- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Con l’aggravarsi del conflitto in Siria e il sempre più probabile fallimento del piano diplomatico promosso dall’ex Segretario Generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, gli Stati Uniti e i loro alleati in Europa e nel modo arabo stanno moltiplicando gli sforzi per giungere ad un intervento armato esterno che porti alla rimozione del presidente Bashar al-Assad.
Negli ultimi giorni, i toni da Washington hanno fatto segnare un ulteriore innalzamento soprattutto contro il principale alleato di Damasco, la Russia, mentre continuano parallelamente ad emergere resoconti su alcuni dei più recenti episodi di violenza che smentiscono le ricostruzioni dell’opposizione al regime, quasi sempre accettate integralmente dai media e dai governi occidentali.
Fallito il tentativo di convincere Mosca ad appoggiare un piano di transizione pacifica in Siria, gli USA sembrano tornati in fretta ad affrontare a muso duro la Russia, accusando il Cremlino di essere il principale ostacolo ad una risoluzione del conflitto nel paese mediorientale. Infatti, martedì il Segretario di Stato, Hillary Clinton, parlando al fianco del presidente israeliano Shimon Peres presso la Brookings Institution di Washington, ha accusato la Russia di rifornire il regime di Assad con elicotteri da combattimento che verrebbero utilizzati per la repressione della rivolta.
La Clinton ha sostenuto di aver sollevato la questione delle forniture militari con il governo russo, il quale però avrebbe risposto che gli equipaggiamenti spediti a Damasco non vengono impiegati nel conflitto interno. Quest’ultima posizione di Mosca era stata espressa qualche giorno fa direttamente dal presidente Putin durante la sua visita a Berlino, ma per il capo della diplomazia USA sarebbe “sfacciatamente falsa”.
Le forniture di armi dalla Russia alla Siria avvengono peraltro in conformità di contratti già sottoscritti e dunque perfettamente legali. Come ha affermato il numero due della compagnia russa pubblica produttrice di armi, Rosoboronexport, citato dall’agenzia di stampa RIA Novosti martedì a Parigi, “nessuno può accusare la Russia di violare le regole sul commercio di armamenti fissate dalla comunità internazionale”.
Le accuse rivolte dagli Stati Uniti a Mosca vengono puntualmente amplificate dai media che a loro volta sottolineano come la vendita di armi, ancorché legale, contribuisca ad inasprire il clima internazionale, rendendo più complicata una risoluzione diplomatica della crisi siriana. Ciò che invece Hillary Clinton non ha detto è che, se anche gli elicotteri da combattimento di fabbricazione russa vengono impiegati dalle forze di sicurezza di Assad, segnando così un’escalation nell’uso della forza da parte del regime, ciò avviene in conseguenza dell’aumentata aggressività delle opposizioni armate.
I gruppi ribelli hanno infatti potuto espandere notevolmente le proprie azioni nell’ultimo periodo proprio grazie a massicce forniture di armi, a cominciare da potenti missili anticarro, provenienti in gran parte dalla Turchia e grazie all’appoggio finanziario di Arabia Saudita e Qatar con la supervisione di Washington. La Turchia continua in realtà ad affermare di limitarsi a fornire solo aiuti umanitari ai ribelli siriani.
Tuttavia, come confermano svariate testimonianze, Ankara fornisce da tempo armi e addestramento a gruppi come il “Libero Esercito della Siria” e rappresenta una delle voci più critiche nei confronti di Damasco. Questo genere di forniture militari, in ogni caso, non disturbano il Segretario di Stato americano, anche se sono di fatto il principale motivo del deterioramento della situazione in Siria.
L’aggravamento del conflitto è stato certificato in qualche modo anche dall’ONU proprio l’altro giorno, quando il responsabile delle operazioni di peacekeeping, Hervé Ladsous, ha definito ciò che accade in Siria come una vera e propria guerra civile. Membri dell’amministrazione Obama e i funzionari dell’ONU condividono ormai la tesi di una guerra di natura settaria tra la minoranza alauita (sciita) filo-Assad e l’opposizione sunnita. Tale scenario contraddice perciò la caratterizzazione proposta dai media e dai governi occidentali, secondo i quali quello in corso nel paese sarebbe uno scontro tra un regime dittatoriale e un’opposizione che si batte per la democrazia.
