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di Fabrizio Casari
Si chiamano USAID, NED, IRI e con tanti altri nomi, non è la fantasia che manca. Sono gli enti nordamericani che erogano fondi destinati alla destabilizzazione interna di paesi che non dipendono dagli USA. Vengono venduti alle opinioni pubbliche come enti umanitari, ma sono una delle armi preferite dagli Usa nelle ingerenze interne ai paesi terzi. Travestiti da aiuti allo sviluppo, mascherati da sostegno alle ONG, tramite questi enti milioni e milioni di dollari provenienti dalle casse delle istituzioni statunitensi vengono destinati alle opposizioni nei paesi i cui governi risultano ostili a Washington.
Che poi ostili lo siano effetivamente (vedi Paraguay) è sempre dato da relativizzare, giacché per gli Usa il concetto di ostilità risulta decisamente esteso, abbracciando tutto ciò che non è la cieca obbedienza ai voleri della Casa Bianca. Non c’entra niente la democrazia, anzi: i migliori amici di Washington in tutto il pianeta, sono i governi autoritari e privi di legittimazione democratica. E non c’entrano niente nemmeno i diritti umani, dal momento che chi più li viola appare decisamente schierato tra quei stessi regimi, fidi sostenitori del Washington consensus.
A ridurre il peso specifico sullo scacchiere internazionali dei cosiddetti paesi ostili vengono destinate risorse d’ogni tipo: dalle guerre ai blocchi economici, dal terrorismo alla fornitura di armi agli oppositori, dall’isolamento diplomatico alla negazione dei prestiti internazionali.
Ma dove per qualsivoglia ragione questi elementi non risultassero applicabili o, comunque, non sufficienti a determinare il risultato sperato, da diversi anni il governo degli Stati Uniti ha scoperto l’utilità e la percorribilità della sovversione interna ai paesi ostili tramite azioni di diversa natura e utilizzando strumenti, tecniche e risorse destinate alla bisogna. Il cyberspazio e i programmi cosiddetti di “aiuto” sono due elementi decisivi di queste strategie.
E se per quanto riguarda l’utilizzo della Rete le attività sono principalmente svolte dall’interno del territorio statunitense, per quanto attiene al sostegno delle opposizioni interne gli strumenti utilizzati sono ormai di consuetudine l’invio di denaro e di funzionari travestiti da ONG con lo scopo di alzare il livello della conflittualità interna ai paesi che si vogliono attaccare.
Dall’Europa dell’Est all’America latina, dai paesi del Maghreb all’Asia, la destabilizzazione socio-politica dei regimi ostili vede il dispiegarsi di miriadi di fondazioni, Ong, associazioni tutte formalmente all’opera per allargare la democrazia, ma tutte sostanzialmente fondate, finanziate e dirette da Washington.
Le ambasciate statunitensi sono infatti il collante operativo e la copertura diplomatica per la maggior parte di queste organizzazioni é il mantello che le copre. Le loro attività - sulle quali amano romanzare gli adepti nelle redazioni dei giornali amici - sono spacciate in chiave umanitaria dalla potenza di fuoco mediatica statunitense, che si adopera per venderle come indipendenti, disinteressate e al servizio delle istanze democratiche.
Nessuna di queste, ovviamente, opera in forma visibile nei paesi amici di Washington; sono tutte allocate nei cosiddetti paesi ostili, dal momento che la scacchiera sulla quale gli Usa muovono le pedine è comunque, sempre, quella avversaria.
Nei bilanci pubblici di molte delle istituzioni pubbliche e delle associazioni private statunitensi impegnate nella sovversione interna ai paesi ostili emergono con chiarezza cifre e flussi di investimenti che dagli Stati Uniti vengono destinati allo scopo e leggendo con attenzione tra i bilanci si possono trovare le tracce della diplomazia parallela della Casa Bianca.
In una intervista al New York Times nel 1991, Allen Weinstein, uno dei fondatori della NED, disse che “quello che fa la NED oggi è quello che un tempo veniva fatto in maniera clandestina da venticinque anni dalla CIA”. E Marc Plattner, un vice-presidente della NED, spiegò a sua volta così il ruolo dell’organizzazione: “Le democrazie liberali favoriscono chiaramente gli accordi economici che fomentano la globalizzazione e l’ordine internazionale che sostiene la globalizzazione si basa nel predominio militare americano”.
