di Michele Paris

Il conflitto in corso ormai da un anno in Siria è sembrato intensificarsi negli ultimi giorni con una serie di attentati terroristici e violenti scontri armati nelle due principali città, Aleppo e Damasco, fino a poco tempo fa relativamente risparmiate dal caos registrato nel resto del paese. Nella capitale, in particolare, lunedì sono stati segnalati combattimenti nei pressi del quartiere benestante di Mezzeh tra le forze di sicurezza del regime e l’opposizione armata.

Secondo i resoconti dei media occidentali, gli scontri nel quartiere che ospita molte residenze diplomatiche e uffici delle Nazioni Unite sarebbero stati i più intensi dall’inizio della rivolta andati in scena a Damasco. Per i gruppi dissidenti di stanza all’estero, il "Libero Esercito della Siria" avrebbe lanciato un’offensiva a Mezzeh per mostrare al regime la capacità tuttora intatta dell’opposizione di colpire obiettivi sensibili anche dopo i progressi delle forze di sicurezza nelle ultime settimane.

Secondo quanto riportato dall’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, l’organizzazione di stanza a Londra puntualmente citata dalla stampa internazionale nonostante i profondi dubbi sulla sua attendibilità, gli scontri di lunedì nella capitale avrebbero causato 18 morti tra i fedelissimi di Assad. I dati dell’agenzia di stampa ufficiale SANA indicano invece una vittima tra le forze del regime e due tra i ribelli.

Questi ultimi episodi seguono le devastanti esplosioni del fine settimana che avevano colpito le stesse metropoli siriane, considerate il centro nevralgico della base di potere del regime alauita del presidente Bashar al-Assad. Tre autobombe esplose a Damasco e Aleppo avevano ucciso un totale di 29 persone e fatto più di cento feriti. I più recenti attentati hanno così confermato come tra l’opposizione appoggiata dall’Occidente e dai paesi del Golfo Persico ci siano gruppi terroristici che cercano di destabilizzare il regime, anche se non appare del tutto chiaro se essi siano affiliati all’opposizione stessa oppure operino in maniera indipendente.

Per gli attentati di Damasco e Aleppo, in ogni caso, il governo siriano ha per la prima volta puntato il dito in maniera esplicita contro altri paesi arabi, accusando Qatar e Arabia Saudita di istigare attacchi terroristici. I precedenti attentati organizzati nelle stesse città erano stati attribuiti sia dal regime che dall’Occidente a cellule di Al-Qaeda, verosimilmente provenienti dal vicino Iraq.

L’aumento delle violenze in Siria è coinciso con l’arrivo a Damasco di un team di osservatori ONU inviati dall’ex segretario generale, Kofi Annan, il quale settimana scorsa aveva incontrato Assad in due occasioni nel tentativo di promuovere una soluzione pacifica alla crisi e fermare gli scontri, così da consentire l’ingresso nel paese di aiuti umanitari. Gli attentati e gli scontri dimostrano però come le opposizioni armate intendano far naufragare sul nascere qualsiasi possibilità di dialogo.

A fronte di queste operazioni anti-regime, le forze fedeli ad Assad hanno invece recentemente ripreso il controllo di alcune città che sembravano essere, almeno parzialmente, nelle mani dei ribelli, come Idlib nel nord del paese, Dara’a a sud e, proprio nella giornata di martedì, Deir al-Zor a est.

Sempre martedì, i gruppi di opposizione costretti a lasciare queste località hanno dovuto incassare per la prima volta un duro colpo alla loro immagine di difensori delle aspirazioni democratiche del popolo siriano, almeno secondo la propaganda della maggior parte dei media occidentali.

In una lettera aperta indirizzata al Consiglio Nazionale Siriano (CNS), Human Rights Watch ha infatti accusato i ribelli armati di aver commesso seri abusi e violazioni dei diritti umani, tra cui esecuzioni sommarie, rapimenti, detenzioni arbitrarie e torture ai danni di membri delle forze di sicurezza del regime ma anche di civili.

La denuncia dell’ONG newyorchese sembra dare credito dunque a quanto sostenuto da tempo dalla Russia, secondo la quale entrambe le parti coinvolte nel conflitto in Siria si sono rese responsabili di atti di violenza e, perciò, per giungere ad una soluzione negoziata è necessario che le Nazioni Unite facciano appello sia al regime che all’opposizione.

