di Michele Paris

L’attentato suicida che mercoledì ha causato la morte di almeno tre membri di primo piano della cerchia di potere del presidente Bashar al-Assad sembra aver segnato una tappa decisiva nel conflitto per rovesciare il regime siriano. I tentativi occidentali di far approvare una risoluzione alle Nazioni Unite che autorizzi l’uso della forza per risolvere la crisi sono però nuovamente naufragati giovedì in seguito al veto posto ancora una volta da Russia e Cina.

Le autorevoli vittime dell’azione terroristica sono state il ministro della Difesa, il generale cristiano Dawoud Rajha, il suo vice, nonché cognato di Assad, Asef Shawkat, e il generale Hassan Turkmani, consigliere del presidente ed ex ministro della Difesa. Il ministro dell’Interno, Muhammad Ibrahim al-Shaar, era stato anch’egli incluso tra le vittime da alcuni resoconti giornalistici, anche se la Reuters, citando fonti dei servizi di sicurezza siriani, ha poi affermato che è stato soltanto ferito e si trova ora in condizioni stabili. Sopravvissuto all’attentato è anche il capo dell’intelligence, Hisham Bekhtyar.

L’esplosione è avvenuta nel corso della riunione giornaliera tenuta dai vertici del regime all’interno dell’edificio che ospita gli uffici della Sicurezza Nazionale, teoricamente tra i più sicuri e meglio protetti di Damasco. L’attentato, secondo la stampa ufficiale, sarebbe stato portato a termine da una guardia del corpo ed è stato rivendicato dal gruppo estremista islamico Liwa al-Isla (“Brigata dell’Islam”) e successivamente anche dal cosiddetto Libero Esercito della Siria. Secondo un portavoce di quest’ultimo gruppo dell’opposizione armata, l’azione di mercoledì “è solo l’inizio di una lunga serie di operazioni per distruggere Assad, il suo regime e tutti i suoi simboli e pilastri”.

L’assassinio deliberato di alcuni degli uomini più vicini al presidente conferma dunque i timori legati alla presenza tra le file dell’opposizione al regime di gruppi terroristici, verosimilmente  provenienti dai paesi vicini alla Siria. Queste cellule hanno già messo a segno nei mesi scorsi svariate operazioni eclatanti, tra cui quella del 10 maggio, quando due autobombe esplose di fronte ad un edificio dell’intelligence a Damasco fecero più di 50 vittime.

Il più recente episodio di violenza in Siria arriva dopo giorni di duri scontri tra le forze di sicurezza e i “ribelli” nella capitale, nei mesi precedenti in gran parte risparmiata dal caos diffuso in altre aree del paese. Proprio domenica, inoltre, il Comitato Internazionale della Croce Rossa ha sanzionato ufficialmente il precipitare della situazione, dichiarando il conflitto in corso una guerra civile a tutti gli effetti.

La progressiva perdita del controllo su aree sempre maggiori del paese da parte delle forze di sicurezza, assieme ad alcune recenti defezioni di ufficiali di alto livello, sembrano indicare, almeno secondo le opposizioni e i governi occidentali, che il regime sta entrando nella sua fase terminale.

Una tale evoluzione non sarebbe in ogni caso il risultato di un’ondata inarrestabile di proteste pacifiche che si sta diffondendo in tutta la Siria. L’aggravamento della situazione in Siria di queste settimane indica piuttosto come i “ribelli” possano contare su forniture di armi sempre più massicce dai propri sponsor, così come su forze straniere addette all’addestramento dei guerriglieri e, con ogni probabilità, in qualche misura anche alle operazioni sul campo. Il tutto nel quadro del piano orchestrato dagli Stati Uniti e dai loro alleati nel Golfo, in particolare Arabia Saudita e Qatar, per innalzare il livello dello scontro settario nel paese in modo da giustificare un intervento armato esterno.

Dopo i fatti di mercoledì, i governi occidentali hanno infatti ancora una volta aumentato la retorica, facendo pressioni su Assad e chiedendo a gran voce una risposta incisiva da parte della comunità internazionale. Ben pochi sono stati i commentatori che hanno fatto notare come l’innalzamento dei toni da Washington o da Londra nei confronti di Damasco in questi giorni sia singolarmente seguito ad un fatto sanguinoso ai danni del regime e non, come spesso accaduto in precedenza, alla presunta repressione di civili innocenti.

Probabilmente non a caso, l’attentato di mercoledì è giunto nel pieno delle discussioni al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sulla crisi in Siria. Il voto su una nuova risoluzione è stato oggetto di frenetiche trattative e di enormi pressioni esercitate dai governi occidentali sulla Russia e sulla Cina per approvare un testo che, oltre a prolungare di 45 giorni la missione degli osservatori promossa da Kofi Annan, consentisse l’uso della forza militare contro il regime, secondo il Capitolo VII della Carta dell’ONU, in caso di mancata applicazione delle misure previste dall’accordo sul cessate il fuoco entro dieci giorni.

La Russia e la Cina hanno come previsto posto il veto, dopo che nei giorni scorsi avevano espresso una ferma opposizione ad una soluzione che avrebbe aperto la strada ad un intervento esterno, come accadde per la Libia nel marzo del 2011. La risoluzione ha raccolto 11 voti a favore, mentre Sud Africa e Pakistan si sono astenuti.

Il voto contrario di Mosca e Pechino è stato condannato duramente dall’ambasciatore britannico all’ONU, Marc Lyall Grant, il quale ha accusato i due paesi alleati di Assad di “aver posto i propri interessi nazionali davanti alle vite di milioni di siriani”.

Il terzo fallimento da parte del Consiglio di Sicurezza nel trovare una posizione comune sulla crisi spingerà ora gli Stati Uniti e gli altri governi che appoggiano l’opposizione ad intensificare i loro sforzi nella destabilizzazione del regime, con un conseguente ulteriore innalzamento del livello di scontro nel paese.

Inoltre, come ha spiegato un analista russo all’agenzia di stampa Ria Novosti, è probabile che a breve “alcuni paesi riconosceranno ufficialmente il Consiglio Nazionale Siriano come l’unico legittimo governo” del paese mediorientale.

Il Consiglio di Sicurezza avrà ora tempo fino alla mezzanotte di venerdì per provare a trovare una soluzione alla questione dell’eventuale prolungamento della missione Annan, sospesa ormai da qualche settimana a causa del drammatico aumento del livello di violenza nel paese.

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