di Michele Paris

Dopo l’assassinio della settimana scorsa di quattro stretti collaboratori del presidente Assad e svariati giorni di scontri tra le opposizioni armate e le forze di sicurezza del regime a Damasco, i “ribelli” sembrano avere spostato ora la loro attenzione verso la più grande città della Siria, Aleppo, anch’essa come la capitale fino a poco tempo fa in gran parte risparmiata dalle violenze registrate altrove nel paese.

Nonostante la propagandata maggiore intraprendenza dimostrata in questi ultimi giorni dai gruppi di opposizione nello sfidare un regime sempre più allo sbando, dai rari resoconti indipendenti sul campo in Siria sembra emergere una realtà almeno in parte diversa. Le operazioni messe in atto recentemente dagli oppositori di Assad, cioè, appaiono più che altro come gesti dimostrativi per provocare la reazione del regime, così da esporlo alla censura dell’opinione pubblica internazionale.

Infatti, il governo ha ripreso in fretta il controllo della situazione a Damasco e, malgrado l’assassinio di uomini importanti per Assad, a cominciare dal cognato Asef Shawkat, e alcune defezioni di alti ufficiali dell’esercito, appare ancora sostanzialmente compatto.

Nelle giornate di domenica e lunedì sono continuati in tono minore gli scontri nella capitale, ma le truppe governative hanno cacciato i ribelli dai quartieri momentaneamente controllati da questi ultimi. La TV di stato siriana ha così trasmesso in questi giorni immagini di una Damasco dove la vita sembra essere tornata alla normalità anche nelle aree coinvolte nei combattimenti più duri. Lo stesso Assad, dopo le voci di una sua fuga, è apparso per la seconda volta in televisione mentre teneva un faccia a faccia con il nuovo capo di stato maggiore.

I ribelli, intanto, hanno iniziato una nuova campagna propagandistica, prontamente amplificata dai media occidentali, annunciando l’avvio della campagna per la liberazione di Aleppo. Lo spostamento dell’attenzione delle opposizioni sulle due principali città della Siria serve a comunicare alla comunità internazionale l’impressione di un consenso sempre più debole per il regime nelle roccaforti del suo potere.

Allo stesso scopo, i media internazionali lo scorso fine settimana hanno dato ampio spazio alla notizia che gruppi di ribelli avevano preso il controllo di quattro posti di confine con l’Iraq, dove, secondo le testimonianze di alcuni ufficiali iracheni, le forze di opposizione hanno subito provveduto a giustiziare alcuni soldati dell’esercito siriano. Il colpo di mano dei guerriglieri è però durato ben poco e lunedì le forze del regime sono rientrate in possesso dei valichi di confine. Oltretutto, è successivamente emerso che i posti di frontiera presi dai ribelli erano soltanto due e non quattro come riportato inizialmente dalla stampa.

Sabato scorso, poi, altri ribelli avrebbero cercato di assumere il controllo del valico di Nassib al confine con la Giordania ma, secondo quanto riportato dal quotidiano libanese Daily Star, sarebbero stati sopraffatti dalle forze del regime. Un reporter dell’agenzia di stampa AFP ha invece testimoniato che l’opposizione armata ha strappato al controllo delle forze governative il posto di frontiera di Bab al-Salam, al confine turco.

Questi sforzi dei ribelli sono coordinati sia con i governi occidentali e le monarchie sunnite del Golfo Persico sia con i principali media. I primi, infatti, dopo gli eventi di questi ultimi giorni hanno fatto a gara nel descrivere un regime ormai sull’orlo del baratro, mentre i secondi hanno pubblicato una lunga serie di analisi ed editoriali che hanno raccontato quelle che avrebbero dovuto essere le ultime ore di Assad e della sua cerchia di potere.

Parallelamente sono apparse rivelazioni sui piani degli Stati Uniti e dei loro alleati per far fronte all’imminente crollo del regime. Particolare attenzione viene data alla sorte dell’arsenale di armi chimiche in possesso della Siria. Tali armi, secondo l’intelligence americana, sono in fase di trasferimento per evitare che possano entrare in possesso dei terroristi presenti sul territorio siriano. Politici e commentatori si sono però già affrettati a sostenere che Assad avrebbe intenzione di utilizzare le armi chimiche contro i cittadini in rivolta.