Lo stesso governo di Mosca nella giornata di martedì ha anche fatto sapere di essere pronto ad approvare una risoluzione ONU che appoggi il piano di pace di Kofi Annan, peraltro non ancora reso ufficialmente pubblico. Per il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, la risoluzione non deve suonare però come un ultimatum per Damasco, così come non deve richiedere le dimissioni di Assad.

Secondo alcuni, la posizione di Mosca, soprattutto in seguito alla recente rielezione alla presidenza di Putin, rivelerebbe da qualche tempo una certa impazienza nei confronti dell’alleato siriano dopo il potere di veto esercitato, assieme alla Cina, in due occasioni per bloccare al Consiglio di Sicurezza dell’ONU altrettante risoluzioni che avrebbero aperto la strada ad un intervento esterno sul modello libico.

La Russia nei giorni scorsi aveva infatti chiesto a Damasco di aprire dei corridoi umanitari in Siria e di permettere l’acceso della Croce Rossa. Lo stesso Lavrov, parlando al Parlamento russo, aveva poi criticato Assad, mettendolo in guardia da un’implementazione troppo lenta delle riforme promesse, con il rischio che il conflitto possa sfuggire definitivamente di mano.

Quest’ultimo è il rischio che Mosca sembra temere maggiormente, cioè che la crisi in Siria si aggravi a tal punto che Russia e Cina non siano più in grado di reggere le pressioni internazionali e di difendere Assad e i propri interessi in Medio Oriente di fronte all’assalto occidentale. La posizione della Russia è complicata tuttavia dal fatto che gli Stati Uniti e i loro alleati europei e nel mondo arabo appaiono ormai decisi ad andare fino in fondo con il cambio di regime a Damasco, aldilà delle concessioni di Assad o di qualsiasi soluzione di pace si cerchi di percorrere.

Nel frattempo, anche l’offensiva diplomatica si sta intensificando. I paesi riuniti nel Consiglio di Cooperazione del Golfo (Arabia Saudita, Bahrain, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar), ad esempio, qualche giorno fa hanno annunciato la chiusura delle loro rappresentanze diplomatiche in Siria dopo aver ritirato da tempo i propri ambasciatori.

Le monarchie assolute del Golfo, strettissime alleate degli Stati Uniti, sono in prima linea per arrivare alla rimozione di Assad, così da assestare un colpo mortale all’Iran, e criticano perciò apertamente il regime per l’escalation di violenza che esse stesse contribuiscono ad alimentare fornendo armi e sostegno materiale all’opposizione.

Pur non appoggiando in maniera ufficiale la fornitura di armi ai ribelli, principalmente per il timore che possa esplodere il caos nelle aree di confine con la Siria, anche la Turchia è al centro delle manovre anti-Assad. Oltre a dare rifugio ai vertici del CNS e del Libero Esercito della Siria, il governo di Erdogan il prossimo 2 aprile ospiterà entro i propri confini il secondo summit dei cosiddetti “Amici della Siria”, dopo quello tenuto in Tunisia a febbraio senza Russia e Cina, per coordinare le prossime mosse e cercare di indirizzare la crisi vero un esito gradito.

Secondo una fonte anonima citata martedì dalla Associated Press, infine, anche tutti i paesi dell’Unione Europea potrebbero decidere di chiudere a breve le loro ambasciate a Damasco in seguito agli scontri di lunedì nella capitale. La misura dovrebbe essere discussa nel corso di un vertice UE a Bruxelles in programma domani e venerdì. Finora, sei paesi UE hanno già chiuso le loro ambasciate a Damasco, mentre molti altri hanno ridotto sensibilmente il personale diplomatico impiegato in Siria.

di Michele Paris

Le numerose vittime civili causate dall’aggressione militare NATO dello scorso anno in Libia continuano a rimanere senza responsabili. A puntare nuovamente il dito contro l’Alleanza atlantica è stata ieri Amnesty International, secondo la quale la NATO continuerebbe a rifiutarsi di indagare seriamente sui bombardamenti effettuati contro obiettivi non militari nel corso della campagna aerea durata sette mesi nel paese nord-africano per rimuovere Muammar Gheddafi e installare un regime meglio disposto verso gli interessi occidentali.

