico dalla crisi strutturale in atto.

Il pretesto della “guerra al terrore” e i metodi pseudo-legali adottati per combatterla da oltre un decennio, d’altra parte, hanno prodotto la militarizzazione della società americana e gettato le basi per la creazione di uno stato di polizia, assegnando al governo poteri senza precedenti per affrontare le minacce domestiche che si presenteranno con l’intensificarsi delle tensioni sociali nel paese.

di Michele Paris

Il Gran Premio di automobilismo in programma domenica prossima nel Bahrain andrà regolarmente in scena per il secondo anno consecutivo nonostante la persistente repressione messa in atto dal regime fin dal febbraio del 2011 contro i manifestanti che chiedono riforme e maggiori diritti democratici. In vista dello svolgimento delle prove e della gara vera e propria, gli attivisti del piccolo paese mediorientale hanno programmato nuove manifestazioni di protesta, già accolte con il consueto pugno di ferro dalle forze di sicurezza, nonché dalla sostanziale indifferenza dei vertici della Formula 1.

Già nei giorni precedenti l’arrivo delle varie scuderie in Bahrain, il regime guidato dal sovrano Hamad bin Isa al-Khalifa aveva adottato misure estreme nei confronti degli oppositori. Come ha raccontato mercoledì al Guardian l’attivista Ala’a Shehabi, sono stati presi provvedimenti per tenere i manifestanti lontani dalla capitale, Manama, mentre è stato imposto il divieto assoluto di organizzare qualsiasi forma di protesta. Di conseguenza, contestazioni e scontri con le forze di polizia sono stati registrati finora in località periferiche, lontano dagli occhi dei giornalisti giunti in Bahrain, così da non mettere troppo in imbarazzo il governo e gli organizzatori del Gran Premio.

A descrivere le attività delle forze del regime nei giorni scorsi è stato il portavoce dell’ONG Bahrain Center for Human Rights, Said Yousif, secondo il quale la nuova ondata di repressione in previsione della gara di automobilismo è iniziata “due settimane fa, in particolare nei villaggi che si trovano nelle vicinanze del circuito. 65 persone sono state arrestate, mentre i leader dell’opposizione, prima di venire rilasciati, hanno subito percosse e torture così da mostrare a tutti i segni” del trattamento a loro riservato.

Inoltre, per disperdere le proteste, la polizia ha fatto ampio uso di gas lacrimogeni, spesso sparati alla testa di alcuni manifestanti, come ha rivelato Human Rights Watch basandosi su testimonianze raccolte nel paese. La stessa organizzazione a difesa dei diritti umani giovedì ha poi emesso un comunicato sul proprio sito web, condannando l’organismo internazionale che governa la Formula 1, poiché “non ha fatto nulla per evitare gli abusi che sono stati commessi e che sono da ricondurre direttamente all’evento” sportivo.

Il disinteresse mostrato dai dirigenti della Formula 1 per la sorte degli attivisti e della maggioranza della popolazione del Bahrain appare tanto più grave alla luce del pesante bilancio degli scontri che erano avvenuti nell’edizione dello scorso anno. In quell’occasione, infatti, la risposta delle forze di sicurezza alle proteste prima della gara causò la morte di un manifestante, ucciso con un arma da fuoco dalla polizia dopo essere stato arrestato e picchiato brutalmente.

Secondo la responsabile per il Medio Oriente di Human Rights Watch, Sarah Leah Whitson, “gli organi della Formula 1 preferiscono nascondere la testa sotto la sabbia e rischiare che la gara venga disputata nonostante la repressione che l’evento stesso ha provocato”.

Le massime autorità dell’automobilismo internazionale, da parte loro, stanno cercando di mantenere un basso profilo in questi giorni e, quando pressati dalla stampa, hanno rilasciato dichiarazioni che celano a malapena il loro esclusivo interesse per le ragioni commerciali legate all’evento.

Il boss della Formula 1, il miliardario ultra-reazionario Bernie Ecclestone, qualche giorno fa aveva ad esempio affermato che in Bahrain non era in corso nessuna dimostrazione contro il regime, nonostante fossero già avvenuti arresti e violenti scontri nel paese.

