di Michele Paris

Con il discorso di accettazione della nomination da parte di Barack Obama, nella notte italiana di giovedì si è conclusa a Charlotte, in North Carolina, una convention democratica all’insegna della demagogia e di un populismo che nasconde a malapena il divario enorme tra la classe dirigente americana e i problemi della grandissima maggioranza della popolazione. La retorica del presidente ha ancora una volta distorto il significato delle politiche perseguite dalla sua amministrazione durante il primo mandato, prospettando, se gliene sarà data la possibilità dagli elettori, l’illusione di un’imminente crescita economica a beneficio delle classe più disagiate, proprio mentre al contrario, al di là dell’esito del voto, si profilano altri quattro anni di nuovi assalti alle condizioni di vita di lavoratori e classe media.

Con un livello di entusiasmo già decisamente inferiore rispetto al 2008, a causa del maltempo gli organizzatori dell’evento di questa settimana si sono visti costretti a cancellare all’ultimo minuto anche l’intervento di Obama in uno stadio all’aperto, privando il presidente di un’apparizione di fronte ad una folla di oltre 60 mila sostenitori. Il suo discorso è stato alla fine spostato all’interno della Time Warner Cable Arena, dove nei primi due giorni della convention avevano sfilato i vari esponenti del partito.

A Charlotte, come a Tampa la settimana scorsa durante la convention repubblicana, l’intervento finale del candidato alla Casa Bianca ha suggellato una tre giorni del tutto artificiosa, durante la quale è mancato un vero dibattito sulla situazione drammatica di decine di milioni di americani, aggravata dalle politiche messe in atto in questi anni per salvare il sistema finanziario responsabile della crisi esplosa nell’autunno del 2008.

Salito sul palco dopo l’accettazione della candidatura alla vice-presidenza di Joe Biden, Obama ha elencato una serie di promesse, tra cui spiccano quelle di aggiungere un milione di nuovi posti di lavoro nel settore manifatturiero entro il 2016 e di ridurre il deficit federale di 4 mila miliardi di dollari nel prossimo decennio. Due obiettivi che dovrebbero essere raggiunti, rispettivamente, con l’ulteriore drastica riduzione delle retribuzioni e dei diritti dei lavoratori - come è stato fatto con il “salvataggio” dell’industria automobilistica americana - e con tagli devastanti alla spesa pubblica.

Senza timore di essere accusato di ipocrisia da una stampa “mainstream” che continua a sottolineare come tra i programmi dei due partiti vi sia una differenza sostanziale, Obama ha poi accusato Mitt Romney e i repubblicani di voler perseguire le stesse fallimentari politiche ultra-liberiste che beneficiano solo le classi più agiate, mentre i democratici si proporrebbero come gli unici difensori di una “middle-class” sempre più in affanno.

Una simile caratterizzazione, al centro del dibattito democratico a Charlotte, è però del tutto infondata, dal momento che non spiega come in questi quattro anni a beneficiare delle politiche economiche dell’amministrazione Obama siano state solo le grandi corporation, così come top manager e speculatori di Wall Street che hanno visto lievitare i propri bonus.

Inoltre, la presunta volontà di difendere la classe media si è accompagnata all’affermazione della necessità dell’intervento dello stato nell’economia per correggere le distorsioni del mercato. A differenza di quanto sostengono i repubblicani, i democratici hanno ripetuto che lo stato non è la causa di tutti i mali. Tale posizione è però smentita dai fatti. In questi anni, ad esempio, sia a livello federale che locale, gli amministratori democratici non sono stati da meno di quelli repubblicani nel licenziare migliaia di dipendenti pubblici e nell’abolizione di programmi pubblici fondamentali, il tutto quasi sempre con la collaborazione delle organizzazioni sindacali.

La retorica ufficiale di un partito che si batte per il benessere della classe media è smascherata insomma da una realtà nella quale i poteri forti continuano ad esercitare un’influenza smisurata sulla politica di Washington. Proprio mentre un leader democratico dopo l’altro criticava l’eccessiva vicinanza dei repubblicani alle classi privilegiate, il partito ha dato il via ad un’aggressiva campagna per convincere un gruppo di facoltosi finanziatori ad aprire i cordoni della borsa e donare milioni di dollari per la campagna presidenziale. A questo scopo, l’altro giorno all’ex capo di gabinetto di Obama e sindaco di Chicago, Rahm Emanuel, è stato assegnato l’incarico di dirigere la raccolta fondi di una “Super PAC” democratica.

