di Michele Paris
La vigilia delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti è stata dominata quest’anno da uno stato d’animo generale del tutto differente rispetto a quattro anni fa. Le aspettative e gli entusiasmi che avevano segnato il trionfale ingresso alla Casa Bianca di Barack Obama nel 2008 sono infatti svaniti rapidamente nel corso di un mandato segnato da politiche regressive sia in ambito economico che sulle questioni della sicurezza nazionale.
Una parabola quella del 44esimo presidente degli Stati Uniti che ha dimostrato in maniera clamorosa l’impossibilità di trasformare dall’interno un sistema basato sui due grandi partiti che monopolizzano la scena politica d’oltreoceano e, al tempo stesso, l’organicità dello stesso Obama a questo sistema, nonostante le presunte potenzialità di cambiamento prospettate dall’ex senatore dell’Illinois, mortificate esclusivamente, secondo i suoi sostenitori, da un ambiente sclerotizzato come quello di Washington.
Se le politiche messe in atto pressoché interamente a beneficio di un’oligarchia economica e finanziaria che di fatto controlla il sistema politico americano appaiono tutt’altro che sorprendenti, ciò che più avrebbe dovuto scuotere soprattutto un’intellighenzia liberal ancora schierata in gran parte per la sua rielezione, è stato il sostanziale svuotamento di alcuni dei principi costituzionali fondamentali su cui si regge la democrazia USA. Questi ultimi sono stati progressivamente superati da un’amministrazione guidata da un ex docente di diritto costituzionale, piegatosi tutt’altro che forzatamente alle necessità di una infinita guerra al terrore su scala planetaria, utilizzata sempre più per estendere il controllo sul dissenso interno in una fase storica di grave crisi del sistema capitalistico e di fronte all’esplosione di tensioni sociali come non si vedevano da almeno tre decenni in territorio americano.
Una simile evoluzione dell’amministrazione Obama risulta ancora più grave alla luce del fatto che ad avere contribuito a portare alla Casa Bianca il candidato del cambiamento nel 2008 era stato in gran parte il rifiuto popolare delle aberrazioni che avevano caratterizzato i due mandati di George W. Bush nell’ambito della “guerra al terrore” e l’impopolarità di una guerra illegale e rovinosa come quella scatenata con l’invasione dell’Iraq nel 2003. In risposta alle speranze alimentate in ampi settori della popolazione americana, dunque, il neo-presidente democratico dopo appena due giorni dal suo insediamento aveva firmato un ordine esecutivo che stabiliva la chiusura entro un anno del lager di Guantanamo, simbolo per eccellenza degli abusi della guerra al terrore a stelle e strisce.
Se per appurare l’impossibilità di smantellare il famigerato carcere, dove da qualche settimana è finalmente iniziato un processo farsa di fronte ad un tribunale militare per i presunti responsabili degli attentati di undici anni fa, ci sarebbero voluti mesi di promesse rinnegate e di scontri con il Congresso, per comprendere l’impegno di Obama nei confronti del conflitto planetario inaugurato dal suo predecessore sarebbe al contrario bastato un solo giorno.
A 24 ore di distanza dall’ordine di chiusura di Guantanamo, accompagnato con la proibizione dell’impiego di metodi di tortura durante gli interrogatori di sospettati di terrorismo, Obama avrebbe infatti autorizzato i suoi primi bombardamenti con velivoli senza pilota (droni) in territorio pakistano, causando una ventina di vittime, tra cui, con ogni probabilità, una buona parte di civili innocenti.
LA GUERRA AL TERRORE. Ancor più della riforma sanitaria o di qualsiasi altro provvedimento interno, ciò che ha fin qui caratterizzato in maniera drammatica la presidenza Obama è proprio il ricorso ai droni come arma suprema nella lotta al terrorismo e tutte le sue implicazioni. I droni vengono oggi utilizzati per colpire gruppi bollati indistintamente come terroristi, dediti piuttosto in buona parte, per quanto riguarda il Pakistan e l’Afghanistan, a combattere la decennale invasione delle loro terre oppure, nello Yemen, un regime che appare nient’altro che uno strumento dell’imperialismo americano, dal quale dipende per sopravvivere schiacciando qualsiasi spinta rivoluzionaria o indipendentista.
È la campagna dei droni, vertiginosamente aumentata e consegnata al controllo di esercito, forze speciali e CIA, a scandire così la progressiva concentrazione nell’esecutivo di poteri praticamente assoluti, con conseguenze nefaste anche sul fronte domestico. Il ricorso a questa arma ha consegnato una totale discrezionalità all’inquilino della Casa Bianca nella decisione sulla vita o, più spesso, sulla morte di qualsiasi individuo accusato, al termine di un procedimento segreto e fuori dalla giurisdizione di qualsiasi tribunale, di essere un terrorista o un facilitatore del terrorismo.