Successivamente, l’imprenditore britannico - noto per avere definito Adolf Hitler “un uomo capace di ottenere risultati” e per avere spiegato che la democrazia è un sistema che “non è stato in grado di produrre cose positive in molti paesi” - è stato costretto a fare una parziale marcia indietro, sostenendo inoltre di essere disponibile ad incontrare i leader dell’opposizione al regime sunnita stretto alleato degli Stati Uniti e dell’Occidente.

Ecclestone ha poi ribadito quali siano le priorità dell’organismo di cui è a capo, aggiungendo che il suo desiderio e quello dei suoi colleghi d’affari è che “non ci siano problemi, che non si vedano persone che discutono o si scontrano per cose che noi non comprendiamo”.

Alla vigilia del Gran Premio del 2012, Ecclestone aveva effettivamente ricevuto a Londra e a Manama rappresentanti delle opposizioni ma dopo i colloqui aveva affermato che “risultava veramente difficile decidere chi avesse ragione e chi torto” tra i manifestanti sottoposti a continue violenze ed abusi da una parte e un regime dittatoriale che garantisce ai vertici dell’automobilismo mondiale guadagni milionari dall’altra.

Le questioni che il quarto uomo più ricco di Gran Bretagna afferma di faticare a comprendere sono in realtà evidenti a tutta la comunità internazionale, visto che le notizie degli assassini, delle torture, degli arresti arbitrari e delle discriminazioni ai danni degli oppositori del regime e della maggioranza sciita della popolazione del Bahrain sono state riportate dai media di tutto il mondo negli ultimi due anni, così come più di un titolo ha ricevuto nel marzo del 2011 l’ingresso nel paese delle forze armate saudite e di altri paesi del Golfo Persico per reprimere nel sangue le proteste di piazza.

A rompere il silenzio sul Bahrain è stato poi in questi giorni anche Jean Todt, presidente della Federazione Internazionale dell’Automobile (FIA) ed ex direttore generale del team Ferrari, il quale in una lettera alle locali ONG ha assurdamente comunicato che “il Gran Premio può avere un effetto positivo e benefico su una situazione nella quale gli scontri, il malessere sociale e le tensioni stanno causando sofferenze”.

La pretesa di Todt è semplicemente ridicola, dal momento che questa manifestazione, oltre ad avere determinato un’intensificazione della repressione del regime, finisce per beneficiare esclusivamente una ristretta cerchia di multi-miliardari che incassano somme astronomiche grazie al giro d’affari prodotto dalla gara.

La competizione nel Bahrain, secondo alcune stime, frutterebbe circa 40 milioni di sterline alla Formula 1, mentre l’evento muove complessivamente centinaia di milioni di dollari. Di fronte a queste cifre, è facile comprendere le ragioni per cui la gara è stata reinserita nel calendario della Formula 1 nel 2012 dopo la cancellazione dell’anno precedente.

Lo svolgimento dell’evento sportivo più prestigioso che ospita il Bahrain, infine, non ha contribuito minimamente al miglioramento della situazione nel paese, né a spingere la monarchia assoluta a fare concessioni significative. Come ha evidenziato ancora Human Rights Watch giovedì, infatti, “al contrario dell’impunità garantita alle forze di sicurezza [responsabili materiali della repressione delle proteste], il sistema giudiziario del Bahrain continua a perseguire i manifestanti pacifici”.

Lo scorso 7 gennaio, ad esempio, la Corte di Cassazione ha confermato lunghe condanne detentive per 13 dissidenti – tra cui 7 ergastoli – colpevoli soltanto “di avere esercitato pacificamente il loro diritto di espressione e di assemblea nel corso delle proteste del 2011”.

di Michele Paris

Il think tank americano Constitution Project ha presentato ufficialmente martedì i risultati di un’importante indagine condotta per oltre due anni da un’apposita “task force” sulle condizioni di detenzione e i metodi utilizzati durante gli interrogatori dalle autorità degli Stati Uniti nell’ambito della ultra-decennale “guerra al terrore”. Il materiale così portato a conoscenza del pubblico indica la massiccia presenza di prove che giustificherebbero ampiamente l’apertura di processi per crimini di guerra contro i massimi vertici delle ultime tre amministrazioni - Clinton, Bush jr. e Obama - che si sono succedute alla guida del paese.

