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di Michele Paris
La missione in Medio Oriente del nuovo inviato dell’ONU e della Lega Araba per la Siria, il diplomatico algerino Lakhdar Brahimi, prende il via questa settimana in un clima di crescenti tensioni e con le principali potenze occidentali che stanno moltiplicando i loro sforzi per cercare di rovesciare il regime di Bashar al-Assad. I governi che si adoperano per la fine di quest’ultimo continuano a sostenere materialmente i “ribelli” siriani nonostante si moltiplichino le prove di una massiccia presenza tra le loro fila di estremisti islamici, così come i resoconti di atrocità commesse contro civili e membri delle forze di sicurezza.
Il sostituto di Kofi Annan è giunto lunedì al Cairo per incontrare i vertici del governo egiziano e della Lega Araba ed ha annunciato che si recherà a Damasco nei prossimi giorni, dove incontrerà il presidente Assad. Le difficoltà che attendono il veterano algerino della diplomazia internazionale nel suo nuovo incarico sono tuttavia enormi ed egli stesso ha riconosciuto gli ostacoli che troverà sulla sua strada e che hanno portato alle dimissioni del suo predecessore.
Infatti, mentre Brahimi e il piano di pace che dovrebbe promuovere raccolgono il sostegno nominale degli Stati Uniti e dei loro alleati, questi ultimi stanno facendo tutto il possibile per soffocare sul nascere qualsiasi speranza di una risoluzione negoziata del conflitto.
La contraddizione è stata sottolineata qualche giorno fa anche dal governo di Damasco che ha risposto duramente alla precedente dichiarazione della Francia di voler aumentare gli aiuti diretti ai ribelli, ufficialmente sotto forma di assistenza umanitaria e di materiali per la ricostruzione, in cinque città sotto il loro controllo. Il portavoce del ministero degli Esteri siriano ha accusato l’ex potenza coloniale di “schizofrenia”, dal momento che essa afferma di volere una soluzione pacifica e contemporaneamente fornisce appoggio alla rivolta armata contro Assad, contribuendo di fatto ad alimentare le violenze nel paese.
Proprio il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, inoltre, assieme al suo omologo italiano, Giulio Terzi, la settimana scorsa hanno inviato una lettera alla responsabile della diplomazia europea, Catherine Ashton, sollecitando un maggiore impegno in Siria. Terzi e Fabius hanno anche chiesto un vertice straordinario dei ministri degli Esteri UE a margine dell’annuale riunione dell’Assemblea Generale dell’ONU, in programma questo mese a New York. Nel corso di un vertice UE andato in scena a Cipro, infine, i partecipanti hanno deciso di adottare ulteriori sanzioni contro Assad e la sua cerchia di potere.
Dietro la retorica dei diritti umani e la volontà di favorire la ricostruzione dell’economia e delle istituzioni siriane, i due ministri hanno manifestato dunque tutta la loro impazienza per il protrarsi di una crisi che essi stessi, assieme agli USA, alla Gran Bretagna e agli alleati nel mondo arabo, hanno contribuito in maniera determinante ad infiammare, così da far cadere un regime che rappresenta un ostacolo all’espansione dell’influenza occidentale in Medio Oriente.
A questo scopo, i governi e i principali media allineati alla posizione americana continuano incessantemente a dipingere la situazione in Siria come un conflitto che mette di fronte un regime sanguinario ad un’opposizione pacifica che si batte per un futuro democratico.
In realtà, nulla potrebbe essere più lontano dal vero. L’Occidente e paesi come Turchia, Arabia Saudita e Qatar sono ben consapevoli che quello in corso in Siria è ormai un conflitto settario e che la rivolta contro Assad è condotta da gruppi armati di varia natura, poco o per nulla popolari nel paese, tra cui svolgono un ruolo fondamentale numerosi guerriglieri fondamentalisti sunniti affiliati a gruppi terroristici come Al-Qaeda.
