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di Michele Paris
Con le elezioni anticipate per il rinnovo della Knesset (Parlamento) a meno di due settimane di distanza, il panorama politico di Israele appare sempre più segnato dallo spostamento a destra dei propri protagonisti a fronte di crescenti tensioni sociali interne e crisi regionali pronte ad esplodere. Superfavorito per la vittoria nel voto del 22 gennaio è ovviamente il primo ministro, Benyamin Netanyahu, con la sua coalizione di estrema destra. In grave difficoltà continuano invece ad essere i principali partiti moderati e di centro-sinistra, mentre un risultato inaspettato potrebbe metterlo a segno l’astro nascente della destra israeliana, il 40enne Naftali Bennett, con il suo partito “Focolare Ebraico”.
Il voto anticipato in Israele era stato di fatto deciso dallo stesso Netanyahu lo scorso ottobre in seguito al disaccordo con alcuni piccoli partiti ultra-religiosi che sostenevano il suo gabinetto in merito all’approvazione del nuovo bilancio dello stato all’insegna dell’austerity. In precedenza, alla luce delle inquietudini già emerse all’interno della propria coalizione, il premier aveva cercato di allargare la maggioranza parlamentare imbarcando il partito con il maggior numero di deputati in Parlamento, Kadima.
Lo scorso maggio, infatti, a poco meno di due mesi dalla sconfitta dell’ex ministro degli Esteri, Tzipi Livni, nella competizione per la guida del partito di centro, il nuovo leader, Shaul Mofaz, aveva siglato a sorpresa un accordo per la formazione di un governo di unità nazionale con Netanyahu. L’esperimento, tuttavia, sarebbe fallito solo poche settimane più tardi.
La sconfitta nella corsa alla leadership di Kadima aveva in ogni caso convinto la Livni a uscire dal partito per formarne uno nuovo - Hatnuah (“Il Movimento”) - annunciato infine il 27 novembre scorso e fondato assieme a sette altri colleghi parlamentari.
Le divisioni e gli stenti dell’opposizione hanno così convinto Netanyahu a indire nuove elezioni, con la certezza di riuscire a conquistare senza troppe difficoltà un nuovo mandato, questa volta senza la necessità di contare sui partiti ultra-religiosi e formando invece un blocco elettorale con il partito di estrema destra di Avigdor Lieberman (Yisrael Beiteinu), ministro degli Esteri e vice-premier fino allo scorso dicembre quando ha rassegnato le dimissioni dopo l’apertura di un procedimento legale nei suoi confronti per frode.
Forse anche in seguito allo scandalo in cui è coinvolto Lieberman, il cui secolarismo è visto inoltre con sospetto da molti elettori conservatori, la galassia della destra israeliana ha registrato così l’ascesa nei sondaggi di un’altra formazione, quella di ispirazione nazionalista e religiosa (ma non fondamentalista) del partito Habayit Hayehudi dell’imprenditore di origine americana ed ex capo di gabinetto di Netanyahu, Naftali Bennett.
Secondo i sondaggi più recenti, quest’ultimo partito, che si oppone apertamente ad uno stato palestinese e propone l’annessione del 60% della Cisgiordania, potrebbe conquistare tra i 10 e i 15 seggi sui 120 totali in palio, piazzandosi subito dietro il Likud e il Partito Laburista.
Proprio i laburisti, a loro volta, si presentano al voto senza suscitare particolari entusiasmi e segnati dalla defezione di uno dei leader storici. Il ministro della Difesa, Ehud Barak, aveva infatti rotto con il Partito Laburista già nel gennaio di due anni fa per entrare nel governo Netanyahu. Barak aveva perciò creato il Partito dell’Indipendenza, assicurando all’esecutivo di destra il supporto di cinque parlamentari. Ampiamente screditato, Barak ha però alla fine annunciato il ritiro dalla politica dopo le elezioni, a cui il suo nuovo partito non prenderà nemmeno parte.Ciò che resta dei laburisti sarà guidato nel voto del 22 gennaio dalla 52enne ex giornalista Shelley Yachimovich, la quale ha cercato di capitalizzare il malcontento diffuso nel paese verso le politiche del governo, così come le manifestazioni di protesta andate in scena in varie città israeliane nei mesi scorsi. Le intenzioni di voto pubblicate dai giornali israeliani in questi giorni assegnano al Partito Laburista una ventina di seggi contro i 13 su cui può contare attualmente alla Knesset.
Nonostante la vittoria di Netanyahu sia data per scontata da tutti i commentatori, l’apatia tra gli elettori appare palpabile. L’affluenza, già scesa sotto il 65% nel 2009, potrebbe addirittura avvicinarsi in questa occasione al 50%, mentre un recente sondaggio del quotidiano The Times of Israel ha messo in luce come oltre la metà di quanti si recheranno alle urne abbia una visione pessimistica per il futuro del paese.
D’altra parte, oltre alla prospettiva di ulteriori guerre, i provvedimenti in materia di economia che il nuovo esecutivo adotterà una volta insediato includono un drastico aumento delle tasse e delle tariffe pubbliche, nonché tagli alla spesa dello stato per far fronte ad un deficit di bilancio in netta crescita anche a causa della continua impennata delle spese militari.
