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di Michele Paris
La durissima medicina somministrata a milioni di cittadini in questi anni dalle autorità europee e dai governi nazionali, dietro indicazione degli ambienti finanziari internazionali, avrebbe dovuto servire a mettere in ordine i bilanci dei paesi più in difficoltà e a ridurre il debito pubblico ufficialmente all’origine della crisi in atto. A smentire ancora una volta in maniera clamorosa questa teoria propagandata fino alla nausea da politici e media è stato questa settimana un rapporto dello stesso ufficio statistiche dell’Unione Europea (Eurostat), il quale ha confermato che i provvedimenti messi in atto da Dublino ad Atene non hanno fatto altro che deprimere ulteriormente la crescita economica e aumentare i livelli di indebitamento.
Le cifre diffuse mercoledì da Eurostat indicano, per il secondo trimestre del 2012, un debito in media pari al 90% del PIL nei 17 paesi che utilizzano la moneta unica, vale a dire il livello più alto dal 1999. Soprattutto, con l’intensificarsi degli attacchi a lavoratori, pensionati, giovani, disoccupati e classe media sotto forma di tasse e tagli alla spesa pubblica, il rapporto debito/PIL è aumentato rispetto sia al primo trimestre dell’anno (88,2%) sia al dato dell’intero 2011 (87,1%).
Le sofferenze patite da decine di milioni di cittadini europei non sono inoltre servite a invertire la tendenza dell’economia, tanto che cinque paesi rimangono tecnicamente in recessione (Cipro, Grecia, Italia, Portogallo e Spagna), mentre la tendenza generale continua a rimanere negativa, come dimostreranno quasi certamente i dati relativi al terzo trimestre che verranno diffusi il mese prossimo.
A stare peggio tra i paesi dell’eurozona sul fronte dell’indebitamento è la Grecia, vittima delle più dure imposizioni da parte della cosiddetta troika (UE, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale), con un rapporto debito/PIL salito tra il primo e il secondo trimestre dell’anno dal 136,9% al 150,3%. Subito dietro Atene si trova l’Italia, dove le misure introdotte dal governo imposto dalle grandi banche e da Bruxelles hanno soffocato la crescita economica facendo passare il rapporto debito/PIL dal 123,7% al 126,1%.
Non molto meglio se la passano poi Irlanda e Portogallo, due paesi che, come la Grecia, hanno significativamente beneficiato, per così dire, dei piani di “salvataggio” pari a svariate decine di miliardi di euro erogati da UE e FMI in cambio di drastiche misure di austerity.
Un’altra tesi che fa parte della propaganda della classe dirigente europea è quella che negli scorsi decenni i governi hanno abusato della spesa pubblica, garantendo ai propri cittadini servizi e benefit che non si potevano permettere se non facendo appunto esplodere il problema del debito sul lungo periodo.
In realtà, ciò sarebbe dovuto principalmente agli interventi resi necessari a partire dal 2008 per salvare le banche sull’orlo del fallimento, in particolare in Spagna e in Irlanda. Il trasferimento di colossali somme di denaro nelle casse degli istituti responsabili della crisi, com’è ovvio, è stato poi compensato con tagli alla spesa e ai programmi di assistenza pubblici, ma anche con licenziamenti di massa e tasse che colpiscono invariabilmente le classi più disagiate.
Le ricette adottate ovunque in questo frangente storico, oltretutto, secondo molti economisti non eviteranno comunque una qualche forma di default da parte dei paesi più indebitati. Riferendosi alla Grecia e non solo, in una recente intervista al New York Times, l’economista Jörg Krämer, di Commerzbank, ha ad esempio affermato che per “rendere il peso del debito sostenibile, dovrà esserci una qualche ristrutturazione del debito stesso”.
I dati di Eurostat e la situazione in cui versano numerosi paesi europei confermano dunque che le misure draconiane fin qui implementate e che ancora attendono i cittadini non servono a diminuire il debito pubblico, come viene fatto credere, bensì lo fanno aumentare, causando un aggravamento della recessione e un’impennata dei livelli di disoccupazione.
Che le misure prolungate di austerity avrebbero finito per produrre effetti simili era d’altra parte risaputo, dal momento che economisti e politici ben conoscono, quanto meno, la lezione degli anni successivi alla crisi del 1928 negli Stati Uniti, in seguito alla quale l’applicazione prematura di misure come quelle attuali comportò un peggioramento della situazione, precipitando il paese nella Grande Depressione.