L’intervento di Obama, come già ricordato, è stato preceduto da quello del suo vice, Biden, il quale ha ribadito i due “successi” attorno ai quali ha sostanzialmente ruotato la convention: la bancarotta controllata e il salvataggio di General Motors e la morte di Osama bin Laden. Quest’ultimo argomento è stato ancora una volta sfruttato per sottolineare le credenziali del presidente sui temi della sicurezza nazionale, tradizionalmente un punto di forza dei repubblicani. L’utilizzo a fini di propaganda elettorale di un assassinio cruento e illegale, attuato in violazione del territorio di un paese sovrano, testimonia a sufficienza dello spostamento a destra di un partito che continua ad affermare nel proprio programma ufficiale la difesa dei diritti civili e della legalità costituzionale.

La politica estera, che era rimasta fuori quasi del tutto dal discorso di Romney, ha invece occupato buona parte di quello di Obama. Il presidente ha accusato il rivale di inesperienza in questo ambito e di essere eccessivamente dipendente da consiglieri neo-conservatori dell’era Bush, nonché di avere un’idea delle vicende internazionali ancora legata ai tempi della guerra fredda. Obama ha difeso la lotta condotta dalla sua amministrazione contro Al-Qaeda, ovviamente senza citare né il drammatico deterioramento dei diritti democratici sul fronte interno e internazionale né il sostegno di fatto fornito proprio agli estremisti islamici anti-Assad in Siria, ma anche la fine della guerra in Iraq e il piano di ritiro delle forze di occupazione in Afghanistan. Anche in quest’ultimo caso, l’inquilino della Casa Bianca ha mancato di sottolineare come nel paese centro-asiatico rimarrà un significativo contingente anche dopo il 2014.

La sfilata a Charlotte di star del cinema e della musica - da Scarlett Johansson e Eva Longoria, dai Foo Fighters a Mary J Blige - testimonia infine il tentativo di dare al Partito Democratico un immagine di modernità e di vicinanza ai giovani americani sempre più sfiduciati. Allo stesso scopo è stata decisa la promozione dei temi identitari, come i matrimoni gay, entrati quest’anno per la prima volta nella piattaforma programmatica del partito di Obama.

Nel complesso, in ogni caso, a Charlotte come a Tampa in queste due settimane si è assistito ad un desolante spettacolo che avrebbe dovuto offrire l’occasione di una qualche riflessione ai media e ai commentatori d’oltreoceano sullo stato della politica americana.

Parallelamente al degrado del clima democratico negli Stati Uniti, infatti, le convention hanno perso da tempo la loro funzione di decidere il candidato alla Casa Bianca, mentre servono soltanto ad offrire un palcoscenico mediatico nazionale ai candidati stessi e ai leader di partito. Questi ultimi trascorrono così tre giorni a fare promesse che non verranno mai mantenute e ad intrattenere lobbisti e rappresentanti dei grandi interessi economici che realmente decidono delle sorti del paese.

di Fabrizio Casari

Il quattro settembre del 1997, quindici anni fa, un giovane imprenditore italiano, Fabio Di Celmo, 32 anni, moriva a L’Avana. Ucciso da una bomba, piazzata nella hall dell’Hotel Copacabana da un mercenario salvadoreno, Raul Ernesto Cruz Leon. L’attentatore era stato reclutato per compiere attentati a Cuba (dietro corrispettivo in denaro) da Rafael Chavez Abarca, altro terrorista successivamente arrestato in Venezuela. L’organizzazione della catena di attentati era di Luis Posada Carriles, arcinoto terrorista internazionale affiliato alla Cia e figura preminente quanto rivoltante della "Fondazione nazionale cubano-americana" con sede a Miami, Florida.

Quello al Copacabana non fu che l’ultimo di una serie di attentati negli alberghi che scossero la capitale cubana in quei giorni. Posada Carriles agiva, appunto, agli ordini della FNCA, che aveva incaricato il suo assassino di sempre di organizzare, finanziare ed istruire il killer. Lo scopo era terrorizzare gli stranieri che visitavano l’isola, cercare di porre Cuba nell’elenco dei paesi a rischio per il turismo internazionale per indebolire l’economia e l’immagine dell’isola.

Le indagini delle forze di sicurezza cubane consentirono di acciuffare rapidamente il killer, che confessò senza troppo esitare di essere l’autore dei diversi attentati e fornì una serie d’informazioni relative al piano stabilito a Miami e alle istruzioni dategli da Posada Carriles.

