di Michele Paris

Un recente articolo del Washington Post ha rivelato come nell’ultimo periodo i “ribelli” armati in Siria stiano ricevendo massicce forniture di armi dall’estero, in gran parte grazie agli sforzi dei paesi del Golfo Persico e sotto il “coordinamento” di Washington. La notizia conferma le intenzioni di questi governi di voler far precipitare la situazione nel paese mediorientale, alimentando le violenze e lo scontro con il regime di Assad, nonostante sia tuttora in corso la missione ONU promossa da Kofi Annan per cercare di trovare una soluzione pacifica ad un conflitto che si trascina ormai da oltre un anno.

Ufficialmente, gli Stati Uniti provvedono alla fornitura soltanto di “materiale non letale” all’opposizione siriana ma, di fatto, facilitano il trasferimento di armi appoggiando l’impegno in questo senso delle monarchie assolute del Golfo, le quali, come Washington, auspicano un cambio di regime a Damasco per infliggere un colpo mortale all’Iran.

Nonostante il presunto atteggiamento cauto degli americani, scrive il Washington Post citando anonimi funzionari del Dipartimento di Stato, l’amministrazione Obama sta comunque intensificando i contatti con i ribelli armati, per cercare di promuovere l’unità delle fazioni che ne fanno parte e per coordinare le iniziative contro le forze di sicurezza del regime.

Questo impegno viene puntualmente descritto come inevitabile per il governo americano, dal momento che la situazione in Siria continua a precipitare a causa della repressione senza scrupoli di Assad, lasciando ben poche speranze ad una soluzione negoziata della crisi. In realtà, la situazione sta precipitando anche e soprattutto a causa dell’atteggiamento degli USA e dei loro alleati nel mondo arabo che, come dimostra la massiccia fornitura di equipaggiamenti militari, cercano di alimentare il caos nel paese per giustificare una qualche forma di intervento esterno.

Secondo il Washington Post, mentre i ribelli fino a un paio di mesi fa erano a corto di armi, ora il materiale bellico abbonda nei depositi di Damasco, Idlib e Zintan, queste ultime due località al confine rispettivamente con Turchia e Libano, da dove transitano principalmente le forniture dirette all’opposizione.

Il nuovo flusso di armi verso la Siria sarebbe la conseguenza della decisione presa recentemente da paesi come Arabia Saudita e Qatar di sborsare centinaia di milioni di dollari per finanziare le operazioni anti-Assad nel paese. Il denaro proveniente dal Golfo finisce soprattutto per beneficiare quelle fazioni che avanzano l’agenda delle monarchie sunnite, a cominciare dai Fratelli Musulmani che, proprio grazie a questi appoggi esterni, si sono assicurati una posizione di spicco all’interno della struttura organizzativa dell’opposizione siriana.

L’importanza del ruolo giocato comunque dagli Stati Uniti è confermata dagli stessi esponenti dell’opposizione, i quali hanno rivelato di essere in contatto diretto con il Dipartimento di Stato americano per indicare a quali gruppi debbano essere indirizzate le forniture di armi.

Dopo le ritirate nei mesi scorsi da località propagandate come simbolo della resistenza dai media occidentali, come il quartiere di Baba Amr a Homs, i ribelli si ritrovano dunque ora sufficientemente equipaggiati per riprende l’avanzata e mettere in atto azioni sempre più spregiudicate. Un’evoluzione che, come dimostrano gli episodi sanguinosi di questi giorni, minaccia di aggravare la crisi, spingendo la Siria verso la guerra civile.

Ad aumentare le tensioni è stata inoltre l’altro giorno la diffusione della notizia, riportata da alcuni media russi, che gruppi di militanti anti-Assad sarebbero stati inviati in Kosovo per ricevere addestramento sulle tattiche di guerriglia. La rivelazione ha suscitato l’immediata condanna da parte del Cremlino, da dove da tempo già si punta il dito contro i governi occidentali, accusati di fomentare le violenze in Siria e di essersi schierati apertamente con l’opposizione per rovesciare il regime alleato di Mosca.

Lo stesso articolo del Washington Post ha infine evidenziato un’altra iniziativa degli Stati Uniti che potrebbe aumentare il caos in Siria nonostante l’appoggio formale al piano di pace di Kofi Annan. Esponenti dell’amministrazione Obama avrebbero cioè incontrato questa settimana una delegazione della minoranza curda siriana, finora rimasta in gran parte neutrale nel conflitto per il timore di finire nuovamente emarginata in un eventuale futuro regime a maggioranza sunnita.