Se pure Washington sembra manifestare qualche dubbio o timore circa la presenza di terroristi tra i ribelli, l’amministrazione Obama utilizza senza troppi scrupoli queste formazioni estremiste per dare un spallata al regime di Damasco. Tale politica, va ricordato, viene messa in atto dopo che per più di un decennio la lotta senza quartiere al terrorismo di matrice islamica ha rappresentato la motivazione ufficiale per giustificare gli abusi e le guerre lanciate dagli Stati Uniti su scala planetaria in seguito agli attentati dell’11 settembre.
A confermare il profilo inquietante dell’opposizione siriana è stata, tra l’altro, anche una recente intervista rilasciata alla Reuters da un medico francese di ritorno dal paese mediorientale. Il 71enne Jacques Bérès fa parte di "Medici Senza Frontiere" ed ha svolto opera di volontariato in un ospedale controllato dai ribelli ad Aleppo. Bérès si è detto sorpreso dal numero di militanti islamici provenienti dall’estero e che si sono uniti alla battaglia contro Assad.
Secondo il medico transalpino, costoro non sarebbero tanto interessati alla caduta del regime, quanto al modo con cui “prendere il potere e creare uno stato islamista in cui viene applicata la Sharia”. Da quanto ha potuto osservare sul campo, poi, dei circa 40 pazienti curati ogni giorno, il 60% erano combattenti armati, la metà dei quali stranieri.
Il New York Times ha inoltre pubblicato un’intervista ad un giovane libanese che, al confine con la Siria, facilita l’ingresso in questo paese di guerriglieri estremisti. Secondo il giovane, tra coloro che vanno ad ingrossare le fila della rivolta ci sono moltissimi stranieri - sauditi, americani ed europei - e tutti invariabilmente sostengono di volersi battere per la “jihad”.
Negli ultimi giorni sono stati caricati in rete anche svariati filmati che documentano vere e proprie esecuzioni di soldati dell’esercito regolare per mano di gruppi ribelli. Queste testimonianze si aggiungono ad altre delle scorse settimane che avevano mostrato come a cadere vittima della giustizia sommaria dei guerriglieri anti-Assad erano civili accusati di aver collaborato con le forze del regime.
Simili episodi hanno spinto lunedì l’alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Navi Pillay, ad affermare nel corso di un suo intervento a Ginevra che anche i membri dell’opposizione armata potranno essere perseguiti per gli abusi di cui si stanno rendendo protagonisti. L’ex giudice della Corte Penale Internazionale ha ricordato che in Siria sono in aumento le violazioni dei diritti umani da parte dei ribelli, inclusi rapimenti ed esecuzioni sommarie, perciò “le forze di opposizione non devono illudersi di poter rimanere immuni dai processi”.
In realtà, in caso di caduta di Assad e con l’instaurazione di un nuovo regime più docile al volere dell’Occidente, i ribelli non avranno nulla da temere dalla giustizia internazionale, proprio come è accaduto in Libia, dove i crimini dei “rivoluzionari” appoggiati dalla NATO sono tuttora impuniti, nonostante le abbondanti prove di violenze e assassini ai danni di presunti sostenitori del regime, di immigrati di colore e dello stesso Gheddafi durante l’assedio di Sirte.
In questo scenario, ben poche possibilità di riuscita sembra avere la più recente iniziativa diplomatica per risolvere la crisi siriana, cioè quella lanciata dal governo islamista egiziano. Il presidente, Mohamed Mursi, ha ricevuto lunedì al Cairo alcuni diplomatici di Iran, Arabia Saudita e Turchia, con i quali dovrebbe gettare le basi per colloqui di alto livello da tenere nei prossimi giorni con i rispettivi ministri degli Esteri.
Le profonde divisioni e gli interessi in gioco in Siria, con l’Iran da una parte e l’Egitto, l’Arabia Saudita e la Turchia dall’altra, trasformeranno però con ogni probabilità il vertice del Cairo nell’ennesimo sterile tentativo di fermare le violenze, tanto che, secondo la maggior parte degli osservatori, l’incontro sembra essere soltanto un tentativo da parte del presidente Mursi di risollevare l’immagine del proprio paese nella regione.