Con inquietanti affinità con l’Iraq del dopo Saddam Hussein e, come ha significativamente messo in luce qualche giorno fa il segretario generale della NATO, Anders Fogh Rasmussen, con il conflitto nella ex Yugoslavia, in Siria l’occidente sta infiammando lo scontro settario per i propri obiettivi strategici, cioè per gettare il paese nel caos e favorire un intervento armato che metta fine al regime di Assad.
Che la situazione sul campo in Siria sia più complessa di quanto non traspaia dalle versioni ufficiali è stato confermato anche da un reportage da Damasco di Rainer Hermann del giornale tedesco conservatore Frankfurter Allgemeine apparso il 7 giugno scorso (“Abermals Massaker in Syrien”). L’articolo è un’indagine sulle responsabilità del massacro di Houla, nel quale il 25 maggio sono stati uccisi più di cento civili, tra cui decine di donne e bambini, e che ha scatenato l’indignazione della comunità internazionale.
Al contrario di quanto affermato dai governi occidentali che, pur senza prove evidenti, avevano attribuito la responsabilità dell’accaduto interamente al regime o alle milizie Shabiha ad esso affiliate, l’investigazione del reporter del Frankfurter Allgemeine, basata su interviste con testimoni oculari, conferma in sostanza la tesi di Assad e cioè che la strage sarebbe stata commessa dai ribelli armati.
Il massacro sarebbe avvenuto in seguito ad un violento scontro a fuoco dopo un attacco di un gruppo di opposizione contro postazioni dell’esercito regolare appena fuori la città di Houla, a maggioranza sunnita, impiegato per proteggere alcuni villaggi popolati da sciiti. Secondo il giornalista tedesco, in questo scenario decine di civili di fede sciita e altri recentemente convertiti e ritenuti collaboratori del regime sarebbero stati sterminati dai ribelli sunniti.
Subito dopo i fatti, gli autori della strage hanno postato sul web filmati delle vittime, indicate come civili di fede sunnita, producendo una valanga di condanne contro Assad in tutto il mondo. Con perfetto tempismo, le violenze di Houla hanno preceduto di poche ore la già programmata visita di Kofi Annan a Damasco, rendendo ancora più complicati i negoziati per l’implementazione del piano di pace.
Le modalità del massacro, eseguito con sgozzamenti e colpi di arma da fuoco da distanza ravvicinata, coincidono inoltre con quanto riportato precedentemente da un altro giornale tedesco, Der Spiegel, il quale lo scorso marzo aveva pubblicato un’indagine sugli abusi commessi dai membri del Libero Esercito della Siria ai danni di presunte spie del regime e soldati catturati
Il reportage del Frankfurter Allgemeine non è stato praticamente citato dai principali media occidentali, pronti invece a ripetere senza alcun riscontro il quotidiano bilancio delle vittime della repressione del regime riportato dai gruppi di opposizione di stanza all’estero e finanziati dalle monarchie assolute del Golfo Persico, come il londinese Osservatorio Siriano per i Diritti Umani.
Se dovesse corrispondere al vero, quanto scritto dal giornale tedesco solleverebbe dunque preoccupanti interrogativi sulle responsabilità degli Stati Uniti e dei loro alleati nei fatti che hanno gettato la Siria nel caos, dal momento che, come conferma il sostegno garantito in termini economici, di armamenti e di addestramento, questi governi sono infatti, con ogni probabilità, perfettamente a conoscenza delle operazioni condotte dai ribelli nel conflitto contro il regime di Bashar al-Assad.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Fabrizio Casari
Come si fabbrica un candidato alla presidenza? Con quali mezzi? E con quanto denaro? In Messico la risposta è: con una buona campagna mediatica, una televisione famosa e alcune centinaia di migliaia di dollari. Secondo documenti giunti in possesso del quotidiano britannico The Guardian, provenienti una fonte interna a Tele Visa, (la catena televisiva messicana più importante del paeseda atzeco ndr) risulterebbe che l’emittente avrebbe venduto a Enrique Pena Nieto, candidato alla presidenza del Messico per conto del PRI, un trattamento di favore nei suoi notiziari e nei suoi show principali per farlo apparire nel modo migliore agli occhi dell’elettorato.