Durante il meeting, gli americani, con ogni probabilità promettendo in cambio qualche concessione dal prossimo regime, avrebbero cercato di convincere i leader curdi in Siria a schierarsi apertamente contro Assad e ad aprire un secondo fronte nel paese per contribuire al logoramento delle forze di sicurezza di Damasco. Com’è ovvio, l’allargamento del conflitto porterebbe a nuove violenze in aree del paese fino ad oggi relativamente risparmiate dalle ostilità.

In uno scenario nel quale la possibilità di un intervento armato esterno appare ancora lontana, a causa della ferma opposizione di Russia e Cina nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, il rafforzamento delle opposizioni armate appare per gli USA e i loro alleati la soluzione migliore per giungere al cambio di regime a Damasco, anche se il Pentagono ha da tempo preparato i piani per un’ipotetica azione militare in Siria.

I presunti rappresentanti dei ribelli che operano sul campo, intanto, martedì hanno proceduto ad estendere per altri tre mesi il mandato alla guida del Consiglio Nazionale Siriano (CNS) di Burhan Ghalioun. La decisione, presa durante un incontro a Roma, ha provocato le polemiche di molti membri del CNS, poiché in precedenza era stata stabilita una rotazione alla presidenza del comitato esecutivo del gruppo, mentre Ghalioun si trova ora ad iniziare il suo terzo mandato.

Il CNS è d’altra parte attraversato da profonde divisioni tra le varie fazioni che lo compongono, sintomo principale della sua sostanziale impopolarità tra la grande maggioranza della popolazione siriana che vorrebbe rappresentare.

Nonostante riceva l’appoggio incondizionato e i massicci finanziamenti dell’Occidente e dei paesi del Golfo e trovi quotidianamente nei media mainstream un’ampia cassa di risonanza, il CNS continua a distinguersi per la mancanza di coordinamento tra i propri membri, la struttura rigida e anti-democratica ed è esposto all’eccessiva influenza dei Fratelli Musulmani a discapito delle fazioni secolari. Molti dissidenti hanno perciò abbandonato in polemica il CNS sia prima che dopo la discussa rielezione di Ghalioun.

A testimoniare dello stato in cui si trova l’organo su cui punta Washington per assicurare una transizione verso un nuovo regime a Damasco meglio disposto verso i propri interessi ha contribuito il parere espresso qualche giorno fa al Wall Street Journal dal veterano dissidente siriano Fawaz Tello. Quest’ultimo, dopo aver lasciato recentemente la Siria proprio per collaborare con i vertici del CNS a Parigi e a Istanbul, ha definito il Consiglio stesso “un cadavere che l’intera comunità internazionale sta cercando disperatamente di resuscitare”.

di Michele Paris

A poche settimane dall’avvio ufficiale della campagna elettorale per le presidenziali negli Stati Uniti, i due principali candidati alla Casa Bianca si stanno scontrando in questi giorni sulla delicata questione delle responsabilità del settore finanziario d’oltreoceano nella crisi economica e sulla sua regolamentazione. I toni populisti di Obama si scontrano con la difesa pressoché totale di Wall Street da parte di Mitt Romney, anche se la retorica elettorale nasconde una realtà ben diversa, cioè il completo asservimento di entrambi i partiti all’oligarchia finanziaria americana.

Questa settimana, il presidente democratico ha lanciato una nuova campagna televisiva e sul web volta a screditare il rivale repubblicano, accusato di aver agito senza scrupoli durante gli anni trascorsi alla guida della compagnia operante nel private equity, Bain Capital. In particolare, il video prodotto dal team di Obama racconta di come la compagnia di Romney fece fallire un’acciaieria del Missouri nel 2001 dopo averla acquisita nel 1993, provocando la perdita del posto di lavoro per tutti e 750 i dipendenti, pur incassando dall’operazione qualcosa come 12 milioni di dollari.

Se la vicenda descritta dimostra efficacemente i disastri compiuti da simili compagnie e la condotta del miliardario mormone mentre operava nel private equity, quest’ultimo settore rappresenta tuttavia una consistente fonte di finanziamenti per lo stesso Obama.

