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di Michele Paris
Il procedimento legale interamente basato su motivazioni politiche contro il fondatore di WikiLeaks, Julian Assange, mercoledì ha trovato forse il definitivo suggello con l’attesa sentenza della Corte Suprema britannica che ha dato il via libera alla sua estradizione in Svezia. A Stoccolma, Assange dovrà fronteggiare le più che discutibili accuse di stupro ai danni di due cittadine svedesi e, soprattutto, rischia di venire nuovamente estradato nel prossimo futuro, questa volta verso gli Stati Uniti.
Al supremo tribunale della Gran Bretagna i legali di Assange avevano fatto un estremo ricorso dopo che lo scorso novembre l’Alta Corte di Giustizia di Londra aveva a sua volta respinto l’appello contro l’estradizione del loro assistito in seguito al mandato di arresto europeo (EAW) emesso dalle autorità svedesi. Consegnatosi spontaneamente alla polizia britannica nel dicembre 2010, Assange è stato costretto da allora agli arresti domiciliari in una villa del Norfolk appartenente ad un suo sostenitore.
Con Assange assente dall’aula perché bloccato dal traffico londinese, la Corte Suprema ha emesso il proprio verdetto con 5 giudici favorevoli all’estradizione e 2 contrari. Secondo la Corte, “non è stato semplice giungere ad una conclusione” del caso, ma “la richiesta di estradizione contro Assange rispetta i requisiti di legalità e perciò il suo appello deve essere respinto”.
Dopo la sentenza, uno dei legali di Assange, l’avvocato Dinah Rose, ha annunciato che verrà chiesta la riapertura del caso, poiché la decisione della Corte è stata emessa sulla base dell’interpretazione della Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati tra gli Stati, della quale non si è mai dibattuto durante il procedimento in aula.
Secondo un autorevole avvocato citato ieri dalla Associated Press, però, la riapertura di un caso su cui la Corte Suprema si è già espressa sarebbe un evento senza precedenti. Il presidente della Corte, giudice Nicholas Phillips, ha comunque concesso due settimane ai legali di Assange per decidere le loro prossime mosse. L’estradizione, dunque, non verrà eseguita prima della metà di giugno.
Anche se la Corte Suprema dovesse rifiutarsi di riaprire il caso, inoltre, Assange potrebbe in ultima istanza rivolgersi alla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo di Strasburgo, alla quale tuttavia i suoi difensori dovranno dimostrare che in Svezia sarebbe messa a rischio la salute fisica e mentale del loro cliente.
Tutta la vicenda legale che ha coinvolto Julian Assange è motivata dal desiderio di alcuni governi, a cominciare da quello americano, di vendicare la pubblicazione su WikiLeaks in questi anni di centinaia di migliaia di documenti classificati, tra cui i cablo del Dipartimento di Stato USA che hanno contribuito a smascherare la vera faccia dell’imperialismo statunitense in ogni angolo del pianeta.
Le accuse di molestie sessuali e di stupro presentate da due donne svedesi che avevano ospitato Assange durante un suo soggiorno a Stoccolma erano infatti state inizialmente archiviate dal pubblico ministero incaricato perché insignificanti, per essere poi riesumate, dopo che il blogger/attivista australiano aveva lasciato il paese scandinavo, in seguito all’intervento di un avvocato e politico legato al partito socialdemocratico locale.
Ha destato peraltro non pochi sospetti l'identità di una delle denuncianti, militante delle organizzazioni terroristiche cubanoamericane di stanza in Florida con numerosi precedenti di collaborazione con la CIA. Assange, dal canto suo, si è sempre detto disposto a collaborare con le autorità svedesi e per questo, oltre al fatto che le accuse sollevate contro di lui in Svezia non costituiscono un reato per cui è prevista l’estradizione in Gran Bretagna, i suoi legali avevano sostenuto che uno strumento anti-democratico come il mandato di arresto europeo non doveva applicarsi al suo caso.
Soprattutto, la richiesta di estradizione era stata emessa da un pubblico ministero svedese che, secondo la difesa, non rappresentava un’autorità giudiziaria competente. Su quest’ultima questione si è espressa appunto mercoledì la Corte Suprema britannica, respingendo l’interpretazione dei legali di Assange.