Non solo: come non fosse già abbastanza riprovevole la liason, la stessa emittente si è parallelamente incaricata di screditare ove e come possibile la figura di Andrès Manuel Lopez Obrador, avversario di Pena Nieto in quanto candidato alla presidenza per conto del PRD. Obrador, da tutti chiamato AMLO, è collocato stabilmente al secondo posto nei sondaggi e le ultime proiezioni indicano una erosione costante delle intenzioni di voto per Pena Nieto a favore proprio di AMLO.
I documenti che proverebbero la combine tra l’azienda televisiva e il candidato del PRI - un tempo chiamato partito-stato proprio per l’altissima voracità dei suoi membri e la capacità di asfissiare il paese con i suoi tentacoli - sono ponderosi per quantità e affidabili per riscontri oggettivi e hanno ovviamente scatenato le proteste dei simpatizzanti del PRD e non solo. Perché la strategia mediatica dettagliata, destinata a intorpidire la figura dello sfidante, ricorda i favolosi investimenti dell’ex Presidente Vicente Fox (una delle figure peggiori della storia messicana) che in investimenti pubblicitari (fatturati poi allo stato) nel 2006 dilapidò una fortuna (occultandola) e riuscì ad imporsi (con documentati brogli annessi) proprio ai danni dello stesso candidato oggi oggetto della campagna di denigrazione congiunta Tele Visa-Pena Nieto.
D’altra parte, se risulta incontestabile la promozione televisiva di ogni candidato, non si può non vedere come essa dovrebbe essere trasparente, con spot elettorali o redazionali televisivi a pagamento, non con la manipolazione politico-elettorale a favore del candidato delle notizie dei Tg e dei contenuti nei talk-show più seguiti. A maggior ragione, poi, risulta illegittima l’opera di demolizione e discredito sul candidato sfidante, proprio perché parte consistente dello stesso accordo economico tra l’emittente e il committente.
In un paese dove risulta scarsa la lettura dei giornali e l’utilizzo di Internet, i programmi televisivi sono invece seguitissimi e Tele Visa e la sua concorrente, TV Atzeca, esercitano quindi un’enorme influenza sulla politica nazionale e gli orientamenti elettorali.
Tele Visa è un vero e proprio impero mediatico, é il gruppo di comunicazione in lingua spagnola più grande del mondo e controlla i due terzi della programmazione dei canali gratuiti messicani: il suo ruolo monstre non rappresenta quindi una novità assoluta.
Ma aver superato ogni linea di demarcazione etica nella relazione commerciale illustra un rapporto intimo tra l’emittente ed il PRI che tradisce l’assoluta mancanza di indipendenza della rete televisiva e la decenza del governatore-candidato. La partita ha come scopo impedire che la sinistra vinca le elezioni e in questo senso Andrès Manuel Lopez Obrador é solo il danno collaterale.
E se ancora non è stato possibile confermare l’autenticità della documentazione fatta prevenire al Guardian, sono però impressionanti le coincidenze tra quanto esposto e nomi, date e situazioni effettivamente verificatesi, così come risultano evidenti le applicazioni delle strategie contenute nell’accordo tra l’emittente e il candidato del PRI.