Poco dopo la presentazione del video elettorale anti-Romney, infatti, il presidente ha partecipato ad una raccolta fondi esclusiva presso l’abitazione di Manhattan di Hamilton “Tony” James, presidente di Blackstone Group, la più importante compagnia statunitense del private equity. I partecipanti all’evento newyorchese con Obama hanno sborsato 35.880 dollari ciascuno per essere presenti, consentendo alla campagna elettorale del presidente di raccogliere più di due milioni di dollari in un colpo solo.

La doppiezza di Obama, il quale nel recente passato aveva più volte indicato Blackstone Group come uno degli esempi degli eccessi di Wall Street, ha costretto uno dei suoi portavoce a spiegare ai giornalisti che le critiche della Casa Bianca sono sempre state rivolte agli individui e non all’industria finanziaria in quanto tale. Come se non bastasse, da Bain Capital la campagna per la rielezione di Obama ha già ottenuto finanziamenti tra i 100 e i 200 mila dollari grazie agli sforzi nella raccolta fondi di Jonathan Lavine, uno dei top manager della compagnia che fu di Mitt Romney.

Gli attacchi di Obama all’ex governatore del Massachusetts e al mondo della finanza sono iniziati qualche giorno dopo la diffusione della notizia della perdita di 2 miliardi di dollari subita dalla banca d’affari JPMorgan Chase in seguito ad operazioni speculative condotte dall’ufficio di Londra.

Oltre a dimostrare che dopo quasi quattro anni dal crollo di Lehman Brothers, che innescò una rovinosa crisi planetaria, non sono state adottate misure efficaci per regolamentare il settore finanziario, la debacle di JPMorgan rappresenta un imbarazzo per entrambi i candidati alla Casa Bianca.

Solo per la campagna elettorale in corso, i dati del Center for Responsive Politics indicano che Barack Obama ha ottenuto finora 76.675 dollari dai dipendenti JPMorgan. Decisamente più alta è la cifra andata invece a Romney, di gran lunga il maggior beneficiario delle donazioni JPMorgan quest’anno con 373.650 dollari. Il CEO, Jamie Dimon, pur contribuendo solitamente per entrambi i partiti, ha peraltro prediletto quelli democratici, ai quali ha personalmente donato oltre 150 mila dollari dal 2007 ad oggi. Secondo i dati resi pubblici martedì, infine, la famiglia Obama dispone di un conto presso JPMorgan per una cifra compresa tra i 500 mila e il milione di dollari.

Sulla vicenda JPMorgan, nel corso di una recente intervista Obama ha sostenuto che simili esempi dimostrano come sia necessaria una più incisiva regolamentazione del settore finanziario, mentre Romney chiede addirittura l’abrogazione della già debole riforma approvata dai democratici nel luglio 2010 (Dodd-Frank Act). Tuttavia, ben consapevole dell’importanza del denaro di Wall Street per le sue possibilità di rielezione, il presidente ha avuto parole di elogio per JPMorgan, definita “una delle banche meglio gestite”, e per Jamie Dimon, a suo dire “uno dei banchieri più capaci”.

L’indulgenza di Obama è d’altra parte in sintonia con le rassicurazioni offerte più volte da egli stesso e dai membri del suo staff agli ambienti finanziari, come ha fatto lo scorso febbraio, secondo quanto riportato l’altro giorno da Bloomberg News, il responsabile della campagna elettorale del presidente, Jim Messina, il quale nel corso di un incontro con facoltosi donatori del Partito Democratico ha garantito che il presidente non intende in nessun modo demonizzare Wall Street.

Le uscite di Obama contro le élite economiche e finanziarie degli Stati Uniti sono dunque pure trovate propagandistiche che fanno leva sulla profonda avversione comprensibilmente diffusa nel paese verso i responsabili della crisi in corso.