Il timore dell’ideatore di WikiLeaks e dei suoi sostenitori è che ora dalla Svezia possa essere più facilmente estradato negli Stati Uniti dove, come hanno confermato anche alcune delle e-mail del think tank americano Stratfor, pubblicate dallo stesso sito investigativo qualche mese fa, sarebbe già stato istituito un “Grand Jury” per incriminarlo secondo il dettato dell’Espionage Act del 1917, una legge che prevede anche la pena capitale.
Molti politici di spicco negli USA hanno d’altra parte accusato Assange di aver favorito il terrorismo se non addirittura di essere egli stesso un cyber-terrorista. Secondo le pratiche pseudo-legali create negli Stati Uniti nell’ambito della “guerra al terrore”, simili accuse sarebbero sufficienti per far scattare un’eventuale detenzione indefinita nei suoi confronti.
L’amministrazione Obama appare intenzionata a fare della vicenda Assange un esempio per mettere a tacere qualsiasi voce critica che intenda denunciare i crimini americani nel mondo.
A prefigurare ciò che potrebbe attendere Assange negli USA è la sorte riservata a Bradley Manning, il giovane soldato americano accusato di aver passato i documenti riservati del Dipartimento di Stato a WikiLeaks. Dopo due anni di detenzione in condizioni disumane, Manning ha da poco iniziato ad affrontare il suo processo davanti ad una corte marziale, con il rischio concreto di vedersi infliggere una condanna all’ergastolo.
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di Michele Paris
A seguito del massacro di venerdì scorso a Houla, in Siria, i governi occidentali e i loro alleati nel Golfo Persico hanno aumentato nuovamente le pressioni su Damasco nel tentativo di spianare la strada ad un intervento armato per rovesciare il regime di Bashar al-Assad. Tra gli scambi di accuse di governo e opposizioni sulla responsabilità della strage, nella quale hanno perso la vita almeno 108 persone, tra cui decine di donne e bambini, l’ex segretario generale dell’ONU, Kofi Annan, si è recato nella capitale siriana per incontrare i vertici del regime, con i quali ha discusso del più recente episodio di violenza e di un piano di pace sempre più vicino al fallimento.
Come è noto, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU domenica scorsa ha emesso una dichiarazione non vincolante per condannare i fatti di Houla ma, su insistenza di Mosca, non ha apertamente puntato il dito contro Damasco per le uccisioni, anche se il regime è stato accusato di aver bombardato la località della Siria centrale. Anche il capo della missione di pace nel paese, generale Robert Mood, ha affermato che l’artiglieria pesante ha colpito l’area residenziale di Houla, ma la maggior parte dei morti è dovuta a colpi di arma da fuoco esplosi da distanza ravvicinata e addirittura ad accoltellamenti. Mood ha aggiunto che “da quanto ho appreso sul campo in Siria, bisogna evitare di saltare alle conclusioni”.
Un resoconto simile dell’accaduto è stato descritto martedì anche da un portavoce dell’Alto Commissario ONU per i Diritti Umani, il quale ha sostenuto che, in base alle testimonianze raccolte dagli osservatori, meno di venti persone sarebbero morte a causa dei colpi dell’artiglieria, mentre gli altri sono stati il bersaglio di esecuzioni sommarie in due distinti episodi.
Nonostante la cautela anche delle Nazioni Unite, come è sempre avvenuto finora, i governi occidentali hanno accettato integralmente la ricostruzione degli eventi di venerdì a Houla fatta dalle opposizioni siriane, le quali assegnano l’intera responsabilità al regime. Per Damasco, tuttavia, le cose sono andate diversamente. A negare pubblicamente la responsabilità delle forze di sicurezza, oltre al ministero degli Esteri, è stato lunedì anche l’ambasciatore siriano all’ONU, Bashar al-Jaafari.
Quest’ultimo ha infatti condannato “il massacro orribile e ingiustificabile” di Houla, definendo uno “tsunami di menzogne” quello proveniente da alcuni paesi membri del Consiglio di Sicurezza che cercano di fuorviare la comunità internazionale sul ruolo della Siria. Per Jaafari, né il generale Mood né nessun altro ha affermato davanti al Consiglio di Sicurezza che il governo siriano è colpevole dell’accaduto a Houla.