Lo smantellamento di ogni diritto costituzionale garantito quanto meno ai propri cittadini ha avuto una sorta di punto di non ritorno il 30 settembre 2011, quando la drammatica escalation dell’illegalità sanzionata dal governo di Washington ha portato alla firma di Obama di un ordine che ha autorizzato due droni Predator a lanciare una serie di missili Hellfire contro un veicolo che viaggiava nella provincia di al-Jawf, in Yemen, a bordo del quale si trovava il predicatore radicale Anwar al-Awlaki, cittadino americano nato nel Nuovo Messico, accusato di avere progettato attentati in territorio statunitense.
La condanna a morte di Awlaki è stata eseguita senza l’apertura di alcun procedimento formale e senza passare attraverso il giudizio di una corte, ma soltanto in seguito alla decisione unica e inappellabile del presidente Obama in quanto vertice del potere esecutivo e comandante in capo degli Stati Uniti nel pieno di una guerra al terrore dai contorni sempre più indefiniti. La morte di Awlaki, inoltre, sarebbe stata seguita di lì a pochi giorni da un’altra esecuzione al di fuori di ogni legittimità legale, quella cioè del figlio appena 16enne Abdulrahman, anch’egli con passaporto USA e colpevole di trovarsi in compagnia di alcuni presunti affiliati ad Al-Qaeda.
Il deterioramento del clima democratico a Washington è stato macabramente sottolineato, tra l’approvazione di media e commentatori mainstream, dalle dichiarazioni ufficiali che hanno seguito i due assassini, riguardo ai quali esponenti dell’amministrazione Obama hanno successivamente parlato, a proposito del primo, di una decisione facile da prendere per il presidente, e riguardo al secondo, affermando che il 16enne nato a Denver, in Colorado, avrebbe dovuto avere dei “genitori più responsabili”.
Le basi di una potenziale trasformazione degli Stati Uniti in uno stato di polizia sono state così di fatto gettate dall’amministrazione Obama, come hanno confermato in maniera dettagliata almeno due indagini di New York Times e Washington Post, i quali hanno descritto come il presidente democratico abbia creato una vera e propria lista nera su cui finiscono i sospettati di terrorismo da eliminare senza nessuna garanzia di giusto processo e senza che il pubblico conosca i criteri con cui vengono prese simili decisioni in totale segretezza da una manciata di uomini.
Secondo il New York Times, così, nel corso di riunioni settimanali che prendono il nome di “martedì del terrore”, Obama dà la sua approvazione personale ad ogni assassinio che viene deciso, mentre il Washington Post ha più recentemente rivelato come il presidente e il suo principale consigliere per la lotta al terrorismo, John Brennan, stiano lavorando all’istituzionalizzazione di questo sistema, spazzando via qualsiasi garanzia costituzionale per gli obiettivi della macchina da guerra statunitense.
Ciò che più colpisce riguardo a simili rivelazioni, che avrebbero potuto avviare un procedimento di impeachment per il presidente, è il silenzio pressoché assoluto di media e commentatori di qualsiasi orientamento politico, in particolare quelli liberal, impegnati piuttosto nel promuovere la rielezione di Barack Obama, puntualmente definito come il male minore di fronte alla minaccia di un ritorno al potere dei repubblicani, nonostante i trascurabili errori o passi falsi commessi in questi quattro anni.
LA POLITICA ESTERA. Negli ultimi due anni, l’amministrazione Obama è stata inoltre costretta ad assistere agli sconvolgimenti provocati in Medio Oriente e in Africa settentrionale da una serie di eventi unificati sotto lo slogan di “Primavera Araba” che hanno messo in serio pericolo gli interessi dell’imperialismo statunitense.
Con l’esplosione di rivolte nel mondo arabo che hanno da subito evidenziato forti connotazioni anti-americane, il governo di Washington si è trovato del tutto spiazzato, appoggiando inizialmente dittatori e autocrati mostratisi affidabili per decenni. Emblematico in questo senso è stato il caso egiziano, dove l’ex presidente Hosni Mubarak è stato sostenuto dagli Stati Uniti fino a quando è stato possibile, per poi liquidarlo in fretta e furia non appena la sua fine è risultata segnata dalle manifestazioni oceaniche di protesta.
Vista perciò l’impossibilità di continuare a puntare su despoti fedeli, l’amministrazione Obama ha fatto proprie le rivendicazioni democratiche avanzate dalle masse arabe e, in seconda battuta, per contenerne le potenzialità rivoluzionarie, ha finito per promuovere forze reazionarie come i movimenti di ispirazione islamica (in Egitto e in Tunisia) o l’esercito (in Egitto). La doppiezza e il cinismo della politica americana nell’approccio alla Primavera Araba sono però apparsi in tutta la loro evidenza nei casi, ad esempio, di Bahrain e Arabia Saudita, dove, al di là di blandi ammonimenti ai rispettivi regimi, Washington ha appoggiato in pieno la repressione nel sangue dei movimenti di protesta.