Lo studio indipendente di 577 pagine è basato su documenti di dominio pubblico e su centinaia di interviste con ex detenuti accusati di terrorismo, ex militari e membri dell’intelligence, ma anche politici americani e di altri paesi. Il gruppo di lavoro - presieduto da due ex parlamentari, il repubblicano Asa Hutchinson e il democratico James R. Jones - non ha però avuto accesso a documenti classificati, né ha avuto la facoltà di ordinare testimonianze di personalità coinvolte in arresti o interrogatori arbitrari.

La sola introduzione del rapporto è sufficiente a rendere l’idea della gravità dei fatti presi in considerazione e del punto fino a cui la classe politica americana si è spinta in questi anni, giustificando pratiche criminali con la necessità di garantire la sicurezza dei cittadini. Gli autori dello studio scrivono infatti che “gli eventi esaminati non hanno precedenti nella storia degli Stati Uniti.

Nel corso dei numerosi conflitti nella storia del paese non ci sono dubbi che alcuni americani abbiano commesso atti  brutali nei confronti di prigionieri, così come lo hanno fatto gli eserciti e i governi. Ci sono però prove che mai abbia avuto luogo una meticolosa e dettagliata discussione - che coinvolge direttamente un presidente e i suoi principali consiglieri - sull’opportunità e la legalità di atti volti ad infliggere dolore su alcuni detenuti sotto la nostra custodia come dopo l’11 settembre”.

Le varie sezioni dell’indagine appena pubblicata offrono la possibilità di analizzare le pratiche illegali messe in atto in Iraq, in Afghanistan, nel lager di Guantánamo, così come nei cosiddetti “buchi neri”, vale a dire le prigioni clandestine operate dalla CIA in paesi stranieri e dove sono stati condotti interrogatori “estremi” su persone sottoposte a “rendition”. Ancora, gli undici membri della “task force” hanno studiato il ruolo avuto dai medici nel corso delle torture e la presunta efficacia di questi metodi per ottenere informazioni dai detenuti, affermando di non aver riscontrato prove circa la loro utilità nello sventare ulteriori trame terroristiche.

Rompendo qualsiasi incertezza sulla natura degli interrogatori operati dalla CIA, il rapporto sostiene che il governo americano si è “indiscutibilmente” reso responsabile di atti di tortura, con l’approvazione ottenuta “dai più alti vertici della nazione”. Al contrario di quanto stabilito dai pareri legali degli esperti dell’amministrazione Bush dopo l’11 settembre, dunque, la pratica del “waterboarding” o annegamento simulato, la privazione del sonno, l’esposizione continua a musica ad altissimo volume, la permanenza forzata in posizioni estremamente scomode ed altro ancora rappresentano senza dubbio pratiche di tortura secondo il diritto internazionale.

Ancora meno dubbi ci sono poi sugli episodi che hanno evidenziato brutali percosse, in alcuni casi tali da portare alla morte dei sospettati sotto custodia, come accadde nel dicembre del 2002 ad un detenuto 22enne identificato col solo nome di Dilawar, picchiato selvaggiamente presso la base di Bagram, in Afghanistan, nonostante non avesse commesso alcun crimine.

I sospettati sottoposti a simili trattamenti, inoltre, sono stati spesso vittime di “extraordinary renditions”, iniziate già sul finire degli anni Novanta durante la presidenza Clinton. L’allora presidente democratico approvava personalmente ogni singola “rendition”, una pratica a cui avrebbe poi fatto massiccio ricorso il suo successore all’indomani degli attacchi contro il World Trade Center e il Pentagono.