Per il governo di Damasco, la strage di venerdì è opera di “terroristi armati” e avrebbe fatto parte di un’operazione contro le forze di sicurezza che ha causato decine di morti anche in altri villaggi circostanti. Lo stesso ambasciatore Jaafari ha infine sottolineato che ancora una volta simili azioni cruente avvengono in concomitanza con delicati colloqui diplomatici, suggerendo che esse vengono orchestrate per far naufragare il già incerto processo di pace. Il massacro di Houla ha anticipato di pochi giorni la già programmata visita di Kofi Annan a Damasco iniziata nella giornata di lunedì.
Gli Stati Uniti e i loro alleati europei e nel Golfo sono senza dubbio in parte responsabili dei fatti di Houla, così come degli altri episodi di violenza che stanno insanguinando la Siria da quasi 15 mesi a questa parte, dal momento che questi governi hanno manipolato da subito le proteste circoscritte esplose lo scorso anno per alimentare una rivolta armata diretta a rovesciare un regime poco gradito.
Alla luce della strategia occidentale, perciò, non è una sorpresa che da più parti negli ultimi giorni le vittime di Houla siano state sfruttate per gettare benzina sul fuoco. Tra le minacce più esplicite lanciate contro Damasco va ricordata quella del capo di stato maggiore americano, generale Martin Dempsey, il quale in un’intervista a FoxNews lunedì ha affermato che l’opzione militare riguardo la Siria ad un certo momento diventerà inevitabile.
Gli alleati degli Stati Uniti hanno poi intrapreso un’azione congiunta nella giornata di martedì, decidendo l’espulsione dei diplomatici siriani. A cominciare è stata l’Australia, seguita da Italia, Gran Bretagna, Canada, Germania, Spagna e Francia, il cui nuovo governo socialista ha già dimostrato di seguire quello di Sarkozy nell’appoggio incondizionato alla politica imperialista di Washington in Medio Oriente.
Da parte loro, le monarchie assolute del Golfo, alcune delle quali in questi mesi hanno represso nel sangue le rivolte democratiche esplose entro i loro confini, hanno chiesto un maggiore impegno da parte della comunità internazionale per “mettere fine alle pratiche oppressive del regime contro il popolo siriano”. Il Libero Esercito della Siria, invece, ha annunciato di non sentirsi più vincolato al rispetto del cessate il fuoco, mentre il Consiglio Nazionale Siriano ha invocato una risoluzione ONU in base al Capitolo VII dello statuto delle Nazioni Unite che autorizza l’uso della forza.
Negli ultimi giorni, intanto, i giornali occidentali hanno scritto di un’offensiva diplomatica degli USA per convincere la Russia ad appoggiare una transizione in Siria simile a quella che in Yemen ha portato alle dimissione del presidente, Ali Abdullah Saleh, e che mantenga al potere alcuni membri del regime di Assad disposti a creare un nuovo governo con i “ribelli”, ovviamente ben disposto verso Washington e pronto a sganciarsi dall’Iran.
Qualche segnale di apertura in questo senso da parte di Mosca e alcune dichiarazioni di diplomatici russi più critiche verso Damasco hanno alimentato speculazioni che il Cremlino sia sul punto di scaricare Assad. Il ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, nel corso di un incontro con l’omologo britannico, William Hague, lunedì ha ad esempio sostenuto che entrambe le parti hanno qualche responsabilità nelle morti in Siria e che le forze governative hanno senza dubbio bombardato con l’artiglieria la città di Houla.
La Russia continua però a respingere qualsiasi ipotesi di intervento esterno in Siria e, come Damasco, attribuisce molte delle violenze nel paese all’opera di gruppi terroristi che non vogliono una soluzione pacifica della crisi. Più in generale, la difesa degli interessi russi nella regione si scontra con gli obiettivi americani. Mosca, a ragione, teme infatti che la caduta dell’alleato Assad minaccerebbe seriamente l’Iran e, di conseguenza, tutta la residua influenza della Russia e i suoi interessi in Medio Oriente.
