di Michele Paris

Nella serata di martedì è stata approvata in maniera definitiva una contestatissima legge anti-sindacale dal parlamento locale del Michigan, lo stato americano sede dei tre colossi dell’auto e tradizionalmente considerato il simbolo stesso della forza delle organizzazioni che dovrebbero difendere gli interessi degli operai. Tra le proteste di migliaia di iscritti al sindacato, la legislatura statale a maggioranza repubblicana della capitale, Lansing, ha così inviato la cosiddetta legge sul “diritto al lavoro” al governatore, l’ex uomo d’affari anch’egli repubblicano, Rick Snyder, che l’ha immediatamente firmata, consentendone l’entrata in vigore tra poco più di tre mesi.

Il provvedimento adottato martedì dallo stato del Michigan colpisce direttamente le organizzazioni sindacali dei lavoratori e le modalità del loro finanziamento. Esso infatti mette fuori legge a partire dal prossimo mese di aprile gli accordi collettivi che, come condizione per ottenere un impiego, prevedono un contributo automatico da versare ai sindacati da parte di tutti i lavoratori, compresi quelli non iscritti.

La mossa del Congresso statale e del governatore ha preso di sorpresa il Partito Democratico e i sindacati stessi, dal momento che Snyder aveva sempre sostenuto di non essere intenzionato a perseguire misure troppo controverse come quella appena approvata. Con la convinzione dei repubblicani di non incontrare un’eccessiva resistenza, la legge sul “diritto al lavoro” è stata però finalizzata in soli sei giorni e poi inserita in altri provvedimenti relativi allo stanziamento di fondi statali, così da rendere più complicato l’eventuale tentativo di abrogarla con un’eventuale futura iniziativa referendaria.

La legge ha suscitato non poco clamore poiché il Michigan è uno dei cinque stati americani con la quota più alta di lavoratori sindacalizzati - poco meno del 20% del totale - mentre ha ospitato, ad esempio, la nascita del potente sindacato degli operai del settore automobilistico (United Auto Workers, UAW), fondato a Detroit nel 1935. Il Michigan è diventato ora il 24esimo stato dell’Unione ad avere approvato una legge sul “diritto al lavoro” e il secondo nella regione industrializzata del Midwest, dopo l’Indiana.

Secondo i suoi sostenitori, la misura dovrebbe favorire l’occupazione attirando le imprese private alla ricerca di un ambiente “business-friendly”, ma anche consentire ai lavoratori di decidere più liberamente circa l’affiliazione ad una sigla sindacale. Al contrario di quanto suggerisce il nome, la legge, adottata senza un vero e proprio dibattito pubblico e da un Congresso statale al termine del proprio mandato, intende in realtà limitare il residuo potere rimasto ai lavoratori tramite la contrattazione collettiva, così da portare a termine nuovi assalti a diritti e retribuzioni.

Gran parte degli stati che hanno implementato leggi sul “diritto al lavoro” fanno segnare oggi i livelli più elevati di povertà del paese. Secondo uno studio dell’Economic Policy Institute, inoltre, i lavoratori in questi stati, sia quelli iscritti al sindacato che quelli non iscritti, guadagnano in media circa 1.500 dollari in meno all’anno rispetto al resto degli Stati Uniti.

In questo modo, con la scusa di facilitare la creazione di posti di lavoro, anche la classe dirigente del Michigan ha dunque fatto l’ennesimo regalo alle aziende dall’inizio della crisi economica in atto, nell’ambito di una drammatica ristrutturazione dei rapporti industriali negli Stati Uniti per cancellare progressivamente i diritti conquistati in decenni di durissime lotte sindacali.