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di Carlo Musilli
C'è un filo sottile che lega Atene e Amsterdam. Oggi gli olandesi tornano alle urne per le elezioni legislative (le quinte in 10 anni), e lo fanno in un clima simile a quello che tre mesi fa ha consegnato il governo della Grecia ad Antonis Samaras. In sostanza, lo scontro fra i partiti è presentato come una sorta di referendum sull'euro: da una parte i conservatori alfieri del rigorismo, sostenuti da Bruxelles nonostante abbiano già dato prova di malgoverno; dall'altra la sinistra radicale, polemica con il modo in cui l'Europa sta affrontando la crisi e quindi liquidata a livello internazionale come un'accolita di populisti euroscettici (il riferimento ellenico in questo caso è Syriza, non certo il finto socialismo del Pasok).
Partiamo dai nomi. I principali attori sulla scena olandese sono tre: Mark Rutte, premier uscente e numero uno del partito liberale (Vvd), Diederik Samsom, giovane leader dei laburisti (PvdA), e Emile Roemer, capo dei socialisti (Sp).
Stando agli ultimi sondaggi, ai liberali dovrebbero andare 33/34 seggi dei 150 a disposizione, mentre i laburisti dovrebbero incassarne fra i 29 e i 32. Un trend in risalita, visto che solo pochi giorni fa erano dati a 26. Il vero exploit è atteso però dai socialisti, che rispetto alle ultime consultazioni potrebbero quasi raddoppiare, passando da 15 a 26 seggi. Sembrano invece fuori dai giochi gli estremisti di destra del Pvv, guidati dall'euroscettico e islamofobo Geert Wilders. Dopo l'appoggio esterno prima concesso e poi sottratto all'ultimo esecutivo, la speranza è che vengano ricordati solo come una buia parentesi nella storia politica olandese.
La prospettiva più verosimile è che alla fine Vvd e PvdA siano costretti a coabitare, probabilmente non da soli. I problemi però non mancheranno, visto che i due schieramenti classificati come "moderati" non sembrano d'accordo su quale sia il modo migliore di gestire la crisi economica. Il contrasto ricorda alla lontana quello originario fra la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese François Hollande. Se i conservatori puntano all'austerità draconiana, con ampie sforbiciate alla spesa pubblica, i laburisti si mantengono su posizioni assai meno drastiche e chiedono misure per riattivare la crescita.
Fino a pochi giorni fa, Rutte non era per nulla disponibile all'alleanza con i laburisti, che è arrivato a definire "un pericolo per l'Olanda". Samsom invece ha fatto bene i suoi calcoli, dimostrandosi molto più possibilista: "Mercoledì vedremo con chi governeremo - ha detto -. Ci dovrà essere per forza una coalizione di governo. Dal giorno dopo lavoreremo con tutti. Non escludiamo nulla".
Arriviamo così ai socialisti. Vero spauracchio nella corsa a due fra Rutte e Samsom, Roemer dovrebbe arrivare in terza posizione, ma per qualche giorno è stato indicato addirittura come possibile vincitore. La sua popolarità si è impennata grazie ad un programma dichiaratamente nemico dell'austerity e strenuo difensore dello Stato sociale, da sempre fiore all'occhiello dell'Olanda. Il suo progetto lo avvicina molto ad Alexis Tsipras, leader greco di Syriza, e prevede di aumentare le tasse ai ricchi e alle imprese, così da poter incrementare gli investimenti pubblici.
Una ricetta lontana anni luce da quella più gradita ai palati di Bruxelles, ma questo non significa affatto che Roemer predichi l'uscita dall'eurozona, magari con tanto di fantascientifico ritorno al fiorino. Per quanto riguarda i conti pubblici, i socialisti ritengono che sia possibile risanarli senza necessariamente affossare la qualità di vita dei propri cittadini e senza inseguire affannosamente l'obiettivo del deficit al 3%, stabilito a Maastricht nel (troppo) lontano 1992. Si potrebbe iniziare, ad esempio, da una lotta senza quartiere alla speculazione finanziaria.