Sul fronte diplomatico, lunedì Kofi Annan ha incontrato a Damasco il ministro degli Esteri siriano, Walid Moallem, e martedì il presidente Assad. In un faccia a faccia di due ore con quest’ultimo, l’ex segretario generale dell’ONU ha espresso “le gravi preoccupazioni della comunità internazionale per le violenze in Siria, riguardo soprattutto i recenti eventi di Houla”. Annan, inoltre, ha ricordato ad Assad che il piano di pace in sei punti non può che fallire senza iniziative coraggiose per fermare la violenza e liberare tutti i detenuti politici.
Alla vigilia della visita in Siria, Annan aveva chiesto al governo e alle opposizioni di contribuire a “creare il giusto contesto per avviare un processo politico credibile” nel paese, per poi esortare “chiunque abbia un’arma da fuoco” ad adoperarsi per la pace.
Gli appelli di Kofi Annan, in ogni caso, sono destinati quasi certamente a rimanere inascoltati. I deboli sforzi per giungere ad una soluzione negoziata della crisi sono ormai superati da forze ben più grandi che, a Washington come a Londra, a Riyadh o a Doha, operano per il fallimento del piano di pace, avendo deciso da tempo di puntare tutto sull’opposizione armata per far crollare una volta per tutte il regime di Bashar al-Assad.
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di Luca Mazzucato
NEW YORK. La notizia fa tremare le vene ai polsi dei sociologi. Un ribaltamento di trentasei punti percentuali nell'ultimo mese nei sondaggi in favore dei matrimoni gay, e per una volta Obama può vantarne il merito. L'annuncio storico del Presidente a favore dei diritti degli omosessuali sta causando un maremoto tra le tendenze elettorali americane.
Il Maryland ha recentemente fatto passare la legge che riconosce i matrimoni tra persone dello stesso sesso, ma i Repubblicani, contrari alla legge, hanno subito raccolto le firme per il referendum abrogativo. I precedenti trentotto referendum su questo argomento hanno visto immancabilmente la revoca dei diritti delle coppie omosessuali. Ma finalmente si volta pagina.
Quando il governatore del Maryland firmò la legge nel marzo scorso, i sondaggi davano l'otto percento di vantaggio a favore dei diritti gay tra la popolazione, ma dopo soli due mesi la preferenza è quasi triplicata, arrivando al venti per cento. I sondaggisti non credono ai propri occhi. Un secondo sondaggio più approfondito ha individuato l'origine di questa virata di dodici punti percentuali nell'opinione generale, all'interno di un particolare gruppo etnico.
Il nove maggio Obama dalla Casa Bianca ha dichiarato in un'intervista: “È importante per me rendere pubblico e affermare ciò che penso, e cioè che coppie dello stesso dovrebbero potersi sposare.” La dichiarazione inaspettata ha lasciato tutti con il fiato sospeso. Nel bilancio dei flussi elettorali, un'incognita assoluta, un azzardo. Ora possiamo quantificare l'effetto: Obama ha fatto cambiare idea a un sacco di gente. Ha spostato massicciamente l'opinione pubblica in favore dei matrimoni gay.
Il blocco demografico decisivo nel Maryland, con un terzo della popolazione, ha attraversato un cambiamento radicale e repentino. Due mesi fa, gli adulti afro-americani erano contrari ai matrimoni omosessuali per il diciassette per cento. Nel sondaggio odierno, dopo la dichiarazione di Obama, gli stessi sono diventati a favore per il diciannove percento. Una differenza percentuale di ben trentasei punti, più di un terzo della popolazione. Uno “swing” mai visto prima.
Il ruolo dei sondaggi nella politica americana è dovuto al loro uso come strumento centrale di gestione delle campagne elettorali; in questo circo mediatico del costo di un miliardo di dollari per candidato - grazie ai finanziamenti privati illimitati - le tattiche a breve termine si basano sul movimento quotidiano delle intenzioni di voto, in seguito alle dichiarazioni dei candidati.