Cuba, quindi, additò immediatamente il terrorista e i suoi soci come responsabili dell’ennesimo assassinio e della catena di attentati, senza che questo però provocasse il minimo sconcerto da parte del governo statunitense, che di Posada è il protettore dagli anni ’60, in virtù dell’antica milizia nella CIA che lo ha portato ad insanguinare ogni luogo delle Americhe su ordine di Langley. Alle accuse cubane, anzi, alcuni degli esponenti dell’ala fascistoide dell’establishment della Florida risposero che queste erano propaganda politica.

Ma così non era: Cuba sapeva quello che diceva perché sapeva quello che c’era dietro nei minimi particolari. A confermarlo direttamente fu poi una fonte certa: lo stesso Posada Carriles, che mai pago della sua vanità senile, in una intervista rilasciata nel Giugno 1998 alla giornalista statunitense Anne Louise Bardach, del New York Times, affermò senza battere ciglio di essere autore e mandante degli attentati dinamitardi. Quando la giornalista gli chiese se riusciva a dormire sapendo di aver procurato la morte di un innocente, rispose: “Dormo tranquillo, giacché la morte dell'italiano é stato frutto della casualità: si trovava solo nel posto sbagliato nel momento sbagliato”.

Il quotidiano newyorkese pubblicò l’intervista e il video annesso il 12 e 13 Giugno 1998, ma ciò non destò - né al momento desta - nessun tipo d’interesse per le autorità statunitensi, sul cui suolo Posada vive e festeggia allegramente con i suoi compari le sue gesta criminali. Pur se definito il “bin Ladin delle Americhe”, il bombarolo presenta libri, introduce riunioni, rilascia interviste e partecipa ai cortei della gusaneria cubano-americana stanziata in Florida. Lo rese tristemente noto al mondo l’aver organizzato - insieme a Orlando Bosh - l’attentato dinamitardo al volo della "Cubana de Aviaciòn", esploso sui cieli delle Barbados nel 1974 che lasciò un saldo di 73 morti. Per questo attentato e molti altri ancora Cuba e Venezuela hanno reiterato con regolarità la richiesta di estradizione per l’assassino, ma dagli Stati Uniti è sempre stata rifiutata.

Perché? Perché la guerra al terrore lanciata dal governo Usa all’indomani dell’11 Settembre è stata infatti lanciata in ogni dove del pianeta, ma non in Florida, rifugio dorato di terroristi al soldo degli Usa, faccendieri ed intrallazzatori, ex-dittatori ed ex-torturatori che appestano Miami, trovando rifugio nella lobby cubano-americana e nel partito repubblicano (famiglia Bush in testa) che gli offre copertura politica in cambio di voti.

Ma non è solo per ostilità verso L’Avana o Caracas che le richieste di estradizione per Posada Carriles non hanno mai avuto seguito. Come ha giustamente fatto notare il suo avvocato, agli Stati Uniti non conviene consegnare Posada alla giustizia internazionale, dal momento che il vecchio terrorista ha più volte subdolamente ricordato come disponga di una formidabile memoria e come una sua uscita dagli USA potrebbe generare in automatico confessioni che risulterebbero a dir poco imbarazzanti per Washington.

Non sono minacce a vuoto se fatte da un uomo coinvolto negli episodi più inquietanti della storia sinistra degli USA. Dall’assassinio di John F. Kennedy alla guerra sporca in Nicaragua, dal sostegno alle dittature militari latinoamericane fino alla eliminazione dei diplomatici dei paesi nemici di Washington, dagli attentati dinamitardi alla falsificazione dei risultati elettorali in Florida (Al Gore ne sa qualcosa) la carriera criminale di Posada Carriles è stata tutta percorsa nel quadro delle Covert Action della CIA. E anche quello di cui non ha responsabilità diretta è comunque da lui conosciuto.

E’ ragionevole pensare che, vistosi abbandonato, cercherebbe di negoziare la sua sopravvivenza fornendo squarci di verità sulle attività di Langley e sul ruolo - davvero notevole - che i fuggitivi anticastristi hanno svolto durante gli ultimi 40-50 anni. Per questo i professori dell’antiterrorismo immaginario se lo tengono in casa, coccolato e protetto, al riparo della giustizia internazionale. Per lo stesso motivo tengono prigionieri i cinque cubani che scoprirono la rete terroristica a Miami e sventarono decine di attentati contro Cuba: se vuoi che i terroristi siano liberi, bisogna che gli antiterroristi siano prigionieri.

