di Michele Paris

Confermando la tendenza delineata da quasi tutti i sondaggi nelle ultime settimane di campagna elettorale, Barack Obama si è confermato martedì il 44esimo presidente degli Stati Uniti d’America, chiudendo con ogni probabilità in maniera definitiva quasi sei anni di inseguimento alla Casa Bianca da parte del rivale repubblicano, Mitt Romney. Il successo del presidente democratico è apparso di proporzioni nettamente inferiori rispetto al 2008, come dimostrano almeno due stati persi tra quelli conquistati nella precedente tornata elettorale e un margine sul suo avversario nel voto popolare che, secondo i dati non ancora definitivi, ammonterebbe a circa due milioni di voti, contro i quasi dieci milioni che lo separarono da John McCain quattro anni fa.

Se su scala nazionale il vantaggio di Obama sembra attestarsi a meno del 2%, cioè in linea con quanto previsto dalla media delle rilevazioni della vigilia, più ampio appare invece quello dei voti elettorali che decidono l’elezione. L’attuale inquilino della Casa Bianca si è infatti assicurato 332 voti elettorali contro i 206 di Romney, anche se i media americani nella mattinata di mercoledì non hanno ancora assegnato ufficialmente i 29 della Florida, dove Obama è comunque avanti di qualche decina di migliaia di voti sugli oltre 8 milioni espressi.

Il tutto sommato traballante successo del presidente è stato possibile grazie alla sua affermazione, se verrà confermata la Florida, in tutti e sette i cosiddetti stati “swing” o “tossup” cioè quelli in bilico tra i due candidati. Con la chiusura delle urne all’una di questa notte in Italia nel primo di questi stati - la Virginia - gli exit poll avevano subito indicato un percorso tutto in salita per Romney, il quale ha visto progressivamente restringersi le proprie opzioni per una possibile vittoria. Obama ha così potuto alla fine mettere le mani su Colorado, Iowa, New Hampshire, Ohio, Virginia, Wisconsin e, probabilmente, Florida, lasciando a Romney solo Indiana e North Carolina tra gli stati che erano andati al candidato democratico nel 2008.

Tutte le affermazioni di Obama in questi sette stati sono però risultate estremamente sofferte con margini che vanno tra i 5 e i 6 punti percentuali in Iowa, New Hampshire e Wisconsin a meno di un in Florida. In tutti questi stati, Obama ha fatto segnare una flessione rispetto al 2008, in particolare in Wisconsin e Colorado (-3%). Anche nei rimanenti stati, che erano considerati più o meno solidamente nella sua colonna, Obama ha perso terreno sia in termini percentuali che di voti espressi, con le uniche modeste eccezioni di New Jersey (+0,8%) e del piccolo Rhode Island (+0,2%). Significativamente, a scrutinio non ancora ultimato, Obama avrebbe perso la quota maggiore di consensi proprio nel suo stato - l’Illinois - con un calo del 4,6% e circa mezzo milione di voti in meno.

Come previsto, inoltre, a determinare la rielezione di Obama è stata la maggioranza dei voti raccolti tra le donne e le minoranze di colore e ispaniche, mentre Romney ha decisamente fatto meglio tra gli uomini e gli elettori bianchi. L’affluenza alle urne è apparsa inferiore rispetto al 2008, a conferma dello scarso entusiasmo tra gli elettori e dell’assenza di candidati realmente rappresentativi della maggioranza degli americani. Sia pure ancora in assenza di dati ufficiali complessivi, l’Associated Press ha ad esempio scritto che in Vermont, Mississippi e South Carolina l’affluenza è stata del 14% inferiore rispetto al 2008, mentre in Maryland uno su dieci elettori che avevano votato quattro anni fa non si è recato alle urne.

Per dare l’idea del livello di disinteresse per il voto, un’indagine di un paio di mesi fa condotta da USA Today aveva prospettato che addirittura 90 milioni di americani registrati nelle liste elettorali si sarebbero astenuti. Dal momento che negli Stati Uniti i cittadini non vengono inseriti automaticamente nelle liste elettorali, a queste cifre va aggiunto perciò anche il numero degli americani non registrati.

L’equilibrio che aveva segnato i giorni precedenti l’election day, in ogni caso, sembrava far presagire un possibile allungamento dei tempi per l’assegnazione della presidenza, con possibili dispute legali prolungate. Questa prospettiva è sembrata per qualche tempo concretizzarsi questa notte con l’iniziale attesa da parte di Romney nel concedere la sconfitta nonostante tutte le proiezioni prevedessero l’affermazione di Obama.

Dal suo quartier generale di Boston, alla fine, a notte fonda il candidato repubblicano ha riconosciuto la vittoria del rivale davanti ai suoi sostenitori, mentre poco più tardi Obama è apparso su un palco a Chicago lanciando il consueto banale appello all’unità per un paese drammaticamente segnato da enormi divisioni di classe.

Più che una conferma della fiducia degli americani in un secondo mandato di Barack Obama, gli elettori presentatisi ai seggi sembrano piuttosto avere respinto le ricette proposte per il paese da Mitt Romney, in particolare di orientamento ultra-liberista in ambito economico. L’incertezza che ha accompagnato la vigilia e la flessione nel gradimento popolare del presidente indicano però evidenti malumori tra quanti lo avevano votato con entusiasmo nel 2008.

Nessuna particolare sorpresa ha segnato anche le altre competizioni di martedì, con i democratici che hanno mantenuto il controllo del Senato, probabilmente guadagnando un seggio ai danni dei repubblicani, i quali hanno invece potrebbero ampliare leggermente la loro maggioranza alla Camera dei Rappresentanti. Significativa è stata poi l’approvazione di due referendum sulla legalizzazione dei matrimoni gay in Maine e in Maryland. L’esito positivo di entrambi ha segnato la prima approvazione popolare in assoluto negli Stati Uniti di simili provvedimenti, in precedenza sempre decisi da sentenze di tribunali.

Alla luce dei risultati di martedì, dunque, gli equilibri politici a Washington non cambieranno in maniera rilevante, con un presidente democratico e un Congresso spaccato. Di fronte ad un simile scenario, sarà da valutare il margine di manovra di Obama per quello che si annuncia il più importante dibattito da qui al mese di gennaio, anche se praticamente mai sollevato in campagna elettorale, vale a dire la necessità di trovare un accordo bipartisan sulla riduzione del debito pubblico americano per evitare che a inizio 2013 scattino una serie di tagli automatici alla spesa federale che andrebbero a colpire in particolare il settore militare.

Nei prossimi mesi, infine, resterà da vedere, oltre a possibili agitazioni in casa repubblicana, anche se negli ultimi quattro anni alla Casa Bianca un Obama senza preoccupazioni elettorali sarà in grado o avrà la volontà di imprimere una qualche svolta su numerose questioni irrisolte, come ad esempio quelle legate al cambiamento climatico o all’immigrazione e, soprattutto, alla politica estera, a cominciare da Palestina e Iran, argomenti sui quali le promesse di quattro anni fa appaiono ancora ben lontane dall’essere mantenute.

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