Anche per questo, appare più che legittimo affermare che lo scopo delle politiche di rigore adottate da una classe politica europea totalmente al servizio dei grandi interessi economici e finanziari, sia quello di utilizzare la crisi del debito per condurre attacchi senza precedenti alle condizioni di vita di centinaia di milioni di persone, facendo fronte alla crisi strutturale del capitalismo internazionale con il ridimensionamento permanente delle politiche di spesa pubblica dei governi, accompagnate da un virtuale azzeramento dei residui diritti conquistati dai lavoratori in decenni di lotte, così da creare un bacino di manodopera a basso costo e senza protezioni a disposizione delle aziende europee.
Un esempio di quello che attende i lavoratori europei - e non solo - viene dalla Grecia, vero e proprio laboratorio sul quale la troika da tempo esercita un potere dittatoriale, imponendo il volere degli ambienti finanziari internazionali che si traduce in sofferenze indicibili per la popolazione e nella distruzione del tessuto sociale. Proprio di questi giorni è la notizia dell’accordo raggiunto tra il governo di Atene e la troika per l’erogazione di una nuova tranche da 13,5 miliardi di euro, che andranno peraltro in gran parte nelle casse dei creditori della Grecia, in cambio di altre misure di austerity.
Per questa ragione, suonano del tutto vuoti gli avvertimenti e le critiche che rimbalzano sui giornali di tutta Europa di quanti fanno notare come le autorità UE e i governi nazionali siano eccessivamente fissati su quello che, ad esempio, giovedì sul Sole24Ore Marco Fortis ha definito il “totem” del rapporto debito/PIL. Tale “ossessione” non è da attribuire ad una volontà cieca di burocrati di Bruxelles o Francoforte, ma è una politica messa in atto deliberatamente per portare a termine una contro-rivoluzione sociale (e politica) in nome e per conto dei grandi interessi finanziari.
Una realtà, questa, confermata anche dal fatto che “gli sforzi fiscali eccessivi”di cui parla lo stesso Fortis sono arrivati, per quanto riguarda l’Italia, nonostante la situazione del paese fosse di “assoluta sostenibilità finanziaria” e con “un’economia solida”.
Simili politiche hanno già causato e continueranno a causare fortissime tensioni sociali in molti paesi, tenute però finora sotto controllo grazie agli sforzi nel far digerire alle popolazioni le misure di austerity e gli assalti ai diritti del lavoro di partiti nominalmente di centroinistra che, come in Grecia e in Italia, sostengono governi politici o tecnici agli ordini della finanza internazionale. Le organizzazioni sindacali, invece, hanno in questo scenario il compito di contenere i malumori ampiamente diffusi tra i lavoratori tramite occasionali proteste e scioperi innocui che servono solo come valvola di sfogo temporanea.
Nel caso dell’Italia, poi, il sostegno alle politiche anti-sociali dettate dall’UE per salvare gli interessi di banche e speculatori è giunto in maniera ferma anche dalle più alte autorità dello Stato, come il presidente della Repubblica Napolitano, il quale ha svolto un ruolo decisivo sia nel garantire l’applicazione dei diktat della finanza internazionale con il passaggio di poteri da Berlusconi a Monti, sia nel frenare le tensioni nel paese con ripetuti appelli all’unità in un momento di crisi.
Lo stesso presidente proprio l’altro giorno ha inoltre invitato “gli italiani, votando ad aprile, a tenere conto della importantissima esperienza del governo Monti”, prospettando la necessità di continuare sulla strada seguita in questo ultimo anno. Un’esperienza quella che ha avuto come protagonista l’ex consulente di Goldman Sachs che è stata effettivamente importantissima ma, al contrario di quello che afferma pubblicamente Napolitano, solo per la devastazione sociale che ha portato e che porterà in Italia come altrove per salvare il sistema finanziario internazionale.
Un’esperienza, infine, che gli italiani terranno bene a mente di qui a pochi mesi, quando le elezioni politiche, come indicano le previsioni, faranno segnare con ogni probabilità un’esplosione del voto di protesta e dei livelli di astensionismo.