E se Cuba e Vanezuela hanno dovuto registrare il rifiuto statunitense a consegnare Posada Carriles, per l’Italia, silente mummia, non c’è stato nemmeno bisogno di rispondere da parte di Washington. Mai, infatti, dal 1998 ad oggi, nessun governo italiano ha ritenuto di dover formulare una richiesta di estradizione per Posada Carriles per aver ucciso un cittadino italiano. Perché non è mai stata richiesta l’estradizione, nonostante l'esistenza di un trattato bilaterale tra i due paesi che renderebbe ovvia sia la richiesta che la successiva autorizzazione?

Nemmeno si può obiettare che la richiesta avrebbe valore solo simbolico, come sarebbe nel caso Posada stesse scontando la condanna in un carcere statunitense. Posada Carriles, infatti, non solo non ha mai fatto nemmeno un giorno di prigione, ma non è mai nemmeno stato indagato o anche solo interrogato da un magistrato per l’assassinio di Fabio Di Celmo, nonostante sia reo-confesso del crimine e ci sia l’autore materiale che lo accusa e che è pronto a testimoniare. A Miami lo si lascia prosperare in virtù dei meriti acquisiti con la CIA nella “lotta al comunismo”, a Roma si è scelto di tacere, chiudere gli occhi e le orecchie, per ribadire una volta di più il valore della servitù.

Giustino Di Celmo, 92 anni, padre di Fabio, vive da anni a L’Avana, nel ricordo di un figlio che adorava. E’ persona straordinaria Giustino: il dolore e l’amarezza non ne scalfiscono la tenacia. Non molla, continua a battersi perché qualcuno trovi il coraggio di sfidare il muro di silenzio e d’indifferenza che circonda la magistratura italiana e quella statunitense. In attesa che l'una o l'altra decidano di accusare Posada Carriles, ritenendolo una belva che, proprio perché ancora ancora libero, si trova – lui sì - nel posto sbagliato al momento sbagliato.


di Michele Paris

Un nuovo libro pubblicato questa settimana negli Stati Uniti rivela come il tanto celebrato blitz delle forze speciali americane, che nel maggio del 2011 ha portato all’uccisione di Osama bin Laden, sia andato diversamente dalla ricostruzione ufficiale propagandata dall’amministrazione Obama. A raccontarlo è un ex componente della squadra dei Navy SEAL che ha condotto un operazione che appare sempre più come un assassinio deliberato privo di qualsiasi fondamento legale.

Il libro si intitola “No easy day” ed è stato scritto dal 36enne Matt Bissonnette, fino a pochi mesi fa membro della squadra di élite della Marina “SEAL Team 6”. Sotto lo pseudonimo di Mark Owen, l’autore sostiene che i soldati americani che hanno fatto irruzione nell’abitazione di Abbottabad, in Pakistan, hanno sparato al fondatore di Al-Qaeda non appena quest’ultimo si è affacciato alla porta della sua camera da letto, situata al piano superiore dell’edificio.

Bissonnette afferma di essere stato tra i primi ad entrare nella stanza dopo il fuoco e di aver visto un agonizzante bin Laden ai piedi del letto, con “sangue e materia cerebrale che fuoriuscivano da un lato del cranio” e due donne in lacrime al suo fianco. Lo stesso autore del libro e un secondo soldato avrebbero poi finito il bersaglio della loro incursione con un’altra serie di colpi al petto.

A conferma di come bin Laden sia stato ucciso non appena individuato, anche se non rappresentava un’autentica minaccia per le forze speciali USA, solo successivamente nella sua stanza sono state rinvenute due armi, peraltro scariche: un AK-47 (Kalashnikov) e una pistola Makarov.

Questa ricostruzione, se confermata, risulta in netta contraddizione con quella offerta dopo i fatti dal Pentagono e dalla Casa Bianca, da dove il blitz che ha portato alla morte del terrorista più ricercato del pianeta è stato da subito utilizzato come un’arma di propaganda a beneficio del presidente. La versione ufficiale raccontava di un bin Laden inseguito fin dentro la sua camera da letto, nonché impegnato in una strenua resistenza e perciò necessariamente abbattuto mentre impugnava un’arma da fuoco. Inoltre, i membri del commando temevano che avesse potuto indossare un giubbotto esplosivo.