Ovviamente il Guardian ha chiesto un commento a Tele Visa, ma dall’emittente messicana è arrivato ad un rifiuto; sostengono che non sono a conoscenza di quanto denunciato e che, per tanto, non possono offrire commenti al riguardo. I documenti dove s'illustra la strategia mediatica a favore di Pena Nieto e contro AMLO sembrano essere stati realizzati dalla "Radar Servizi Specializzati", impresa di marketing diretta da uno dei vicepresidenti di Tele Visa, Alejandro Quintero. Il fatto poi che la documentazione informatica giunta al quotidiano britannico fosse a disposizione dell’archivio personale di Yessica de Lamadrid, amante di Pena Nieto e impiegata presso la Radar, sembra ulteriormente confortare la veridicità della denuncia.
La relazione di Tele Visa con l’establishment conservatore messicano esiste da sempre, ma questa nuova forma, decisamente contraria ad ogni etica, aveva trovato applicazione già nelle scorse elezioni presidenziali. Un ex dirigente dell’emittente ha dichiarato al Guardian di aver partecipato a riunioni nelle quali si discuteva la strategia contro Lopez Obrador dove si discuteva sul come farlo apparire "lento e inetto”. La documentazione arrivata al Guardian lo conferma, dato che alcuni dei documenti contengono una presentazione in power-point dal titolo: "Che AMLO non vinca le elezioni 2006”.
La strategia indicava chiaramente la necessità di “smantellare la percezione pubblica di AMLO come salvatore/martire attraverso l’aumento e la dilatazione di notizie sul crimine nella capitale (di cui AMLO era sindaco ndr) e promuovere storie di insicurezza personale nelle persone del mondo dello spettacolo".
La stessa strategia proponeva anche per gli show-man del gruppo televisivo un impegno in questa direzione e, dal principale programma di comicità fino alla versione messicana del Grande Fratello, tutti svolsero il loro compito, debitamente ricompensati; anche perché - rileva l’ex dirigente - “c’era una strategia, un cliente e tanto denaro a disposizione”.
Le polemiche che hanno fatto seguito alla scoperta dell’affaire rischiano ora di travolgere i loro protagonisti. Ma mentre Pena Nieto si limita a difendersi negando, senza peraltro convincere nessuno, l’emittente da segnali di grande prontezza mediatica, riposizionandosi con maggior equilibrio nello scontro elettorale: impaurita dal calo di credibilità, che porterebbe calo di ascolti e pubblicità, sta dando ora spazio all’opposizione e manda in onda una intervista durissima a Pena Nieto. Non sono segnali destinati a cambiare le strategie, ma solo a far credere ad una presunta neutralità che posizioni bene il gruppo editoriale quale che sarà il vincitore delle elezioni.
Perché Tele Visa, ha commentato un suo ex-dirigente, “era felice quando promuoveva il futuro vincitore, non tanto per chi era quanto perché vinceva”. In fondo, va detto, gli affari sono affari e la fedeltà è al denaro, non alle persone. Un antico dilemma domanda se siano i media ad influenzare i politici o i politici ad influenzare i media: ma solo i più avveduti capiscono come siano i soldi ad influenzare entrambi.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Carlo Musilli
Dentro o fuori. Mancano pochi giorni alle elezioni in Grecia, le seconde in un mese, ma a nessuno sembra più che si tratti di eleggere un nuovo governo. Il voto ellenico è presentato in tutta Europa come un referendum sulla permanenza o meno di Atene nella zona euro. L'equazione sembra facile: se vince Syriza, il partito di sinistra radicale nemico dell'austerity concordata con Bruxelles, si torna alla dracma; se invece prevale Nea Democratia, la formazione conservatrice che ha siglato quello stesso patto con Ue e Fmi in cambio del salvataggio, ai greci si spalanca un futuro di miseria nella moneta unica. Ma è davvero tutto così lineare?
L'impressione è che nelle ultime settimane si stia giocando una partita a carte con un piatto molto pesante. Dall'altra parte del tavolo c'è la Germania, che esclude categoricamente la possibilità di rinegoziare le misure da macelleria sociale imposte alla Grecia. In nome del rigore e dell'intransigenza sulla parola data, Berlino si dice disposta ad affrontare le conseguenze di un'eventuale uscita di Atene. Il tono è minaccioso, eppure fino ad ora nessuno ha dato al Bundestag il potere di cacciare un Paese membro dall'Eurozona.