Oltre a fornire un resoconto dettagliato dei trattamenti riservati ai detenuti nelle mani dell’apparato della sicurezza americano, la commissione istituita dal Constitution Project fa notare come gli Stati Uniti siano firmatari della Convenzione delle Nazioni Unite Contro la Tortura, il cui dettato impone oltretutto una tempestiva indagine in caso di accuse di torture, nonché adeguati risarcimenti per le vittime.

“Nonostante la situazione del tutto straordinaria” venutasi a creare dopo l’11 settembre, si legge ancora nel rapporto, “l’amministrazione Obama si è rifiutata di intraprendere o commissionare un’indagine speciale su quello che è successo, perché giudicata “improduttiva” e perché ha ritenuto più opportuno ‘guardare avanti’ piuttosto che rispolverare il passato”.

Obama, infatti, fin dal 2009, si è opposto a qualsiasi ipotesi di perseguire i responsabili degli abusi all’interno dell’amministrazione Bush, così come di lanciare una speciale commissione sulle torture e le “renditions” come veniva chiesto da più parti nella società civile e tra i suoi stessi colleghi democratici.

Il motivo di questo rifiuto è dovuto all’adozione da parte della sua stessa amministrazione di molti dei metodi illegali nella “guerra al terrore” usati in precedenza. Obama, anzi, si è spinto ben oltre gli eccessi del presidente repubblicano, giungendo ad esempio ad affermare l’autorità del potere esecutivo di ordinare unilateralmente l’assassinio di qualsiasi persona sospettata di terrorismo ovunque nel mondo - cittadini USA compresi - senza presentare prove di colpevolezza e senza passare attraverso un qualsiasi procedimento giudiziario.

Se le prove dei crimini commessi da tutti i vertici delle ultime amministrazioni americane emergono chiaramente dall’indagine appena pubblicata, i loro autori hanno rilasciato commenti piuttosto cauti e hanno evitato di fare raccomandazioni esplicite. L’ex numero uno della DEA (Drug Enforcement Administration) e già sottosegretario al Dipartimento per la Sicurezza Nazionale, Asa Hutchinson, ha inoltre sostenuto che, “nonostante tutti fossero coinvolti nelle decisioni, a partire dal presidente Bush, essi hanno agito in buona fede, nel disperato tentativo di evitare nuovi attacchi”.

Oltre a questa colossale manipolazione della realtà, l’ex deputato repubblicano dell’Arkansas ha poi aggiunto che gli Stati Uniti hanno “imparato dalla storia”, occultando deliberatamente la continua erosione dei diritti democratici avvenuta durante l’amministrazione Obama.

Il contenuto dello studio promosso dal Constitution Project, secondo gli stessi autori, dovrebbe infine essere supportato dalla diffusione pubblica di un altro rapporto ben più dettagliato di circa seimila pagine sugli abusi della CIA. Quest’ultimo è stato condotto dalla Commissione per i Servizi Segreti del Senato grazie all’analisi di una miriade di documenti classificati dell’agenzia di Langley, ma continua a rimanere segreto impedendo alla popolazione americana di conoscere interamente la gravità dei crimini commessi in questi anni in nome della cosiddetta guerra al terrorismo internazionale.

di Fabrizio Casari

Gli scontri in Venezuela, voluti dal candidato della Casa Bianca e dell’oligarchia locale orfana dei profitti petroliferi, non hanno raggiunto, al momento, i risultati politici sperati. La campagna per il disconoscimento della vittoria di Maduro non ottiene significative adesioni internazionali. La grancassa propagandistica ci prova; apparentemente, ricontare le schede elettorali in presenza di risultati contestati sembrerebbe un atto di buonsenso.

Ignorando i report positivi degli osservatori internazionali presenti ed evitando di domandarsi cosa accadrebbe se in ogni paese, ad ogni elezione o referendum, il conteggio ufficiale e il controllo degli organi costituzionalmente preposti venissero di fatto disconosciuti, si tenta di far passare il concetto per il quale ricontare è norma di buonsenso, utile svelenire il clima e ad offrire certezze. Ma nel caso del Venezuela si tratta di ben altro. Lungi dal voler offrire una controprova di democrazia, la contestazione dei risultati elettorali è il primo atto del sovvertimento della stessa. Non é un caso che il candidato dell'oligarchia non abbia intentato nessun ricorso formale, preferendo invitare a "scaricare la rabbia" per le strade. Otto morti, sessanta feriti e 150 arresti. Una militante chavista é stata bruciata viva e si trova in coma, gli ambulatori popolari sono stati assaltati dai cosiddetti "democratici". Capriles risponderà presto di quanto successo.