Per Bissonnette, invece, bin Laden “non era pronto a difendersi e non aveva intenzione di combattere”, poiché era chiaramente disarmato. Nonostante la propaganda del governo, la ricostruzione degli eventi contenuta nel libro “No easy day” conferma dunque quanto era apparso chiaro fin dall’inizio e cioè che la missione ordinata da Obama il 2 maggio 2011 aveva come scopo unico l’eliminazione sommaria dell’obiettivo, anche se disarmato e inoffensivo.

Nel suo libro, l’ex Navy SEAL sostiene in ogni caso che il Dipartimento della Difesa aveva inviato un proprio legale per comunicare ai membri della squadra speciale che la loro non era un’operazione destinata ad assassinare bin Laden, anche se, sostiene Bissonnette, lo stesso inviato del Pentagono disse loro che avrebbero dovuto astenersi dal colpire il terrorista solo se si fosse offerto per arrendersi “nudo e con le braccia alzate”.

Che l’establishment politico e militare americano non desiderasse ritrovarsi per le mani un detenuto come Osama bin Laden è d’altra parte più che verosimile, dal momento che avrebbe teoricamente potuto rivelare verità scomode sulla nascita di Al-Qaeda o fare luce su elementi ancora oscuri attorno agli attentati dell’11 settembre.

Il libro “No easy day” avrebbe dovuto debuttare nelle librerie d’oltreoceano proprio in occasione dell’undicesimo anniversario degli attacchi al World Trade Center ma, in seguito alle polemiche suscitate e all’enorme attenzione mediatica, l’editore Penguin ha deciso di anticiparne l’uscita di una settimana. Come previsto, il volume è andato a ruba ed è subito schizzato in vetta alla classifica dei best-seller di Amazon.

Secondo quanto contenuto in un e-book ugualmente pubblicato in questi giorni e scritto da un altro ex membro dei Navy SEAL, Matt Bissonnette avrebbe rotto il “codice del silenzio” sulle operazioni speciali perché messo fuori dal team dopo che lo scorso anno aveva espresso il desiderio di abbandonare la divisa per avviare un’attività in proprio.

Se pure l’autore doveva essere consapevole del fatto che il suo lavoro avrebbe scatenato polemiche, il racconto non rivela alcun ripensamento sul suo recente passato. Il suo libro descrive infatti con ammirazione la violenza indiscriminata con cui è stato condotto il blitz in territorio pakistano, senza che emergano dubbi sulla legalità o la moralità dell’operazione, né tantomeno sulla funzione stessa delle forze speciali di cui ha fatto parte.

Da parte loro, il Pentagono e la Casa Bianca non hanno rilasciato commenti sul contenuto del libro ma si sono limitati ad esprimere ancora una volta l’elogio per i SEAL che hanno portato a termine la missione. Il presidente Obama, d’altra parte, non sembra intenzionato ad entrare in una polemica sulla morte di bin Laden proprio mentre la sta usando in campagna elettorale per promuovere le sue credenziali in materia di anti-terrorismo.

Confermando la propria linea di condotta quando costretta a fronteggiare le rivelazioni di ex militari o membri di agenzie governative, l’amministrazione Obama non è entrata nel merito delle accuse di aver manipolato la ricostruzione del blitz contro bin Laden ma ha fatto sapere che il Dipartimento della Difesa sta valutando l’opportunità di aprire un’azione legale contro Bissonnette, il quale avrebbe dovuto sottoporre il suo manoscritto al Pentagono prima della pubblicazione.

Già la settimana scorsa, il capo dell’ufficio legale del Pentagono, Jeh Johnson, aveva sostenuto che l’autore del volume aveva violato l’accordo di segretezza firmato nell’aprile di quest’anno, quando ha lasciato definitivamente la Marina americana. Qualche giorno fa, infine, i vertici militari hanno affermato che il libro contiene effettivamente informazioni riservate e, secondo il comandante delle forze speciali della Marina, ammiraglio Sean Pybus, alcuni passaggi potrebbero fornire ai nemici degli Stati Uniti dettagli cruciali sulle operazioni segrete, condotte peraltro senza alcun rispetto dei più fondamentali principi del diritto internazionale.

