di Michele Paris

I bombardamenti non provocati condotti venerdì e domenica scorsa in territorio siriano dall’aviazione israeliana sono stati immediatamente utilizzati dal fronte occidentale e mediorientale impegnato nella rimozione del regime di Bashar al-Assad per manipolare la realtà della crisi in atto e spianare la strada ad un intervento diretto che minaccia di infiammare l’intera regione.

In particolare, la più recente incursione illegale portata a termine da Israele ha scatenato una serie di speculazioni sull’opportunità e l’efficacia di un’azione aerea da parte degli Stati Uniti. Le discussioni delle ultime settimane circa l’imposizione di una no-fly zone sulla Siria - misura che comporterebbe di fatto una devastante campagna di bombardamenti sul paese mediorientale - erano infatti ruotate attorno alle capacità dei sistemi difensivi di cui dispone il regime di Damasco, in gran parte ritenuti sufficientemente sofisticati da scoraggiare un intervento di questo genere.

La facilità con cui Israele ha colpito nel fine settimana ha invece scatenato i falchi di Washington, i quali hanno subito invitato la Casa Bianca a trarre le dovute conclusioni. I vari interventi di esponenti democratici e repubblicani registrati negli show televisivi americani della domenica hanno perciò confermato come i bombardamenti israeliani siano stati almeno in parte una prova generale di una possibile campagna aerea degli USA e dei loro alleati sulla Siria secondo il modello dell’aggressione del 2011 contro la Libia di Gheddafi.

Parlando al programma “Meet the Press” della NBC, ad esempio, il senatore democratico del Vermont, Patrick Leahy, ha ricordato che il blitz israeliano è stato condotto con velivoli F-16 forniti dagli Stati Uniti, aggiungendo che “i sistemi anti-aerei forniti dalla Russia alla Siria non si sono dimostrati efficaci come si credeva”. Lo stesso presidente della commissione Giustizia del Senato americano ha poi anticipato un probabile prossimo invio di armi da parte del suo governo direttamente all’opposizione anti-Assad.

Su “Fox News on Sunday”, inoltre, il senatore repubblicano John McCain ha affermato che l’attacco di Israele, avvenuto senza entrare nello spazio aereo della Siria, indebolisce la tesi di coloro che ritengono i sistemi difensivi di quest’ultimo paese il principale ostacolo ad una campagna di bombardamenti condotta dall’aviazione USA.

L’amministrazione Obama, d’altra parte, sembra avere dato la propria approvazione all’incursione dell’alleato, dal momento che lo stesso presidente, nel corso di una trasferta in Costa Rica, ha ripetuto la tesi di Tel Aviv circa la legittimità da parte dello Stato ebraico di prevenire trasferimenti di armi dalla Siria a Hezbollah, in Libano.

Quest’ultima tesi è quella ufficiale sostenuta, sia pure indirettamente, da Israele per le azioni criminali compiute nei giorni scorsi e conferma come l’intera campagna di destabilizzazione del regime siriano sia diretta allo smantellamento dell’asse della “resistenza” formato, oltre che da Assad, dal principale partito sciita libanese e dall’Iran, così da ridisegnare, in ultima analisi, gli equilibri strategici del Medio Oriente a favore degli interessi degli Stati Uniti e dei loro alleati.

Ciononostante, le pretese delle autorità israeliane di non volere essere coinvolte in un conflitto in Siria appaiono del tutto inverosimili. Innanzitutto, l’attacco di domenica scorsa equivale ad un vero e proprio atto di guerra che ha provocato la morte di centinaia di soldati della Guardia Repubblicana di Assad. Inoltre, per Israele è previsto da tempo un ruolo di primo piano nell’escalation militare in atto contro Damasco, se non altro per aprire un fronte meridionale in cui impegnare le forze del regime in aggiunta alle operazioni dei “ribelli” e ad un eventuale intervento della Turchia lungo il confine nord.

Il senso della dissennata operazione in corso in Siria è stato riassunto lunedì da un comunicato del portavoce del ministero degli Esteri russo, Aleksandr Lukashevich, il quale ha opportunamente richiamato l’attenzione sugli sforzi in atto in Occidente per “preparare l’opinione pubblica internazionale alla possibilità di un intervento militare per risolvere il persistente conflitto in Siria”.

Le ragioni indicate dal fronte internazionale anti-Assad per giustificare un maggiore impegno in Siria risultano infatti del tutto inconsistenti e continuano ad essere promosse soltanto grazie alla propaganda dei media ufficiali.