Per inciso, tra gli specialisti di sistemi elettorali si ritiene che quello venezuelano sia tra i più sicuri a prova di frode. I tre livelli diversi d’identificazione rendono sostanzialmente impossibile votare più di una volta e l’alterazione reciproca tra il voto informatico e quello cartaceo risulta impossibile.

Ebbene, le urne venezuelane hanno confermato il sostegno popolare al progetto chavista. Quasi 300.000 voti di differenza possono sembrare pochi, certo; ma averli o non averli fa la differenza tra vincere e perdere. Così come con soli 45 mila lo stesso Capries vinse le elezioni a governatore nello stato di Miranda. Allora però, l'esiguo vantaggio gli apparve sufficiente e le macchine, oggi considerate inaffidabili, allora gli sembrarono perfette. Nella maggior parte dei paesi dove si vota con un sistema uninominale, spesso sono una manciata di voti a decidere vincitori e sconfitti. In Venezuela, invece, pare debbano essere una manciata di oligarchi a decidere quanto conti il voto popolare.

Quello che dev’esser chiaro, però, è che quanto avviene a Caracas non è il frutto di un risultato precario, né una reazione istintiva di fronte ad una vittoria attesa o a frodi che non vi sono state, bensì l’applicazione di un piano precedentemente predisposto e rigorosamente applicato.

A meno che la vittoria di Maduro non fosse stata schiacciante, infatti, il piano (noto e ampiamente denunciato) stabilito a Washington alla vigilia del voto, era molto chiaro. Prevedeva, in caso di sconfitta di misura di Capriles, il non riconoscimento della vittoria del chavismo e proteste e violenze di ogni tipo per far piombare il paese nel caos e aprire a scenari di sovversione autentica.

Del resto la dinamica del Colpo di Stato è l’unica strategia che a Washington conoscono e che, da sempre, applicano nel laboratorio latinoamericano. Le varianti sono il putch immediato o quella di non riconoscere la  validità del voto con annessa l’organizzazione di violenze diffuse che portino il paese nel caos e nel sangue e che producano l’intervento dei militari amici degli USA.

Ma quali che siano le modalità che di volta in volta, in linea con le circostanze, si scelgano, l’idea dominante è quella di sovvertire con la violenza il responso popolare e riportare i paesi “ostili” sotto il controllo di Washington. Negli ultimi anni li hanno organizzati in Venezuela, Honduras, Paraguay, Ecuador e Bolivia, ma solo in Honduras e Paraguay, dove la sinistra era più debole, hanno avuto successo.

Gli Usa, autonominatisi abusivamente specialisti della democrazia, usano infatti sovvertirla quando essa produce risultati a loro non graditi. Hanno bisogno di quinte colonne all’interno, ma queste non mancano mai e, nel caso del Venezuela, la tendenza golpista e fascistoide dell’opposizione è insopprimibile.

In questa occasione, come già ampiamente denunciato dal governo nei giorni precedenti al voto, gli step del piano destabilizzatore erano tre: non riconoscere la validità del voto e sollecitare altri paesi a seguire le indicazioni di Stati Uniti e Spagna nel chiedere di ricontare le schede; scatenare incidenti allo scopo di inibire la comunità internazionale a riconoscere Maduro quale nuovo Presidente; fare leva su alcuni alti ufficiali dell’esercito affinché prendessero posizione a favore di Capriles e aprissero un varco nelle file delle forze armate. Il tempo è un elemento decisivo: o si ribalta il tutto nelle 48 ore successive, oppure la partita è persa.