In definitiva, come è accaduto ad esempio in occasione della rivelazione dei vari documenti classificati pubblicati da WikiLeaks, l’amministrazione Obama non intende discutere pubblicamente le proprie responsabilità nell’aver nascosto la verità sull’operazione che ha portato alla morte di bin Laden in Pakistan o come vengono organizzate missioni segrete e illegali in ogni angolo del pianeta. La preoccupazione principale è piuttosto quella di perseguire coloro che hanno rivelato tali informazioni, così da lanciare un chiaro avvertimento a quanti, in futuro, proveranno a smascherare i crimini dell’imperialismo americano.

di Michele Paris

In un’atmosfera profondamente diversa da quella che aveva caratterizzato la vigilia elettorale del 2008, il Partito Democratico ha aperto martedì la propria convention nazionale a Charlotte, in North Carolina, per candidare ufficialmente Barack Obama ad un secondo mandato alla Casa Bianca. In tre giorni dominati dalla consueta retorica, il partito del presidente cercherà di presentarsi compatto nella difesa degli interessi della classe media americana, così da provare a rianimare un elettorato deluso da quattro anni caratterizzati da un costante spostamento a destra.

La prima giornata alla Time Warner Cable Arena ha visto gli interventi, tra gli altri, della first lady Michelle Obama, del leader di maggioranza al Senato Harry Reid e, in collegamento video, dell’ex presidente Jimmy Carter, mentre lobbisti e rappresentanti delle corporation a stelle e strisce hanno tenuto i loro incontri con i delegati democratici lontani dai riflettori. Anche se il partito di Obama aveva promesso ufficialmente di rifiutare i contributi delle grandi aziende, come ha rivelato martedì Bloomberg News, compagnie come Bank of America e Wells Fargo hanno sborsato almeno 20 milioni di dollari per finanziare la convention dopo che il comitato organizzatore ha faticato a reperire i 52 milioni necessari per coprire i costi.

A tenere banco questa settimana, in ogni caso, sarà innanzitutto la difesa dei presunti successi del presidente uscente in questi quattro anni alla guida del paese, nonché lo sforzo nel dipingere un eventuale successo elettorale del Partito Repubblicano come un pericolo mortale per la sorte di programmi pubblici come Medicare e Medicaid, di cui beneficiano decine di milioni di americani. Un ticket Romney-Ryan, secondo i democratici, porterebbe inoltre un ulteriore taglio alle tasse per i redditi più elevati, con un conseguente assottigliamento dei servizi pubblici per quelli più bassi, ma anche un attacco ai diritti delle minoranze etniche, degli omosessuali e all’aborto.

La strategia messa in campo a Charlotte dai democratici è d’altra parte consolidata e prevede il rispolveramento della retorica populista e l’agitazione dello spettro di una vittoria repubblicana, in modo da motivare la propria base elettorale, per poi svoltare puntualmente a destra una volta al potere.

La natura stessa del Partito Repubblicano, che ha chiuso la propria convention giovedì scorso con uno scoraggiante discorso di Mitt Romney, offre d’altra parte ai democratici l’occasione di modellare un’immagine del tutto fittizia del loro partito, teoricamente portatore di valori diametralmente opposti. Così, ad esempio, laddove i repubblicani sono apertamente l’espressione dei settori privilegiati e più reazionari della società americana, i democratici rivendicano la difesa della classe media.

Allo stesso modo, mentre quello Repubblicano appare sempre più il partito dell’alta borghesia bianca, i democratici cercano di mostrare una realtà multirazziale, non solo attraverso la candidatura del primo presidente afro-americano della storia americana, ma anche con la presenza a Charlotte di numerosi delegati di colore o ispanici. Uno di questi ultimi è Julian Castro, il giovane sindaco di San Antonio, nel Texas, astro nascente democratico che martedì ha tenuto il discorso programmatico (“keynote speech”) di fronte alla convention, proprio come aveva fatto Obama nel 2004 a Boston.

A ben vedere, tuttavia, le differenze tra i due partiti sono in gran parte secondarie, dal momento che entrambi si sono ormai trasformati in organizzazioni ad esclusiva difesa degli interessi delle diverse sezioni delle élite economiche e finanziarie americane.

Se la campagna elettorale democratica di questi ultimi mesi, ribadita nel corso del raduno di Charlotte, cerca in tutti i modi di presentare quella di novembre come un’elezione nella quale le differenze tra i due candidati e i due partiti non sono mai state così marcate, dal prossimo mese di gennaio, chiunque entrerà alla Casa Bianca, a prevalere saranno gli elementi di continuità rispetto ai cambiamenti.

Questa prospettiva risulta tanto più probabile dal confronto con lo scenario seguito al voto del 2008, quando la candidatura e il successo schiacciante di Barack Obama avevano suscitato enormi entusiasmi ed aspettative di cambiamento al termine dei due mandati di un’amministrazione Bush che aveva lasciato la Casa Bianca con un livello di popolarità ai minimi storici.