Per cominciare, la credibilità delle forze “ribelli” sul campo è stata da tempo screditata dalla prevalenza assoluta di formazioni integraliste violente con un’agenda prettamente settaria e tutt’altro che democratica. Questi gruppi jihadisti, responsabili di una lunga serie di operazioni terroristiche in Siria e utilizzati dall’Occidente e dalle monarchie ultra-reazionarie del Golfo Persico come forza d’urto per rovesciare Assad, risultano ancora più impopolari dello stesso regime, anche tra i siriani che condividono la loro fede sunnita.

Infatti, se il regime, come scrivono spesso i media occidentali, fondasse la propria legittimità esclusivamente sui siriani alauiti (sciiti) il conflitto sarebbe quasi certamente finito da tempo, visto che la popolazione della Siria è composta per ben i tre quarti da musulmani sunniti.

Inoltre, l’offensiva mediatica basata sull’accusa rivolta ad Assad di avere utilizzato armi chimiche appare sempre più infondata. Anzi, la cosiddetta “linea rossa” stabilita da Obama lo scorso anno per scatenare un intervento diretto degli Stati Uniti pare essere stata oltrepassata proprio dagli stessi “ribelli”, armati e finanziati dall’Occidente.

Ad affermarlo sono stati un paio di giorni fa anche gli investigatori della commissione delle Nazioni Unite sulla violazione dei diritti umani in Siria. In una dichiarazione rilasciata domenica alla TV della Svizzera italiana, l’ex procuratore del Tribunale Penale Internazionale, Carla Del Ponte, ha confermato che, in seguito all’indagine condotta nei paesi confinanti dal gruppo di lavoro di cui fa parte, sono emersi “forti e concreti sospetti, anche se non ancora prove incontrovertibili, sull’uso di gas sarin da parte dell’opposizione e dei ribelli, ma non da parte delle forze governative”.

Come ha evidenziato poi lunedì il blog americano LandDestroyer, la quantità minima di gas sarin che, secondo le accuse di Stati Uniti, Israele, Francia e Gran Bretagna, il regime di Assad avrebbe utilizzato in tre occasioni tra dicembre e marzo avrebbe ben poco senso da un punto di vista tattico o strategico per dare una svolta al conflitto in corso, soprattutto a fronte delle prevedibili reazioni della comunità internazionale.

Consapevoli di questa realtà, gli accusatori di Assad hanno perciò sostenuto che Damasco ha fatto un limitato ricorso ad armi chimiche per testare la reazione della comunità internazionale, anche se, in realtà, appare decisamente più ragionevole che lo scarso quantitativo di gas sarin, come sostiene ora anche l’ONU, sia stato impiegato dai “ribelli” per fornire un casus belli all’Occidente per intervenire militarmente in Siria.

L’innalzamento dei toni da parte dell’Occidente e le iniziative israeliane degli ultimi giorni, in ogni caso, indicano una chiara urgenza di imprimere un’accelerazione alla caduta di Assad, in concomitanza con la sempre più evidente incapacità dei “ribelli” di ottenere risultati determinanti sul campo e di raccogliere un ampio consenso tra la popolazione.

Un’evoluzione, quella della crisi in Siria, che rischia di trascinare nel conflitto anche altri paesi mediorientali, a cominciare dal Libano, dove la settimana scorsa il leader di Hezbollah, Sayyed Hassan Nasrallah, ha affermato che la sua organizzazione farà di tutto per impedire il crollo del regime alauita di Damasco.

Oltre alla situazione sempre più precaria del Libano e, ad esempio, di una Giordania invasa da centinaia di migliaia di profughi siriani, lo stesso Iraq è tornato ad essere sconvolto dalla violenza settaria, alimentata da fazioni integraliste sunnite, legate alle milizie “ribelli” attive in Siria, che si battono contro il governo sciita guidato dal premier Nuri al-Maliki.

Come è accaduto in Libia e con conseguenze ben più gravi, infine, la rimozione di Assad in Siria fa intravedere un futuro nel quale le forze integraliste giocheranno un ruolo di spicco nel paese, generando instabilità nella regione e minacce terroristiche per quegli stessi governi, a cominciare da Israele, che ora le appoggiano più o meno apertamente per il conseguimento dei loro fini immediati.

Una prospettiva inquietante che difficilmente può essere sfuggita alle analisi elaborate a Washington, Londra o Tel Aviv, ma che, senza scrupoli per l’ulteriore devastazione che determinerà, sembra ormai essere stata messa in preventivo per raggiungere l’obiettivo principale e di lungo periodo, vale a dire una riconfigurazione a proprio vantaggio dei rapporti di forza in un’area cruciale del pianeta.

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