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di Michele Paris
Nel terzo e ultimo dibattito presidenziale prima del voto del 6 novembre, Barack Obama è sembrato conservare qualche traccia dell’aggressività mostrata nei confronti del suo rivale repubblicano la settimana scorsa a Long Island. Il presidente ha potuto così raccogliere i favori degli elettori che hanno seguito il faccia a faccia in diretta TV dedicato quasi per intero alle questioni di politica estera, attorno alle quali entrambi i pretendenti alla Casa Bianca hanno prevedibilmente assicurato, in caso di successo, una sostanziale continuità delle politiche volte alla difesa degli interessi dell’imperialismo a stelle e strisce nel mondo.
Il dibattito di lunedì sera è andato in scena presso la Lynn University di Boca Raton, cittadina sulla costa atlantica della Florida, ed è stato moderato dal veterano della CBS, Bob Schieffer. Le impressioni raccolte dai media d’oltreoceano hanno indicato un chiaro e rapido deterioramento dell’interesse degli spettatori, in buona parte interessati per lo più ai match di baseball e di football in onda in contemporanea sulle reti nazionali.
L’indifferenza diffusa nei confronti del dibattito testimonia anche della relativa secondarietà dei temi legati alla politica estera americana in un momento di grave disagio economico e, più in generale, della distanza abissale che separa i due candidata alla presidenza, così come tutta la classe politica USA, dalla maggioranza della popolazione.
Inoltre, lo scarso interesse del pubblico è da attribuire anche al fatto che, nonostante gli scambi di battute vivaci tra Obama e Romney, i due hanno mostrato una piena identità di vedute sulle questioni di politica estera, rivelando come le differenze di natura puramente strategica tra le élite economiche e finanziarie sul fronte domestico vengono puntualmente ricomposte quando si tratta di proiettare il potere e gli interessi della classe dirigente americana nel mondo.
Anche i media mainstream, impegnati nello strenuo tentativo di propagandare il voto di novembre come una scelta epocale tra due opposte visioni, hanno perciò dovuto ammettere che i candidati hanno finito per concordare su quasi tutti i temi trattati durante la serata. Entrambi hanno così confermato piena fedeltà a Israele, mentre si sono detti d’accordo sull’uso dei droni, sulla strategia da adottare verso l’Iran e la Siria, sull’approccio agli eventi della Primavera Araba, sulla gestione della crescente rivalità con la Cina, sulla questione palestinese e sul ritiro dall’Afghanistan.
Mitt Romney ha inoltre elogiato Obama per l’assassinio di Osama bin Laden in Pakistan e, dopo la gaffe della scorsa settimana durante il dibattito alla Hofstra University, ha evitato di attaccare il presidente sulla questione che ha monopolizzato il dibattito politico negli Stati Uniti nell’ultimo mese, cioè la risposta data dalla sua amministrazione all’assalto al consolato USA di Bengasi dello scorso 11 settembre che ha causato la morte dell’ambasciatore J. Christopher Stevens e di altri tre cittadini americani.
Sul Washington Post, ad esempio, l’editorialista David Ignatius ha parlato martedì di una doppia affermazione per Obama, dal momento che il presidente non solo avrebbe espresso le proprie posizioni in maniera più convincente, ma queste ultime hanno anche ricevuto una sorta di approvazione da parte di Romney. L’articolo principale dedicato dal New York Times all’evento di Boca Raton ha invece fatto notare come il dibattito abbia evidenziato differenze prevalentemente di toni e di stile attorno alla politica estera piuttosto che nei contenuti.
Alcuni commentatori si sono poi interrogati sui motivi per cui Romney, come ha fatto fin qui in campagna elettorale, non abbia espresso posizione più estreme, visto anche che tra i suoi consiglieri di politica estera figurano numerosi “neo-con” legati all’amministrazione Bush jr. Tale atteggiamento è dovuto in primo luogo all’estrema impopolarità di queste politiche guerrafondaie, che quindi non possono essere espresse apertamente, ma anche al fatto che le decisioni prese da Obama in questi quattro anni hanno già rappresentato una netta svolta a destra fino ad andare oltre, per molti versi, il suo stesso predecessore.
La relativa reticenza di Obama e Romney non deve tuttavia far dimenticare che, chiunque si insedierà alla Casa Bianca a gennaio, il governo americano proseguirà i preparativi già in atto per nuove e rovinose guerre - contro Siria o Iran - dietro le spalle della popolazione americana.