Mentre non fa notizia che le minoranze, soprattutto quella afro-americana, appoggino Obama senza tentennamenti, lo sfidante Mitt Romney si è attirato le ire della porzione di elettorato più vasta del paese: quello femminile.
Gli attacchi frontali del partito repubblicano contro l'aborto e persino contro la contraccezione hanno alienato la maggioranza delle donne, che dichiarano di preferire Obama. Questo dato da solo, al momento, basterebbe a chiudere la partita presidenziale.
Rachel Maddow, autorevole talk show host su MSNBC, ripete incredula che “niente si è mai spostato nell'opinione pubblica americana in soli due mesi, tanto meno su un argomento così controverso!” Un vero e proprio miracolo, perpetrato dal Presidente con la sua intervista-bomba. Una dimostrazione dell'enorme fascino che Obama esercita sulla minoranza afro-americana.
Il referendum in Maryland, che si terrà in novembre insieme alle presidenziali, se non vi saranno sorprese sarà l'occasione storica in cui un voto popolare approverà un nuovo diritto. Come alcuni commentatori moderati già preannunciano, sarà “l'ultima battaglia per i diritti civili della storia americana.”
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di Michele Paris
Da più di tre mesi gli studenti del Québec stanno dando vita a scioperi e manifestazioni di protesta contro la decisione del governo provinciale di aumentare in maniera consistente le tasse universitarie. Al movimento degli studenti, le autorità locali hanno risposto con l’introduzione di misure repressive che hanno ancor più incoraggiato le dimostrazioni di piazza, accolte qualche giorno fa con cariche e arresti di massa da parte dalle forze di polizia.
Le proteste degli studenti erano esplose nel mese di febbraio, dopo che il governo della provincia francofona del Canada, guidato dal Partito Liberale di centro-destra (PLQ), aveva approvato un incremento delle tasse universitarie di oltre l’80% nell’arco dei prossimi sette anni. I costi dell’istruzione accademica in Québec sono tra i più bassi dell’intero Nordamerica, ma gli aumenti del governo minacciano seriamente di creare anche qui uno scenario simile a quello statunitense, dove i laureati si ritrovano gravati per molti anni dai debiti contratti per pagare il college.
I giovani manifestanti hanno così progressivamente raccolto un sostegno sempre maggiore tra la popolazione del Québec, tanto che il governo provinciale una decina di giorni fa ha finito per adottare in fretta e furia la cosiddetta Legge 78 che di fatto criminalizza gli scioperi e le dimostrazioni degli studenti.
Oltre alla chiusura temporanea di alcune scuole, questo provvedimento stabilisce che qualsiasi manifestazione con più di 50 partecipanti debba essere notificata per iscritto alla polizia almeno otto ore prima del suo inizio e che venga fornita l’indicazione della durata e dell’itinerario, che peraltro può essere cambiato arbitrariamente dalle forze dell’ordine.
In risposta alla Legge 78, all’inizio della scorsa settimana gli studenti canadesi hanno deciso nuovamente di organizzare in varie città del Québec massicce manifestazioni, senza informare gli organi di polizia. Il corteo più imponente è andato in scena a Montréal, dove i dimostranti sono stati attaccati dalla polizia perché non avrebbero rispettato le istruzioni delle autorità sull’itinerario da seguire.
Scontri simili sono stati registrati anche in altre località della provincia e mercoledì sera, secondo quanto riportato dalla Associated Press, il bilancio è stato di qualcosa come 700 arresti, di cui 518 solo a Montréal e 176 a Québec City. Dall’approvazione della Legge 78 gli arresti sono stati più di mille, mentre il numero sale addirittura a 2.500 se si prende in considerazione tutta la durata delle proteste.
Contro questo provvedimento draconiano volto a impedire le manifestazioni sono già stati avviati dei procedimenti legali per verificarne la costituzionalità. La Commissione per i Diritti Umani del Québec ha invece da parte sua espresso “serie preoccupazioni per le libertà e i diritti democratici fondamentali”, messi in pericolo dalla legge provinciale.
Nonostante la ferma posizione assunta finora, il governo del Québec ha fatto recentemente una parziale marcia indietro, dicendosi disposto ad aprire un qualche dialogo con le associazioni studentesche, anche se è stato escluso qualsiasi cambiamento sia al piano di aumento delle tasse universitarie sia alla stessa Legge 78.