Nonostante le premesse, Obama, il cui partito per due anni ha conservato una netta maggioranza in entrambi i rami del Congresso, ha rinnegato in fretta le promesse elettorali che prospettavano un’inversione di rotta radicale per il paese, abbracciando molte delle politiche del suo predecessore.

Sulle questioni della sicurezza nazionale, così, il presidente democratico ha fatto propri i metodi anti-democratici che avevano caratterizzato la prima fase della “guerra al terrore”, giungendo addirittura ad auto-proclamarsi unica e indiscussa autorità nel decidere della vita o della morte dei sospettati di terrorismo, cittadini americani compresi. Inoltre, se l’avventura in Iraq è stata segnata da un parziale disimpegno, peraltro più forzato che voluto, la guerra in Afghanistan ha fatto segnare un’escalation di violenze e abusi. In Libia, infine, è stato scatenato un conflitto sanguinoso unicamente per rovesciare un regime sgradito in nome della lotta per la democrazia, fissando un inquietante precedente che potrebbe essere ripetuto a breve in Siria e in Iran.

Sul fronte interno, la riforma sanitaria, altro cavallo di battaglia della propaganda democratica a Charlotte, si è risolta in un provvedimento che ha messo al centro dell’attenzione la riduzione dei costi e il profitto delle compagnie assicurative private invece del diritto alla salute di tutti i cittadini, due principi sui quali, nonostante le critiche a molti aspetti della legge, concordano pienamente anche i repubblicani.

Per quanto riguarda l’economia, questi anni di profonda crisi hanno visto l’amministrazione Obama piegarsi al volere delle grandi banche di Wall Street, la cui smisurata influenza sulla politica di Washington ha impedito l’adozione di un sistema di regolamentazione realmente efficace. Il propagandato salvataggio del settore automobilistico ha poi gettato le basi per i ripetuti attacchi ai diritti e alle retribuzioni dei lavoratori americani sia del settore pubblico che di quello privato. Il soccorso federale a General Motors e a Chrysler ha cioè comportato il dimezzamento degli stipendi dei nuovi assunti e la fine dei benefici conquistati in decenni di lotte sindacali e che avevano contribuito a creare quella classe media che i democratici pretendono oggi di difendere.

In occasione della convention di questa settimana, si stanno moltiplicando gli sforzi di commentatori liberal, esponenti sindacali e gruppi di sinistra per spiegare come, nonostante i limiti del Partito Democratico, per classe media e lavoratori è necessario votare a favore di quest’ultimo, di gran lunga il male minore di fronte alla minaccia di un trionfo repubblicano. Questi ambienti della borghesia progressista, perfettamente integrati in un sistema che continua a produrre disoccupazione, precarietà e povertà, alimentano nella base elettorale democratica l’illusione che il partito di Obama possa essere spinto a sinistra dalle pressioni e da un’improbabile mobilitazione popolare.

La deriva del Partito Democratico appare però irreversibile, poiché prodotta da decenni di profondi cambiamenti economici e sociali che, con il progressivo indebolimento del capitalismo americano su scala globale, hanno portato ad un’offensiva dei grandi interessi economici che detengono ormai un assoluto monopolio sulle decisioni che vengono prese a Washington.

Sulla natura del partito, tuttavia, non vi sarà ovviamente alcuna riflessione durante la convention di Charlotte, dove, come al solito, è stata invece presentata una piattaforma programmatica che verrà regolarmente disattesa al termine del ciclo elettorale in corso. I democratici hanno diligentemente snocciolato i temi e le proposte care al liberalismo a stelle e strisce, come la lotta al cambiamento climatico, l’aumento del carico fiscale per i ricchi, la riforma finanziaria, il contenimento dell’influenza dei grandi interessi sulla politica, la difesa dei diritti civili, delle libertà individuali, dell’interruzione di gravidanza e così via.

Tutte questioni, queste ultime, sulle quali l’amministrazione Obama negli ultimi quattro anni si è però mossa in direzione opposta rispetto a quanto già promesso nel 2008. Una realtà ben compresa dalla maggioranza degli americani, i quali difficilmente potranno essere convinti dal palcoscenico di Charlotte che in un secondo mandato le cose andranno diversamente.