In sostanza, al di là della retorica di lunedì, ciò che è stato comunicato agli elettori con il dibattito è che Obama e Romney continueranno a mettere in atto una politica estera fatta di guerre illegali, spesso con pretesti di natura umanitaria, di assassini senza giustificazioni legali sul territorio di paesi sovrani che non sono in guerra con gli Stati Uniti, di appoggio od opposizione a regimi autoritari a seconda che essi servano od ostacolino gli interessi delle élite americane.
Se di questi scenari non si è parlato apertamente nel corso del faccia a faccia tra Obama e Romney, il dibattito è comunque poggiato su una premessa implicita ugualmente inquietante e condivisa sia dai candidati che dal moderatore e da tutta l’intellighenzia mainstream, cioè la presunta indiscutibile superiorità morale che permette agli Stati Uniti di mettere in atto le proprie strategie imperialiste senza rendere conto a niente e a nessuno, calpestando i diritti di civili e di paesi sovrani, nonché infliggendo morte e distruzione in ogni angolo del pianeta dove i loro interessi sono in gioco.
Una simile politica estera, così come quella economica che favorisce unicamente i poteri forti, è in realtà fermamente osteggiata dalla maggior parte della popolazione, soprattutto dai lavoratori, dai disoccupati e dai giovani americani, tra i quali si registrano comprensibilmente i più elevati tassi di astensione. Ciononostante, i principali media d’oltreoceano non provano nemmeno a mettere in discussione l’autoproclamata supremazia USA, evitando accuratamente di porre qualsiasi domanda scomoda ai candidati di entrambi i partiti.
Un esempio di tale atteggiamento durante il dibattito di lunedì è stato l’argomento dell’assassinio di bin Laden, un atto illegale condotto contro un uomo disarmato e nel disprezzo di un paese sovrano, considerato al contrario interamente legittimo e utilizzato dal presidente per ostentare le proprie credenziali nell’ambito della sicurezza nazionale.
Ancora, nel discutere l’impatto delle sanzioni imposte in questi anni a Teheran, Obama ha descritto con orgoglio e, nuovamente, come del tutto legittimo il crollo dell’economia iraniana provocato, considerando le sofferenze e i disagi inflitti alla popolazione come trascurabili effetti collaterali.
Per quanto riguarda gli equilibri nella corsa alla presidenza, in ogni caso, anche se Obama avrebbe “vinto” due dibattiti su tre, il bilancio complessivo dei faccia a faccia ha comunque favorito Romney. Il miliardario mormone, infatti, è riuscito ad azzerare nei sondaggi nazionali il vantaggio accumulato dal rivale democratico dopo le convention della scorsa estate, soprattutto grazie all’inaspettata prestazione nel primo dibattito di Denver.
Il percorso di Romney verso la vittoria nell’election day rimane comunque in salita, dal momento che Obama sembra mantenere per il momento un certo margine in alcuni stati chiave, a cominciare dall’Ohio, che risulteranno decisivi per assicurarsi l’ingresso alla Casa Bianca.
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di Michele Paris
La macchina dell’FBI per la fabbricazione di presunte minacce terroristiche in territorio americano ha puntualmente partorito l’ennesima cospirazione, debitamente sventata, a meno di tre settimane dalle elezioni presidenziali. A cadere nella rete dell’anti-terrorismo a stelle e strisce è stato qualche giorno fa uno studente 21enne del Bangladesh, accusato di avere progettato un attentato con un autobomba contro la sede della Federal Reserve di New York.
Arrestato mercoledì scorso in una stanza dell’Hotel Millenium di Manhattan, Quazi Mohammad Rezwanul Ahsan Nafis è subito apparso di fronte ad un giudice federale di Brooklyn prima di essere tradotto in carcere senza possibilità di cauzione. Nafis era giunto negli Stati Uniti a gennaio con un visto studentesco e dopo un semestre in un college del Missouri si era trasferito a New York, dove aveva trovato un lavoro a tempo pieno in un hotel della città.
Secondo l’FBI, il giovane cittadino del Bangladesh intendeva far saltare un veicolo con quasi 500 chili di esplosivo a bordo di fronte alla sede di New York della Banca Centrale americana. Le accuse a suo carico potrebbero portare ad una condanna fino all’ergastolo.