Tanto più che nemmeno a sua maestà Angela Merkel converrebbe affatto un esito simile della vicenda. Con il ritorno alla dracma, i greci direbbero addio anche al loro debito pubblico, lasciandosi trasportare dalle onde del default totale e incontrollato. Ora, si dà il caso che proprio le banche tedesche siano fra le più esposte in territorio ellenico. L'ultimo dei loro desideri è che quei pasticcioni dei greci si producano in una bancarotta stile Argentina. Un gigante come la Germania non sarebbe comunque in pericolo di vita, ma senza dubbio il salvataggio gli costerebbe meno del fallimento. Vale davvero la pena di rischiare tanto? Se Atene piange, Sparta può far quello che vuole, ma Berlino di sicuro non ride.
Per sfortuna della cancelliera, in Grecia queste cose le sanno benissimo. Ed è qui che al probabile bluff teutonico si intreccia la risposta ellenica. Dopo aver mandato a monte le elezioni di maggio rifiutando di appoggiare qualsiasi possibile coalizione, il giovane leader di Syriza, Alexis Tsipras, mira alla poltrona di premier. E lo fa con un programma che, probabilmente, lo porterà alla vittoria (gli ultimi sondaggi - per quanto inattendibili - lo danno in testa).
A mettersi nei panni di un greco, in effetti, non è facile capire come si possa ancora votare per Nea Democratia o per il Pasok. Nel panorama della politica ellenica, conservatori e socialisti sono i veri responsabili del disastro finanziario attuale. Il Paese si trova in questa situazione perché negli anni passati i partiti di governo hanno truccato pesantemente i conti per soddisfare i parametri di Maastricht e entrare così nell'euro.
Ma non basta. Due anni fa è venuto fuori che dal 2001 la Grecia ha pagato Goldman Sachs e altre banche di investimento per mascherare la quantità di denaro che il Paese chiedeva in prestito ai mercati. Intanto debito e deficit schizzavano alle stelle, con buona pace di Maastricht. Il crollo definitivo è arrivato tra fine 2009 e inizio 2010, quando - come al solito cadendo dalle nuvole - le agenzie di rating americane Standard & Poor’s e Fitch hanno tagliato il rating ellenico da A- a livello spazzatura nel giro di pochi mesi.
E oggi? Quale alternativa offre Syriza ai greci? Tsipras dice no al patto d'austerity con l'Europa e punta a nazionalizzare il sistema bancario (dopo opportune ricapitalizzazioni). Vuole alzare a 781 euro lo stipendio minimo e cancellare le norme sul lavoro che hanno abolito i contratti collettivi.
E ancora: mantenere sotto controllo statale le società d'importanza strategica, congelare i tagli sulle pensioni, introdurre misure per alleggerire la pressione sulle famiglie più indebitate e ridurre l'Iva soprattutto sui bene alimentari di prima necessità.
Tutte misure da sogno per il popolo greco, ma con la prima c'è un problema. Ricusare il memorandum siglato con Bruxelles - in linea teorica - vorrebbe dire rinunciare agli aiuti internazionali da 130 miliardi di euro che Unione europea e Fondo monetario internazionale hanno stanziato per il salvataggio del Paese.
Senza le prossime tranche di quei prestiti, le casse elleniche si ritroverebbero a corto di liquidità nel giro di pochi giorni. A quel punto il governo di Syriza inizierebbe a salutare l'Eurozona.
Tsipras però non è affatto un redivivo profeta della dracma, tutt'altro: si dice determinato a mantenere la Grecia nella comunità monetaria. Perché il suo piano funzioni è necessario che la Germania ceda per prima e si convinca della necessità di rinegoziare il memorandum. Dando un'occhiata alle casse delle sue banche, la cancelliera ha miliardi di buoni motivi per farlo.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Luca Mazzucato
NEW YORK. Uno spettro si aggira per l'America: “Miliardari di tutto il mondo unitevi!”. Con questo grido di battaglia, alcuni tra gli uomini più ricchi del paese stanno spendendo centinaia di milioni di dollari nella campagna elettorale contro Barack Obama. Un'azione coordinata in tutti gli Stati a suon di martellanti (e costosi) spot elettorali che si avvicendano senza sosta sulle tv via cavo. Grazie a questi miliardari il partito repubblicano sta ammassando un'enorme fortuna da usare nella campagna elettorale per Mitt Romney.
