di Carlo Musilli

Le novità che arrivano dai vertici internazionali degli ultimi giorni vanno lette fra le righe, nei rapporti di forza fra i leader seduti intorno al tavolo. Il vero dato politico che ci consegna questa settimana di colloqui - dal G8 dello scorso weekend alla "cena informale" dello scorso mercoledì sera a Bruxelles - è l'inusitato isolamento di Angela Merkel. Abituata fin qui a dettare l'agenda della politica economica europea, la cancelliera tedesca ora deve adattarsi a uno scacchiere rivoluzionato rispetto al passato. L'alleanza di ferro all'insegna del rigore con lo sherpa Nicolas Sarkozy è venuta meno: adesso frau Merkel si ritrova a fare i conti con il nuovo presidente francese, il socialista François Hollande, che fin dalla campagna elettorale non ha fatto che sbandierare la parolina magica, "crescita".

Sul palcoscenico globale, è proprio il successore di Mitterrand ad avere gli appoggi che contano: sia il presidente degli Usa, Barack Obama, sia il numero uno del Consiglio Ue, Herman Van Rompuy, vogliono servirsi del nuovo asse con Parigi per accerchiare la Merkel e costringerla ad allentare i lacci dell'austerity. Su questo campo non è secondaria la mediazione del premier italiano, Mario Monti, così come l'opposizione interna dei socialdemocratici tedeschi, pronti a usare il nuovo isolamento internazionale della Germania come un'arma elettorale contro Merkel.

Di provvedimenti concreti per rilanciare l'economia, com'era prevedibile, ancora nessuna traccia. Eppure la discussione fra i potenti d'Europa si è finalmente spostata su un argomento fino ad oggi tabù: gli eurobond (che pure non hanno a che fare con la crescita, ma con la stabilità finanziaria). Il duopolio Merkozy aveva sempre rifiutato anche solo di trattare questo capitolo in sede ufficiale. Oggi invece se ne parla, ed è già un passo avanti.

Perfino il bastian contrario per eccellenza, il premier inglese David Cameron, si è detto favorevole. Monti si è sbilanciato affermando che non manca "moltissimo tempo" all'adozione dei nuovi strumenti. La verità è che per il momento non c'è alcun accordo e di sicuro il via libera alle obbligazioni comunitarie non arriverà dal vertice europeo (stavolta "formale") del mese prossimo.

Per quanto controverso e probabilmente non decisivo, al momento questo tema mette in luce più di ogni altro la solitudine di Angela. La Germania ha sempre combattuto gli eurobond come il peggior nemico. E la ragione è facilmente comprensibile: i titoli emessi a livello comunitario obbligherebbero la prima economia d'Europa a garantire in parte anche il debito di Paesi inaffidabili sul piano dei conti pubblici. Senza contare quelli che - come l'Italia - oggi sembrano aver imboccato la strada della redenzione, ma domani chissà?

I rigidi professori bocconiani - per continuare con l'esempio - non dureranno ancora a lungo e nessuno può dire se i loro successori saranno altrettanto zelanti nello svolgere i compitini a casa affidati da Bruxelles e Francoforte.

Insomma, fatti due conti, quella di Berlino è certamente l'economia che ha più da perdere. Anche perché oggi i titoli di Stato tedeschi, i Bund, sono trattati dal mercato alla stregua di un vero e proprio bene rifugio, al punto che gli interessi pagati dalla Germania per finanziare il proprio debito pubblico ormai rasentano lo zero. Il timore di Merkel è proprio che questa situazione possa cambiare con l'ingresso degli eurobond. Il vero problema della Germania è che su questo terreno il suo unico alleato superstite è "l'asse del nord" costituito da Olanda, Finlandia e Svezia. Non esattamente un'armata invincibile, anche se Hollande avrebbe preferito il completo isolamento della cancelliera.

D'altra parte, ci sono anche delle ragioni più tecniche a lasciare perplessi gli addetti ai lavori. Il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, ha sottolineato come l'emissione di eurobond abbia senso solo dopo la realizzazione di una "fiscal union" nell'eurozona. Quello che ancora manca è una vera "unione di bilanci", ha detto il governatore.