Se pure Obama dovesse riuscire a confermarsi presidente, come indicano i sondaggi a due mesi dal voto, le ragioni della vittoria andranno piuttosto ricercate nell’impopolarità delle posizioni repubblicane e, ancor di più, nella sclerotizzazione della realtà politica statunitense che impedisce qualsiasi alternativa ad un sistema bipartitico che non rappresenta in nessun modo la grande maggioranza della popolazione.

di Emanuela Pessina

BERLINO. Si inasprisce in Germania il dibattito sulla parificazione dei matrimoni gay, sollevato la settimana scorsa dalla proposta di legge dei liberali per un aumento dei diritti fiscali delle coppie omosessuali. A riaccendere la discussione sono le parole del parlamentare cristiano-sociale Thomas Goppel (CSU), secondo cui le coppie gay non possono avere i diritti di un matrimonio legale perché “vivono in maniera anomala” e mostrano ”differenze di qualità” rispetto alle coppie etero. Argomentazioni che rasentano l’intolleranza e che riaprono lo scontro all’interno della Coalizione di Angela Merkel (CDU).

A 11 anni dalla prima considerazione legale delle coppie gay, per il ministro della Giustizia liberale Leutheusser-Schnarrenberger (FDP) è arrivato il momento di concedere ai compagni di vita omosessuali più diritti fiscali. La proposta di legge prevede la variazione di 40 singoli ordinamenti in diversi campi, dal diritto immobiliare al regolamento di insolvenze. Una modifica quasi insignificante, a un primo sguardo: vicino a “coniuge” si dovrebbe inserire il termine “compagno di fatto”. Per Leutheusser-Schnarrenberger le coppie di fatto sono state private troppo a lungo di numerosi diritti, senza che ve ne sia motivo.

Non sono tutti d’accordo nella coalizione di Angela Merkel, e qualcuno rinuncia persino alla usuale diplomazia svelando idee profondamente conservatrici. Come l’ex- ministro regionale della Ricerca Goppel (CSU, la consorella bavarese dei cristiano- democratici della Cancelliera), ha espresso di recente la sua opinione tramite Facebook, spiegando senza mezzi termini le sue ragioni: “L’equivalenza tra diversi tipi di vita di coppia in comune ha i suoi limiti naturali”. Le coppie gay conducono uno stile di vita “anomalo”, argomenta Goppel, e le “differenze di qualità” sono evidenti a chi analizza da vicino le situazioni quotidiane. Frasi che, sottolinea l’Organizzazione per i diritti degli omosessuali all’interno dell’Unione CDU/ CSU (LSU), sembrano riportare a settant’anni fa e alle problematiche della dignità umana nel periodo nazi.

Si espone appena Angela Merkel, che rimanda alle decisioni della Corte costituzionale nel 2013. Perché la proposta di legge deve essere prima approvata da tutti i ministri per poi eventualmente passare dal Parlamento. Nonostante le parole sicure della liberale Leutheusser-Schnarrenberger, il ministro della Giustizia, i presupposti non lasciano intravedere segni positivi da parte dei partner di Governo cristiano- sociali e cristiano- democratici. E la Merkel fa capire chiaramente la sua posizione, seppur temporeggiando.

“Sono stati fatti numerosi passi in avanti per garantire alle coppie dello stesso sesso maggiori diritti, ma dubito che questo possa portare alla completa parificazione con i matrimoni legalmente riconosciuti”. In particolare, la Merkel si appella all’articolo 6 della Costituzione tedesca, in cui si garantisce al matrimonio e alla famiglia la particolare protezione dell'ordinamento statale. “Questo articolo è stato fatto per un motivo ben preciso”, spiega la Cancelliera. Senza forse considerare che tra una coppia di fatto e un matrimonio, in realtà, c’è una differenza arbitraria decisa dall’uomo e daalla società. E senza dare importanza alla volontà di ogni essere umano di assumersi le responsabilità del proprio altro, indipendentemente dal sesso, un’esigenza che lo Stato dovrebbe incoraggiare.

I liberali sono per l’applicazione rapida delle modifiche di legge a favore della parificazione delle coppie gay, Angela Merkel temporeggia, i cristiano- sociali rispondono più ostili che mai. La Coalizione della Cancelliera rischia ancora una volta di imbarcare acqua: alle porte delle elezioni del 2013 è un grosso punto a sfavore e l’unica via d’uscita è quella di rimandare a dopo l’appuntamento elettorale. Come la nostra Cancelliera, saggiamente, suggerisce di fare.  
 
 


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