Washington e Tel Aviv avrebbero perciò già discusso della possibilità di un blitz militare di Israele per distruggere l’arsenale a disposizione di Damasco. A farlo è stato con ogni probabilità il consigliere per la sicurezza nazionale USA, Thomas Donilon, in visita in Israele durante lo scorso fine settimana, così come lo farà il Segretario alla Difesa, Leon Panetta, atteso a giorni dal governo Netanyahu.

Un intervento di questo genere potrebbe essere giustificato sia dalla necessità di evitare che il regime possa usare le armi chimiche contro i civili, sia per non farle cadere in mano ai terroristi. Su quest’ultimo punto sono in molti all’interno dei governi occidentali a esprimere pubblicamente le loro preoccupazioni, senza curarsi troppo del fatto che, se tale rischio esiste realmente, è dovuto in primo luogo alle loro stesse politiche di destabilizzazione del regime che hanno portato allo scontro settario attualmente in atto e all’ingresso nel paese di cellule estremiste.

In ogni caso, dopo il veto di settimana scorsa al Consiglio di Sicurezza da parte di Russia e Cina su una risoluzione che avrebbe aperto la strada ad un possibile intervento militare esterno, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno promesso di intensificare gli sforzi per rovesciare il regime al di fuori dell’ONU. Dal momento che le condizioni per un intervento militare esterno appaiono ancora lontane, la strategia principale passa attraverso il rafforzamento del Libero Esercito della Siria e degli altri gruppi anti-Assad, i quali peraltro già da mesi ricevono denaro e armi in abbondanza da Arabia Saudita, Qatar e Turchia con la supervisione di Washington.

Inoltre, un articolo di un paio di giorni fa apparso sul Wall Street Journal ha rivelato come l’amministrazione Obama stia costruendo una nuova strategia per far cadere il regime di Assad. L’iniziativa comprende, tra l’altro, pressioni diplomatiche sul governo dell’Iraq per chiudere lo spazio aereo di questo paese ai voli diretti dall’Iran alla Siria che, secondo gli USA, trasporterebbero forniture di armi e carburante. Ugualmente, gli americani hanno chiesto alle autorità egiziane di impedire il transito attraverso il Canale di Suez alle navi che trasportano materiale destinato alla Siria, anche se i risultati non sembrano essere per ora all’altezza delle aspettative di Washington.

Sul campo, intanto, la CIA è operativa da tempo nei paesi confinanti con la Siria e, secondo fonti governative anonime citate dallo stesso Wall Street Journal, la principale agenzia spionistica americana sta fornendo informazioni di intelligence non solo alle forze armate giordane e turche che stanno operando a stretto contatto con i ribelli, ma anche direttamente a questi ultimi.

Proprio la Turchia appare essere sempre più come il paese che potrebbe condurre un’operazione militare contro il regime di Assad per conto dell’Occidente. A conferma dell’atteggiamento provocatorio di Ankara, domenica l’agenzia di stampa Anatolia News ha diffuso la notizia che la Turchia ha rifornito le proprie truppe impiegate al confine con la Siria di missili terra-aria. Le tensioni tra i due paesi sono salite alle stelle dopo il recente abbattimento di un velivolo militare turco che aveva sconfinato nello spazio aereo siriano e le provocazioni di Ankara sembrano mirate precisamente a provocare la reazione di Damasco per giustificare un intervento armato.

Sul fronte diplomatico, infine, la Lega Araba ha tenuto un vertice di emergenza lunedì a Doha, nel Qatar. Al termite del summit, il primo ministro del Qatar, Sheikh Hamad bin Jassim bin Jabr al-Thani, ha riferito alla stampa che i paesi membri si sono accordati su un appello al presidente Assad a dimettersi in cambio di un esilio all’estero e su un invito ai ribelli a formare al più presto un governo di transizione.

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