Le accuse alla NATO di aver provocato un numero imprecisato di vittime tra civili che nulla avevano a che fare con le forze di sicurezza dell’ex regime erano in realtà giunte da più parti fin dall’inizio di un conflitto scatenato attraverso la manipolazione, da parte degli USA e dei loro alleati, della risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza ONU lo scorso mese di marzo.

Simili accuse risultano particolarmente gravi, dal momento che, come ha ricordato Donatella Rovera di Amnesty International, nel corso della campagna militare “la NATO ha ripetutamente sottolineato il proprio impegno volto a proteggere i civili”. Anzi, la stessa aggressione contro Gheddafi era stata presentata ufficialmente come un’iniziativa “umanitaria” per evitare un massacro di civili da parte del regime di Tripoli.

Per questo motivo, secondo la stessa Rovera, consigliere per la gestione delle crisi per la ONG britannica, la NATO “non può ignorare le vittime civili limitandosi a emettere generiche dichiarazioni di scuse senza indagare adeguatamente su questi incidenti mortali”. Secondo Amnesty, un’indagine seria dovrebbe stabilire se le vittime civili sono state causate da violazioni del diritto internazionale e, in tal caso, i responsabili devono essere portati davanti alla giustizia.

Le cifre fornite dalla NATO, con ogni probabilità abbondantemente sottostimate, indicherebbero 55 vittime civili durante i raid sulla Libia, di cui 16 bambini e 14 donne, uccise dopo attacchi aerei che hanno colpito abitazioni private a Tripoli, Zlitan, Majer, Sirte e Brega. A queste vanno aggiunte altre 34 vittime, tra cui 8 bambini, in tre incursioni su due abitazioni a Majer e per le quali non viene data alcuna spiegazione.

Al desiderio di vedere rapidamente archiviata la questione delle responsabilità occidentali per le morti di civili innocenti aveva dato sostanzialmente il proprio contributo qualche giorno fa anche un rapporto della speciale Commissione ONU d’Inchiesta sulla Libia. Questa commissione era stata creata pochi giorni dopo l’esplosione della rivolta a Bengasi e ha presentato le proprie conclusioni il 2 marzo scorso di fronte al Consiglio per i Diritti Umani a Ginevra.

La Commissione ha documentato 60 vittime e 55 feriti tra i civili in conseguenza delle incursioni NATO prese in esame, anche se l’Alleanza non avrebbe agito in maniera deliberata. In almeno cinque occasioni, tuttavia, la pretesa della NATO di aver colpito centri militari di comando in Libia non è stata supportata dalla realtà sul campo. Per questi casi non sono state trovate prove a sufficienza per raggiungere una conclusione. Al rapporto della Commissione d’indagine, i vertici NATO hanno risposto pochi giorni più tardi, sostenendo che tutti gli obiettivi colpiti in Libia erano legittimi.

Il dibattito attorno al rapporto ONU ha innescato poi un’accesa polemica tra la Russia da una parte e gli Stati Uniti e il nuovo governo libico dall’altra. L’ambasciatore di Mosca alle Nazioni Unite, Vitaly Churkin, nel pieno dello scontro diplomatico sulla Siria, ha chiesto le scuse ufficiali della NATO per le vittime civili provocate dalla campagna militare in Libia. Per tutta risposta, l’ambasciatore americano all’ONU, Susan Rice, ha difeso l’azione della NATO in Libia, facendo riferimento allo stesso rapporto della speciale commissione d’inchiesta nel quale si dice che le forze dell’Alleanza hanno preso tutte le precauzione necessarie per evitare vittime civili.

Gli stessi ribelli, appoggiati nella loro avanzata in maniera decisiva dall’offensiva NATO contro le forze di Gheddafi, nonostante siano stati dipinti dalla stampa occidentale quasi sempre come eroi della rivolta democratica in Libia, hanno frequentemente adottato metodi non meno brutali di quelli del regime contro cui combattevano.

Il trattamento riservato dagli uomini agli ordini del Consiglio Nazionale di Transizione (CNT) agli immigrati africani e ai cittadini libici di colore, ma anche ai combattenti pro-Gheddafi catturati, così come il devastante assedio a Sirte alla vigilia della definitiva caduta del regime e lo stesso barbaro assassinio del rais, sono alcuni tra i crimini più evidenti e maggiormente documentati dell’intero conflitto.