Con un’economia che mostra solo debolissimi segnali di miglioramento, l’inquilino della Casa Bianca si ritrova perciò costretto a puntare su appelli populisti, accusando Wall Street per la precaria situazione interna. Tanto più che i sondaggi di questi giorni indicano una certa ripresa di Mitt Romney e ancora maggiori difficoltà in vista per il presidente se il quadro economico dovesse peggiorare nei prossimi mesi. Una recente indagine di USA Today e Gallup, ad esempio, indica come il 55% degli americani ritenga che l’economia migliorerebbe con Romney presidente, contro appena il 46% nel caso Obama dovesse riuscire a conquistare la rielezione il prossimo novembre.

di Bianca Cerri

Il DeWeese Carter Center è un carcere minorile di Baltimora dove negli ultimi mesi la violenza nei confronti dei giovani reclusi è aumentata del 25%. In cifre: ottocento ragazzi con meno di diciotto anni sono stati sottoposti a punizioni che non è esagerato definire disumane. In altri centri di detenzione giovanile del Maryland, i minori vengono incarcerati per mesi prima di essere ascoltati dal giudice o trasferiti in strutture che potrebbero agevolarne il recupero. Nella contea di Prince George la situazione è più grave che altrove.

Ragazzi che potrebbero facilmente essere aiutati vengono invece rinchiusi in cella con altri accusati di crimini di primo grado. “Molti di questi giovani avrebbero bisogno unicamente  di trattamenti disintossicanti”, dice Sam Abed, che ha lavorato due anni presso il segretariato ai servizi riservati ai minori. Purtroppo, il dipartimento di Stato pare si disinteressi completamente del problema. La situazione è resa ancora più grave dal sovraffollamento.

Rodney Stallworth, che oggi ha 18 anni, ha trascorso cinque mesi nel DeWeese Carter Center. “Le guardie non esitavano a picchiarci”, dice Stallworth. “Ogni giorno non facevano che gettare altro sale sulle nostre piaghe”, aggiunge. “Per recuperare questi ragazzi non c’è altro metodo che l’uso della forza”, ribattono i responsabili del Centro. Eppure, i dati dimostrano che il 45% per cento dei minori attualmente rinchiusi al DeWeese non aveva commesso reati violenti.

Secondo la legge, i  ragazzi di età inferiore a 18 anni dovrebbero essere trattenuti nei riformatori solo il tempo necessario per permettere al giudice di trovare loro un posto in un centro di riabilitazione. Secondo le associazioni che si occupano di minori in difficoltà invece molti vengono trattenuti per mesi e mesi in attesa che un giudice si ricordi di loro.

“Servirebbero trattamenti e programmi sportivi che aiutino i ragazzi a recuperare la stima in sé stessi”, dice Terry Hickey, direttore esecutivo della Community Law in Action, un’organizzazione che ha sede presso la Scuola di Legge del Maryland. “Un anno fa, un ragazzo è morto soffocato dalle corde che le guardie del riformatorio di Bowling Brook gli avevano stretto attorno al corpo”, racconta Hickey. Le guardie accusate di aver causato la morte del ragazzo sono state assolte da ogni accusa il 28 marzo,  a meno di dieci giorni dalla tragedia.

I vari tentativi fatti dalla Community Law Action per cambiare le cose non sono serviti a molto. Appena due mesi fa, il 19 marzo 2012, il Parlamento ha bocciato una proposta di legge che avrebbe vietato la detenzione nei riformatori di stato per i minori di 14 anni. Jim Brochin, senatore del Maryland eletto nella fila dei democratici e autore della proposta di legge, è molto deluso.

“Nessuno intende fare nulla per risolvere la crisi della giustizia minorile” ha detto Brochin al Baltimore Sun. “Io credo anzi che si disinteressino completamente del problema”. E che volete riabilitare? dicono”, ha aggiunto. Inutile dire che fra i ragazzi rinchiusi nei riformatori del Maryland almeno l’85% proviene da famiglie economicamente disagiate. La conferma arriva dal dottor Peter Leone, che da anni si occupa di giustizia minorile negli Stati Uniti. “Per le famiglie monoreddito, la vita è una lotta quotidiana e i figli ne risentono.

Poi ha aggiunto: “Molti genitori vorrebbero poter dare ai loro ragazzi le stesse cose dei coetanei più abbienti ma lo stipendio basta a malapena per acquistare generi alimentari. Secondo le scuole però si tratta di casi che riguardano solo uno sporadico numero di famiglie. D’altra parte, gli insegnanti sono spesso persone che non hanno mai fatto i conti con la miseria. In genere appartengono alla classe media, che non ha problemi economici e può permettersi di mandare i figli all’università “.