Passaggi diversi e successivi che dovevano portare ad un unico obiettivo: negare la validità del responso elettorale e, con essa, sospendere la sovranità popolare del Venezuela, consegnandola ad una sorta di protettorato internazionale che dovrebbe decidere modalità e caratteristiche della sua prossima fase politica e istituzionale.

Non è un caso che si usi all’uopo un cialtrone come Insulza, il Segretario dell’Organizzazione degli Stati Americani: l’OSA continua ad essere la facciata pubblica della covert diplomacy statunitense e viene storicamente usata per dare una patina di legalità alle ingerenze della Casa Bianca.

Benchè il senatore Usa Bill Richardson, a capo della delegazione di osservatori dell’OSA, abbia definito “trasparente e corretto” il voto, Insulza anche in questa occasione si è prestato alle esigenze di Washington tenendo in mano il cappello, evitando persino di consultare i governi che compongono l’organismo che dirige per paura che gli ordinino di rispettare il suo mandato.

Tutta l'America Latina (così come l'Unione Europea) ha infatti riconosciuto immediatamente la vittoria di Maduro e la sua legittima elezione alla Presidenza, ma Insulza, esperto di veleggiamenti verso porti sicuri, invece di rappresentare i paesi membri dell’organismo che dirige preferisce prendere ordini da Washington.

Sul piano interno il governo venezuelano ha trovato il sostegno popolare e quello delle Forze Armate e, pur cercando di non inasprire la situazione, ha già chiaramente indicato come la radicalizzazione delle proteste verrà affrontata con la radicalizzazione delle misure destinate a farvi fronte. Messaggio chiaro e forte, arrivato sia al quartier generale del proconsole dell’impero che ai suoi sponsor.

Superata la fase istituzionale dell’insediamento e rimessi al loro posto squadristi e golpisti, la direzione politica del paese dovrà però dedicarsi ad una riflessione profonda. La distanza tra quanto il chavismo si aspettava e quanto ha ottenuto è considerevole. Circa seicentomila voti mancano all’appello ed è innegabile quindi che il gruppo dirigente bolivariano abbia bisogno di resettarsi di fronte al nuovo corso.

C’è una destra che dispone di un blocco sociale storico nel paese e di un alleato poderoso all’estero e che aumenta i suoi consensi con il perdurare dei problemi atavici del Venezuela – delinquenza e corruzione diffuse in primo luogo – che si aggiungono al passo rallentato delle riforme a seguito di una situazione economica difficile, con soglie tra il 30 e il 40 per cento d’inflazione.

Tipica espressione di una burguesia compradora, priva di spessore politico e programmatico, capace solo di vendere gli interessi nazionali sperando in cambio di mantenersi il ruolo di raccoglitore le briciole che cadono dalla tavola dell'impero, quella venezuelana é una destra reazionaria e golpista, espressione di una cultura oligarchica che si alimenta con l’odio di classe e il revanscismo, che non può però essere contrastata solo ideologicamente.

Indagare sul perché si siano persi voti può essere l’inizio di un processo che metta al centro dell’agire politico il bisogno di rinnovare ed innovare, di adeguare e sperimentare le nuove forme della relazione tra popolo, governo e partito. Potrebbe forse servire una diversa organizzazione politica che porti a sintesi le esigenze di rinnovamento e ampliamento del processo bolivariano, saranno i venezuelani a decidere quale direzione intraprendere.

Ma nulla di quello che c’è da fare potrà essere fatto senza un gruppo dirigente coeso e in grado di capire il valore assoluto e strategico dell’unità interna, a maggior ragione di fronte alla sfida difficilissima di far sopravvivere il chavismo senza Chavez.

Riuscire a fare a meno di Chavez, in un paese che il Comandante ha forgiato, non è operazione semplice. Recuperarne il carisma è impossibile, imitarlo é inutile; continuarne l’opera e cercare persino di migliorarla appare però improcrastinabile.