Già nel novembre dello scorso anno, anche il giudice della Corte Penale Internazionale, Luis Moreno-Ocampo, prontissimo a mettere sotto accusa i principali esponenti del regime, era stato costretto ad annunciare che il suo ufficio avrebbe preso in esame i crimini commessi da entrambe le parti in Libia. Finora, come era prevedibile, la Corte dell’Aia ha tuttavia aperto procedimenti solo contro membri della famiglia Gheddafi e i suoi più stretti collaboratori.

Con il governo provvisorio di Tripoli di fatto alle dipendenze dei paesi occidentali e del Golfo Persico che hanno appoggiato da subito la causa dei ribelli, la Libia non sembra per nulla disposta a consentire un’indagine completa sulle vittime civili causate dalla NATO. Al contrario, la volontà è piuttosto quella di insabbiare qualsiasi procedimento che cerchi di portare alla luce le responsabilità delle milizie locali e dei loro sponsor occidentali in un conflitto che ben poco ha a che fare con le aspirazioni democratiche del popolo libico e molto di più, invece, con gli interessi strategici delle potenze coinvolte.

Solo in questi ultimi mesi sono stati parecchi i rapporti critici del CNT e della NATO. A gennaio, ad esempio, alcune ONG mediorientali (l’Organizzazione Araba per i Diritti Umani, il Centro Palestinese per i Diritti Umani e il Consorzio Internazionale per l’Assistenza Legale) avevano documentato i crimini di guerra commessi sia dai ribelli che dalla NATO. Anche in questa occasione, gli autori dello studio sul campo chiedevano un’indagine sulle vittime civili dei bombardamenti contro scuole, edifici governativi e abitazioni private, nonché sugli abusi subiti dai soldati e dai combattenti pro-Gheddafi detenuti dal CNT.

A febbraio, infine, la stessa Amnesty International aveva descritto dettagliatamente in un rapporto i metodi di tortura ampiamente diffusi nelle carceri libiche gestite dal nuovo governo, dove vengono detenuti  presunti membri del vecchio regime e fedelissimi del colonnello. Anche in questo caso, ovviamente, i vertici del CNT, con la complicità dei governi occidentali autoproclamatisi difensori dei diritti umani in Libia, hanno accuratamente evitato di aprire un qualche procedimento per individuare e punire i responsabili degli abusi.

di Emanuela Pessina

BERLINO. È un pastore luterano di 72 anni e ha diretto per anni l'ente che, dopo la Riunificazione, ha indagato sugli archivi della Stasi: un curriculum di tutto rispetto per Joachim Gauck, il nuovo Presidente della Repubblica federale tedesca, eletto ieri a larga maggioranza alla prima votazione. Gauck andrà a occupare il posto vuoto lasciato da Christian Wulff, dimessosi di recente a causa dei presunti favori che “l’uomo della Merkel” (come era stato definito Wulff appena eletto) avrebbe ricevuto in ragione della sua posizione politica.

Eletto con l’80% dei consensi, Gauck è stato da subito considerato il gran favorito, poiché sostenuto da cristiano democratici (CDU), cristiano sociali (CSU), liberali (FDP), socialdemocratici e Verdi, le maggiori forze politiche in Germania. Secondo alcuni sondaggi, avrebbe già conquistato anche il favore di gran parte dei suoi cittadini: ARD, il primo canale pubblico di Germania, lo dà a una percentuale pari a quella che ha ottenuto in assemblea federale.

Non hanno costituito una vera minaccia gli altri due nomi in lizza, Beate Klarsfeld, proposta dall’estrema sinistra Die Linke, che ha ottenuto 126 voti, e Olaf Rose, presentato dal partito di estrema destra NPD, che ha conquistato 108 membri dell’assemblea federale. La decisione finale dell’assemblea, a quanto pare, non è stata una sorpresa per nessuno.

Non bisogna però dimenticare che Gauck si era già presentato una volta per la stessa poltrona, e cioè nel 2010, in seguito alle improvvise dimissioni dell’allora presidente Horst Koehler. Proposto da Verdi e socialdemocratici, allora Gauck non aveva raggiunto la maggioranza ed era stato sconfitto dal favorito di Angela Merkel, l’attuale presidente uscente Christian Wulff. Alle porte delle elezioni del 2013, a quanto pare, anche la Coalizione della Cancelliera ha pensato bene di rivedere la figura di Joachim Gauck, in ragione forse della sua popolarità e dei suoi meriti storici di indubbia portata.