Come già accaduto in numerose altre occasioni nel recente passato, tuttavia, l’intero progetto terroristico attribuito a Nafis non è in realtà altro che una messa in scena delle forze di polizia federali, senza la cui istigazione e assistenza la minaccia non avrebbe mai visto la luce. Inoltre, sul furgone scelto per l’attentato era stato caricato del finto esplosivo, così come inutilizzabile era il dispositivo a distanza fornito al giovane bengalese per innescare la detonazione.
Tutto il materiale necessario per l’attentato, compreso il trasporto dell’automezzo nel luogo prescelto, è stato fornito a Nafis da agenti sotto copertura facenti parte della cosiddetta “Joint Terrorism Task Force” di New York, un reparto speciale che prevede la collaborazione tra l’FBI e le forze di polizia della città.
Anche in questa operazione, per la quale l’FBI ha tenuto a precisare che ovviamente la popolazione newyorchese non ha mai corso alcun rischio, gli agenti americani si sono con ogni probabilità imbattuti in un giovane musulmano che potrebbe avere espresso opinioni critiche nei confronti delle politiche anti-terroristiche dell’amministrazione Obama, decidendo di incastrarlo in una cospirazione fabbricata ad arte da offrire ai media e all’opinione pubblica.
La notizia dell’arresto di Nafis è stata accolta con incredulità dai suoi famigliari in Bangladesh, i quali hanno denunciato senza mezzi termini la trappola preparata dal governo americano per il giovane studente. Nel fine settimana, le autorità del Bangladesh hanno annunciato di avere interrogato parenti, ex insegnanti e compagni di scuola di Nafis, senza trovare traccia di un suo coinvolgimento nelle attività di gruppi estremisti.
Gli stessi agenti dell’FBI hanno affermato infatti che al giovane è stato fatto credere di agire per conto di Al-Qaeda ma che non è emerso alcun suo legame con organizzazioni radicali. Secondo i documenti ufficiali, Nafis avrebbe iniziato a stabilire contatti con possibili complici durante l’estate, finendo per imbattersi in un informatore sotto copertura. A supporto di questa tesi non è stata però presentata alcuna prova ed è al contrario molto probabile che sia stato l’FBI a sollecitare Nafis, proponendogli un progetto di attentato già studiato a tavolino.
Le cosiddette “sting operations”, come quella in cui è caduto lo studente bengalese, ammontano ormai a svariate decine da quando Obama si è insediato alla Casa Bianca. Queste operazioni sono interamente organizzate dall’FBI o da altre agenzie governative, i cui informatori o agenti sotto copertura sfruttano la fragilità di giovani appartenenti a minoranze etniche, quasi sempre di fede musulmana, per coinvolgerli in improbabili trame terroristiche.
Queste operazioni in alcuni casi si sono già trasformate in pesantissime condanne, come quella di ben 30 anni inflitta recentemente all’immigrato marocchino Amine El Khalifi, arrestato lo scorso febbraio per avere pianificato un attentato suicida, con finto esplosivo rigorosamente fornito dall’FBI, nella sede del Congresso di Washington.
Nella categoria delle “sting operations” rientra anche l’assurda cospirazione per assassinare l’ambasciatore saudita negli Stati Uniti attribuita ad un iraniano-americano, a processo a New York proprio in questi giorni, con il beneplacito delle autorità di Teheran e attraverso i servizi di membri di un cartello nel narcotraffico messicano che erano in realtà uomini dell’FBI sotto copertura.
Il governo americano ha iniziato da qualche tempo ad utilizzare questo sistema anche per colpire gli oppositori interni, come dimostrano gli arresti di cinque giovani anarchici lo scorso mese di maggio durante il vertice della NATO a Chicago. Fermati a Cleveland, nell’Ohio, costoro erano stati accusati di avere progettato l’esplosione di un ponte, un’idea avanzata proprio da infiltrati dell’FBI che avrebbero anche fornito il decisivo appoggio logistico.
La lista di simili operazioni è ancora molto lunga ed esse vengono talvolta annunciate in concomitanza con importanti appuntamenti elettorali o eventi politici di rilievo, così da mantenere un elevato stato di allerta tra la popolazione americana e giustificare l’adozione di misure di polizia per combattere una minaccia terroristica in gran parte fabbricata.