A livello economico, l'Olanda è il quinto Paese dell'eurozona e non naviga in acque tranquille. Quest'anno il Pil segnerà una recessione dello 0,9%, mentre il deficit viaggerà oltre il 4%. Il debito pubblico non è particolarmente alto (70% del Pil), in compenso quello privato è alle stelle (250% del Pil). Il tasso di disoccupazione (al 9%) rimane molto alto per gli standard nordeuropei. A tutto questo si aggiungono serie preoccupazioni legate al mercato immobiliare, gravato da una bolla speculativa che minaccia di esplodere da un momento all'altro. Le conseguenze sarebbero le stesse che l'Europa ha già visto avverarsi prima in Irlanda e poi in Spagna.
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di Michele Paris
Il presidente francese, François Hollande, ha presentato in un’intervista televisiva trasmessa domenica in prima serata una serie di misure all’insegna dell’austerity e dell’aumento delle tasse per cercare di far fronte ad un’economia in affanno e per risollevare un indice di gradimento già in declino dopo appena quattro mesi dal suo ingresso all’Eliseo. Nonostante le promesse elettorali, gli interventi minacciati dal presidente socialista non si discostano di molto da quelli già implementati altrove in Europa per rassicurare i mercati, anche se includono la tanto propagandata tassa speciale del 75% sui redditi più elevati.
In 25 minuti di diretta sulla rete TF1, Hollande ha anticipato il suo piano di bilancio che verrà presentato questo mese e che prevede circa 20 miliardi di euro in nuove tasse e 10 miliardi di tagli alla spesa pubblica. A giustificare l’adozione di provvedimenti molto pesanti per gran parte della popolazione francese sarebbe il peggiorato clima economico che ha spinto il governo di Parigi a ridimensionare le stime di crescita per il prossimo futuro. L’economia transalpina dovrebbe cioè far segnare una crescita praticamente pari a zero per quest’anno e attorno allo 0,8% nel 2013.
Le misure si rendono necessarie inoltre per mantenere la promessa di Hollande di riportare il deficit di bilancio francese al 3% del PIL nel 2013, dopo che quest’anno toccherà il 4,5%. Il presidente, però, domenica non ha raccolto l’osservazione della sua intervistatrice sulla più che probabile necessità di intervenire con ulteriori tagli alla spesa per raggiungere il promesso pareggio di bilancio nel 2017 a fronte di una crescita così anemica.
Una delle questioni più delicate è poi la riforma del lavoro, che Hollande e le aziende francesi vogliono naturalmente rendere più flessibile. Il modello a cui queste ultime guardano con interesse è quello della Germania, dove una serie di riforme iniziate con il governo socialdemocratico del cancelliere Gerhard Schroeder ha progressivamente ridotto le retribuzioni e smantellato le protezioni di cui godevano i lavoratori.
In questo ambito, Hollande ha lanciato un appello al dialogo ai sindacati e agli imprenditori per giungere ad una riforma condivisa. In caso di mancato accordo, tuttavia, il presidente ha affermato che il governo procederà unilateralmente.
Sul fronte fiscale, i circa 20 miliardi di euro di nuove entrate dovrebbero giungere da 10 miliardi di aumenti delle tasse e altrettanti dall’abolizione di scappatoie legali che consentono soprattutto alle grandi aziende di abbattere il loro carico fiscale.
Grande attenzione sta suscitando in particolare la già ricordata tassa con un’aliquota del 75% sui redditi superiori al milione di euro. Se i giornali hanno prospettato una possibile fuga all’estero dei francesi più ricchi, lo stesso Hollande ha in qualche modo rassicurato circa la portata limitata di una proposta che appare poco più di una mossa ad effetto per dare l’impressione che il governo intende imporre sacrifici a tutti i francesi mentre vengono messi in atto pesanti assalti contro i lavoratori e la classe media.
La tassa, se sarà adottata, graverà infatti esclusivamente sui redditi da lavoro dipendente e non sui redditi da capitale. Dal momento che la classe privilegiata, in Francia come altrove, deriva la maggior parte della propria ricchezza proprio da investimenti e attività speculative, la tassa andrà a colpire, secondo alcune stime, solo circa 2 mila contribuenti e verosimilmente una quota minima dei loro guadagni.