Il prossimo gabinetto guidato da Netanyahu sarà caratterizzato poi da posizioni ancora più rigide in relazione agli eventi del Medio Oriente. In particolare, all’orizzonte si intravede un possibile intervento in Siria e la continua oppressione del popolo palestinese, come conferma il via libera dato recentemente a nuovi insediamenti illegali nei territori occupati.
Per quanto riguarda la questione iraniana, se essa è rimasta finora in larga misura fuori dalla campagna elettorale in Israele, il voto stesso del prossimo 22 gennaio secondo alcuni è stata una manovra proprio per preparare il terreno ad un’aggressione militare per colpire il programma nucleare di Teheran, grazie al rafforzamento della posizione di Netanyahu che dovrebbe produrre la consultazione popolare.
La rielezione di Obama alla Casa Bianca, le critiche espresse alla linea dura di Netanyahu da molti esponenti dell’apparato della sicurezza israeliana e la sostanziale impopolarità di un attacco unilaterale contro l’Iran devono avere però convinto i vertici della coalizione di destra a procedere cautamente in vista del voto.
Ciononostante, l’Iran è emerso in un discorso pubblico tenuto da Netanyahu lunedì durante una visita all’insediamento ebraico di Ariel, in Cisgiordania. Il premier ha affermato che “il pericolo per il pianeta non è l’università di Ariel o gli insediamenti israeliani nei quartieri di Gerusalemme, bensì un Iran che sta costruendo armi nucleari”.Il capo del governo di un paese che possiede l’unico arsenale nucleare della regione senza mai averlo dichiarato e senza avere sottoscritto il Trattato di Non Proliferazione, già lo scorso settembre all’ONU aveva avvertito la comunità internazionale e, in particolare, gli Stati Uniti che l’attesa per fermare con la forza la presunta corsa al nucleare della Repubblica Islamica avrebbe potuto durare solo fino all’estate del 2013.
La questione iraniana e le tendenze guerrafondaie di Netanyahu si intrecceranno inevitabilmente, nel prossimo futuro, con i rapporti che si annunciano relativamente complicati con l’alleato americano.
Oltre alla risaputa freddezza tra il presidente Obama e il premier israeliano, secondo la maggior parte degli osservatori le relazioni tra Tel Aviv e Washington potrebbero diventare ancora più problematiche in seguito alla nomina di John Kerry al Dipartimento di Stato e dell’ex senatore repubblicano Chuck Hagel al Pentagono. Soprattutto quest’ultimo, infatti, pur non avendo ovviamente mai messo in dubbio la partnership privilegiata tra i due paesi, ha talvolta assunto in passato posizioni moderatamente critiche nei confronti di Israele.
Le reazioni allarmate per l’approdo di Hagel al Dipartimento della Difesa sono state però per il momento espresse soltanto da commentatori e media israeliani, soprattutto conservatori, o tutt’al più da esponenti di secondo piano del governo e del partito di Netanyahu.
L’atteggiamento del primo ministro e dei sui più stretti collaboratori appare invece improntato al silenzio, in attesa probabilmente di valutare sia la linea che seguiranno gli Stati Uniti riguardo alle questioni mediorientali una volta insediati Hagel e Kerry, sia le dimensioni della vittoria elettorale che, salvo clamorose sorprese, attende tra meno di due settimane Benyamin Netanyahu e Avigdor Lieberman.
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di Michele Paris
Con un annuncio ufficiale dalla Casa Bianca, il presidente Obama ha finalmente annunciato i propri candidati a ricoprire gli incarichi di Segretario alla Difesa e di direttore della CIA nel suo secondo mandato alla guida del paese. A sostituire rispettivamente Leon Panetta e l’ex generale David Petraeus, dimessosi da tempo in seguito ad uno scandalo sessuale, saranno l’ex senatore repubblicano del Nebraska, Charles “Chuck” Hagel, e il capo dei consiglieri della Casa Bianca per l’antiterrorismo, John Brennan.
La nomina più controversa secondo i parametri della politica di Washington sembra essere di gran lunga quella di Hagel, veterano pluridecorato della guerra in Vietnam che si è conquistato la fama di “congressman” indipendente nei dodici anni trascorsi al Senato, durante i quali si è frequentemente distinto per avere assunto posizioni contrasti con quelle dei suoi colleghi repubblicani.
Proprio questa sua caratteristica aveva scatenato nelle scorse settimane una campagna di discredito nei suoi confronti, orchestrata a suon di dollari da lobby e gruppi di interesse che esprimono il punto di vista dei falchi repubblicani “neo-con”, ma anche del governo di Israele e di quanti spingono per una linea sempre più dura nei rapporti con l’Iran.
Le macchie sul curriculum di Hagel, secondo il punto di vista di questi ultimi, sarebbero svariate, a cominciare da prese di posizione relativamente critiche nei confronti di Israele, ma anche la contrarietà all’opzione militare e alla continua imposizione di sanzioni contro Teheran, l’appoggio ad una qualche forma di dialogo con organizzazioni come Hamas o Hezbollah e le critiche indirizzate all’amministrazione Bush per la gestione della guerra in Iraq.
Se la scelta di Hagel non deve avere trovato il favore degli ambienti filo-israeliani di Washington, tra cui figurano anche numerosi membri democratici del Congresso, è comunque improbabile che gli ex colleghi del Segretario alla Difesa in pectore e l’ala destra del Partito Repubblicano, nonché i vari gruppi che ruotano attorno ad essa, continueranno a battersi strenuamente per far naufragare la sua nomina ora che è divenuta ufficiale.