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di Michele Paris
Nella quasi totale indifferenza dei media e dei governi occidentali, da qualche giorno è in atto un sanguinoso assedio alla città libica di Bani Walid ad opera di alcune delle milizie armate che imperversano nel paese nord-africano. Nella località, situata a poco meno di 200 chilometri a sud-est di Tripoli, troverebbero rifugio fedelissimi del precedente regime di Gheddafi, presi di mira dagli ex ribelli in seguito alla morte di un loro membro che svolse un ruolo fondamentale nella cattura e nel brutale assassinio del rais quasi un anno fa a Sirte.
Il bilancio degli scontri nella sola giornata di mercoledì è stato di almeno undici morti tra la popolazione di Bani Walid, colpita, come ha riferito un residente della città all’agenzia di stampa AFP, da intensi bombardamenti provenienti da tre postazioni, con gravi danni inflitti ai quartieri residenziali.
Secondo i resoconti dei media occidentali, Bani Walid non sarebbe mai stata completamente “liberata” dai guerriglieri, nonostante la città fosse stata dichiarata libera dalle forze legate al regime il 17 ottobre dello scorso anno, tre giorni prima dell’esecuzione di Gheddafi.
Le tensioni a Bani Walid erano in ogni caso tornate a riaccendersi pericolosamente lo scorso 25 settembre, quando il parlamento di Tripoli (Congresso Generale Nazionale) aveva ordinato ai ministri della Difesa e degli Interni di trovare, anche con l’uso della forza, i responsabili del rapimento e dell’uccisione del 22enne Omran ben Shaaban.
Quest’ultimo era un ex ribelle che aveva individuato Gheddafi a Sirte dopo che il suo convoglio era stato colpito da un bombardamento NATO mentre cercava di lasciare la città sotto assedio. Shaaban era stato rapito a luglio a Bani Walid e, nel tentativo di fuggire ai suoi sequestratori, era stato raggiunto da due colpi di arma da fuoco. Successivamente Shaaban è stato liberato grazie all’intervento del presidente del Congresso, Mohamed Magarief, ma è comunque deceduto in un ospedale francese dove era stato trasferito.
Dai primi di ottobre, dunque, le milizie di Misurata e di altre località libiche hanno cominciato a circondare la città, mettendola sotto assedio dopo il fallito tentativo di trovare un accordo con i capi tribali. Le milizie hanno a lungo impedito le forniture di beni di prima necessità, così come l’evacuazione dei civili, mentre la Croce Rossa ha ottenuto il via libera per accedere agli ospedali solo il 10 ottobre scorso.
I toni minacciosi provenienti dai leader delle milizie e dal governo non promettono nulla di buono per Bani Walid. Come riportato dalla stampa locale nei giorni scorsi, infatti, le autorità di Misurata hanno lanciato un appello per una massiccia operazione militare contro la città, definita il “cancro della Libia”, che ospiterebbe i nostalgici di Gheddafi da “eliminare con la forza” per evitare che le forze anti-rivoluzionarie si propaghino in tutto il paese.
Nella giornata di giovedì, poi, la stampa locale ha riferito che l’esercito libico si sarebbe messo in marcia verso Bani Walid in seguito agli ordini del capo di Stato maggiore, generale Yusuf Mangush e in attuazione della già ricordata risoluzione del Parlamento.
La punizione indiscriminata inflitta alla popolazione di una città che ha rappresentato una roccaforte del regime di Gheddafi fino alla fine testimonia ancora una volta la natura delle forze sulle quali i paesi occidentali hanno fatto affidamento per rovesciare il rais. I presunti “liberatori” della Libia, come hanno messo in luce svariate ricerche sul campo condotte dalle più autorevoli organizzazioni umanitarie, si erano infatti ben presto distinti per le innumerevoli violazioni dei diritti umani commesse, comprese esecuzioni sommarie, torture e detenzioni di massa senza accuse né processi.
A sollevare sospetti inquietanti sui metodi impiegati dagli ex ribelli a Bani Walid sono stati alcuni medici che operano negli ospedali della città, i quali hanno raccontato l’arrivo nelle loro strutture di feriti civili che presentavano sintomi tali da far pensare all’uso da parte delle milizie di armi con gas velenosi.