Il Venezuela continuerà ad essere il punto decisivo dello scontro tra democrazia e restaurazione imperiale in America Latina. La crisi del socialismo venezuelano avrebbe ricadute pesanti su tutto il subcontinente ed è proprio per questo che gli Usa tentano il tutto per tutto a Caracas. Spetta dunque ai paesi amici sostenere in ogni modo gli sforzi per rinsaldare la rivoluzione bolivariana. Lo sanno perfettamente e sono già all’opera.

A Caracas si gioca il tempo decisivo per la secolare partita tra annessionismo statunitense e indipendenza latinoamericana. Chi vince o perde in Venezuela, crea le condizioni per poter vincere o perdere in tutto il continente.




di Michele Paris

Le due esplosioni che hanno sconvolto le fasi finali della maratona di Boston nella giornata di lunedì hanno finora lasciato le autorità di polizia americane senza indizi significativi da seguire. La stampa, tuttavia, oltre a creare come di consueto un clima di panico tra la popolazione, ha cercato in buona parte di attribuire la responsabilità dell’attentato ad una rete terroristica organizzata, nonostante lo stesso presidente Obama abbia evitato di fare ipotesi sulle piste che gli investigatori si ritroveranno a dover scegliere.

Come è ormai noto, due bombe esplose a distanza di pochi secondi l’una dall’altra hanno seminato il panico su Boylston Street, in prossimità della linea del traguardo di una delle competizioni sportive più antiche e note degli Stati Uniti. Il bilancio attuale è di tre morti, tra cui un bambino di 8 anni, e oltre 140 feriti. Una ventina di questi ultimi si trova in condizioni critiche, mentre numerose vittime hanno perso gli arti inferiori.

Poco dopo i fatti, il capo della polizia di Boston aveva inoltre parlato di una terza esplosione ad alcune miglia di distanza, presso la John F. Kennedy Library, anche se successivamente è emerso che l’allarme era in realtà dovuto ad un incendio non collegato alle due bombe. Nella confusione seguita alle esplosioni, alcuni giornali hanno parlato poi di altri ordigni ritrovati nelle vicinanze del traguardo della maratona, tra cui almeno due disinnescati dalle autorità. Questa versione è stata però smentita martedì dal governatore democratico del Massachusetts, Deval Patrick, secondo il quale gli unici esplosivi sarebbero i due ordigni scoppiati lunedì.

Come da protocollo, l’attentato a Boston ha immediatamente fatto scattare un innalzamento dei livelli di sicurezza in tutte le aree sensibili delle principali città statunitensi, a cominciare da New York e Washington. Lo spazio aereo sopra la metropoli del Massachusetts è stato chiuso per alcune ore prima di essere riaperto, così come è stata a lungo sospesa la rete dei trasporti pubblici.

Le dichiarazioni ufficiali delle autorità americane hanno lasciato trasparire contraddizioni e una certa confusione. Nella serata di lunedì, l’agente speciale dell’FBI incaricato delle indagini, Richard DesLauriers, ha infatti parlato di una “potenziale indagine terroristica”, mentre poco più tardi nel suo intervento pubblico Obama ha evitato la parola “terrorismo”, mettendo in guardia da conclusioni affrettate e limitandosi a promettere di portare i responsabili davanti alla giustizia. Alcuni minuti dopo, però, un anonimo funzionario della Casa Bianca ha affermato che “qualsiasi evento che comporta esplosioni multiple… è chiaramente un atto di terrorismo e verrà affrontato come tale”. Lo stesso Obama, ieri pomeriggio, ha onfermato che lo FBI sta investigando le esplosioni "come atto di terrorismo"

Già lunedì, intanto, le autorità hanno trattenuto e interrogato un cittadino saudita, negli USA con un visto studentesco, che, secondo quanto riferito da agenti di polizia alla CBS, sarebbe stato visto da un testimone in atteggiamenti “sospetti” dopo le esplosioni. Il giovane non è tuttavia conosciuto alle autorità federali e, oltretutto, il suo paese di provenienza sarebbe una delle ragioni che hanno portato al suo fermo. La rete televisiva locale WBZ-TV ha poi rivelato l’avvenuta perquisizione da parte della polizia di un appartamento a Revere, una cittadina alla periferia nordorientale di Boston, senza fornire altri dettagli.

