di Michele Paris

Subito dopo la chiusura delle urne lo scorso 6 novembre, al centro del dibattito politico negli Stati Uniti ha come previsto fatto irruzione la presunta emergenza fiscale che si potrebbe abbattere sull’economia americana il primo gennaio prossimo se non verrà raggiunto un qualche accordo bipartisan tra democratici e repubblicani. Ad inserirsi nella discussione sul cosiddetto “fiscal cliff” è stato nella giornata di mercoledì anche un presidente Obama che, nella sua prima conferenza stampa dopo la rielezione, ha assicurato di essere pronto per una battaglia con il Partito Repubblicano dalla quale, qualunque sarà l’esito, a uscire sconfitti saranno comunque lavoratori, pensionati e classe media.

Entrato ormai a far parte del vocabolario politico d’oltreoceano e non solo, il termine “fiscal cliff” (“precipizio fiscale”) era stato usato per la prima volta lo scorso febbraio nel corso di un’audizione alla Camera dei Rappresentanti dal governatore della Fed, Ben Bernanke, per definire una serie di tagli alla spesa pubblica e l’estinzione dei benefici fiscali adottati per la prima volta nel 2001 che potrebbero scattare simultaneamente all’inizio del nuovo anno.

Quella che viene definita oggi come una vera e propria catastrofe che potrebbe travolgere un’economia USA ancora in affanno è in realtà il frutto di un’intesa siglata nell’estate del 2011 tra l’amministrazione Obama e i repubblicani al Congresso nell’ambito delle trattative sull’innalzamento del tetto del debito pubblico americano. In quell’occasione venne stabilito che, in assenza di un futuro accordo per la riduzione del debito federale, sarebbero appunto entrati in vigore tagli automatici alla spesa e aumenti delle tasse pari a oltre 600 miliardi di dollari.

Un accordo di ampio respiro su tali questioni è stato più volte rimandato da entrambi i partiti, i quali alla fine hanno opportunamente stabilito di fissare un ultimatum per il primo gennaio 2013, così da potere raggiungere un punto d’incontro su provvedimenti che causeranno un netto peggioramento delle condizioni di vita per decine di milioni di americani solo a urne chiuse.

L’emergenza “fiscal cliff” viene trattata in questi giorni dai media mainstream con toni apocalittici, in modo da convincere gli americani che la scadenza artificiale fissata da democratici e repubblicani rappresenti una sorta di minaccia senza precedenti da affrontare con soluzioni drastiche e impopolari, a cominciare dal ridimensionamento di programmi pubblici come Medicare, Medicaid e Social Security.

La necessità di sottrarsi allo spettro del “fiscal cliff” viene allo stesso modo affermata dai grandi interessi economici e finanziari del paese, i quali si sono ritrovati tra le mani uno strumento da utilizzare per contenere l’opposizione popolare nei confronti di politiche che verranno prese nelle prossime settimane a loro totale beneficio. Ciò che esclude quasi certamente lo scivolamento degli Stati Uniti verso il precipizio fiscale è inoltre il timore della classe politica di Washington per i consistenti tagli previsti anche per il settore militare.

Nonostante gli exit poll durante il recente voto per le presidenziali abbiano indicato chiaramente come il problema del debito sia stata la principale preoccupazione per non più di un elettore su dieci, esso è balzato dunque in cima alla lista delle questioni da affrontare senza esitazioni. Del “fiscal cliff” ha parlato l’altro giorno anche il presidente Obama di fronte ai giornalisti alla Casa Bianca, riaffermando la volontà della sua amministrazione di respingere qualsiasi formula che non comprenda la fine dei tagli alle tasse per i redditi superiori ai 250 mila dollari l’anno.

La posizione della Casa Bianca, già affermata e poi abbandonata nel 2010 all’indomani della vittoria repubblicana nelle elezioni di medio termine, non è tuttavia così ferma come potrebbe apparire a prima vista. Obama, infatti, ha lasciato intendere di essere disponibile ad un compromesso che porti le aliquote massime a livelli inferiori a quelli in vigore durante l’amministrazione Clinton, recuperando poi la parte di introiti mancanti con l’abolizione di alcune scappatoie legali che consentono di ridurre il prelievo fiscale e con la cancellazione di molte deduzioni di cui beneficia soprattutto la classe media.

L’aliquota massima durante l’amministrazione Clinton era del 39%, mentre con i tagli introdotti da George W. Bush è scesa al 35%, livello a cui si trova attualmente. Al momento, lo speaker repubblicano della Camera, John Boehner, sostiene di essere del tutto contrario a qualsiasi aumento delle aliquote più elevate ma non esclude di dare il proprio assenso alla proposta di mettere fine alle deduzioni fiscali, così che un possibile accordo a metà strada con un limitato aumento delle aliquote massime sembra essere a portata di mano.