Secondo le previsioni, Romney sta raccogliendo fondi per circa il doppio del Presidente. Sulla questione del finanziamento ai partiti, l'America e l'Italia se la giocano alla pari, in quanto a corruzione e malaffare. Che i soldi siano diventati il fattore determinante delle vittorie elettorali è sotto gli occhi di tutti, e i democratici con Nancy Pelosi timidamente fanno outing a favore del ritorno ai finanziamenti pubblici. Purtroppo per i democratici, i loro avversari hanno trovato la gallina dalle uova d'oro. Ogni repubblicano che si rispetti ha il proprio “crazy billionaire” pronto a staccare assegni per decine, o anche centinaia, di milioni di euro, per finanziare campagne elettorali a cui altrimenti nessuno darebbe una lira. Il partito repubblicano dunque, non più legato al supporto popolare per raccogliere i fondi, ha le mani libere.
I fratelli Koch, David H. e Charles G., si sono comprati un governatore, Scott Walker del Wisconsin. Dalla sentenza Citizens United del 2010, in America non esistono più limiti alle donazioni elettorali. Dunque i fratelli Koch hanno donato trenta milioni di dollari a Walker nelle elezioni di martedì scorso, polverizzando l'avversario, il democratico Tom Barrett che si è fermato a meno di tre milioni di dollari. Il governatore Walker è forse il più radicale tra i repubblicani, famoso per aver reso illegale la contrattazione collettiva dei sindacati, le cui lotte avevano portato alle recenti elezioni.
“Adoro i piani ben riusciti,” direbbe il colonnello Smith dell'A-Team, in coro con i fratelli Koch. I due miliardari hanno deciso di mettere a buon frutto questa vittoria per passare all'attacco nazionale. Contribuiranno a Mitt Romney trecento milioni di dollari, in contanti. Una bazzecola, per i due fratelli la cui fortuna personale è stimata attorno ai cinquanta miliardi di dollari. Potrebbero da soli comprarsi tutti i politici del paese. Infatti ci stanno provando.
Ovviamente non sono soli, in questo assalto all'ultimo voto a suon di contanti: tutte le corporation si sono accodate. “Le aziende sono persone, caro mio!” disse Romney in un celebre comizio, e dunque hanno il diritto alla libertà di parola, che si esplica tramite il denaro. Ad esempio, le aziende del Tabacco.
In California, non fuma quasi nessuno. Il fumo è vietato dappertutto. Un referendum martedì scorso chiedeva alla popolazione di aumentare di un dollaro la tassa sulle sigarette, per raccogliere mezzo miliardo di dollari da donare alla ricerca sul cancro. In Marzo, due elettori su tre erano a favore della tassa. Philip Morris e soci non ci sentono e il cartello del tabacco mette in campo cinquanta milioni per spot elettorali contro la nuova tassa. Avanti veloce fino al giorno del voto: il cartello del tabacco rovescia i sondaggi e vince il referendum. Servirebbe uno studio su quanti soldi per voto sono necessari nei diversi contesti elettorali. Di sicuro i repubblicani lo studio l'hanno già fatto e lo stanno applicando alla perfezione.