Uno studio del quotidiano Le Monde ha evidenziato che l’imponibile complessivo su cui andrà a pesare la tassa del 75% ammonta ad appena qualche centinaio di milioni di euro, a fronte di una ricchezza di oltre 5 mila miliardi di euro detenuta dal 10% della popolazione francese più ricca. Inoltre, essa avrà una durata di soli due anni poiché, secondo Hollande, dopo tale periodo l’economia francese si sarà ripresa a sufficienza e tale imposta non sarà più necessaria.
Anche se l’impatto sarà dunque minimo, alcune sezioni delle élite economiche d’oltralpe stanno comunque alimentando un serie di polemiche nei confronti di questo provvedimento. Svariate testate stanno perciò mettendo in guardia il governo socialista dai pericoli di tassare i cittadini più facoltosi, i quali potrebbero comportarsi come Bernard Arnault, l’uomo più ricco di Francia e d’Europa. Quest’ultimo, presidente e amministratore delegato di LVMH (Louis Vuitton - Moët Hennessy), nel fine settimana ha infatti annunciato di voler chiedere la cittadinanza belga.
L’argomento è stato affrontato nel corso dell’intervista a Hollande, il quale ad una domanda sul nervosismo dei francesi benestanti per la tassa del 75% ha risposto con un patetico elogio degli imprenditori transalpini - che minacciano di lasciare il paese per non pagare le tasse - e con un appello al patriottismo in tempi di crisi.
Secondo i giornali, l’intervento di domenica di Hollande sarebbe stato dettato dalla necessità di fronteggiare le accuse di inerzia lanciate contro il suo governo che, assieme alle promesse non mantenute e agli attacchi dei mercati per spingere verso un ridimensionamento della spesa pubblica, hanno fatto precipitare la popolarità del presidente.
Un sondaggio pubblicato domenica dal quotidiano Le Parisien, ad esempio, indica come il 60% degli intervistati sia insoddisfatto della performance del governo socialista, contro il 34% che aveva espresso questa opinione alla fine di maggio. Secondo un’altra recente rilevazione, invece, l’approvazione popolare per Hollande sarebbe attestata al 46%, identica a quella del primo ministro Jean-Marc Ayrault.
Con la luna di miele con gli elettori finita già da tempo, nei prossimi mesi François Hollande si troverà così a fare i conti con un probabile aggravamento della situazione economica, con le pressioni dei mercati e con crescenti tensioni sociali in seguito alla prossima approvazione di impopolari misure di austerity. Un peggioramento facilmente prevedibile quello della realtà francese, già segnata oltretutto da un tasso di disoccupazione superiore al 10% e da una lunga serie di annunci di imminenti tagli di posti di lavoro da parte delle maggiori compagnie francesi, a cominciare da Air France e PSA Peugeot Citroën.
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di Diego Angelo Bertozzi
Si è conclusa con un nulla di fatto la due giorni cinese di Hillary Clinton. O meglio, il segretario di Stato statunitense torna in patria - dopo quello che con ogni probabilità sarà il suo ultimo viaggio nell’ex Celeste Impero - con il peso di una serie di “no”. Insomma ci si è parlati, ma restando fermi sulle proprie posizioni, secondo quanto recitano i comunicati ufficiali.
Non che ci si potesse aspettare di più da questa missione viste le polemiche e i reciproci attacchi che l’hanno proceduta e con Pechino che accusa sempre più apertamente Washington di attuare una politica di contenimento nei suoi confronti e di sostenere, quando non aizzare, le rivendicazioni dei Paesi che si affacciano sul Mar Cinese Meridionale come sul Pacifico settentrionale. E certamente non poteva rappresentare un buon viatico il progetto statunitense - rivelato a fine agosto dal Washington Post - di uno scudo antimissile asiatico dalle mal celate prerogative anti-cinesi.