Nativo di Rostock, Gauck ha studiato teologia ed è stato da sempre molto critico nei confronti del comunismo di sistema e il regime della Repubblica Democratica Tedesca (RDT). Lui stesso ricorda spesso di essere “cresciuto in un sentimento di anticomunismo motivato”, forse in riferimento all’esperienza del padre, arrestato, deportato e costretto da un tribunale sovietico ai lavori forzati in Siberia. Per diversi anni la famiglia di Gauck non ha avuto alcuna informazione riguardo il padre, che risultava essere semplicemente “scomparso”. Un’esperienza che ha influenzato l’attuale presidente della Repubblica in maniera indelebile.

Gauck ha da sempre criticato il sistema della RDT ma non lo ha mai fatto in maniera diretta, scampando quel confronto diretto con il regime che lo avrebbe portato a rischiare la prigione. Nel 1989 si è battuto perché l’esperienza del regime non cadesse nell’oblio e ha ottenuto l’apertura degli archivi della Stasi, di cui è stato nominato responsabile nel 1990.

Se la figura carismatica di Joachim Gauck lo preserverà per tutta la durata naturale della carica, comunque, è ancora da vedere: negli ultimi tempi i presidenti federali tedeschi non sembrano avere molta fortuna. Wulff si è dimesso a causa del polverone mediatico sollevato da un presunto prestito “in amicizia” ricevuto, fatto che ha aperto una voragine di piccoli e grandi privilegi che l’ex- presidente, a quanto pare, amava concedersi. Ma non è il primo re a non morire di morte naturale.

A maggio 2010 anche Koehler aveva deciso di dimettersi, più in particolare per la polemica mediatica scaturita da una sua dichiarazione sulla missione militare tedesca in Afghanistan. I toni utilizzati dai media non si confacevano al ruolo che egli rappresentava, aveva accusato allora Kohler, e preferiva quindi lasciare la carica per far sì che si recuperasse quel rispetto mancato nei confronti della presidenza della repubblica. In due anni, tre presidenti della Repubblica federale: un susseguirsi che non ispira sicuramente fiducia.

Se si considera che il “torbido” passato di Wulff è stato denunciato, in primis, dalla stampa popolare, è interessante notare il ruolo fondamentale che la stampa ha giocato nelle dimissioni dei due presidenti: i politici tedeschi invitano a un maggiore rispetto, il rischio è la perdita di credibilità per uno dei ruoli più nobili nella repubblica federale. È anche vero, d’altra parte, che quando si parla di elezioni l’opinione pubblica acquista un valore particolare, e la Germania si trova in una situazione delicata: sei appuntamenti elettorali regionali nel 2011 e le politiche del 2013 possono essere considerate una buona ragione perché i partiti diano particolare peso alla credibilità dei propri uomini politici e cerchino di tagliare i rami secchi.

E ora tocca a Gauck, l’undicesimo presidente di Germania: la stampa non ha perso tempo e ha già fatto notare la sua particolare situazione sentimentale. Gauck è ancora ufficialmente sposato con la sua prima moglie, ma da anni convive con la sua compagna, Daniela Schadt. Schadt si è detta pronta a fare la first lady, ma non prevede nessun tipo di matrimonio riparatore per l’onore della patria. I presupposti sembrano già saporiti.
 

 

di Michele Paris

Le conseguenze del massacro commesso domenica scorsa da un sergente americano nel sud dell’Afghanistan continuano a farsi sentire, mettendo a repentaglio la strategia dell’amministrazione Obama per il ritiro delle truppe di occupazione nel paese e stabilire una qualche presenza militare di lungo termine. Nella giornata di giovedì, infatti, il presidente afgano, Hamid Karzai, ha chiesto ufficialmente agli Stati Uniti di confinare i soldati della NATO all’interno delle proprie basi entro il prossimo anno. Contemporaneamente, i Talebani hanno emesso un comunicato nel quale annunciano la sospensione degli stentati negoziati di pace con Washington che sembravano aver mosso i primi passi proprio in queste settimane.

La richiesta di Karzai è stata espressa nel corso di un incontro con il segretario alla Difesa americano, Leon Panetta, ed è significativamente giunta il giorno successivo la dichiarazione congiunta di Obama e Cameron a Washington, nella quale i due leader avevano confermato l’intenzione dei rispettivi governi di rispettare la scadenza fissata entro la fine del 2014 per il ritiro delle truppe dall’Afghanistan.