A fronte del gigantesco apparato della sicurezza interna approntato dal governo americano dopo l’11 settembre 2001, nonché delle ulteriori misure adottate appositamente per la maratona, le due esplosioni avvenute in una zona così sensibile sollevano più di una perplessità.

L’area scelta dai responsabili dell’attentato, ad esempio, avrebbe dovuto essere sottoposta ad accurati controlli e ricerche da parte delle forze dell’ordine. Un reporter di CBS News ha inoltre fatto notare come per i responsabili avrebbe dovuto essere complicato piazzare due ordigni esplosivi in aree massicciamente presidiate senza destare sospetti.

Se il percorso della maratona si snoda per parecchi chilometri, rendendo difficile garantire integralmente la sicurezza di atleti e spettatori, è altrettanto vero che l’attentato è avvenuto in uno dei luoghi più delicati della manifestazione. Infine, un rapporto della polizia dello stato del Massachusetts, redatto nel 2003, per varie ragioni aveva individuato la maratona di Boston come un “possibile obiettivo primario del terrorismo”.

In ogni caso, pur senza rivendicazioni né indizi decisivi, le prime informazioni sembrano lasciar preferire la pista del terrorismo domestico collegato ai movimenti di estrema destra. Innanzitutto, il ricorso a ordigni relativamente rudimentali sembra escludere l’ipotesi di un attentato messo in atto da gruppi integralisti legati al terrorismo internazionale come Al-Qaeda.

Alcuni analisti hanno poi ricordato come la settimana appena iniziata abbia un significato simbolico del tutto particolare per i gruppi radicali anti-governativi, dal momento che, oltre a prevedere la festa del Patriot Day in Massachusetts, essa segna la scadenza per il pagamento delle tasse e l’anniversario dell’attentato di Timothy McVeigh del 1995 contro un edificio federale di Oklahoma City che fece 168 vittime.

Secondo altri, invece, il radicalizzarsi delle formazioni di estrema destra negli ultimi tempi sarebbe dovuto non solo all’ingresso alla Casa Bianca di un presidente di colore ma anche al dibattito politico in corso a Washington attorno all’adozione di misure relativamente più severe sul controllo delle armi da fuoco.

L’organizzazione no-profit Southern Poverty Law Center ha rivelato che nel 2012 la diffusione negli USA di questi gruppi estremisti con tendenze violente ha raggiunto livelli mai visti in precedenza, facendo registrare un aumento di oltre l’800% negli ultimi quattro anni.

Le azioni di gruppi simili sono state evidenziate recentemente anche da un rapporto del Combating Terrorism Center citato martedì dal Washington Post, secondo il quale “c’è stato un drammatico aumento nel numero degli attacchi e di piani violenti riconducibili a individui o gruppi che si auto-identificano con l’estrema destra del panorama politico americano”. Anche se questa minaccia appare spesso ben più grave e diffusa rispetto al terrorismo di matrice islamica, prosegue lo studio, il governo ha dedicato ad essa molte meno risorse e meno impegno nel documentarne le attività.

A fronte della completa incertezza circa le responsabilità dell’attentato, molti media americani si sono comunque distinti da subito nell’avanzare ipotesi arbitrarie e quanto meno azzardate. In particolare, giornali e televisioni hanno in gran parte proposto paralleli tra i fatti di Boston e la situazione seguita all’11 settembre, con l’ex parlamentare democratica della California, Jane Harman, che ha addirittura ipotizzato nel corso di un intervento alla CNN il possibile coinvolgimento di Al-Qaeda.

Questo consueto atteggiamento dei principali media negli Stati Uniti, d’altra parte, contribuisce da oltre un decennio in maniera determinante ad alimentare il clima di terrore nel paese, così da giustificare le misure drastiche adottate dal governo, teoricamente per garantire la sicurezza della popolazione. In assenza di prove certe in queste prime ore seguite all’attentato di Boston, perciò, la frequente manipolazione dei fatti da parte dei media d’oltreoceano deve essere trattata con la massima cautela.


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