Intanto la Grecia, con le elezioni di giugno, è chiamata a una sorta di referendum per decidere se rimanere o no nella moneta unica (mentre tutti i Paesi, a dispetto delle smentite, stanno preparando piani per fronteggiare l'eventuale addio) e la Spagna deve vedersela con una tremenda crisi del settore bancario. Di fronte a questo scenario, dobbiamo purtroppo accontentarci dell'intesa al ribasso raggiunta fin qui fra i leader d'Europa.

Il mese prossimo sarà probabilmente avviato l'iter per due provvedimenti su cui ormai da tempo sono (quasi) tutti d'accordo: la ricapitalizzazione della Banca europea degli investimenti (probabilmente di 10 miliardi) e i project bond. Il nome può trarre in inganno: non sono titoli di debito, ma strumenti con cui raccogliere risorse per finanziare con garanzia pubblica progetti infrastrutturali a livello europeo. Chi si accontenta gode. O almeno continua a sperare.

 

di Michele Paris

La prima giornata dell’atteso summit tra l’Iran e i rappresentanti dei P5+1 (USA, Cina, Russia, Gran Bretagna, Francia e Germania) a Baghdad si è conclusa con modesti progressi e lo scambio reciproco di proposte per risolvere l’annosa questione del nucleare di Teheran. Il secondo round di negoziati in questo 2012 è stato preceduto sia dalle solite minacce più o meno velate e da nuove sanzioni per mettere gli iraniani sotto pressione sia da qualche segnale incoraggiante, come l’incontro dall’esito moderatamente positivo tra le autorità locali e il direttore dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, Yukiya Amano.

Quest’ultimo, in seguito ai colloqui di Vienna andati in scena qualche giorno prima, domenica e lunedì si era recato a sorpresa a Teheran e, al ritorno nella capitale austriaca dove ha sede l’AIEA, ha affermato che un accordo sulle ispezioni degli ispettori internazionali ai siti militari segreti dell’Iran è a portata di mano. Pur senza specificare i tempi previsti e ammettendo ancora varie divergenze tra le due parti, Amano ha confermato “importanti sviluppi” nelle trattative per giungere ad un “accordo strutturale” con l’Iran.

Le discussioni che hanno preceduto l’incontro di Baghdad ruotavano sostanzialmente attorno alla possibilità da parte dell’AIEA di avere accesso al sito militare di Parchin dove, secondo rapporti di intelligence occidentali, gli iraniani avrebbero condotto test relativi ad esplosioni nucleari. L’Iran, in realtà, non ha mai opposto un rifiuto di principio alle ispezioni a Parchin, bensì aveva negato l’accesso al sito durante un’ispezione di qualche mese fa perché non concordata. In quell’occasione Amano ritirò bruscamente gli ispettori dall’Iran, scatenando sulla stampa occidentale una valanga di commenti circa la presunta mancanza di collaborazione della Repubblica Islamica.

Al contrario del suo predecessore, Mohamed ElBaradei, il diplomatico giapponese alla guida dell’AIEA dal 2009 è considerato molto più docile al volere di Washington e ha tenuto nel recente passato una linea dura nei confronti dell’Iran. Per questo motivo, l’ottimismo espresso qualche giorno fa dopo la sua prima visita a Teheran sembra confermare che gli Stati Uniti siano interessati ad una soluzione temporanea che mantenga aperti i canali di comunicazione con l’Iran almeno fino a dopo il voto per le presidenziali di novembre.

Questa strategia è volta a prevenire un attacco militare contro le installazioni nucleari iraniane da parte di Israele nei prossimi mesi e ad evitare una nuova impennata del prezzo del greggio a causa dell’aumento delle tensioni in Medio Oriente. Scenari, questi, che comprometterebbero seriamente le chances di rielezione del presidente Obama.

Nel medio periodo, tuttavia, è facile prevedere un nuovo deterioramento dei rapporti tra l’Iran e l’Occidente, dal momento che il governo americano e i loro alleati da anni sfruttano la questione del nucleare - del quale non esistono prove che sia indirizzato a scopi militari - per promuovere un cambiamento di regime a Teheran.