Anche se Obama dovrebbe avere quest’anno una maggiore influenza nelle trattative con i repubblicani in seguito alla sua rielezione e ai progressi dei suoi colleghi di partito al Congresso, è tutt’altro che certo che il presidente intenda utilizzarla fino in fondo o che essa sarà sufficiente per superare le resistenze di un partito che ha conservato una solidissima maggioranza alla Camera.

La determinazione di Obama di far pagare più tasse alle classi privilegiate appare, in ogni caso, poco più di una farsa, come lo è peraltro l’intera emergenza fabbricata ad arte del “fiscal cliff”. Qualsiasi aumento del carico fiscale per i ricchi americani avrà un’incidenza del tutto trascurabile, mentre in cambio verranno adottati pesantissimi tagli alla spesa pubblica, come deve avere assicurato lo stesso presidente alla dozzina di amministratori delegati delle maggiori compagnie americane, riuniti mercoledì alla Casa Bianca.

Il vago principio di equità a cui Obama fa appello per affrontare la riduzione del debito non può nascondere il vero e proprio assalto che si sta preparando a programmi pubblici estremamente popolari. Come ha confermato in una recente intervista a Bloomberg News l’ex capo di gabinetto di Obama e già top manager di JP Morgan, William Daley, nelle trattative con i repubblicani per un “grande accordo” sul “fiscal cliff” la Casa Bianca partirà in gran parte dall’offerta che aveva proposto alla sua controparte nelle già ricordate negoziazioni dell’estate 2011.

Dell’entità delle misure considerate in quella circostanza ne ha dato un’idea qualche giorno fa il noto giornalista investigativo del Washington Post, Bob Woodward, durante un’apparizione alla NBC. Il reporter diventato famoso per aver rivelato i retroscena dello scandalo Watergate ha infatti presentato una copia fino ad ora segreta della proposta finale fatta da Obama a Boehner nel luglio 2011. Da essa, ha affermato Woodward, si deduce la volontà del presidente democratico di “tagliare qualsiasi cosa”, da Tricare (il programma di copertura sanitaria per i militari) a Medicare a Social Security. Sul fronte fiscale, invece, Obama “vuole abbassare le aliquote non solo per i singoli contribuenti ma anche per le aziende”.

I tagli a questi programmi pubblici che si prospettano sotto la gestione democratica saranno senza precedenti e, va ricordato, non sono mai stati possibili in passato nemmeno durante le precedenti amministrazioni repubblicane più conservatrici a causa della decisa opposizione popolare. Concretamente, il punto di partenza della proposta di Obama include, tra l’altro, tagli a Medicare pari ad almeno 250 miliardi di dollari entro il 2012 e a 800 miliardi nel decennio successivo. Per Sociali Security si parla di 112 miliardi in meno in dieci anni, di 16 miliardi per Tricare, altrettanti per i fondi destinati all’educazione superiore e così via.

La riforma fiscale “equa” in preparazione prevede invece misure che “migliorino la competitività internazionale” delle aziende americane, nonché incentivi per le compagnie che vorranno investire negli USA. In altre parole, si cercherà di creare un clima favorevole al business abbassando le tasse sui profitti delle corporation, da compensare con tagli alla spesa pubblica per programmi destinati alle classi più disagiate.

Simili iniziative, molto difficilmente potrebbero essere adottate senza la campagna mediatica fuorviante in atto, ma anche senza il supporto decisivo delle organizzazioni sindacali che hanno il compito di neutralizzare l’opposizione dei lavoratori americani. L’amministrazione Obama può però contare sulla connivenza dei sindacati ufficiali che, dopo avere speso centinaia di milioni di dollari per la rielezione del presidente democratico, hanno confermato di essere sulla stessa lunghezza d’onda di quest’ultimo anche in seguito all’incontro organizzato alla Casa Bianca martedì per discutere appunto delle misure legate al “fiscal cliff”.

Ben consapevole di ciò che attende la maggioranza degli americani, compresi gli affiliati alla sua organizzazione, Richard Trumka, presidente dell’AFL-CIO, la più grande federazioni sindacale degli Stati Uniti, dopo il vertice con Obama si è nondimeno presentato alla stampa affermando il suo impegno e quello degli altri sindacati per “assicurare che la classe media e i lavoratori non finiscano per pagare il conto di una festa a cui non hanno partecipato”.

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