Ad annunciare l’avvio di un negoziato è stato uno dei leader dell’associazione studentesca più militante, CLASSE, il quale alla rete televisiva RDI ha rivelato che il governo ha promesso un incontro con gli studenti. Giovedì, inoltre, il ministro dell’Educazione del Québec, Michelle Courchesne, ha detto di essere in contatto con i gruppi degli studenti per trattate un accordo risolutivo che metta fine alle proteste e permetta di riprendere le lezioni dopo oltre 100 giorni di stop.
L’aumento delle tasse universitarie fa parte di una serie di misure già adottate dal governo del Québec del primo ministro Jean Charest per ridurre nei prossimi due anni il deficit della provincia e che include, tra l’altro, pesanti tagli alla spesa sociale, l’aumento delle tariffe dei servizi pubblici e la progressiva privatizzazione del sistema sanitario.
Questi provvedimenti e la lotta contro gli studenti in rivolta trovano il sostegno del governo federale, guidato dal Partito Conservatore del premier Stephen Harper, il quale a sua volta è impegnato a comprimere la spesa pubblica e a dare l’assalto ai diritti dei lavoratori canadesi. Nel bilancio approvato lo scorso marzo, infatti, il governo di Ottawa ha promesso una riduzione della spesa pubblica pari al 6% del totale ed ha innalzato l’età pensionabile, ridotto i benefici di disoccupazione e ridimensionato drasticamente il diritto di sciopero.
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di Liliana Adamo
Dov’eravamo rimasti? Nella piazza di Midan et-Tahrir prima delle rivolte cominciate nel gennaio scorso, alle proteste antigovernative dei giovani esponenti di Kifaya, studenti della media borghesia, non habitué di circoli islamici ma allievi modello dell’American University del Cairo, veri precursori della “primavera araba”. Tra la moschea di Al Azhar con i suoi minareti dalle doppie cupole, la "Città dei Morti" e la più antica università del mondo, i tafferugli fra giovani cairoti e la polizia di Mubarak si succedevano a scadenza quotidiana, risolvendosi, quasi senza eccezione, con un massiccio uso d'idranti e arresti cautelari.
Questo movimento liberal sorto dal nulla, formato da studenti (finiti a centinaia nelle carceri egiziane), è stato il primo a opporsi al regime e il malcontento non risparmiava nessuno, neanche i Fratelli Musulmani, i cui affiliati, oggi, sono tra i favoriti in corsa alla nuova presidenza del dopo Mubarak. Eppure, nel 2006, all’alba della primavera araba, il Kifaya li definiva alla stregua di "Vecchi bacucchi... esponenti di un Islam arretrato che ha scarsa considerazione sulle questioni reali e importanti per la vita del paese…”.
Nessuno tra i politologi specialisti del Medio Oriente, né tra gli osservatori più serrati della cronaca estera, aveva la percezione di ciò che da lì a poco sarebbe avvenuto, non potendo immaginare un disegno che, invece, sembrava aleggiare nel best-seller di Alaa Al Aswani, in quel “Palazzo Yacubian”, condominio di Via Talat Harb (e ci muoviamo ancora nella toponimia degli eventi), situato in una strada del Cairo, una volta di fama internazionale, poi in fase di decadenza.
“Palazzo Yacubian” è stato il microcosmo di un’intera nazione, nell’accettazione acritica della corruzione, nella perdita dei sogni e dei progetti, fortemente delusa dal potere. Zaki, l'unico personaggio del racconto, si ostina a rappresentare l'antico ecumenismo della sua città, ricavandone la stessa malinconia universale, la perdita di senso e identità. Eppure, Adel Adib, il regista che poi ne ha fatto un film, sostiene con forza che "Palazzo Yacubian" è per chi ama l'Egitto, non certo per chi lo odia; l’Egitto di oggi, che si legge sulle facce della gente, piuttosto che tra le righe della cronaca estera.