Mentre quattro anni fa Obama era cool tra i traders di Wall St., ora la finanza ha deciso di voltargli le spalle e puntare su Romney per una totale deregulation. I più grandi donatori del partito democratico sono i tre grossi sindacati. Ma Scott Walker in Wisconsin ha mostrato la strada per marginalizzare i sindacati: da quando ha abolito la contrattazione collettiva, in un anno i sindacati hanno perso metà degli iscritti. Un piano perfetto per privare i democratici dell'unica fonte di grossi finanziamenti. Ma se le presidenziali sono aperte e i candidati si rincorreranno voto su voto, la grossa differenza è nelle elezioni per il Senato e il Congresso: lì dieci milioni in più significano vittoria sicura per un candidato, e dunque il controllo dei cordoni della borsa del paese.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Ieri si è concluso il summit SCO di Pechino, durante il quale i due paesi membri più importanti - Russia e Cina - hanno ribadito il netto rifiuto di qualsiasi intervento armato per risolvere la crisi in Siria e quella del nucleare iraniano. Al centro dell’attenzione dell’Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione, nella due giorni nella capitale cinese c’è stato anche il rafforzamento dei legami commerciali tra i paesi che la compongono e il loro ruolo nel futuro dell’Afghanistan in vista del ritiro delle forze di occupazione occidentali entro la fine del 2014.
L’organizzazione che ha tenuto il proprio vertice a Pechino questa settimana, trae origine dal gruppo dei “Cinque di Shanghai”, fondato nel 1996 dai governi di Russia, Cina, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan. Nel 2001 i cinque membri accolsero l’Uzbekistan, cambiando appunto il nome in Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione. Lo scopo iniziale era piuttosto limitato, cioè di allentare le tensioni tra i paesi membri, mentre successivamente l’obiettivo ufficiale sarebbe diventato quello di formare un fronte comune contro i cosiddetti “tre mali”, vale a dire terrorismo, separatismo ed estremismo.
In poco più di un decennio di vita, l’SCO ha tuttavia assunto sempre maggiore rilevanza, trasformandosi in una sorta di alleanza non solo politica ma anche militare, come dimostrano le svariate esercitazioni congiunte andate in scena dal 2003 e quelle bilaterali tra Russia e Cina, organizzate per la prima volta nella storia di questi paesi due anni più tardi. In particolare, Mosca e Pechino, nonostante una lunga storia di rapporti travagliati, hanno fatto registrare un certo riavvicinamento, promuovendo l’SCO come una risposta alla NATO e alle mire espansionistiche occidentali nel continente asiatico.
Il summit del 6 e 7 giugno si è così inserito in uno scenario di gravi tensioni internazionali, con Russia e Cina ferme nel respingere una soluzione di forza per rovesciare il regime di Assad in Siria. Confermando le posizioni dei rispettivi leader in questi mesi, i paesi SCO hanno denunciato le violenze in Siria ma hanno altresì insistito per una risoluzione diplomatica della crisi. “I membri del gruppo di Shanghai”, recita il comunicato ufficiale emesso giovedì, “sono contrari all’interferenza militare negli affari del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale, al trasferimento di poteri forzato e alle sanzioni unilaterali”.
Questa posizione, ribadita fermamente dall’SCO, conferma come Russia e Cina continueranno nel prossimo futuro a porre il veto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU su eventuali risoluzioni che possano spianare la strada ad un intervento armato esterno in Siria. I due governi, infatti, intendono evitare una ripetizione della vicenda libica che portò al rovesciamento di Gheddafi con pesanti ricadute in termini economici e strategici per entrambi i paesi.
La posizione dei paesi SCO sull’Iran, ugualmente dettata dalla comunanza di vedute dei governi russo e cinese, è stata sottolineata dalla presenza a Pechino del presidente Ahmadinejad, il quale ha avuto un faccia a faccia sia con Putin che con Hu Jintao. Russia e Cina vedono con preoccupazione il nuovo deteriorarsi delle relazioni tra Teheran e l’Occidente sulla questione del nucleare dopo gli inconcludenti colloqui di Baghdad del mese scorso e si oppongono sia ad un intervento armato che a nuove sanzioni.
Per la Cina, i timori legati ad un’eventuale aggressione da parte di USA o Israele contro le installazioni nucleari iraniane riguardano principalmente l’impennata del costo del petrolio che ne seguirebbe, con pesanti effetti sulla propria economia, nonché la minaccia all’approvvigionamento del greggio, dal momento che l’Iran è il terzo fornitore di Pechino, dopo Arabia Saudita e Angola.