David Churra, che per 25 anni ha insegnato nei riformatori, condivide questa teoria. “La maggior parte dei miei colleghi non dimostrano nessuna sensibilità verso i ragazzi che provengono dai quartieri più poveri, dove prosperano droghe, abusi e razzismo”, dice Churra, aggiungendo che le politiche didattiche nei riformatori americani sono tra le più vergognose al mondo.

Lo stesso rapporto pubblicato dall’Ufficio del Procuratore Generale il 26 aprile scorso ammette che la giustizia minorile negli Stati Uniti presenta dei vuoti incolmabili. Non è raro che i ragazzi rinchiusi nei riformatori non riescano neppure a trovare un avvocato disposto ad assumerne la difesa come prevede la legge.  “Sono le autorità che dovrebbero vergognarsi di quello che fanno e non io” ha scritto Alfred E. Perez, un sedicenne arrestato per spaccio di pochi grammi di droga. “Io non mi vergogno affatto di ciò che sono. Io sono io ed è bene che le autorità se lo ficchino bene in testa. E adesso che ho fatto il mio discorsetto sono pronto a fare quel giretto”. Poi ha tagliato una striscia di stoffa da un lenzuolo e si impiccato senza che le guardie  facessero nulla per impedirlo.

 

 

 

di Michele Paris

Nel vertice del Consiglio di Cooperazione del Golfo Persico (GCC), andato in scena lunedì a Riyadh, i rappresentanti delle monarchie assolute alleate degli Stati Uniti non sono riusciti a raggiungere un accordo condiviso sulla proposta di creare una federazione tra i rispettivi governi per coordinare le principali questioni economiche, militari e di politica estera. Il progetto di unione era stato promosso dall’Arabia Saudita ed è volto a contenere più efficacemente i rigurgiti di rivolta nella regione e a creare un fronte di resistenza unito contro l’Iran.

L’incontro nella capitale saudita ha visto il ministro degli Esteri locale, Saud al-Faisal, cercare di convincere dell’opportunità di un’unione soprattutto i paesi più piccoli compresi nel GCC , i quali appaiono tutt’altro che entusiasti.

Ad annunciare il sostanziale fallimento del summit è stato lo stesso ministro saudita che, nella conferenza stampa di lunedì sera, ha però affermato che “i leader GCC hanno approvato la formazione di una commissione per continuare a studiare il progetto”. La commissione dovrà presentare le proprie conclusioni nel prossimo vertice dei paesi del Golfo, in programma a dicembre nella capitale del Bahrain, Manama.

L’idea di una federazione tra i regimi sunniti del Golfo Persico era stata lanciata per la prima volta nel dicembre 2011 dal sovrano saudita, Abdullah, nel corso di un appello ai vicini per unire le forze contro i pericoli che nella regione minaccerebbero la sicurezza di ogni singolo stato GCC, a cominciare dall’Iran sciita.

La riunione di lunedì era stata preceduta dalle voci di un imminente accordo per la creazione di un’unione tra Arabia Saudita e Bahrain come passo preliminare per il coinvolgimento degli altri paesi (Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar).

L’unione tra Arabia Saudita e Bahrain, alla luce delle sproporzioni tra i due paesi, si risolverebbe di fatto nella trasformazione di quest’ultimo paese in un protettorato di Riyadh e, inevitabilmente, nell’abbandono di qualsiasi timido progetto di riforma della casa regnante.

Tanto più che il Bahrain dipende già in buona parte dall’Arabia Saudita, dal momento che, secondo un accordo decennale, riceve dal potente vicino le entrate provenienti da un giacimento petrolifero saudita e che per il regime rappresentano circa il 70% dei proventi derivanti dal settore energetico.

Al contrario di quanto era stato annunciato, in ogni caso, dal vertice di lunedì non è uscito nemmeno l’accordo di federazione tra Arabia Saudita e Bahrain, messo da parte, secondo Saud al-Faisal, perché l’obiettivo unico di Riyadh sarebbe quello di unire tutti e sei i paesi aderenti al GCC.

Secondo quanto rivelato al Wall Street Journal dal Royal United Services Institute, un think tank con sede in Qatar, i diplomatici giunti a Riyadh per il summit avrebbero in realtà condotto frenetici negoziati fino alla vigilia dell’incontro, ma non sarebbero riusciti a trovare un’intesa perché alcuni paesi hanno chiesto più tempo per valutare approfonditamente tutti i dettagli della proposta saudita.