Il relativo entusiasmo prodotto dai colloqui condotti da Amano, in ogni caso, è servito ad alleggerire l’atmosfera dei negoziati di Baghdad e ha evidenziato, come era apparso chiaro già a Istanbul lo scorso aprile, la volontà iraniana di fare alcune concessioni al gruppo dei P5+1. Questo atteggiamento più disponibile da parte dei rappresentanti della Repubblica Islamica testimonia di una certa unità ritrovata all’interno della classe dirigente dopo il colpo inflitto al presidente Ahmadinejad e ai suoi sostenitori con le recenti elezioni per il rinnovo del Parlamento (Majlis), ma rivela anche un ovvio desiderio di vedere allentate alcune delle sanzioni occidentali che pesano sull’economia del paese.

La proposta avanzata dai P5+1 a Baghdad intende in primo luogo giungere al congelamento del processo di arricchimento dell’uranio al 20% in cambio di una serie di incentivi, come la promessa di fornire assistenza tecnologica a Teheran per lo sviluppo di un programma nucleare civile. Da parte iraniana, invece, il capo dei negoziatori, Saeed Jalili, ha a sua volta presentato un pacchetto in cinque punti che comprende una vasta gamma di questioni relative al nucleare e non solo.

Al di là del clima sostanzialmente cordiale di Baghdad, a testimonianza di come molti in Occidente siano più o meno apertamente ostili ad una risoluzione diplomatica della questione del nucleare iraniano, nei giorni precedenti il summit di Baghdad erano giunti numerosi segnali preoccupanti. Per cominciare, lunedì il Senato americano aveva approvato un’estensione delle sanzioni che gravano sul settore petrolifero iraniano colpendo altre due compagnie che operano in questo ambito e restringendo perciò ulteriormente i canali di vendita all’estero del greggio di Teheran.

All’inizio della scorsa settimana, inoltre, in un dibattito in tarda serata la Camera dei Rappresentanti aveva dato il via libera ad una risoluzione (H. Res. 568) che rende più facile l’azione militare contro l’Iran da parte statunitense. La misura autorizzerebbe di fatto un’aggressione preventiva nel caso l’Iran dovesse ottenere “la capacità di costruire armi nucleari”. La parola “capacità” è volutamente vaga e, in teoria, potrebbe già applicarsi alla situazione iraniana attuale ma anche a molti altri paesi come, ad esempio, Brasile o Giappone.

In un gesto probabilmente diretto al governo Netanyahu, giovedì scorso l’ambasciatore USA a Tel Aviv, Dan Shapiro, aveva poi detto alla radio dell’esercito israeliano che il suo paese ha già predisposto i piani necessari per un attacco contro l’Iran e che tale opzione è “totalmente disponibile”. Gli alleati europei degli Stati Uniti si sono anch’essi uniti al coro di minacce. Secondo quanto riportato mercoledì dalla BBC, infatti, il governo britannico starebbe valutando le proprie mosse in caso di un conflitto in Medio Oriente, scatenato da un’eventuale aggressione militare di Israele contro i siti nucleari iraniani.

Domenica scorsa, d’altra parte, il vice ministro degli Esteri russo, Sergey Rybakov, sul volo di ritorno dal G8 di Camp David aveva anch’egli confermato che alcuni paesi Occidentali stanno studiando una possibile azione militare contro l’Iran. Secondo Rybakov, “i segnali che ci giungono, sia dai canali pubblici che dalle fonti di intelligence, indicano come l’opzione militare in alcune capitali sia considerata realistica e possibile”.

Le provocazioni provenienti dall’Occidente e da Israele, secondo molti osservatori, servono soltanto a mantenere alta la pressione sul governo iraniano, così da convincerlo a cedere sulla questione del nucleare. Come si è più volte visto in questi anni, e non solo relativamente all’Iran, questa tattica aggressiva provoca tuttavia soltanto l’irrigidimento delle posizione della controparte e sembra perciò adottata precisamente per far naufragare i negoziati e giustificare un’azione più aggressiva per arrivare al rovesciamento di un regime non gradito.