Ogni bel gioco, però, dura poco e i primi segnali dell’inversione di tendenza arrivano proprio dall’America Latina, dove i Ministri degli Esteri dei paesi dell’ALBA (Bolivia, Venezuela, Ecuador, Repubblica Dominicana, Nicaragua, Cuba), riuniti in Brasile, hanno proposto ai rispettivi governi l’espulsione dai loro paesi del personale in forza all’Usaid.
Nel comunicato diramato al termine del vertice, i capi della diplomazia del blocco democratico latinoamericano propongono il provvedimento di espulsione: “In ragione dei progetti che destabilizzano i governi, esercitando una indebita interferenza nelle questioni politiche interne” i paesi dell’ALBA “considerano che la loro presenza costituisce un elemento di perturbazione che attenta contro la stabilità e la sovranità dei paesi”.
L’USAID è accusata di finanziare giornali, ONG, partiti e organizzazioni sindacali - spesso inesistenti negli stessi paesi - in una chiara e sfacciata intromissione negli affari interni, con il proposito di cospirare ed elevare il conflitto politico interno. Nessuna opera caritatevole, nessun aiuto disinteressato, nessun beneficiario e men che mai anonimo: denaro copiosamente inviato a organismi anti-governativi che proprio in ragione del dichiararsi tali percepiscono quote significative. E il business gira: tanto più elevata sarà la capacità di questi di dimostrarsi attivi, tanto più alto, percentualmente, saranno le somme che arriveranno dall'USAID.
Quanto alla storiella degli aiuti disinteressati dell’USAID, i ministri degli Esteri latinoamericani affermano di non avere “nessuna necessità di organizzazioni tutelate da potenze straniere che, in pratica, usurpano e debilitano la presenza degli organi dello Stato impedendogli di sviluppare il ruolo che gli corrisponde nello sviluppo economico e sociale delle nostre popolazioni”, conclude il documento.
Nelle stesse ore nei quali il documento veniva diramato, il governo di Washington negava il via libera ai crediti internazionali per il Nicaragua, a dimostrazione di come gli aiuti siano solo la faccia pubblica di politiche cospirative. I prossimi giorni diranno come si evolverà la questione, ma per quanti sforzi di maquillage la Casa Bianca metterà in campo, i suoi funzionari, anche se travestiti da volontari, dovranno fare le valigie.
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di Mariavittoria Orsolato
E' finita nel peggiore dei modi l'avventura politica di Fernando Armindo Lugo Mendez, l'ex vescovo e teologo della liberazione che il 20 aprile 2008 venne eletto alla presidenza del Paraguay, imponendo una svolta a sinistra dopo 35 anni di feroce dittatura e dopo 17 di quella che i paraguayani definirono “democradura”, ovvero la lunga transizione ultra-conservatrice che seguì la fine di Alfredo Stroessner. Lo scorso venerdì il Senato di Asuncion ha ratificato l'impeachment del presidente, destituendolo dalla carica in quanto “responsabile politico” della morte di 17 persone.
Con 39 voti di condanna, appena 4 di assoluzione e due astenuti, il giudizio dei senatori ha seguito a tempo di record quello della Camera, estromettendo coattamente Lugo dalla presidenza e ponendo alla guida del Paese il vicepresidente in carica Federico Franco, esponente del Partido Liberal Radical Autentico, il più a destra tra i partiti dell'Alianza Patriotica para el Cambio.
Un politico che già agli albori dell’alleanza con Lugo, nel 2008, aveva destato sospetti sulla bontà e sull'onesta del suo impegno con l'ex monsignore e che in questi 4 anni di governo ha fomentato ben 22 tentativi di impeachment, riuscendoci solo al 23esimo. Ma andiamo per ordine.
Venerdì 15 giugno un gruppo di poliziotti che stava eseguendo un ordine di sgombero nella zona di Canindeyú alla frontiera con il Brasile, viene attaccato da tiratori scelti dell’esercito mimetizzati fra i campesinos che reclamavano terre per sopravvivere. L’ordine di procedere arriva direttamente da un giudice e da un pubblico ministero per proteggere un latifondista. Risultato: sul suolo di Curuguaty, la frazione interessata dal blitz, rimangono 17 morti, di cui 6 poliziotti e 11 contadini, e decine di feriti gravi.