Nella vicenda della Libia, invece, gli Stati Uniti di Obama sono intervenuti direttamente per rovesciare un regime sgradito sfruttando le proteste esplose in maniera più o meno spontanea. Qui Washington, dopo avere manipolato la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che imponeva una no fly-zone nel paese, in collaborazione con altri paesi della NATO ha contribuito in maniera decisiva al rovesciamento di Gheddafi tramite il massiccio finanziamento dei “ribelli” e bombardamenti a tappeto.
In Libia a giocare un ruolo fondamentale per legittimare un intervento imperialista sono state le motivazioni di natura umanitaria, le stesse che stanno guidando la strategia di Obama nei confronti della Siria, dove il sostegno all’opposizione ad Assad si concretizza in un via libera all’operato di gruppi fondamentalisti contro i quali è stata ufficialmente combattuta la guerra al terrore nell’ultimo decennio.
La politica USA in Medio Oriente durante i quattro anni della presidenza Obama ha fatto segnare passi indietro anche in relazione alla questione palestinese, attorno alla quale l’ottimismo iniziale per la riapertura dei colloqui di pace ha ben presto lasciato spazio ad una situazione di stallo, e all’Iran.
Sul programma nucleare di Teheran sono stati convocati una serie di vertici tra i rappresentanti della Repubblica Islamica e i P5+1 (USA, Cina, Russia, Francia, Gran Bretagna e Germania), così come secondo alcune indiscrezioni giornalistiche dopo il voto negli Stati Uniti potrebbero avere luogo incontri bilaterali. Queste iniziative non hanno portato in ogni caso a significativi progressi e, anzi, l’Iran si ritrova a subire gli effetti di sanzioni senza precedenti che hanno causato una crisi economica le cui conseguenze gravano sulla maggior parte della popolazione locale.
Dietro alla retorica della necessità di perseguire una soluzione diplomatica e pacifica alla crisi del nucleare iraniano c’è in realtà la determinazione da parte di Obama di imporre gli interessi del proprio paese che, in seguito alle occupazioni di Afghanistan e Iraq, e ancor più dopo il sostanziale fallimento dell’operazione lanciata dall’amministrazione Bush nel 2003, prevedono un cambiamento di regime a Teheran per portare sotto l’influenza americana un’ampia regione strategicamente fondamentale che va dal Mediterraneo all’Asia centrale.
Gli anni di Obama alla Casa Bianca hanno però anche segnato il ritorno in maniera prepotente degli Stati Uniti in Estremo Oriente in risposta all’espansionismo cinese. Fin dai primi mesi della sua presidenza e tramite il conferimento del ruolo di Segretario di Stato a Hillary Clinton, Obama ha sancito la “svolta” asiatica del suo paese, così da mantenere il controllo su un’area dove transita buona parte del traffico commerciale del pianeta. La ritrovata aggressività USA in Asia si è concretizzata con il rafforzamento di legami diplomatici e militari con alleati vecchi e nuovi, alimentando le tradizionali rivalità tra questi ultimi e Pechino, soprattutto facendo leva su annose rivendicazioni territoriali in lembi di terra nel Mare Cinese Orientale e Meridionale, il tutto facendo aumentare vertiginosamente i rischi di un conflitto rovinoso e di vasta scala
L’ECONOMIA. Come per la proiezione del potere americano nel mondo, anche sul fronte domestico la complicità della stampa liberal ha rappresentato un pilastro determinante per la messa in pratica delle politiche decise dall’amministrazione Obama, le quali vengono spesso propagandate come indiscutibili successi del primo mandato del presidente democratico. Così, la firma posta da Obama il 23 marzo 2010 sulla riforma sanitaria - ufficialmente “Patient Protection and Affordable Care Act” (PPACA) o “Obamacare” - è stata definita come una pietra miliare nella diffusione della copertura sanitaria a decine di milioni di americani ancora sprovvisti.
L’intero procedimento che ha portato alla difficile approvazione della legge ha avuto però al centro dell’attenzione delle varie parti coinvolte non tanto l’affermazione del diritto alle cure sanitarie per tutti i cittadini, bensì la riduzione dei costi sia per il settore pubblico che per quello privato ed un conseguente deterioramento delle prestazioni offerte. Ciò è risultato da subito chiaro con l’accantonamento di qualsiasi ipotesi di creare un piano di assistenza pubblico da affiancare al monopolio delle assicurazioni private. Il risultato è stata una legislazione che ha imposto a tutti gli americani, ad esclusione di quelli con redditi minimi, l’acquisto di una polizza privata da ottenere in alcuni casi con sussidi federali. La legge, non a caso, è stata redatta con il contributo delle stesse compagnie assicurative private, le quali, ritrovandosi con una valanga di nuovi potenziali clienti, hanno fornito tutto il loro sostegno al provvedimento.