Per quanto riguarda infine il vertice in corso a Baghdad, i negoziati continueranno nella giornata di giovedì, quando si conoscerà la risposta iraniana alla proposta dei P5+1. In ogni caso, come hanno messo in guardia i diplomatici presenti nella capitale irachena, dal summit ci si attende soltanto un eventuale accordo su misure volte a creare un clima di fiducia tra le parti, per poi riprendere i colloqui in una nuova sede nel prossimo futuro.

di Carlo Musilli

La crisi politica greca ha innescato una bomba a orologeria che nessuno in Europa sa come disinnescare. E aspettando le elezioni del prossimo 17 giugno, i grandi del mondo fanno melina. Dal G8 di Camp David sono emerse solo considerazioni ovvie e già sentite sul destino di Atene: "Affermiamo il nostro interesse affinché la Grecia resti nell'eurozona rispettando i suoi impegni", hanno scritto i leader dei Paesi più ricchi al mondo al termine del vertice. Unico cenno di humana pietas, il contentino con cui si "riconoscono i sacrifici penosi che i cittadini greci stanno affrontando come conseguenza della crisi".

Domenica mattina ci ha pensato Wolfgang Schaeuble a chiarire ogni ambiguità. Lontano dal glamour americano, in un'intervista alla Bild, il ministro delle finanze tedesco ha parlato chiaro: "Dire ai greci che non hanno bisogno di applicare le misure d'austerità concordate significa mentire loro - ha sottolineato Schaeuble -. La direzione che abbiamo scelto insieme alla Grecia deve essere seguita e sarà seguita", nonostante alcuni "credano ci poter eludere le proprie responsabilità".

Il ministro di Berlino ostenta una sicurezza che non ha ragion d'essere. A mettere in discussione il patto d'austerity siglato da Ue e Fmi con Atene non è una sparuta minoranza della politica ellenica, ma il partito che probabilmente uscirà vincitore dal voto del mese prossimo. Lo spauracchio che tiene col fiato sospeso mezza Europa è Syriza, formazione di sinistra radicale arrivata seconda alle elezioni di maggio.

A guidarla c’è Alexis Tsipras, che nelle ultime settimane ha conquistato una valanga di consensi grazie a un programma in aperta contraddizione con i piani di Bruxelles. Il giovane leader si dice contrario al rispetto delle misure lacrime e sangue, ma al tempo stesso vorrebbe mantenere il Paese all'interno dell'eurozona (come il 52% dei greci, secondo un sondaggio pubblicato dal settimanale Real News, che sottolinea anche come solo il 28,8% della popolazione sia disposto a rischiare il ritorno alla dracma).

Due obiettivi apparentemente inconciliabili, visto che gli interlocutori internazionali non sono disponibili a rinegoziare alcunché. D'altra parte, qualsiasi passo indietro di Atene rispetto agli impegni presi significherebbe rinunciare alle prossime rate degli aiuti da 130 miliardi.

Schaeuble poi fa finta di ignorare quanto l'ascesa di Tsipras sia stata favorita dalla goffaggine politica di Angela Merkel. L'ultima trovata della cancelliera è stata quella di "suggerire" al presidente delle Repubblica greca, Karolos Papoulias, la convocazione di un referendum con cui chiedere ai cittadini se restare o meno nell'euro.

La circostanza è stata timidamente smentita da Berlino, ma la conferma è arrivata dal settimanale Spiegel e da un giornalista della Bild, che ha detto perfino di essersi trovato nella stessa stanza con Papoulias mentre si svolgeva la telefonata della discordia.

Vera o falsa che sia la notizia, si è trattato comunque dell'ennesimo assist involontario a Tsipras, che ha sottolineato come "la signora Merkel abbia l'abitudine di rivolgersi ai dirigenti politici della Grecia come se si trattasse di un suo protettorato. Le prossime elezioni metteranno fine alla sottomissione".

Secondo un sondaggio condotto fra 16 e 17 maggio dalla Metron Analysis, oggi Syriza otterrebbe il 25,1% delle preferenze, mentre i conservatori di Nuova Democrazia si piazzerebbero al secondo posto con il 23,8% e i socialisti del Pasok arriverebbero sull'ultimo gradino del podio con il 17,4%.