Il “fattacio” viene immediatamente strumentalizzato dalla destra dell'oligarchia e dei latifondisti - in Paraguay, è bene ricordarlo, l'89% dei terreni è nelle mani del 2% della popolazione - che vede in esso un'irripetibile occasione per sferrare un duro colpo alla sinistra corporativa, di cui Lugo si fece a suo tempo alfiere, accusandola di fomentare l'odio sociale tra i campesinos e di minare così la sicurezza interna.
L'obiettivo, come scrive il giornalista paraguayo Idilio Méndez Grimaldi, è semplice: “avanzamento del commercio agricolo estrattivista per mano di multinazionali come la Monsanto mediante la persecuzione dei contadini e alla confisca delle loro terre e, infine, l’installazione di una platea conveniente all’oligarchia e ai partiti di destra per il loro ritorno trionfale al potere esecutivo nelle elezioni del 2013”.
Una chiara strategia di delegittimazione da parte di forti poteri esogeni - leggi: grandi multinazionali dell'agricoltura e i governi primomondisti che le assecondano - per riguadagnare il terreno perduto nell'onda socialista che ha travolto il Sudamerica durante gli anni zero e che ha riposizionato le priorità produttive e sociali dei maggiori esportatori di materi prime.
Il modus operandi con cui queste entità internazionali agiscono sul continente latinoamericano sono ben note (golpe e imposizioni di governi fantoccio ma assolutamente autoritari, accondiscendenti con le elites e sanguinari con il popolo) e il sospetto che il piano Condor non sia ancora stato archiviato non può avere in questo caso una matrice complottista.
Dati questi elementi, la manovra del parlamento paraguayano non può essere quindi vista altrimenti se non nei termini di un golpe. E poco importa che quest'ultimo sia stato portato avanti seguendo, a livello procedurale, tutti i crismi dell'iter costituzionale. Lo stesso Lugo nella sua prima apparizione pubblica dopo il voto del Senato, ha definito la sua estromissione un “golpe parlamentare”.
L'ex vescovo ha spiegato a una folla di circa 500 suoi sostenitori, radunati ad Asuncion e pronti a protestare, di aver accettato la sua estromissione pur ritenendola ingiusta per non creare problemi di sicurezza. Ha quindi invitato tutti a manifestare in maniera decisa ma pacifica, in modo da evitare nuovi scontri sanguinosi con la polizia.
Nella serata di venerdì le proteste di piazza sono infatti montate velocemente e ma sono state represse con l'usuale violenza nel giro di poche ore. Mentre da Argentina, Brasile, Venezuela, Uruguay, Bolivia ed Ecuador arriva immediata la condanna a quello che le rispettive voci presidenziali definiscono senza timore un colpo di stato. I primi quattro paesi ritirano i propri ambasciatori dal territorio paraguayano “finché non si ristabilisca la democrazia nel paese”, e lo stesso Venezuela di Hugo Chavez ha ordinato il blocco dei rifornimenti di petrolio al paese.
A venire messa in discussione è anche la stessa partecipazione del Paraguay alle comunità di Unasur e Mercosur; il provvedimento dell’espulsione da questi organismi è stato proposto dai paesi membri, in quanto sarebbero venuti a mancare i “principi che caratterizzano una democrazia”. La vigilanza da parte delle democrazie latinoamericane é quindi comprensibilmente alta. Lo spettro di una nuovo periodo di instabilità è infatti nuovamente calato sul Paraguay e il timore che i fatti di Curuguaty siano solo la miccia della polveriera che potrebbe spazzar via gli importanti traguardi raggiunti dalle democrazie sudamericane è tutt'altro che infondato.
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di Carlo Musilli
L'Egitto ha un nuovo Presidente, ma il suo percorso verso la democrazia rimane un'incognita. L'ostacolo maggiore lungo la strada è il ruolo giocato dai militari, che con una serie di colpi di mano hanno svuotato di ogni legalità le ultime elezioni presidenziali, gettando un'ombra autoritaria sugli sviluppi politici dei prossimi mesi. Domenica è salito al potere il primo civile nell'intera storia della Repubblica. A quasi un anno e mezzo dalla caduta del "faraone" Hosni Mubarak, il nuovo leader ha finalmente un nome: Mohammed Morsi, membro dei Fratelli Musulmani, organizzazione islamica internazionale che in Egitto ha una ramificazione politica nel Partito Libertà e Giustizia. Morsi ha battuto alle urne Ahmed Shafik, uomo del passato regime, con il 51,73% dei voti contro il 48,27%. Uno scarto che vale quasi novecentomila schede.
