di Michele Paris

La campagna elettorale per le presidenziali americane è caratterizzata in questi giorni da toni sempre più aspri con ripetuti scambi di accuse tra i due principali candidati. Le polemiche si stanno concentrando attorno al ruolo del repubblicano Mitt Romney al vertice della compagnia operante nel “private equity” da lui fondata, Bain Capital. Le critiche provenienti dai democratici riguardano in particolare le responsabilità del miliardario mormone nell’aver contribuito ad esportare posti di lavoro dagli Stati Uniti verso paesi emergenti.

In una serie di messaggi pubblicitari, la campagna di Barack Obama ha portato al centro del dibattito politico gli anni di Romney ai vertici della sua compagnia finanziaria, durante i quali essa mise a segno svariate acquisizioni di aziende in difficoltà, per poi chiudere gli impianti sul suolo americano e riaprire nuove strutture a basso costo in Messico o altrove.

L’ex governatore repubblicano del Massachusetts e i suoi si difendono sostenendo che le politiche di “outsourcing” messe in atto da Bain Capital furono decise in gran parte negli anni immediatamente successivi al suo addio formale alla compagnia, avvenuto nel 1999 per assumere il comando dell’organizzazione dei giochi olimpici invernali del 2002 a Salt Lake City, nello Utah.

Molti giornali d’oltreoceano hanno però smentito questa versione e, la settimana scorsa, un articolo del Boston Globe ha rivelato che, secondo quanto riportato dai documenti ufficiali depositati presso la Securities and Exchange Commission (SEC), l’ente federale USA incaricato di vigilare sulla borsa americana, Romney era identificato ancora come presidente, amministratore delegato e unico proprietario di Bain Capital fino al 2001.

Quando Romney lo scorso anno rese pubbliche alcune delle sue dichiarazioni dei redditi, aveva al contrario sostenuto di non aver ricoperto alcun ruolo dirigenziale nella compagnia dopo il 1999. Le accuse di aver mentito devono avere creato il panico nell’organizzazione di Romney. Il candidato repubblicano alla Casa Bianca, infatti, nel fine settimana è insolitamente apparso in una serie di interviste sui principali network americani per cercare di limitare i danni.

Le difficoltà nel trovare una spiegazione plausibile sono emerse chiaramente dalle parole del consigliere di Romney, Ed Gillespie, il quale domenica alla CNN ha dichiarato che il suo superiore si era “ritirato retroattivamente nel febbraio 1999” da Bain Capital. Una definizione a dir poco singolare del “pensionamento” di Romney che è subito rimbalzata sui media americani, danneggiando ulteriormente la credibilità del candidato.

I democratici chiedono ora insistentemente la pubblicazione delle sue dichiarazioni dei redditi relative agli anni in questione, cosa che Romney per il momento ha rifiutato di fare. Con ogni probabilità il suo team considera meno dannose le critiche per la mancata trasparenza rispetto alla rivelazione dei modi, sia pure legali, con cui lo sfidante di Obama per la presidenza ha accumulato una fortuna stimata in oltre 250 milioni di dollari.

Secondo molti commentatori americani di area conservatrice, il danno maggiore per Romney deriverebbe dal fatto che è la campagna di Obama che sta definendo i contorni del candidato repubblicano, ancora prima che egli stesso sia stato in grado di proporre agli elettori un’immagine di se stesso.

E la forma che sta prendendo la figura di Romney in seguito alla campagna mediatica democratica è tutt’altro che positiva. L’immagine che ne esce, peraltro in gran parte corrispondente alla realtà, è quella di un uomo d’affari senza scrupoli, pronto a distruggere migliaia di posti di lavoro per massimizzare i profitti e che, oltretutto, ha nascosto parte delle proprie ricchezze in paradisi fiscali all’estero.

La polemica attorno a Bain Capital è stata alimentata dallo stesso Obama nella giornata di lunedì durante un comizio a Cincinnati, nell’Ohio, non a caso uno stato in bilico in vista di novembre e con una forte presenza di operai del settore manifatturiero.

Riferendosi alla proposta del suo rivale di azzerare il carico fiscale sui profitti delle corporation realizzati all’estero, il presidente democratico ha ricordato la recente apparizione di “un nuovo studio condotto da alcuni economisti indipendenti che sostiene che il piano economico del governatore Romney potrebbe creare 800 mila posti di lavoro. C’è solo un problema”, ha aggiunto Obama incitando il pubblico presente, “i posti di lavoro creati non saranno negli Stati Uniti”.

Romney da parte sua ha cercato di contrattaccare con un nuovo spot elettorale nel quale mette in discussione l’integrità etica del presidente, accusato apertamente di avere destinato risorse economiche federali ai propri sostenitori politici. Nonostante lo sforzo, tuttavia, appare chiaro che l’inerzia della campagna elettorale, quanto meno nel dibattito in corso sui media mainstream, si sia spostata per il momento a favore di Obama.

L’intera polemica sull’outsourcing, come sostanzialmente tutta la lunga campagna che porterà al voto di novembre, è in ogni caso del tutto artificiosa. Le accuse contro Romney da parte democratica intendono presentare il presidente come il paladino della classe media, proponendo cioè una caratterizzazione che sfiora l’assurdo, dal momento che, al di là dei proclami e della retorica populista, Obama e il suo partito rappresentano esclusivamente quelle sezioni delle élite economico-finanziarie americane non allineate al Partito Repubblicano.

Ciò è dimostrato anche dal fatto che le critiche di Obama a Romney si limitano al comportamento tenuto da quest’ultimo in veste di top manager e non mettono invece nemmeno lontanamente in discussione l’interno sistema e l’edifico legale che continua a consentire pratiche predatorie come quelle messe in atto da Bain Capital.

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