Fra le prime due posizioni il distacco è minimo, ma quella manciata di punti o di decimi potrebbe rivelarsi decisiva per il futuro del Paese, considerando che la legge elettorale greca concede un premio di maggioranza di 50 seggi sui 300 del Parlamento. Numeri che spiegano chiaramente perché la scorsa settimana Tsipras abbia impedito per ben tre volte la formazione del governo, puntando tutto sul ritorno alle urne.

Ma cosa succederebbe se davvero Syriza guidasse il prossimo esecutivo? Secondo un'analisi del Wall Street Journal, gli scenari possibili sono tre. La prima ipotesi è che il nuovo governo ripudi il piano di salvataggio: in questo caso Ue e Fmi sospenderebbero l'erogazione dei prestiti e le casse di Atene si ritroverebbero vuote già a luglio. La Grecia non potrebbe più ripagare alcun debito e la ricapitalizzazione delle banche sarebbe impossibile. A quel punto il ritorno alla dracma sarebbe inevitabile e la speculazione internazionale passerebbe a sbranare le economie di Portogallo e Spagna.

La seconda possibilità è forse la più auspicabile, ma allo stesso tempo potrebbe rivelarsi un suicidio elettorale per frau Merkel (già isolata fuori casa dal nuovo asse Washington-Parigi, che passa per la mediazione di Roma). Si tratterebbe di trovare un nuovo accordo Bruxelles-Atene per rinegoziare i patti già siglati, allungando i tempi di attuazione delle misure e rivedendo le regole più dure soprattutto in tema di stipendi, licenziamenti e pensioni. Oltre alla Germania, si oppongono a qualsiasi nuova concessione anche Finlandia e Norvegia.

Infine, la terza strada ipotizzabile è quella sognata dai funzionari Ue. Ma è anche la meno probabile. In sostanza, il nuovo governo greco dovrebbe rinunciare a qualsiasi rivendicazione, obbedendo all'Europa e applicando alla lettera tutte le misure concordate. L'economia ellenica continuerebbe a crollare anno dopo anno, ma gli avvoltoi della speculazione volerebbero ancora nel cielo ellenico. Evitando pericolose migrazioni. 

 

di Michele Paris

I 28 paesi membri della NATO hanno chiuso lunedì l’atteso vertice di Chicago approvando formalmente il piano americano per la chiusura delle operazioni militari in Afghanistan entro la fine del 2014. La risoluzione del conflitto, tuttavia, continua ad essere complicata, tra l’altro, dalle difficili relazioni di Washington con il Pakistan e dalla resistenza di molti paesi europei a provvedere al finanziamento delle forze di sicurezza afgane nel contesto della crisi economica in atto e della crescente impopolarità di una guerra che si trascina ormai da oltre un decennio.

Secondo il calendario stabilito dagli Stati Uniti, tutte le missioni di combattimento ISAF (International Security Assistance Force) dovranno essere ultimate e trasferite alle forze di sicurezza locali entro la metà del prossimo anno, mentre l’intero contingente straniero sul suolo afgano verrà ritirato alla fine del 2014. Oltre a dipendere dalla situazione sul campo, però, il ritiro delle truppe di occupazione sarà tutt’altro che completo, dal momento che gli USA si sono già assicurati le permanenza di un certo numero di propri soldati ben oltre il 2014 grazie all’accordo sulla partnership strategica siglato tra Obama e il presidente Karzai qualche settimana fa a Kabul.

In ogni caso, secondo il piano statunitense, per mantenere le forze di sicurezza afgane dopo il 2014 saranno necessari 4,1 miliardi di dollari all’anno. Il conto sarà pagato in buona parte da Washington, ma, a parte 500 milioni di dollari a carico del governo di Kabul, i paesi alleati dovranno sborsare complessivamente 1,3 miliardi. La richiesta di denaro per continuare a finanziare le operazioni in Afghanistan è giunta proprio all’indomani del G8 di Camp David, durante il quale i partecipanti hanno sostanzialmente concordato sulla necessità di proseguire le politiche di rigore nei rispettivi paesi.