Sul fronte progressista, qualche riserva nei confronti di Hagel è stata invece espressa esclusivamente in relazione ad una vicenda secondaria risalente ad oltre un decennio fa. Nel 1998, Hagel criticò infatti il candidato prescelto dal presidente Clinton per diventare l’ambasciatore USA in Lussemburgo perché “apertamente e aggressivamente gay”. Hagel, noto conservatore sui temi sociali, si è tardivamente scusato per il commento quanto meno inopportuno, lasciando però ancora più di uno strascico polemico.
Visto il drammatico spostamento a destra del baricentro politico americano di questi ultimi anni, la presunta indipendenza di giudizio di Hagel sulle questioni internazionali non deve essere comunque sopravvalutata.
Oltre al fatto che membri dell’amministrazione Obama sono da tempo impegnati a tranquillizzare gli ambienti più retrogradi e reazionari di Washington sul fatto che non ci saranno svolte significative nella gestione degli affari esteri degli Stati Uniti - sui quali peraltro il Pentagono ha ben poca voce in capitolo - lo stesso Hagel in una recente intervista rilasciata ad un giornale del Nebraska, il Lincoln Journal Star, ha definito “sconcertanti” le manipolazioni del suo passato politico, dal momento che “non esiste uno straccio di prova” delle sue posizioni anti-israeliane, né “un solo voto di una qualche importanza che abbia danneggiato Israele”.Da Tel Aviv, inoltre, se pure il quotidiano conservatore Yedioth Ahronoth ha delineato un possibile scenario “da incubo” per il premier Netanyahu con Hagel al Pentagono, numerose voci all’interno dello stesso governo di destra hanno manifestato opinioni favorevoli per il candidato di Obama. L’influente vice-ministro degli Esteri, Danny Ayalon, ha ad esempio affermato martedì di avere “incontrato Hagel molte volte”, così da poterlo definire senza dubbio “un vero e naturale alleato di Israele”.
Comunque, è probabile che i dubbi espressi da varie parti nelle ultime settimane riguardo Chuck Hagel emergeranno nel corso delle imminenti audizioni al Senato che porteranno al voto per la sua conferma alla guida della macchina da guerra americana, anche se appare estremamente probabile un esito finale positivo per la Casa Bianca.
Decisamente meno problematica appare al contrario la nomina di John Brennan alla direzione della principale agenzia di intelligence a stelle e strisce, nonostante essa sia portatrice di conseguenze potenzialmente più nefaste.
Il 57enne consigliere di Obama sui temi della sicurezza nazionale ha trascorso un quarto di secolo all’interno della CIA, per la quale ha anche diretto la “stazione” in Arabia Saudita negli anni Novanta, prima di ricoprire l’incarico di capo di gabinetto del direttore, George Tenet, tra il 1999 e il 2001 ed altri ruoli dirigenziali nel pieno della formulazione delle pratiche pseudo-legali utilizzate nell’ambito della cosiddetta “guerra al terrore”.
Proprio il suo coinvolgimento negli interrogatori con metodi di tortura, nelle renditions, negli assassini extra-giudiziari di sospettati di terrorismo e nelle detenzioni nel lager di Guantanamo aveva fatto fallire prematuramente la sua candidatura alla guida della CIA nel 2009. Appena assunta la presidenza grazie alla promessa di rompere con gli eccessi del suo predecessore, Obama ritenne infatti troppo presto optare per la scelta di una personalità così compromessa con gli aspetti più rivoltanti dell’amministrazione Bush, finendo perciò per offrirgli un incarico alla Casa Bianca per il quale non è previsto il voto di conferma da parte del Senato.
Il fatto che il presidente americano possa scegliere ora senza troppe difficoltà o reazioni negative un personaggio simile alla direzione della CIA è dunque un’ulteriore testimonianza del deterioramento dell’ambiente democratico negli Stati Uniti, a cui peraltro ha contribuito proprio lo stesso John Brennan nello svolgimento delle funzioni assegnategli da Obama in questi quattro anni.
In collaborazione con il presidente e la sua più ristretta cerchia di consiglieri, Brennan ha infatti dato un apporto decisivo all’espansione del programma di assassini mirati in ogni angolo del pianeta come strumento principale della lotta al terrorismo internazionale. Soprattutto, il suo instancabile lavoro ha portato alla pressoché compiuta istituzionalizzazione degli omicidi deliberati decisi dal vertice del potere esecutivo senza la presentazione di prove di colpevolezza e senza passare attraverso un qualche legittimo procedimento legale.La nomina di Brennan indica quindi inequivocabilmente il sempre maggiore ricorso che l’amministrazione Obama farà nel secondo mandato ai metodi palesemente illegali già ampliati in questi anni, a cominciare dalle incursioni con i droni in paesi come Afghanistan, Pakistan, Yemen e Somalia che hanno causato migliaia di vittime civili e terrorizzato popolazioni inermi.
Lo stesso presidente Obama, nel presentare il prossimo capo della CIA, ha sottolineato l’inquietante funzione di Brennan, elogiandolo lunedì per il suo lavoro volto ad “inserire i nostri sforzi in un quadro dalle salde fondamenta legali”. Un’affermazione che, nel consueto linguaggio orwelliano del governo americano, significa che Brennan e il suo staff hanno cercato in tutti i modi di fornire basi pseudo-legali a quelle che a tutti gli effetti risultano essere operazioni criminali.