Per Karzai, la fine delle operazioni di combattimento con protagoniste le forze di occupazione NATO servirebbe a porre un freno all’escalation di vittime civili seguita al potenziamento del contingente militare statunitense in Afghanistan deciso dal presidente Obama nel dicembre 2009. “Le forze internazionali”, ha affermato Karzai, “devono ritirarsi dai villaggi e spostarsi nelle loro basi”. Il presidente afgano ha poi aggiunto che “entrambe le parti devono lavorare ad un piano per completare il processo di trasferimento dei compiti legati alla sicurezza entro il 2013 invece del 2014”.

La mossa di Karzai, che di fatto bloccherebbe la campagna militare NATO proprio in vista di una nuova offensiva nelle aree di confine con il Pakistan, è legata indubbiamente alla rabbia diffusa tra la popolazione afgana dopo la strage di domenica che è costata la vita a 16 civili, buona parte dei quali bambini. Se le proteste in questa occasione non hanno eguagliato quelle esplose in seguito al rogo del Corano qualche settimana fa, in questi giorni ci sono state comunque varie manifestazioni, in particolare nella provincia di Kandahar, dove si sono svolti i fatti di sangue.

Il militare americano responsabile del massacro, nel frattempo, è già stato trasferito in Kuwait, da dove finirà sotto custodia negli Stati Uniti per affrontare un processo davanti alla corte marziale. Secondo gli accordi tra Washington e Kabul, i militari americani impiegati in Afghanistan godono della stessa immunità garantita ai diplomatici dalla Convenzione di Vienna.

L’allontanamento del sergente dal paese ha però suscitato l’ira della popolazione e, di conseguenza, di molti politici locali. Questi ultimi, giovedì, avrebbero perciò chiesto a Karzai di vincolare la firma del trattato di partnership strategica con gli USA alla possibilità di processare il militare statunitense in Afghanistan.

I negoziati per giungere ad una presenza stabile di militari americani, sotto forma di “consiglieri” o “addestratori”, è resa già complicata anche da altre questioni delicate, a cominciare dai raid notturni delle forze speciali a caccia di terroristi. Questi blitz hanno causato numerose vittime civili e sono estremamente impopolari tra la popolazione afgana. Karzai da tempo ne chiede lo stop, ma per gli USA rimangono un’arma fondamentale per mettere le mani su presunti militanti.

Secondo alcuni ufficiali della NATO, in realtà, la richiesta di Karzai di giovedì non si differenzierebbe di molto dal piano di disimpegno approvato da un vertice dell’alleanza a Lisbona nel 2010. Esso prevederebbe infatti un graduale trasferimento delle responsabilità legate alla sicurezza ai militari afgani dalle forze di occupazione a partire dal 2013, anche se queste ultime manterrebbero compiti di combattimento fino al 2014. Il capo di gabinetto di Karzai, tuttavia, ha sottolineato che la richiesta del presidente, sia pure da sottoporre all’esame degli Stati Uniti, intende anticipare di un anno questo processo di transizione.

Il livello di professionalità raggiunto dalle forze armate indigene, a detta dei vertici NATO, non sembra però essere ancora tale da garantire il controllo del territorio in maniera autonoma. Secondo uno studio condotto dalla stessa NATO nel 2011, ad esempio, solo uno dei 158 battaglioni dell’esercito afgano sarebbe in grado di sostenere combattimenti senza il supporto americano.

La sicurezza generale nel paese centro-asiatico rimane inoltre a dir poco precaria, come conferma l’episodio che giovedì ha funestato la visita di Panetta, giunto in Afghanistan per scusarsi di persona con il presidente Karzai per il massacro di domenica scorsa. Un interprete afgano impiegato dalla NATO ha sottratto un automezzo ad un militare suo connazionale, lanciandosi contro un gruppo di Marines che stava aspettando l’arrivo del numero uno del Pentagono presso l’aeroporto di Helmand. L’attentatore si è alla fine schiantato a poca distanza dall’aereo di Panetta in fase di atterraggio ed è morto in seguito all’esplosione del mezzo rubato.