La decisione finale di mettere da parte anche il progetto di unione tra Arabia Saudita e Bahrain rivela comunque le divisioni all’interno degli stessi gruppi di potere dei due paesi, nonostante gli entusiasmi proclamati a livello ufficiale da Riyadh e Manama. Secondo alcuni giornali occidentali, per alcuni membri delle famiglie reali di Arabia Saudita e Bahrain una federazione sarebbe controproducente, in quanto provocherebbe un’ulteriore radicalizzazione degli oppositori, mentre a promuoverla sarebbero esclusivamente gli esponenti della linea dura nella gestione dei rapporti con l’Iran e del dissenso interno.

A spingere l’Arabia Saudita verso la promozione di rapporti più stretti con i propri vicini ha contribuito senza dubbio l’ondata di proteste esplose lo scorso anno nel mondo arabo. Tra i più autoritari del pianeta, il regime saudita è stato scosso dalla rapidità con cui la rivolta si è diffusa in Medio Oriente nel 2011, portando al crollo, ad esempio, di un alleato di ferro come Hosni Mubarak in Egitto. Toccata marginalmente dalle manifestazioni, l’Arabia Saudita ha risposto con l’adozione di limitati programmi pubblici per ammorbidire la popolazione e, soprattutto, con il pugno di ferro, intensificando la repressione allo spuntare di ogni minino segnale di malcontento.

Proprio il Bahrain rappresenta un punto fermo per la stabilità saudita. Da qui, infatti, la rivolta a maggioranza sciita scatenata lo scorso anno contro la monarchia sunnita al-Khalifa aveva parzialmente contagiato le regioni orientali dell’Arabia Saudita, ugualmente abitate da una significativa minoranza sciita.

Su richiesta del regime e con il via libera di Washington, nel marzo 2011 Riyadh inviò così un proprio contingente militare nel Bahrain per reprimere la protesta nel sangue, proprio mentre scoppiava la crisi siriana, nella quale i sauditi hanno da subito cercato di presentarsi come i difensori dell’opposizione democratica.

Per il regime del Bahrain, a sua volta, l’ipotesi di un’unione con l’Arabia Saudita è vista, almeno tra certe fazioni della casa regnante, come un potente strumento per garantire la stabilità di un paese che continua ad essere minacciato dal vento della rivolta. Al contrario, paesi come Kuwait, Oman e Qatar vedono invece con sospetto l’ingresso in una federazione che comprometterebbe la propria sovranità a tutto vantaggio del potente vicino.

Contro il progetto di federazione si sono ovviamente espressi gli esponenti dell’opposizione in Bahrain, alcuni dei quali hanno però messo in risalto come la disponibilità della famiglia al-Khalifa a cedere parte della propria sovranità all’Arabia Saudita riveli la debolezza del regime dopo oltre un anno di proteste popolari. L’unione, d’altro canto, potrebbe produrre un certo coordinamento anche tra le forze di opposizione (sciite) di entrambi i paesi, verosimilmente risvegliando la combattività di quelle saudite.

La condanna dei progetti discussi lunedì a Riyadh, in particolare quelli relativi al Bahrain, è arrivata puntualmente anche dall’Iran, contro la cui espansione era nato il Consiglio di Cooperazione del Golfo Persico nel 1981. A Teheran, infatti, 190 parlamentari l’altro giorno hanno messo la loro firma su una dichiarazione nella quale si afferma che, con un’eventuale unione tra i due paesi, “la crisi in Bahrain verrebbe spostata all’Arabia Saudita, spingendo la regione verso una maggiore instabilità”.

di Emanuela Pessina

BERLINO. Nuova sconfitta elettorale per la Cancelliera Angela Merkel (CDU), che in Nord Reno Vestfalia ha toccato domenica il punteggio più basso mai raggiunto dai cristianodemocratici da oltre sessant’anni. Dopo aver lasciato sul campo l’ex-presidente francese Nicolas Sarkozy, il partner europeo a lei più vicino nella politica fiscale di austerità per la salvezza della moneta unica, la Merkel sembra essere arrivata alla resa dei conti anche in casa, deludendo in uno degli appuntamenti elettorali più importanti a soli 16 mesi dalle generali.