In questo senso, Brennan ha difeso pubblicamente il programma di assassini extra-giudiziari dell’amministrazione Obama in un famigerato intervento dell’aprile scorso presso un think tank di Washington, giustificandone la legalità con l’aderenza al dettato dei provvedimenti draconiani adottati dal Congresso subito dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 che hanno ampliato enormemente i poteri dell’esecutivo.
Inoltre, Brennan definì in quella stessa occasione come “etico” l’impiego dei velivoli senza pilota per la loro capacità di limitare al minimo i danni collaterali, senza tenere conto delle innumerevoli morti di civili innocenti documentate da numerosi studi e ricerche indipendenti.
Più in generale, anche leggendo attraverso i giudizi prevalenti sui media americani circa le due nomine di Obama, giustificate dalla necessità di modificare i ruoli tradizionali attribuiti al Pentagono e alla CIA negli anni a venire, la scelta di Hagel e Brennan sembra rispondere alla volontà delle élite d’oltreoceano di trasformare l’apparato militare e dell’intelligence in strumenti più efficaci e meno onerosi per la difesa degli interessi degli Stati Uniti nel mondo.
In altre parole, l’insostenibilità nel lungo periodo di conflitti come quelli combattuti in Afghanistan e in Iraq di fronte ad un indebitamente interno che ha raggiunto livelli allarmanti, assieme all’emergere di una potenza globale come la Cina da contrastare con ogni mezzo, comporta da un lato il ridimensionamento di una gigantesca macchina bellica che assorbe oltre 600 miliardi di dollari di denaro pubblico ogni anno e dall’altro il conseguente ricorso sempre più massiccio a operazioni limitate ma ugualmente distruttive come quelle garantite dai droni o dai reparti speciali.
Il primo di questi due obiettivi, nel giudizio di Obama, appare perciò raggiungibile con la nomina a Segretario alla Difesa di Chuck Hagel, apertamente favorevole ad un taglio delle spese militari e alla riduzione del contingente americano in Afghanistan in tempi brevi senza compromettere gli obiettivi strategici del proprio paese, e il secondo con John Brennan a Langley, dove quest’ultimo avrà mano libera per assegnare alla CIA un ruolo sempre più incisivo e svincolato da restrizioni legali nell’infinita guerra al terrore.
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di Michele Paris
Il primo discorso pubblico in quasi sei mesi tenuto da Bashar al-Assad domenica scorsa a Damasco è stato immediatamente sfruttato dai media e dai governi occidentali per sottolineare l’impossibilità dell’uscita dalla crisi in Siria a quasi due anni dall’inizio delle ostilità senza un passo indietro del presidente. Apparso di fronte ad una folla di sostenitori, riuniti presso il teatro dell’opera della capitale siriana, Assad ha avanzato un suo piano di riconciliazione, basato però su proposte che erano già cadute nel vuoto o erano state respinte dai suoi interlocutori interni ed esterni parecchi mesi fa, come la creazione di un nuovo governo e di una nuova costituzione, nonché l’apertura di un qualche dialogo con l’opposizione tollerata dal regime.
Nella sua analisi della situazione interna al paese, invece, Assad ha ampiamente colto nel segno, pur senza riconoscere la legittimità del malcontento diffuso in Siria nei confronti di un regime che ha ereditato dal padre, Hafez, più di un decennio fa. Assad ha infatti ribadito come l’opposizione armata sia sostenuta dalle potenze occidentali e dalle monarchie assolute del Golfo e sia largamente dominata da forze integraliste islamiche legate al terrorismo internazionale.
Alla luce di questo scenario, ha affermato il presidente siriano, l’unica strada verso una soluzione politica rimane la fine del sostegno economico e militare a questi stessi gruppi fondamentalisti da parte delle potenze regionali e degli Stati Uniti. Una soluzione che rimane poco più di un miraggio, visto che questi ultimi hanno fin dall’inizio puntato deliberatamente su queste forze per rovesciare il regime di Damasco.
Il rifiuto di Assad a dimettersi e di negoziare con le opposizioni armate è stato così definito dai giornali di mezzo mondo come un continuo ostacolo ad una soluzione pacifica della crisi. In realtà, è la stessa opposizione ad avere più volte respinto nei mesi precedenti non solo qualsiasi apertura di Assad, ma anche i piani partoriti dalla diplomazia internazionale e puntualmente falliti, a cominciare da quelli degli inviati speciali dell’ONU e della Lega Araba per la Siria, Kofi Annan e il suo successore, l’ex ministro degli Esteri algerino Lakhdar Brahimi.
Lo stallo della situazione nel paese mediorientale suggerisce d’altra parte una vasta avversione popolare per i metodi utilizzati nel conflitto dalle forze di opposizione. Il sostegno a queste ultime garantito dagli Stati Uniti, dai governi europei e dai loro alleati nel mondo arabo rappresenta inoltre uno dei motivi principali per cui il regime di Assad conserva tuttora un certo consenso interno, soprattutto tra le minoranze alauite (sciite), cristiane e druse, comprensibilmente terrorizzate per un possibile futuro monopolizzato da forze islamiste sunnite.