Allo stesso modo, quattro mesi più tardi sarebbe giunta anche l’approvazione di un’altra “riforma” estremamente sofferta, quella che avrebbe dovuto imporre regole più severe per l’industria finanziaria responsabile della crisi esplosa nell’autunno del 2008. La legge, firmata dai membri del Congresso democratici Barney Frank e Christopher Dodd, da cui prende il nome, così come la miriade di regolamenti per la sua implementazione, è stata partorita con il contributo dei rappresentanti delle stesse grandi banche di investimenti, le quali si sono sostanzialmente assicurate la possibilità di continuare ad operare senza freni.
L’impossibilità di uscire da un sistema totalmente influenzato dai grandi interessi economico-finanziari e di un apparato militaristico in continua espansione, è la questione fondamentale da tenere in considerazione per comprendere l’inevitabilità del fallimento del progetto di cambiamento prospettato da Obama quattro anni fa e ora riproposto agli elettori per portare a termine il lavoro impostato nel corso del primo mandato.
I successi autenticamente progressisti propagandati dai suoi sostenitori si possono perciò circoscrivere a iniziative di impatto limitato, spesso legate alle politiche identitarie, come ad esempio la revoca della norma del “Don’t ask, don’t tell”, che vietava il servizio militare a coloro che si dichiaravano apertamente omosessuali, oppure la fine delle discriminazioni tra uomini e donne per quanto riguarda le retribuzioni nelle aziende pubbliche e private. Sulle questioni cruciali, tuttavia, la politica dell’amministrazione Obama è stata quasi interamente rivolta al salvataggio del sistema capitalistico americano dalla crisi strutturale esplosa proprio in concomitanza con il trionfo elettorale del presidente nel 2008.
Tutte le iniziative messe in atto a questo scopo sono state presentate invariabilmente come misure destinate a beneficiare la classe media e i lavoratori, base elettorale imprescindibile per ogni successo democratico alle urne. Così, la gestione della crisi di General Motors e Chrysler nel 2009 è stata il laboratorio della politica industriale di Obama e l’esito della bancarotta controllata ha prodotto conseguenze pesantissime per i lavoratori di qualsiasi settore. A pochi mesi dal suo insediamento, infatti, il presidente aveva annunciato l’intervento del governo per salvare dal tracollo i due colossi dell’auto di Detroit, rimettendo in sesto le due società in tempi relativamente brevi.
Di questo intervento, che oggi in campagna elettorale viene presentato come fondamentale per il mantenimento di decine di migliaia di posti di lavoro negli Stati Uniti, Obama e il suo team evitano però scrupolosamente di discutere il prezzo pagato dai lavoratori in termini di riduzione di stipendi, benefici e diritti, implementati forzatamente anche grazie alla collaborazione delle principali organizzazioni sindacali. La promessa di Obama di raddoppiare le esportazioni durante la sua presidenza ha comportato la decisione di creare una manodopera a basso costo e impoverita, così da incentivare le aziende a tornare ad investire negli Stati Uniti, dove sono certe di trovare condizioni sempre meno distanti da quelle presenti nei paesi emergenti.
ANCORA QUATTRO ANNI? Dei paesi emergenti sono in definitiva molte le caratteristiche della società americana che Barack Obama ha contribuito a modellare nel corso del suo primo mandato. Gli Stati Uniti che si apprestano a scegliere il prossimo presidente sono infatti un paese che continua a fare segnare un livello altissimo di disoccupazione e sotto occupazione, mentre i tassi di povertà e le disparità economiche e sociali risultano senza precedenti negli ultimi tre decenni, a conferma del colossale trasferimento di ricchezza avvenuto in questi anni sotto la supervisione dell’amministrazione democratica.
Tutto ciò non è sfuggito alla maggioranza degli americani che, per la metà o poco meno, nemmeno si recherà alle urne martedì oppure in maniera massiccia deciderà di fare una scelta diversa nell’assegnazione del proprio voto rispetto al 2008. L’equilibrio persistente indicato dai sondaggi nelle ultime settimane indica anche una sostanziale indistinguibilità tra Obama e Mitt Romney e la sensazione diffusa che, chiunque entrerà alla Casa Bianca a gennaio, ciò che attende l’America sono nuove guerre e assalti alle condizioni di vita di decine di milioni di persone.
Il nodo centrale nel trarre un bilancio dei quattro anni del primo presidente di colore della storia degli Stati Uniti risiede dunque probabilmente nella presa d’atto del divario incolmabile, all’interno di questo sistema politico, tra una classe dirigente al servizio esclusivo dei poteri forti e la vastissima maggioranza della popolazione americana.