E proprio in relazione al surriscaldamento delle acque asiatiche, la distanza politica e di principio tra le due potenze viene confermata. Mentre gli Usa, in nome della libertà di navigazione, insistono sulla necessità di un accordo tra le parti interessate - Cina, Vietnam, Filippine, Brunei, Taiwan, Malesia, Giappone - in ambito multilaterale, quindi nel quadro dell’Asean, Pechino ha ribadito la sua volontà di difendere una “indiscutibile” sovranità sulle acque e isole contese (Diaoyu, Huangyan, Paracel e Spratly) e di ricercare soluzioni solo con i dialogo “tra i diretti interessati” e al di fuori da un contesto multilaterale.
Differenza certo non di poco conto: in questo modo gli Stati Uniti, che contano diversi alleati nell’Asean, sarebbero tagliati fuori. A segnalare tutta la delicatezza della questione e l’apertura di un nuovo fronte di attrito, il vertice di luglio dell’organizzazione asiatica si è concluso, per la prima volto dopo 45 anni, senza l’adozione di un comunicato congiunto segnando una indubbia vittoria diplomatica per Pechino e della sua politica di accordi bilaterali.
Stesso discorso anche per quando riguarda il fronte caldo siriano, in relazione al quale le posizioni restano agli antipodi, esacerbate dalle dure reazioni statunitensi al triplo veto posto dalla Cina, in accordo con la Russia, in sede di Consiglio di Sicurezza. Pure in questo caso, nulla di cui stupirsi.
Se da una parte si è più volte paventato, tra alleati della Nato come nel raggruppamento degli “Amici della Siria”, un intervento militare sotto forma di “no-fly zone” a protezione dei civili o di “safe zone” a protezione dei rifugiati in territorio siriano (la Turchia ha pure proposto anche una zona cuscinetto di 20 km per impedire operazione del PKK), dall’altra vengono ribaditi i principi del rispetto della sovranità e della non interferenza nelle questioni interne di Damasco.
Il timore di Pechino è che si arrivi alla riproposizione del modello libico, vale a dire di un attacco militare in piena regola con l’unico obiettivo di un cambio di regime. Alla richiesta occidentale e delle monarchie del golfo di un allontanamento di Assad, la Cina ha sempre opposto la via del dialogo tra forze di governo e di opposizione senza alcuna interferenza internazionale che non sia quella stabilita di comune accordo in sede Onu. In questo contesto va letta l'apertura del ministro degli Esteri Yang Jeichi ad una possibile “transizione politica” in Siria alla luce della radicalizzazione degli scontri in atto.
Posizioni inconciliabili, quindi, che risentono indubbiamente anche della delicata fase politica che attraversano i due Paesi. Se gli Stati Uniti sono ormai in piena campagna elettorale presidenziale (e la Cina rappresenta uno degli argomenti della disputa), la Cina vivrà ad ottobre il 18° congresso del Partito comunista che sancirà l’avvento al potere di una nuova generazione di governo. Ed è fuori di dubbio che a Pechino soffi con maggiore insistenza il vento del nazionalismo.
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di Michele Paris
Il limitato entusiasmo generato dal discorso di Barack Obama, che ha chiuso giovedì la convention democratica, è stato immediatamente ridimensionato dalla pubblicazione poche ore più tardi dei nuovi preoccupanti dati sull’andamento dell’occupazione negli Stati Uniti. La modestissima crescita di posti di lavoro nel mese di agosto ha infatti confermato come il quadro ottimistico della situazione economica dipinto dal presidente sia del tutto illusorio e che la crescita è ancora ben lontana dal portare reali benefici alla maggior parte della popolazione americana.
Secondo i dati diffusi venerdì dal Dipartimento del lavoro, durante il mese appena trascorso l’economia USA ha aggiunto appena 96 mila nuovi posti, un numero nemmeno sufficiente a tenere il passo con la crescita demografica. Secondo un recente studio del think tank Economic Policy Institute, gli Stati Uniti dovrebbe creare almeno 350 mila nuovi posti ogni mese solo per tornare in tre anni ai livelli di disoccupazione precedenti la recessione.
Il tasso ufficiale di disoccupazione è in realtà sceso dall’8,3% di luglio all’8,1% ma soltanto perché 368 mila persone hanno smesso di cercare lavoro e perciò sono rimaste fuori dai calcoli del governo. Per i più giovani, invece, il livello di disoccupazione è salito in un mese dal 16,4% al 16,8%.