In ogni caso, i commenti al discorso di Assad apparsi sui media occidentali hanno cercato di attribuire alla linea dura confermata domenica dal presidente la totale responsabilità del deterioramento della situazione in Siria, prospettando perciò come pressoché inevitabile nel prossimo futuro un intervento militare esterno per evitare che il conflitto si prolunghi indefinitamente.L’apoteosi dell’ipocrisia nelle reazioni all’apparizione pubblica di Assad è stata raggiunta come al solito dagli Stati Uniti. La portavoce del Dipartimento di Stato, Victoria Nuland, in una dichiarazione alla stampa ha infatti affermato che, mentre Assad “parla di dialogo, il regime alimenta deliberatamente le tensioni settarie e continua ad uccidere i propri cittadini”, di fatto ribaltando la realtà sul campo, nella quale è precisamente Washington a favorire e sfruttare da tempo le divisioni settarie in un paese guidato per decenni da un regime secolare, così da destabilizzarlo e operare un cambio al vertice che risponda ai propri interessi strategici nella regione.
Con l’inizio del nuovo anno, intanto, i preparativi per una nuova guerra in Medio Oriente hanno fatto registrare significativi passi avanti. Nei giorni scorsi, ad esempio, i primi missili Patriot richiesti qualche settimana fa alla NATO dal governo di Ankara hanno cominciato a giungere in territorio turco al confine con la Siria.
Le batterie di missili servono ufficialmente per difendere la Turchia da un’ipotetica quanto improbabile aggressione siriana, mentre in realtà sono la prima fase di un intervento diretto per istituire una “no-fly zone” oltre il confine meridionale e colpire le postazioni dell’esercito di Damasco. A fornire i Patriot alla Turchia sono gli Stati Uniti, la Germania e l’Olanda, i cui governi invieranno un totale di oltre mille soldati con l’incarico ufficiale di operare le batterie che stanno per essere installate.
Per preparare un’opinione pubblica internazionale che in larga parte si oppone ad una nuova guerra imperialista, gli Stati Uniti e la NATO continuano poi a diffondere la propria propaganda, tra l’altro accusando Damasco di avere utilizzato missili Scud contro i ribelli e di progettare un possibile ricorso al proprio arsenale di armi chimiche.
Parallelamente, al confine meridionale della Siria, Israele ha annunciato la costruzione di una barriera protettiva per difendere le Alture del Golan, un territorio occupato nel 1967 e successivamente annesso in maniera illegale. L’iniziativa, presentata durante una riunione di governo da un Netanyahu in piena campagna elettorale, si accompagnerà ad un rafforzamento della presenza militare israeliana in una zona di confine rimasta peraltro in gran parte pacifica negli ultimi quattro decenni.La giustificazione per la realizzazione della barriera, secondo il premier israeliano, sarebbe l’arretramento delle forze di sicurezza siriane dalle aree oltreconfine e la conseguente infiltrazione di gruppi jihadisti. Una dinamica, quest’ultima, provocata dal sostegno agli integralisti islamici offerta dagli Stati Uniti e dai loro alleati nella lotta contro il regime di Assad e che commentatori e analisti occidentali o israeliani si guardano però bene dal rilevare.
Secondo resoconti apparsi nei giorni scorsi sulla stampa araba, inoltre, il governo di Israele sarebbe entrato in contatto anche con le autorità giordane e con esponenti dell’opposizione siriana per valutare possibili operazioni militari nel paese, ufficialmente per “difendere” le Alture del Golan. Dopo le esitazioni iniziali, dovute ai timori per l’instaurazione di un regime post-Assad dominato da forze islamiste, il governo di Tel Aviv si è schierato in maniera decisa con l’opposizione, anche se l’impopolarità di Israele nel mondo arabo suggerisce il mantenimento di una posizione defilata nelle vicende interne della Siria.
La massiccia presenza di integralisti islamici tra le fila dell’opposizione sostenuta dall’Occidente, infine, continua ad essere dimostrata da svariati reportage giornalistici. Tra di essi, spiccano le dichiarazioni raccolte recentemente da un’inviata della televisione pubblica canadese (CBC) con i vertici di alcuni gruppi ribelli, come il comandante della milizia Kata ib-Essalam, attiva nella città di Aleppo.
Secondo quest’ultimo, “il Libero Esercito della Siria e la Coalizione [Nazionale delle Forze della Rivoluzione Siriana e dell’Opposizione] sono solo inchiostro su carta”, vale a dire il risultato di un’operazione di pura “immagine creata per presentare un fronte unito ai governi stranieri”. Per il comandante, autodefinitosi “islamista sunnita” come i membri della sua brigata, ciò per cui l’opposizione siriana si batte è unicamente l’instaurazione di uno stato islamico fondato sulla Sharia.
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di Michele Paris
Un articolo pubblicato dal Washington Post ha ricordato qualche giorno fa come l’amministrazione Obama stia continuando a fare affidamento sulle cosiddette “extraordinary renditions” nella guerra al terrore, nonostante le ripetute assicurazioni pubbliche da parte della Casa Bianca di avere ristabilito la legalità dopo gli eccessi che avevano caratterizzato i due mandati di George W. Bush.