Il segretario generale della NATO, Anders Fogh Rasmussen, ha comunque assicurato che a Chicago alcuni paesi membri hanno già promesso di fare la loro parte, tra cui l’Italia che dovrebbe garantire 120 milioni all’anno. L’impegno di molti governi è del tutto teorico, dal momento che lo stanziamento di denaro si scontra con la sfiducia sempre maggiore dell’opinione pubblica verso il conflitto in Afghanistan e con i malumori diffusi per le misure di austerity imposte dagli ambienti finanziari internazionali.

Che la promessa di chiudere la guerra in Afghanistan, fatta da Obama nella sua città, sia solo retorica lo ha confermato anche il comandante delle forze di occupazione, generale John Allen. In un’intervista rilasciata domenica, quest’ultimo ha ammesso che il calendario annunciato dalla Casa Bianca per il disimpegno delle forze armate dal paese verrà difficilmente rispettato.

Alla luce delle serie minacce che persisteranno nel prossimo futuro, Allen ha definito come probabile l’impiego del contingente ISAF in operazioni di combattimento per tutti i prossimi due anni e mezzo. Inoltre, anche se le responsabilità di condurre azioni di guerra verranno gradualmente trasferite agli afgani, la NATO conserverà la facoltà di impiegare a questo scopo le proprie truppe che rimarranno sul campo.

A complicare il piano di ritiro e il passaggio di consegne all’esercito afgano c’è anche la decisione del neo-presidente francese, François Hollande, di ritirare i 3.300 soldati del proprio paese già entro la fine del 2012. Hollande lo ha ribadito alla vigilia del summit di Chicago in un faccia a faccia con Obama, anche se negli ultimi giorni ha fatto una parziale marcia indietro dalla sua promessa elettorale, annunciando che alcune truppe francesi rimarranno in Afghanistan dopo la fine dell’anno con il compito di addestrare le forze di sicurezza locali.

Le questioni legate all’Afghanistan erano state anticipate dallo stesso Obama domenica in un incontro separato con il presidente Karzai. In un’atmosfera meno tesa rispetto ai precedenti faccia a faccia, pubblicamente i due hanno riconosciuto a vicenda i sacrifici fatti dai rispettivi paesi in oltre dieci anni di guerra, mentre Obama ha incoraggiato Karzai ad adottare le riforme democratiche necessarie a facilitare la transizione politica quando terminerà il mandato di quest’ultimo nel 2014.

La due giorni di Chicago non ha però risolto lo stallo tra gli Stati Uniti e il Pakistan sulla riapertura delle rotte di terra nel paese centro-asiatico ai convogli NATO diretti in Afghanistan, chiuse da Islamabad lo scorso novembre in seguito all’uccisione da parte dei militari americani di 24 soldati pakistani in uno scontro di frontiera. Dopo settimane di negoziati tra le due parti, un accordo appariva imminente ma sembra essere fallito a causa della mancata intesa sull’entità del pedaggio richiesto dal governo pakistano e che dovrebbe passare da 250 a ben 5 mila dollari per ogni singolo convoglio in transito.

Per favorire le trattative e, verosimilmente, per procedere con un annuncio congiunto, il presidente pakistano, Asif Ali Zardari, era stato invitato all’ultimo minuto al vertice di Chicago ma, in assenza di un accordo, non è stato ricevuto da Obama, anche se ha avuto un lungo incontro con il Segretario di Stato, Hillary Clinton. Secondo molti osservatori, un accordo sulla riapertura del territorio pakistano al passaggio delle forniture NATO dirette in Afghanistan dovrebbe essere comunque vicino. Le difficoltà sono legate principalmente al diffuso sentimento anti-americano tra la popolazione pakistana, visto che la classe dirigente locale appare ben intenzionata a normalizzare i rapporti con Washington, da cui riceve annualmente ingenti finanziamenti.

Il sostanziale ottimismo manifestato a Chicago contrasta con la realtà sul campo in Afghanistan, dove il sentimento anti-occidentale continua ad alimentare la resistenza all’occupazione. Oltre ai recenti nuovi episodi che hanno visto membri delle forze di sicurezza afgane aprire il fuoco su soldati ISAF, proprio domenica sono stati registrati almeno due attentati suicidi che hanno fatto un numero imprecisato di vittime tra le truppe americane.