La legge è stata criticata non solo dai vertici dei sindacati ma anche dal Partito Democratico e dallo stesso presidente Obama, il quale alla vigilia del voto aveva fatto un’apparizione proprio in Michigan, presso una fabbrica della tedesca Daimler a Detroit. Le loro proposte per rispondere agli attacchi lanciati contro i lavoratori, tuttavia, consistono in sterili iniziative, come la promozione di un referendum popolare per ottenere l’abrogazione della legge e soprattutto la subordinazione al Partito Democratico, così da garantire a quest’ultimo, considerato teoricamente più vicino agli interessi dei lavoratori, il successo nei prossimi appuntamenti con le urne, nel 2014 per il rinnovo della Camera bassa e nel 2015 per la carica di governatore.

Un percorso di questo genere tende sostanzialmente a sterilizzare l’opposizione e la resistenza dei lavoratori ed è una tecnica ben collaudata dalle associazioni sindacali americane. La stessa prospettiva fallimentare era stata avanzata in seguito alle massicce proteste esplose nel 2011 in Wisconsin dopo l’approvazione di una serie di assalti ai dipendenti pubblici. In questo stato, i leader democratici e sindacali avevano promosso, tra l’altro, una speciale elezione per cercare di rimuovere il governatore repubblicano Scott Walker, il quale è però riuscito a mantenere il proprio incarico.

D’altra parte, la profonda impopolarità delle stesse organizzazioni sindacali tra i lavoratori, a causa del loro sostanziale allineamento ai vertici aziendali nell’estrazione di sempre maggiori concessioni dai propri affiliati, è il motivo principale non solo del loro costante declino ma anche, in definitiva, dell’implementazione di leggi come quella firmata dal governatore del Michigan martedì.

I sindacati, in America come altrove, agiscono infatti da decenni come strumenti in mano alle élite politiche e imprenditoriali per contenere le tensioni sociali e il crescente malcontento tra i lavoratori, facendo loro digerire condizioni di lavoro sempre più penalizzanti. Ciò ha causato il loro progressivo indebolimento, consentendo, nel caso del Michigan, ai repubblicani al potere di procedere, una volta presa la decisione di fare a meno della collaborazione dei sindacati, con l’adozione unilaterale di una legge come quella che viene definita in maniera a dir poco fuorviante sul “diritto al lavoro”.

A conferma della funzione ormai attribuita ai sindacati, alcuni loro dirigenti assieme a leader locali del Partito Democratico nei giorni scorsi avevano incontrato a porte chiuse il governatore Snyder per convincerlo a desistere dalla nuova legge, con ogni probabilità promettendo di continuare a collaborare per mettere in atto tutte le “riforme” del mondo del lavoro ritenute necessarie, salvando però il ruolo di facilitatore dei sindacati stessi, nonché le loro fonti di finanziamento.

Uno dei protagonisti di queste discussioni infruttuose è stato non a caso Bob King, il presidente del principale sindacato automobilistico (UAW), vale a dire l’organizzazione di categoria che ha contribuito in maniera decisiva alla ristrutturazione di General Motors dopo la bancarotta controllata voluta dall’amministrazione Obama.

Il presunto salvataggio del gigante dell’auto di Detroit, oltre a consegnare il controllo di un congruo pacchetto azionario della compagnia ai vertici di UAW, ha portato alla distruzione di migliaia di posti di lavoro, al dimezzamento delle retribuzioni per i nuovi assunti, a pesanti tagli ai benefit dei pensionati e alla soppressione di molti altri diritti acquisiti.

Se il ruolo insidioso dei sindacati e gli assalti alle condizioni di vita della maggior parte della popolazione da parte della classe politica americana, soprattutto repubblicana, fanno in modo che i lavoratori si ritrovino sempre più isolati e disorientati, è altrettanto vero che, con l’aggravamento della crisi economica in atto, la crescente opposizione sociale nel paese potrebbe in qualche modo convergere alla fine verso la creazione di strutture di lotta indipendenti.

Ciò significherebbe, per l’oligarchia che detiene il potere, rischiare di perdere il controllo sui lavoratori ed è, in sostanza, quanto teme maggiormente la classe dirigente d’oltreoceano, a cominciare precisamente dai vertici delle organizzazioni sindacali e del Partito Democratico.

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