Il quotidiano della capitale americana ha fatto riferimento alla vicenda di tre cittadini europei di origine somala (due svedesi e uno britannico) apparsi il 21 dicembre scorso in un’aula di tribunale di Brooklyn dopo essere rimasti segretamente sotto custodia delle autorità statunitensi per almeno quattro mesi.
Dal momento che i documenti relativi ai tre arrestati rimangono classificati, le circostanze della loro cattura sono tutt’altro che chiare. Tuttavia, come ha scritto il Washington Post, una dichiarazione ufficiale dell’FBI e del procuratore federale del distretto orientale di New York ha fatto sapere che i tre accusati sono stati “fermati in Africa dalle autorità locali mentre si stavano recando in Yemen” ai primi di agosto. I tre sarebbero sostenitori o farebbero parte di Al-Shabab, una milizia integralista islamica che da anni si batte contro il debole governo centrale della Somalia e che si trova sulla lista delle organizzazioni terroristiche degli Stati Uniti.
Secondo i difensori dei tre accusati, i loro clienti sono stati arrestati a Gibuti, il piccolo paese situato nel Corno d’Africa che ospita una importante base militare americana (Camp Lemonnier), da dove vengono gestite operazioni di anti-terrorismo e le incursioni con i droni in paesi come Somalia e Yemen. Dopo l’arresto, gli svedesi Ali Yasin Ahmed (23 anni) e Mohamed Yusuf (29) e il cittadino britannico Mahdi Hashi (23) sono stati interrogati per svariate settimane a Gibuti da agenti della CIA, verosimilmente con metodi di tortura, senza che contro di loro fossero state emesse accuse formali.
Prima di finire a Gibuti, secondo altre ricostruzioni, i tre sarebbero stati fermati e interrogati proprio in Somalia, dove la CIA gestisce una struttura detentiva clandestina presso l’aeroporto di Mogadiscio, come rivelò nell’agosto del 2011 il giornalista investigativo americano Jeremy Scahill sulla rivista The Nation.
Dopo un paio di mesi, in ogni caso, un apposito Grand Jury segreto convocato a New York ha incriminato i tre sospettati, i quali sono stati così posti sotto custodia dell’FBI e trasferiti clandestinamente in territorio americano.Nelle parole dell’avvocato difensore del britannico Hashi, i tre arrestati “stavano soggiornando a Gibuti e, improvvisamente, dopo avere incontrato degli amichevoli agenti dell’FBI e della CIA - i quali non si sono identificati - il mio cliente si è ritrovato senza cittadinanza e in un tribunale degli Stati Uniti”. Mahdi Hashi, infatti, la scorsa estate venne minacciato con la revoca della cittadinanza britannica dalle autorità di Londra a causa delle sue “attività di estremista”. Fin dal 2009, Hashi aveva però subito pressioni da parte dell’MI5, cioè i servizi domestici di intelligence, per diventare un informatore del governo.
I due cittadini svedesi, invece, secondo quanto confermato al Washington Post dal Ministero degli Esteri di Stoccolma, avrebbero ricevuto visite di diplomatici del loro paese e assistenza consolare sia a Gibuti che a New York. Il governo svedese ha comunque chiarito di non avere preso alcuna posizione ufficiale nella vicenda, lasciando di fatto carta bianca alle autorità americane circa la sorte dei suoi due cittadini. I servizi di sicurezza svedesi, d’altra parte, hanno collaborato illegalmente nel recente passato con Washington in svariati casi di “renditions” e il governo di Stoccolma si è più volte dimostrato estremamente docile nei confronti di quello americano, come conferma il caso del fondatore di WikiLeaks, Julian Assange.
Se Al-Shabab, come già ricordato, è considerato fin dal 2008 un gruppo terroristico dal Dipartimento di Stato USA, per stessa ammissione del governo americano le sue attività sono limitate alle vicende della guerra civile in corso in Somalia, mentre non vi sono praticamente prove del coinvolgimento dei suoi membri nelle trame terroristiche internazionali. In maniera ancora più evidente, sostengono i legali della difesa, contro i tre accusati non esiste nemmeno un indizio di una eventuale intenzione di colpire obiettivi o cittadini americani. Sia il governo di Londra che quello di Stoccolma, oltretutto, hanno tenuto sotto controllo per anni i movimenti dei loro tre cittadini verso la Somalia, senza però mai trovare alcuna prova che potesse giustificare l’apertura di un procedimento legale.
A sostegno della tesi che le “renditions” - una pratica messa in atto dal governo americano per rapire una persona e trasferirla in un paese terzo per essere sottoposta ad interrogatori anche con metodi di tortura senza tenere conto dei suoi diritti legali - stanno proseguendo anche sotto la presidenza Obama, il Washington Post ha citato un altro caso, quello del cittadino eritreo Mohamed Ibrahim Ahmed. Quest’ultimo era apparso di fronte ad un tribunale federale di Manhattan nel dicembre 2011 dopo essere stato interrogato da un team di agenti americani in Nigeria senza che gli fossero stati letti i suoi diritti.