A questi dati preoccupanti va aggiunto anche il fatto che le retribuzioni orarie nel mese di agosto sono scese di un altro1%, mentre nell’ultimo anno sono cresciute solo dell’1,7%, cioè meno del tasso di inflazione. Ciò conferma che i pochi posti di lavoro che vengono creati consentono oltretutto ai lavoratori di guadagnare di meno rispetto al recente passato.
Inoltre, il numero delle persone occupate negli Stati Uniti è crollato al 63,5%, vale a dire al livello più basso da 31 anni a questa parte. Come se non bastasse, il Dipartimento del Lavoro ha anche corretto al ribasso i dati sull’occupazione di giugno e di luglio, durante i quali sono stati creati 41 mila posti di lavoro in meno rispetto a quanto inizialmente annunciato.
Ad aggravare la situazione attuale sono anche le politiche del governo federale che, al contrario di quanto è accaduto nelle precedenti crisi economiche, ha contribuito in maniera massiccia all’aumento della disoccupazione. Ad agosto, infatti, 7 mila dipendenti pubblici hanno perso il lavoro, portando il totale a 670 mila dal giugno 2009, data in cui la recessione è ufficialmente terminata negli Stati Uniti.
Numeri simili, di cui Obama si è più volte vantato in campagna elettorale, smentiscono la retorica democratica sentita nei giorni scorsi a Charlotte per cui lo stato dovrebbe svolgere un ruolo fondamentale nel rilanciare l’economia di un paese.
Nella lettura degli ultimi dati sulla disoccupazione, l’amministrazione Obama è apparsa ancora una volta fuori dalla realtà. Il capo dei consiglieri economici della Casa Bianca, Alan Krueger, ha ad esempio affermato che “i dati sono un’ulteriore conferma che l’economia americana sta continuando la sua ripresa”.
Il presidente, da parte sua, nel corso di un evento elettorale in New Hampshire si è limitato a far notare che il numero di posti di lavoro aggiunti ad agosto “non è sufficiente” e ha lanciato un nuovo appello ai repubblicani per l’approvazione della sua proposta di legge di stimolo all’occupazione che consiste principalmente in sussidi e sgravi fiscali per le aziende private.
I dati sulla disoccupazione negli Stati Uniti si accompagnano a quelli altrettanto negativi sull’andamento economico a livello internazionale. Ad agosto, ad esempio, la produzione industriale nei paesi dell’eurozona è scesa per il tredicesimo mese consecutivo, mentre quella cinese ha fatto segnare il rallentamento più marcato dal 2009.
Nonostante i numeri così negativi del Dipartimento del Lavoro americano, la borsa di Wall Street nella giornata di venerdì ha fatto segnare sensibili rialzi. Secondo i commentatori ciò sarebbe la conseguenza delle decisioni annunciate giovedì dal presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, e del probabile prossimo intervento della Fed americana per cercare di invertire il trend negativo.
La reazione sostanzialmente positiva dei mercati riflette però anche il fatto che le grandi aziende americane intendono mantenere a lungo un livello di disoccupazione elevato per forzare i lavoratori ad accettare impieghi sottopagati e privi di diritti.
Di conseguenza, appare tutt’altro che sorprendente che la classe politica americana, e non solo, di fronte ad un tale scenario continui a perseguire politiche che contribuiscono ad aggravare la situazione. Per Obama e i democratici il numero enorme dei senza lavoro costituisce tutt’al più un motivo di preoccupazione che potrebbe mettere a repentaglio le loro chance di vittoria nel voto di novembre.
A conferma del totale disinteresse di Washington per le sorti dei senza lavoro negli Stati Uniti, entrambi i partiti concordano nel non prolungare i sussidi federali di disoccupazione che scadranno a fine anno, così che a gennaio altri due milioni di americani si ritroveranno improvvisamente senza alcun reddito e con ben poche prospettive di trovare un impiego stabile e ben retribuito.