Sei anni dopo il Kifaya, quella malinconia universale si riversa nella rabbia di piazza Tahrir, la guerriglia, diventata collettiva, unanime, deflagra in una potenza finora trattenuta. Le immagini, i filmati, sono storia dei nostri tempi: dai dimostranti falciati dalle camionette dell’esercito, al simbolo (tutto al femminile), di una protester che subisce un violento pestaggio da parte dei militari e del suo reggiseno blu, involontariamente lasciato scoperto dinanzi alle telecamere del mondo intero.
Tanti i volti: giovani, anziani, donne velate e studentesse svincolate dal velo, musulmani e cristiani copti; uno spaccato trasversale della società egiziana proveniente dal Sinai, da Assuan, da Alessandria, a chiedere la fine del regime trentennale di Mubarak. E tante le storie: dal Nobel per la pace, leader dell’opposizione, Mohamed El Baradei (che, a “missione compiuta”, rinuncia a candidarsi), all’altro premio Nobel per la chimica, Ahmed Zewail, che, dagli Usa, torna in patria per appoggiare le rivolte. Dal blogger Wael Abbas, al cyber attivista Wael Ghoneim, diventato icona della rivoluzione insieme all’ex ministro dell’Informazione, Anas Al Fiqi, entrambi fatti “sparire” dal famigerato “mabeht amn el dawla”, i servizi segreti interni (250 mila uomini addestrati da Mubarak a spezzare le ossa ai dissidenti), oggi, formalmente smantellati.
E se all’epoca delle rivolte in piazza Tahrir, l’ago della bilancia è rimasto saldamente in mano all’esercito, lo stesso che sì, rimuovendo l’ex presidente (confinato in una villa a Sharm El Sheik), promette nuove elezioni e una vera democrazia parlamentare, resta evidente una contraddizione essenziale. Può un apparato garantire l’uscita da un sistema creato dai suoi stessi rappresentanti? Qualcuno ha usato un’analogia letteraria quanto mai efficace: chiuso il capitolo del faraone, arrivano i gattopardi.
Ancor prima della scadenza delle elezioni, le tensioni non si sono in nessun caso placate. La rimessa in discussione sugli accordi con Israele del 1979 scatena uno scontro senza esclusione di colpi tra aspiranti filo-islamici e “liberal” in parte legati al vecchio apparato militare. Non solo, Ahmed Shafiq della Giunta Tantawi (che si è conquistato il ballottaggio con Mohammed Mursi, dell’area musulmana), è l’unico dei grandi esclusi, a essere stato riaccettato nella corsa alle presidenziali.
La decisione in extremis della Suprema Commissione Elettorale, che ha in pratica, eluso la nuova legge idonea a bloccare le candidature di chi è stato direttamente legato al regime, ha di nuovo, riacceso le polemiche…Ahmed Shafiq è dunque l’uomo nuovo del vecchio apparato, ripresentatosi a mischiare le carte.
E non a caso l’ha spuntata su tutti, per giocarsi lo spareggio finale, a giugno, in un testa a testa con il candidato dei Fratelli Musulmani, un ingegnere formatosi in California, con posizioni conservatrici in ambito sociale, ma cui abbina un notevole pragmatismo politico. Mohammed Mursi, tra l’altro, scommette sull’appoggio degli islamici più conservatori e, soprattutto, sull’impressionante macchina propagandistica dei Fratelli Musulmani.
Nulla da fare per ciò che resta di un eterogeneo schieramento, per l’islamista indipendente Abdel Moneim Aboul Foutouh (che molti davano per “favorito”), per l’ex ministro degli Affari esteri e segretario generale della Lega araba, Amr Moussa e per il nazionalista arabo, Hamdeen Sabbahi.
E se all’indomani dei risultati delle presidenziali, continua l’aspro confronto tra giunta militare e Fratelli Musulmani (primi attori nelle precedenti elezioni legislative, accusati di controllare completamente l’Assemblea Costituente), le dichiarazioni della formazione islamica non lasciano adito a dubbi: per loro, che già cercano consensi e accordi con le forze d’opposizione, se vincerà l'ex premier di Hosni Mubarak, Ahmed Shafiq, la sorte del nuovo Egitto, nato dalle proteste di piazza Tahrir, correrà un serio pericolo.