I casi descritti dal Washington Post sono con ogni probabilità solo la punta dell’iceberg e risultano noti perché i sospettati di terrorismo coinvolti hanno avuto quanto meno la possibilità di esporre le loro vicende ad un giudice federale. Il continuo ricorso alle “renditions” negli ultimi quattro anni è inoltre la prova di come le promesse fatte da Obama di mettere fine alle pratiche illegali del suo predecessore siano state del tutto disattese.In seguito alle pressioni dei vertici della CIA, d’altra parte, pochi giorni dopo il suo ingresso alla Casa Bianca, il presidente democratico emise un “ordine esecutivo” che lasciò aperta la possibilità di continuare a tenere sotto custodia in prigioni clandestine all’estero i sospettati di terrorismo catturati illegalmente, purché “su base temporanea”.
Inoltre, le persone sottoposte a “renditions” e tornate in libertà per l’inconsistenza delle accuse nei loro confronti si sono viste regolarmente negare la possibilità di denunciare in un tribunale americano il trattamento subito, visto che il governo ha sempre impedito ogni procedimento facendo appello al segreto di stato.
Nonostante il tentativo di occultare la realtà di questi anni da parte della stampa e dei sostenitori liberal di Obama, la continuità degli strumenti pseudo-legali per combattere la fantomatica “guerra al terrore” è stata dunque garantita in pieno dal presidente democratico. A continuare ad essere impiegate e spesso ampliate sono state non soltanto pratiche come le “renditions”, ma anche gli assassini mirati senza giustificazione legale in ogni angolo del pianeta e i processi-farsa di fronte a tribunali militari che calpestano puntualmente i diritti costituzionali garantiti a qualsiasi imputato.
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di Michele Paris
A poche ore di distanza dal voto positivo del Senato, la Camera dei Rappresentanti del Congresso degli Stati Uniti nella tarda serata del primo giorno del nuovo anno ha dato il via libera definitivo all’accordo bipartisan, negoziato dal repubblicano Mitch McConnell e dal vice presidente Joe Biden, che ha evitato il cosiddetto “precipizio fiscale” (“fiscal cliff”).
Nonostante i tentativi di dipingere la risoluzione temporanea della crisi come una vittoria per il presidente Obama e il mantenimento della sua promessa elettorale di alzare le tasse per i redditi più alti, la legislazione appena approvata risulta estremamente gradita ai repubblicani, i quali, oltretutto, partiranno ora da una posizione di netto vantaggio in vista delle trattative che inizieranno nelle prossime settimane per decidere colossali tagli alla spesa pubblica.
Nelle ultime fasi del 112esimo Congresso americano, dunque, la Camera ha passato in extremis un provvedimento che blocca l’entrata in vigore di riduzioni automatiche di spesa e aumenti generalizzati del carico fiscale per i contribuenti con 257 voti a favore e 167 contrari. Ad evitare il “fiscal cliff” è stato l’apporto decisivo dei deputati democratici, 172 dei quali si sono uniti ad appena 85 facenti parte della maggioranza repubblicana per consentire l’approvazione dell’accordo. Ben 151 repubblicani e 16 democratici si sono invece espressi contro la misura, la quale nelle prime ore dell’anno al Senato aveva raccolto una maggioranza schiacciante (89 a 8).
Come aveva insistentemente chiesto il presidente, i tagli alle tasse implementati durante l’amministrazione Bush sono stati soppressi per gli americani più facoltosi, mentre per il resto della popolazione sono stati resi permanenti. Obama, tuttavia, aveva promesso in campagna elettorale di volere mantenere immutate le aliquote fiscali solo per i redditi inferiori ai 250 mila dollari, mentre l’intesa sulla quale si è espresso positivamente il Congresso ha alzato questa soglia a 400 mila dollari per singoli individui e 450 mila dollari per le famiglie. Per coloro che denunciano redditi superiori a queste somme, e solo per la quota eccedente 400 mila o 450 mila dollari, l’aliquota salirà dal 35% al 39,6%, vale a dire ad un livello ancora nettamente inferiore a quello in vigore, ad esempio, durante la presidenza Reagan.
L’approssimarsi del “precipizio fiscale” ha creato non poca agitazione all’interno dei due schieramenti politici, in particolare tra le fila repubblicane. A testimonianza delle tensioni interne, nessuno dei leader del partito che detiene la maggioranza alla Camera ha espresso in aula il proprio appoggio all’accordo. Il numero due e il numero tre del Partito Repubblicano alla Camera, rispettivamente Eric Cantor (Virginia) e Kevin McCarthy (California), hanno addirittura votato contro il provvedimento. A favore ha votato invece lo speaker, John Boehner.
Per la maggior parte dei media americani, la motivazione ufficiale della freddezza repubblicana sarebbe da ricercare nell’assenza di tagli alla spesa nell’accordo stipulato dal senatore McConnell e da Biden oppure nell’intransigenza assoluta dei membri più conservatori della Camera, contrari anche solo all’aumento poco più che simbolico delle tasse per una ristrettissima minoranza di contribuenti privilegiati.
A ben vedere, tuttavia, la legislazione che ha scongiurato il “fiscal cliff” non deve avere turbato più di tanto i deputati repubblicani, anche se nelle scorse settimane era circolata una versione da loro preferita e che prevedeva l’innalzamento delle tasse solo per i redditi superiori al milione di dollari.
Infatti, la linea dura dei repubblicani alla Camera ha in sostanza spinto ancora una volta i democratici a concedere terreno ai rivali, alzando la soglia del reddito previsto per ottenere il prolungamento indefinito dei tagli alle tasse. Inoltre, l’accordo partorito dal Senato ha offerto alla maggioranza repubblicana alla Camera una via d’uscita dignitosa all’impasse in cui essa stessa si era infilata, presentando la proposta Biden-McConnell come l’unica e ultima possibilità per salvare il paese dalla catastrofe.