Le operazioni in corso a Bani Walid sono anche l’ennesima prova del caos che regna in Libia e la quasi totale assenza di controllo sulle milizie armate da parte del nuovo governo centrale, tanto che un paio di giorni fa, nel pieno dell’assalto alla città, un portavoce dell’esercito regolare affermava ancora che da Tripoli non era partito nessun ordine di assediare la città.
I governi occidentali che hanno appoggiato il cambio di regime a Tripoli per ragioni esclusivamente geo-strategiche continuano a mantenere un imbarazzante silenzio sui fatti di Bani Walid, consapevoli che un dibattito su quanto sta accadendo in questi giorni e, più in generale, sulle condizioni della Libia del dopo-Gheddafi corrisponderebbe a smascherare gli interessi che hanno portato all’intervento della NATO nel marzo 2011 in appoggio di forze reazionarie propagandate come combattenti per la democrazia.
Lo stesso governo italiano non sembra intenzionato a fare alcuna pressione su Tripoli, nonostante nei giorni scorsi ci siano stati contatti diretti con le autorità libiche. Martedì, ad esempio, il premier Monti si è congratulato telefonicamente con il neo-primo ministro, Ali Zidan, ribadendo la fiducia di Roma “nel futuro della Libia”. Un paio di giorni prima era stato invece il ministro degli Esteri, il fedelissimo di Washington Giulio Terzi di Sant’Agata, a felicitarsi con Zidan, esprimendo la speranza di un prossimo vertice bilaterale.
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di Michele Paris
Con il sollievo generale dell’establishment liberal americano, nel secondo dibattito presidenziale andato in scena nella serata di martedì a Long Island, il presidente Obama ha in qualche modo riacquistato una certa combattività dopo l’opaca prestazione offerta a Denver nel primo faccia a faccia in vista del voto del 6 novembre. In uno scenario che ha dato solo l’impressione della spontaneità, i due contendenti per la Casa Bianca hanno ribadito nuovamente le rispettive posizioni, scambiandosi attacchi talvolta accesi, ma senza mai affrontare i reali problemi che affliggono il paese o le cupe prospettive che attendono decine di milioni di americani nei prossimi mesi.
Le regole scelte per il secondo dibattito presidenziale hanno ancora una volta mostrato tutta l’artificiosità di un simile evento che, nonostante abbia fatto registrare circa 70 milioni di telespettatori, è apparso l’ennesimo rituale privo di particolare significato se non per la cerchia di politici e commentatori mainstream d’oltreoceano.
Definita “town hall”, la formula del dibattito di martedì prevede che i due candidati siano liberi di muoversi in uno spazio circondato da un pubblico di presunti elettori indecisi, alcuni dei quali hanno la facoltà di sottoporre delle domande prima di vedere rapidamente chiudersi i loro microfoni.
I partecipanti, tuttavia, sono stati preventivamente selezionati con cura, così come le loro domande che, in ogni caso, vengono quasi sempre evase dai due pretendenti e servono solo come occasione per parlare più in generale dell’argomento in questione secondo il loro punto di vista.
Esemplare in questo senso è stata la domanda che ha aperto il dibattito, posta da uno studente universitario 20enne che, dopo avere sottolineato le difficoltà che dovrà affrontare per ottenere un impiego decente dopo la laurea, ha chiesto ai due candidati un qualche conforto circa il suo futuro. Non avendo nessuno dei due alcuna ricetta efficace per creare posti di lavoro stabili e ben pagati, Romney si è limitato a lasciare intendere che la sua esperienza nel mondo degli affari lo rende qualificato per mettere in atto misure che aumentino l’occupazione, anche se il suo passato nel “private equity” indica piuttosto una propensione a fare milioni di dollari smembrando aziende e licenziando senza scrupoli.
Obama, invece, ha citato la bancarotta pilotata voluta dalla sua amministrazione per General Motors e Chrysler e i posti che avrebbe salvato, senza citare il conseguente dimezzamento degli stipendi per i nuovi assunti e la distruzione dei benefit e dei diritti dei lavoratori, imposti con la collaborazione delle associazioni sindacali. Un piano, quello implementato per i colossi dell’auto di Detroit dal presidente democratico, che ha fornito un modello regressivo per tutta l’industria americana e non solo.