Nonostante la richiesta fatta giovedì, il presidente Karzai teme che un eventuale ritiro affrettato delle forze NATO, da cui il suo governo dipende totalmente, possa segnare la fine del suo regime. Allo stesso tempo, però, l’odio sempre più diffuso nei confronti di un’occupazione ormai decennale rischia di alimentare ulteriormente le simpatie per la resistenza talebana, trasformandosi in una minaccia ancora più pericolosa per la sua permanenza al potere. Da qui, dunque, l’atteggiamento sempre più ostile tenuto pubblicamente nei confronti degli Stati Uniti.

Per quanto riguarda l’amministrazione Obama, la strategia afgana ora sempre più a rischio ha preso le mosse dall’aumento due anni fa delle truppe USA sul campo fino a 100 mila uomini. Essa prevede l’indebolimento della resistenza all’occupazione, così da aprire negoziati con i Talebani da una posizione di superiorità e, parallelamente, stipulare un accordo con Kabul per mantenere un contingente militare nel paese a lungo termine. Raggiunti questi obiettivi, la Casa Bianca potrebbe portare a termine il ritiro della maggior parte dei militari impiegati in Afghanistan.

A scompaginare i piani statunitensi, come già ricordato, è stato l’altro giorno anche l’annuncio pubblicato su un sito web vicino ai Talebani del congelamento dei negoziati di pace con Washington. I colloqui, secondo il comunicato, erano in fase iniziale e stavano ruotando attorno alla possibile liberazione di alcuni prigionieri talebani detenuti a Guantanamo, quando gli americani hanno cercato di imporre nuove condizioni per la prosecuzione delle trattative.

I membri dell’ex regime islamista afgano avevano recentemente ottenuto anche il via libera per l’apertura di un proprio ufficio di rappresentanza a Doha, in Qatar. Un segnale di distensione che sembra essere svanito in seguito agli episodi di sangue delle ultime settimane. La strage di domenica e le sue conseguenze, infine, potrebbero aver convinto i vertici talebani che in Afghanistan continui ad esserci terreno fertile per reclutare forze nuove e proseguire la resistenza armata contro gli occupanti occidentali senza scendere a compromessi.

di Michele Paris

In una visita di tre giorni a Washington, il primo ministro britannico, David Cameron, è stato accolto dal presidente Obama con tutti gli onori dovuti ad un capo di governo di un paese con cui gli Stati Uniti continuano ad avere un “legame speciale”. L’estrema cordialità del vertice ha contribuito a mettere in evidenza la pressoché totale affinità di vedute dei due leader, in particolare sulle questioni legate alla difesa degli interessi anglo-americani nel mondo.

Il rapporto di stima e simpatia reciproca tra Obama e Cameron è apparso tanto più evidente quanto ha contrastato con il clima gelido che aveva caratterizzato il summit della scorsa settimana con il premier israeliano Netanyahu. Il presidente americano ha anche organizzato per il proprio ospite una cena di stato alla Casa Bianca, solitamente riservata, appunto, ai capi di stato in visita a Washington, mentre a sottolineare l’atmosfera amichevoli tra i due leader, martedì sera hanno assistito entrambi ad un incontro di basket NCAA a Dayton, nell’Ohio.

Barack Obama e David Cameron hanno così confermato il fronte unitario costituito da USA e Gran Bretagna per fronteggiare, secondo le parole dei principali media, “le sfide della sicurezza globale” o, in altre parole, gli ostacoli all’allargamento dell’influenza di Washington e Londra sulle aree strategiche del pianeta. La sintonia tra i due paesi si basa in effetti sulla sostanziale convergenza dei rispettivi interessi imperialistici e va ben al di là del diverso orientamento politico che, in teoria, dovrebbe contraddistinguere le due amministrazioni. A conferma di ciò, il rapporto privilegiato tra Stati Uniti e Gran Bretagna è rimasto inalterato, ad esempio, sia con il repubblicano George W. Bush alla Casa Bianca e il laburista Tony Blair a Downing Street che, ora, con il democratico Obama e il conservatore Cameron.

Alla luce della recente strage compiuta domenica scorsa nei pressi di Kandahar da un sergente americano, la questione più calda del vertice era quella dell’Afghanistan, alla cui occupazione Stati Uniti e Gran Bretagna contribuiscono con il contingente militare di gran lunga più numeroso. Nonostante i recenti fatti di sangue, la crescente ostilità della popolazione afgana nei confronti dell’occupazione e l’impopolarità del conflitto tra gli elettori americani e inglesi, nel corso di una conferenza stampa congiunta, mercoledì Obama e Cameron hanno ribadito l’intenzione di non deviare dal piano ufficiale che prevede il ritiro delle truppe dal paese centro-asiatico entro la fine del 2014.