Oltre a mettersi al riparo dalle possibili conseguenze in ambito economico, la Russia vuole a sua volta evitare un nuovo conflitto in Medio Oriente anche per ragioni strategiche. Un attacco contro l’Iran produrrebbe infatti nuova instabilità nelle vicine repubbliche ex sovietiche, con il rischio di contagiare la stessa Russia.
L’Iran era presente al vertice di Pechino in qualità di paese osservatore all’interno dell’SCO, così come lo sono India, Pakistan e Mongolia. All’incontro hanno partecipato anche Bielorussia e Sri Lanka in quanto “partner di dialogo” del gruppo.
Come previsto, alla presenza del presidente Hamid Karzai, durante il summit lo status di paese osservatore è stato assicurato anche all’Afghanistan, ratificando così le dichiarazioni fatte dai leader di Kabul e di Pechino nei giorni precedenti. Domenica scorsa Karzai aveva annunciato la volontà di Russia e Afghanistan di stringere legami più stretti, al di là di quelli economici.
Il presidente afgano ha parlato significativamente di partnership strategica con la Cina, una definizione già utilizzata per l’accordo siglato recentemente con l’amministrazione Obama che permetterà agli Stati Uniti di rimanere nel paese centro-asiatico ben oltre il 2014. Il presidente cinese, Hu Jintao, mercoledì aveva invece detto di vedere un ruolo più importante per il suo paese e gli altri membri dell’SCO in Afghanistan, sia pure esprimendo qualche cautela vista la situazione ancora precaria a Kabul e ponendo l’accento sugli aspetti economici rispetto a quelli militari.
La presenza a Pechino e il desiderio di entrare a far parte come osservatori dell’SCO di paesi come India, Pakistan e Afghanistan riflette il dilemma strategico dei loro governi, divisi tra un’alleanza con un’America sempre più intenzionata a mantenere il controllo sulle rotte commerciali e sulle riserve energetiche asiatiche e la necessità di cercare un contrappeso a Washington guardando alle potenze vicine - Russia e Cina - con cui essi mantengono rapporti, soprattutto economici, sempre più intensi.
In un altro segnale all’Occidente, poi, l’SCO ha approvato giovedì una dichiarazione di condanna dell’impiego di sistemi di difesa missilistici “da parte di uno stato o di un gruppo di stati”, poiché essi rappresentano una “minaccia alla sicurezza internazionale”. Anche se non nominato esplicitamente, il riferimento è al sistema NATO che gli Stati Uniti intendono allestire sul territorio di alcuni paesi dell’Europa orientale e che la Russia ritiene minacci il proprio deterrente nucleare.
Sul fronte economico, infine, i sei membri dell’Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione si sono accordati per accelerare la creazione di una Banca e di un Fondo per lo Sviluppo. Il presidente cinese Hu ha da parte sua promesso lo stanziamento di 10 miliardi di dollari in prestiti a beneficio degli altri paesi SCO, a conferma della crescente dipendenza economica di alcuni di loro da Pechino.
Il dato più importante che è uscito dal primo summit SCO dopo il ritorno di Vladimir Putin al Cremlino, in ogni caso, è la conferma della costante sintonia di Russia e Cina sui temi più delicati nel panorama internazionale. I due paesi continuano ad avere motivi di scontro a causa di interessi divergenti su varie questioni, tuttavia la loro collaborazione è aumentata parallelamente alla necessità di contrastare l’ingerenza occidentale nelle aree strategicamente sensibili del continente asiatico.
Alla luce del rinnovato interesse degli Stati Uniti per l’estremo Oriente e del mantenimento di una sostanziale presenza militare americana in Afghanistan dopo il ritiro promesso da Obama nel 2014, l’Asia continuerà dunque ad essere nei prossimi anni il teatro di crescenti tensioni e rivalità tra le principali potenze del pianeta.