A moderare il dibattito di martedì presso la Hofstra University di Hempstead, a Long Island, è stata la giornalista della CNN, Candy Crowley, protagonista di quella che i media USA hanno definito la principale gaffe della serata commessa dal candidato repubblicano. Nel discutere uno dei temi più caldi di queste ultime settimane negli Stati Uniti - l’assassinio dell’ambasciatore americano in Libia, J. Christopher Stevens - Obama ha affermato che il giorno successivo ai fatti di Bengasi era apparso nel Rose Garden della Casa Bianca per definire l’assalto come un “atto terroristico”.
Quando Romney ha ribattuto sostenendo che il presidente aveva in realtà atteso 14 giorni prima di definire l’attacco in questo modo, Candy Crowley è intervenuta confermando la versione di Obama, il quale ha immediatamente colto l’occasione per mettere in imbarazzo il rivale, chiedendo alla moderatrice di ripetere il suo intervento ad alta voce.
Gli scambi di battute, l’interazione a volte quasi fisica tra i due candidati, le ripetute interruzioni e le polemiche che hanno caratterizzato gli oltre 90 minuti di diretta televisiva hanno comunque fatto ben poco per nascondere la sostanziale identità di vedute di Obama e Romney sulle questioni più importanti all’ordine del giorno: dall’occupazione alle tasse, dalla politica energetica a quella dell’immigrazione.
Fuori dal dibattito, come dalla campagna elettorale in genere, è rimasta soprattutto la minaccia che incomberà sui lavoratori e sulla classe media americana a urne chiuse, quando cioè i due partiti, indifferentemente da chi si insedierà alla Casa Bianca, sigleranno un accordo per ridurre il deficit federale tramite tagli devastanti a programmi pubblici popolari come Medicare e Medicaid, nonché al sistema pensionistico, regalando nuovi sgravi fiscali a corporation e redditi più elevati.
Il presidente Obama, finito sotto pressione e chiamato a mostrare maggiore aggressività rispetto a Denver, aveva trascorso alcuni giorni in Virginia esercitandosi per il dibattito, così da arrestare un declino nei sondaggi che alla vigilia indicavano un sostanziale equilibrio a livello nazionale e un netto recupero di Romney nella manciata di stati in bilico che decideranno l’esito del voto.
Così, nella nottata tra martedì e mercoledì in Italia, Obama ha messo a segno gli attacchi diretti al rivale che in molti tra i suoi sostenitori chiedevano, come quello relativo all’ormai famosa uscita di Romney sul 47% degli americani che dipenderebbero dal governo, pronunciata durante una raccolta fondi in Florida nel mese di maggio. Inoltre, nel vano tentativo di presentarsi come il difensore della “middle-class” americana, il presidente ha fatto riferimento all’aliquota fiscale irrisoria pagata da Romney sui suoi redditi e agli investimenti di quest’ultimo in aziende cinesi che avrebbero sottratto posti di lavoro agli Stati Uniti.
Ignorate dai due candidati sono state anche altre questioni attorno alle quali la classe dirigente USA si trova d’accordo, come la preparazione di nuove guerre, con Siria e Iran ma anche, in prospettiva futura, con Russia e Cina, oppure l’ulteriore restringimento dei diritti democratici costituzionali in nome della guerra al terrore dopo quattro anni di politiche messe in atto dall’amministrazione democratica che per molti versi sono già andate ben oltre quelle adottate da George W. Bush.
Nel gioco degli “instant poll”, infine, i media americani hanno indicato una leggera preferenza degli spettatori del dibattito per Barack Obama, anche se con margini più ridotti rispetto al vantaggio per Romney registrato dopo il primo confronto in Colorado. Per verificare se la dinamica della sfida, tradizionalmente sempre più equilibrata con l’avvicinarsi dell’election day, verrà ancora una volta modificata bisognerà attendere però i prossimi giorni, anche se è probabile il persistere dell’incertezza fino all’ultimo, sintomo della virtuale indistinguibilità dei due pretendenti nonostante gli sforzi della stampa per presentare le proposte di Obama e Romney come diametralmente opposte.
Nel frattempo, la terza e, fortunatamente, ultima messa in scena in forma di dibattito presidenziale negli Stati Uniti si terrà lunedì prossimo alla Lynn University di Boca Raton, in Florida, dove i candidati del Partito Democratico e di quello Repubblicano, per l’ultima volta con a disposizione un pubblico così vasto, proveranno a convincere gli elettori ancora indecisi, cercando questa volta di fuorviarli sui soli temi legati alla politica estera.