Nella giornata di domenica, il Patto Atlantico ha poi deciso di rendere operativo il sistema di difesa missilistico che verrà installato in alcuni paesi dell’Europa orientale e che dovrebbe essere ultimato nel 2018. Il sistema serve ufficialmente a difendere l’Europa da eventuali missili iraniani, ma la Russia lo considera una minaccia al proprio deterrente nucleare. Soprattutto per questo motivo, con ogni probabilità, il presidente Putin non ha partecipato né al G8 di Camp David né al summit NATO di Chicago, inviando al suo posto il primo ministro Medvedev.

L’industria bellica americana ha infine beneficiato nuovamente della generosità dei paesi NATO. Domenica a Chicago, infatti, l’Alleanza ha firmato un contratto da 1,7 miliardi di dollari con Northrop Grumman per l’acquisto di un “sistema di sorveglianza e di intelligence” che include cinque droni Global Hawks.

Lo stimolo all’aumento delle spese belliche anche in tempi di austerity fa parte dello sforzo da parte di Washington per ridurre l’impegno economico americano all’interno della NATO, per la quale provvede ora per circa i tre quarti del bilancio, e di aumentare quello degli alleati. Da qui l’appello di Obama ai paesi membri per investire nelle “strutture difensive e nelle nuove tecnologie per rispondere alle nostre esigenza collettive”.

Le politiche militaristiche della NATO a Chicago sono state promosse ancora una volta tra l’ostilità della maggioranza della popolazione e con l’adozione di metodi da stato di polizia. A confermarlo è stata la durissima risposta delle forze di sicurezza americane alle dimostrazioni pacifiche andate in scena nel fine settimana nella metropoli dell’Illinois.

Solo domenica sono stati arrestati 45 manifestanti, mentre in precedenza erano stati fermati cinque giovani con l’accusa di aver progettato azioni terroristiche contro siti sensibili a Chicago, come la residenza privata del sindaco, Rahm Emanuel, e il quartier generale della campagna per la rielezione di Obama. Come già accaduto nel recente passato in seguito ad operazioni ideate interamente dall’FBI per alimentare il panico nella popolazione e giustificare misure gravemente lesive dei diritti democratici, i cinque arrestati sono stati di fatto incastrati da due informatori della polizia che hanno montato ad arte i presunti attentati terroristici nel corso del summit della NATO.

di Michele Paris

Una recente sentenza a sorpresa di un giudice federale americano ha imposto al governo di sospendere l’applicazione di una delle più discutibili misure relative alla “guerra al terrore”, approvata da Obama sul finire dello scorso anno. Ad essere stata bloccata con un’ingiunzione preliminare è la norma che assegna al presidente la facoltà di decidere la detenzione indefinita e senza processo presso l’autorità militare di chiunque sia sospettato di sostenere o di far parte di un’organizzazione terroristica, anche se arrestato sul territorio degli Stati Uniti.

Il provvedimento in questione è noto come Sezione 1021 del National Defense Authorization Act (NDAA), cioè il pacchetto da oltre 600 miliardi di dollari stanziato dal Congresso per finanziare le forze armate americane nel 2012 nel quale è appunto contenuto. Contro la Sezione 1021, lo scorso Gennaio un gruppo di giornalisti e attivisti aveva avviato un procedimento legale, nel timore che il loro lavoro potesse esporli a detenzione indefinita.

Tra di essi spiccano l’ex reporter del New York Times e premio Pulitzer, Chris Hedges, Noam Chomsky, la parlamentare islandese Birgitta Jónsdóttir, portavoce di WikiLeaks, e Daniel Ellsberg, l’ex analista dell’esercito che nel 1971 passò alla stampa i Pentagon Papers. I giornalisti coinvolti hanno lamentato la possibilità di finire sotto custodia militare indefinita nel caso, ad esempio, dovessero entrare in contatto con membri di Al-Qaeda o dei Talebani nel corso delle loro indagini.