Citando i presunti progressi fatti dai soldati britannici nel sud dell’Afghanistan, Cameron ha concordato con Obama nel sostenere che, a fronte di un’esplosione dell’odio verso gli occupanti negli ultimi tempi, la situazione nel paese è migliorata e consentirà alle forze NATO di trasferire la responsabilità della sicurezza alla polizia e all’esercito locali secondo i tempi previsti.

Nelle due ore di faccia a faccia nello Studio Ovale, Obama e Cameron hanno anche parlato della questione del nucleare iraniano. Entrambi hanno ripetuto il parere espresso dal presidente americano a Netanyahu settimana scorsa. Le sanzioni contro Teheran devono cioè fare il loro corso, anche se l‘opzione dell’aggressione militare rimane sul tavolo. Cameron, da parte sua, ha anch’egli espresso i propri dubbi circa un possibile attacco unilaterale di Israele contro le installazioni nucleari iraniane, dal momento che esisterebbe ancora spazio per una soluzione diplomatica alla crisi.

Queste parole nascondono in realtà i metodi ricattatori dell’Occidente, da dove vengono imposte condizioni inaccettabili all’Iran solo per aprire un qualche dialogo, come lo stop totale al programma di arricchimento dell’uranio a cui Teheran, in quanto firmatario del Trattato di Non Proliferazione, ha diritto, se destinato ad uso civile. Simili richieste, peraltro, intendono precisamente provocare il rifiuto del governo iraniano, così da giustificare nuove sanzioni e, in ultima istanza, un attacco militare.

L’atteggiamento di Obama è apparso in ogni caso più minaccioso in occasione del vertice con Cameron, soprattutto quando, in riferimento alla imminente riapertura dei negoziati sul nucleare, l’inquilino della Casa Bianca ha affermato che per l’Iran “la finestra per risolvere la questione diplomaticamente si sta restringendo”.

I toni da ultimatum sono consueti nelle trattative con l’Iran e un vero e proprio ultimatum è quello che, secondo quanto riportato mercoledì dalla stampa russa, Obama avrebbe chiesto a Mosca di trasmettere a Teheran. L’incontro previsto ad aprile a Istanbul per riaprire le trattative sul nucleare sarà cioè l’ultima possibilità per l’Iran per evitare la guerra.

Obama ha poi accusato la Repubblica Islamica di usare i negoziati per prendere tempo, mentre sono proprio i governi occidentali a respingere puntualmente le aperture di Teheran fissando sempre nuovi paletti per risolvere la questione in maniera pacifica. Gli Stati Uniti e i loro alleati, d’altra parte, sfruttano la questione del nucleare puramente come pretesto per giungere ad un cambio di regime a Teheran. Tanto più che finora non è emersa una sola prova dell’esistenza di un programma nucleare iraniano a scopi militari.

Identica posizione USA e Gran Bretagna hanno mostrato anche riguardo alla Siria. Obama ha messo in guardia dalle difficoltà di un’azione militare contro il regime di Assad, ma ha minacciosamente ricordato che il Pentagono ha già preparato un piano di guerra contro Damasco. Le parole dedicate dai due leader alla crisi siriana sono state come al solito avvolte nella fastidiosa e vuota retorica dell’intervento “umanitario”.

Il ruolo di Londra in merito alla Siria appare particolarmente importante in questo frangente, poiché la Gran Bretagna presiede provvisoriamente il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Al Palazzo di Vetro fervono infatti i tentativi di convincere Russia e Cina ad approvare una nuova risoluzione che, sul modello libico, getti le basi di un intervento esterno con il sigillo di approvazione dell’ONU.

Sul fronte economico, infine, i media occidentali hanno sottolineato presunte divergenze tra un’amministrazione americana che intende stimolare la crescita aumentando la spesa pubblica e un governo britannico che ha messo in atto un durissimo programma di austerity. In realtà, a ben vedere, tra Washington e Londra non esistono sostanziali differenze nemmeno sulla politica economica, dal momento che, come dimostrano i devastanti tagli di bilancio ampiamente adottati anche negli Stati Uniti, la priorità per entrambi i leader continua ad essere la strenua difesa del sistema capitalistico e dei profitti dell’aristocrazia finanziaria.


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