La Cancelliera appare tuttavia ancora tranquilla e mantiene una certa sicura di sé: perché sa, probabilmente, di essere il perno attorno cui ruota il partito cristianodemocratico tedesco ed è cosciente di essere la figura politica più amata nel suo Paese. Se questo basterà a garantirle il potere, in Germania così come in Europa, rimane comunque tutto da vedere.

Ma i risultati elettorali nel Land nord-occidentale non lasciano spazio a dubbi o sfumature di nessun tipo: a vincere sono socialdemocratici (SPD) e Verdi, che si vedono riconfermare la maggioranza con il 51% dei voti, mentre l’Unione cristianodemocratica di Angela Merkel perde quasi 10 punti percentuali con il 26% dei consensi. Il Nord Reno Vestfalia è uno dei Laender più popolosi (un quarto dell’intera popolazione tedesca) e industrializzati di Germania e il suo peso politico è enorme: in molti lo considerano un banco di prova più che affidabile per le prossime elezioni generali, che si terranno a settembre 2013. Ne è consapevole anche la Cancelliera che, a questo proposito, aveva candidato a Governatore del Land l’attuale ministro dell’Ambiente, Norbert Roettgen, sacrificando uno dei suoi uomini migliori. Alla luce dell’esito negativo delle regionali, Roettgen rischia ora di perdere anche la poltrona a Berlino.

A essere premiata dai cittadini è stata invece Hannelore Kraft, la candidata socialdemocratica, che, con l’SPD, ottiene il 39% dei consensi rivendicando crescita economica, allentamento del rigore monetario, solidarietà e occupazione. Sono in molti, tra le fila dell’opposizione, a vederla come possibile candidata anti-Merkel per il 2013: una sfida tutta al femminile, quindi.

Tra i partner di coalizione più probabili per l’SPD nel Nord Reno Vestfalia ci sono i Verdi, con il 12% dei voti. Rimontano anche i liberali (FDP) con l’8% dei consensi, un piccolo traguardo che non basta comunque a cambiare le sorti dell’Unione. Tengono duro i Pirati, che ottengono il 7% dei seggi.

Dopo le recenti presidenziali in Francia, che hanno “ghigliottinato” Nicolas Sarkozy, il partner di Angela Merkel nelle questioni fiscali europee, ora anche la Germania stessa sembra voltare le spalle alla Cancelliera: la sua solitaria posizione nella questione fiscale dell’Eurozona sta creando impopolarità ovunque. La sconfitta storica dei cristianodemocratici in Nord Reno Vestfalia da’ maggior sicurezza ai leader socialdemocratici di opposizione, più decisi che mai a combattere contro le misure che la Cancelliera considera indispensabili per una soluzione della crisi del debito dell'Eurozona.

Il risultato potrebbe inoltre incoraggiare il neo presidente francese Francois Hollande a convincere la Merkel ad allentare le sue posizioni sui tagli al bilancio e le riforme strutturali in funzione della crescita. Per Hollande, tra l’altro, è previsto in questi giorni un incontro con la Cancelliera a Berlino.

Eppure Angela Merkel appare tranquilla, sicura di sé e sempre poco disposta ad accettare compromessi, tanto a livello europeo quanto nazionale. Forse perché i sondaggi tedeschi le  attribuiscono il 70% dei consensi dei suoi cittadini. Alla Merkel, probabilmente, il rischio di perdere la poltrona di Berlino, insieme all’autorità nell’Unione europea, appare lontano.

I più maligni notano però che l’Unione cristianodemocratica punta troppo sulla sua Cancelliera, tanto che dietro la sua imponente figura non ci sarebbe nulla, accusa qualcuno. Programma e proposte di poco spessore e un’indecisione generale che deriva dalla debolezza dei partner liberali, così come un continuo susseguirsi di personalità politiche poco rilevanti o addirittura discusse, da von Guttemberg. a Wulff e a Roettgen.

Che un gran carisma basti a garantirle il successo nella sua crociata solitaria per la salvezza della politica di rigore è poco probabile: il primo test in questo senso si avrà dall’esito dell’incontro con Hollande. E il rischio è che, più che misurarsi con l’inversione di rotta che chiedono Usa e una parte dell’Europa, debba misurarsi con ancora minori possibilità di successo contro gli stessi tedeschi, che vedono già le prime nubi della crisi addensarsi sula Germania.
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