Il punto cruciale per i denuncianti è la insufficiente chiarezza fatta dal Congresso e dalla Casa Bianca sul contenuto della legge che autorizza la detenzione indefinita per coloro che “fanno parte o sostengono in maniera sostanziale Al-Qaeda, i Talebani o altre forze associate, impegnate in ostilità con gli Stati Uniti o i loro alleati, incluso chiunque abbia commesso un atto belligerante o abbia contribuito direttamente a tali ostilità aiutando queste forze nemiche”.

Il giudice federale Katherine Forrest del distretto meridionale di New York, nominata l’anno scorso da Obama, nel corso di un’udienza nel mese di Marzo aveva chiesto all’avvocato del Dipartimento di Giustizia, Benjamin Torrance, se Hedges e gli altri accusatori, nel caso fossero entrati in contatto con Al-Qaeda o con esponenti talebani, avessero rischiato la detenzione indefinita senza processo.

Il rappresentante dell’amministrazione Obama non era stato però in grado di dire se tale comportamento rientrasse nella Sezione 1021 dell’NDAA. Ancora, lo stesso giudice aveva chiesto a Torrance di definire concretamente i concetti di “forze associate” e “in maniera sostanziale”, ma anche in questo caso il legale del governo aveva sostenuto di non poter fornire “esempi specifici”.

Il giudice Forrest ha perciò alla fine stabilito che “è responsabilità del sistema giudiziario proteggere la popolazione da atti del Congresso che siano contrari ai diritti costituzionali”, in quanto la vaghezza della legge viola con ogni probabilità il Primo e il Quinto Emendamento della Costituzione americana, i quali garantiscono rispettivamente la libertà di parola e la protezione contro l’abuso dell’autorità governativa.

In aula, il legale dell’amministrazione Obama ha sostenuto che i denuncianti non avrebbero alcun fondamento legale per la loro azione contro il governo e che la Sezione 1021 conferma semplicemente i poteri attribuiti al presidente con l’Autorizzazione all’Uso della Forza Militare contro i Terroristi (AUMF), approvata all’indomani degli attentati dell’11 settembre 2001.

Diversa è stata però l’interpretazione del giudice Forrest, la quale ha ritenuto che tra l’AUMF e la Sezione 1021 dell’NDAA esistono importanti differenze, in quanto la prima era riferita esclusivamente ai responsabili dell’11 settembre, mentre la seconda non indica esplicitamente quali individui siano da considerare terroristi e perciò si applicherebbe anche a persone non coinvolte negli attentati al World Trade Center.

L’amministrazione Obama avrà ora 60 giorni per presentare appello contro la decisione del tribunale federale. Anche se quest’ultima dovesse essere confermata e la Sezione 1021 dichiarata incostituzionale, il resto della legge resterebbe comunque in vigore, così come fondamentalmente inalterata rimarrebbe la struttura pseudo-legale e anti-democratica costruita in nome della guerra al terrore.

Al momento della firma sull’NDAA il 31 dicembre scorso, Barack Obama manifestò “serie riserve” sui punti della legge relativi al trattamento dei presunti terroristi, aggiungendo che la sua amministrazione non avrebbe autorizzato detenzioni indefinite presso l’autorità militare senza processo per i cittadini americani.

Ciononostante, l’amministrazione Obama ha deciso di difendere in tribunale la Sezione 1021, sostenendo che tale misura è appunto una conferma di quanto adottato dal Congresso nel settembre 2001 e che riconosceva implicitamente la facoltà del presidente di decidere la sorte dei sospettati di terrorismo al di fuori dei normali procedimenti legali.

Sulla questione delle detenzioni indefinite si era mosso nei giorni scorsi anche il Congresso. Alla Camera dei Rappresentanti è stato infatti presentato un emendamento, presentato dai deputati Adam Smith (democratico dello stato di Washington) e Justin Amash (repubblicano del Michigan), ad un nuovo stanziamento di fondi per il Pentagono che avrebbe stabilito la non applicazione della detenzione indefinita per i sospettati di terrorismo arrestati sul suolo americano.

La modifica proposta era il risultato della collaborazione tra parlamentari progressisti e libertari vicini ai Tea Party, ma, alla luce della prevalenza dei falchi sulle questioni della sicurezza nazionale al Congresso, venerdì è stata bocciata a larga maggioranza durante il voto in aula.


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