Così, con un provvedimento sul quale avrebbero finito inevitabilmente per convergere i democratici, i vertici repubblicani hanno deciso di far votare a favore solo una parte della loro delegazione alla Camera per garantirne il passaggio, consentendo ai membri che rappresentano i distretti più conservatori, e quindi più vulnerabili nelle prossime elezioni in caso di un loro voto per l’aumento delle tasse, di esprimere parere contrario.
Che l’accordo finale sia gradito ai repubblicani è confermato dal fatto che esso rende definitivi i tagli alle tasse di Bush per il 99,3% dei contribuenti americani, compresi quelli con redditi non esattamente da classe media. Sul piano politico, soprattutto, i repubblicani hanno poi ottenuto una misura che risponde in gran parte agli interessi che rappresentano, facendola passare per una vittoria di Obama e dei democratici.
In questo modo, nelle prossime settimane, quando si dovrà decidere sui tagli alla spesa e sull’innalzamento del tetto del debito USA, il presidente e il suo partito si ritroveranno praticamente senza più nessun capitale politico da spendere né possibilità di fare pressioni sui repubblicani con la minaccia dell’aumento automatico delle tasse, così che questi ultimi potranno verosimilmente ottenere in cambio un drastico ridimensionamento dei programmi pubblici. Con il voto di inizio anno, infatti, il “fiscal cliff” è stato soltanto rinviato di due mesi e la nuova scadenza coinciderà appunto con il venir meno delle facoltà del governo federale di auto-finanziarsi con l’attuale livello massimo di indebitamente stabilito per legge.
La posizione repubblicana sarà rafforzata anche dal fatto che l’accordo approvato martedì notte a Washington aggiungerà altri 4 mila miliardi di dollari al deficit federale nel prossimo decennio, alimentando le richieste di quanti chiedono l’implementazione di tagli alla spesa. Ciò è dovuto, oltre ai mancati introiti dovuti alla resa permanente dei tagli alle tasse, a varie altre misure, tra cui l’espansione di rimborsi fiscali per famiglie con figli, le modifiche apportate ad una tassa (“alternative minimum tax”) che avrebbe dovuto aumentare per decine di milioni di contribuenti e il prolungamento di limitati sussidi di disoccupazione in scadenza per oltre due milioni di americani.
In ogni caso, i tagli fiscali confermati dal Congresso saranno virtualmente annullati per i redditi più bassi. Infatti, a partire dal primo gennaio una trattenuta nella busta paga dei lavoratori dipendenti con redditi inferiori ai 110 mila dollari, destinata al finanziamento di Social Security, tornerà al 6,2% dopo essere stata al 4,2% nel corso degli ultimi due anni. Questo aumento non è stato affrontato dall’accordo sul “fiscal cliff” e colpirà più di un terzo dei contribuenti americani.
A beneficio dei redditi più alti, invece, l’accordo prevede che la tassa di successione scatterà solo per beni che valgono almeno 5 milioni di dollari, mentre la Casa Bianca e i democratici intendevano ristabilire la soglia dei 3,5 milioni, anche se l’aliquota salirà dal 35% al 40%. Allo stesso modo, sempre per i redditi superiori ai 450 mila dollari l’anno, la tassazione sui dividendi salirà solo di 5 punti percentuali (dal 15% al 20%), cioè molto meno rispetto al 39,6% previsto se gli Stati Uniti fossero andati incontro al “fiscal cliff”.
In risposta all’accordo di inizio anno, i mercati internazionali hanno come previsto fatto segnare rialzi significativi, sia per l’inclusione di misure come queste ultime sia perché il provvedimento spiana la strada alle imminenti trattative su tagli senza precedenti alla spesa pubblica. Le strategie ricattatorie degli ambienti finanziari rimangono comunque pronte ad essere impiegate nei confronti dei politici di Washington in caso di esitazioni o disaccordo persistente.
Le pressioni su democratici e repubblicani si baseranno sulla tesi che, dal momento che i ricchi sono stati sufficientemente colpiti dall’aumento delle tasse, toccherà ora a classe media, lavoratori e pensionati fare la loro parte con nuovi durissimi sacrifici per aggiustare i conti del paese. Su queste posizioni è d’altra parte già assestato tutto l’establishment politico d’oltreoceano, a cominciare dal presidente Obama, il quale domenica scorsa al programma televisivo della NBC, “Meet the Press”, ha ribadito per l’ennesima volta di essere pronto a discutere della “riforma” di popolari programmi pubblici di assistenza come Medicare e Medicaid, da cui dipendono decine di milioni di americani.
A rendere poi ancora più amara per le classi più disagiate la presunta vittoria dell’inquilino democratico della Casa Bianca sul “fiscal cliff” è infine la sua disponibilità a concordare con i repubblicani una “riforma” complessiva anche del sistema fiscale nel corso del 2013. In essa, come ha chiarito Obama nel recente passato, saranno valutate riduzioni dei livelli di tassazione per i redditi più elevati e per le corporations, così da neutralizzare di fatto gli irrisori aumenti appena decisi in questo inizio di nuovo anno.