"Sarò il presidente di tutti gli egiziani", ha promesso il neo-eletto dopo una settimana d'incertezza estenuante, in cui sia lui sia il suo avversario si erano a turno autoproclamati vincitori. Morsi è stato più volte schernito come "ruota di scorta", perché la sua candidatura è arrivata solo dopo l'esclusione di Khairat el Shater, il prediletto dell'organizzazione. Eppure, appena ottenuta l'investitura, il Presidente ha subito lanciato segnali d'indipendenza e buona volontà: come prima cosa si è dimesso dalle cariche nella Fratellanza, abbandonando anche la leadership del partito.
A quel punto sono arrivati gli annunci più importanti: Morsi ha garantito che rispetterà i trattati internazionali, compreso l'accordo di pace con Israele (firmato nel 1978 a Camp David da Sadat e Begin), e soprattutto ha promesso che "la rivoluzione continuerà". I Fratelli Musulmani hanno fatto sapere di non voler sgombrare Piazza Tahrir, simbolo della protesta scoppiata nell'inverno 2011 contro Mubarak. Anzi, Mohamed el Beltagui, uno dei massimi esponenti della Fratellanza, ha assicurato che il sit in proseguirà finché non saranno ritirate le modifiche alla Costituzione che attribuiscono enormi poteri ai militari. Un altro membro dell'organizzazione ha detto che il nuovo leader giurerà davanti al Parlamento appena sciolto. C'è però il forte timore che questo atteggiamento si riveli una posa opportunistica più che una vera contrapposizione.
Negli ultimi giorni sono circolate voci secondo cui l'annuncio della vittoria di Morsi sarebbe arrivato dopo una lunga trattativa proprio con i militari, che avevano sempre appoggiato esplicitamente il suo avversario. Il via libera al candidato musulmano sarebbe quindi frutto di un accordo in base al quale il Presidente non cercherà di porre rimedio alle ultime prove di forza che hanno sconvolto l'assetto istituzionale dell'Egitto.
In primo luogo la sentenza con cui la Corte costituzionale ha sciolto il Parlamento, giudicando non valida l'elezione di un terzo dei suoi componenti. La decisione ha reso vane le prime consultazioni democratiche nel Paese dopo le dimissioni di Mubarak, che avevano visto trionfare i partiti islamici, in particolare i Fratelli Musulmani. Risultato: il Consiglio superiore delle forze armate (Scaf) è tornato nuovamente padrone assoluto e ha formato un comitato per scrivere la nuova Costituzione.
Qui inizia il secondo tempo del colpo di Stato. Quando ormai avevano intuito che i musulmani avrebbero vinto anche le presidenziali, i militari hanno modificato la Carta in modo da accentrare nelle proprie mani il potere esecutivo e legislativo fino all'elezione del nuovo Parlamento, che comunque non potrà più metter bocca sulla Costituzione, perché nel frattempo la nuova Assemblea Costituente sarà nominata proprio dallo Scaf. Neanche a dirlo, è stata cancellata ogni forma di controllo delle istituzioni civili sull'operato dell'esercito.
A questo punto rimane da capire se e in che modo Morsi intenda opporsi a tutto questo. Anche volendo, i margini di manovra sono minimi: la sua presidenza è considerata "transitoria" proprio perché manca un Parlamento e un testo costituzionale definitivo. D'altra parte, ancora non è dato sapere quando saranno le prossime elezioni legislative, dal momento che la loro convocazione è subordinata proprio all'adozione della nuova Carta. Per il momento l'Egitto rimane in stallo. La "rivoluzione dell'11 febbraio" sembra già un ricordo lontano.
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di Michele Paris
Dopo l’abbattimento di un aereo da guerra turco al largo della costa siriana venerdì scorso, la tensione tra Damasco e Ankara continua a rimanere oltre i livelli di guardia. Inizialmente, la reazione del governo di Erdogan era stata in realtà contenuta ma i toni si sono fatti più accesi a partire dalla giornata di domenica, con ogni probabilità in seguito a consultazioni con gli Stati Uniti, tanto che la Turchia ha chiesto per oggi la convocazione d’urgenza di un meeting tra i membri della NATO a Bruxelles per decidere la risposta da adottare nei confronti della Siria.
Secondo la ricostruzione delle autorità di Damasco, l’aereo turco, un jet F-4 Phantom, aveva violato lo spazio aereo siriano volando a bassa quota a pochi chilometri dalla città costiera di Latakia, non lontano dalla località di Tartus che ospita l’unica base navale russa nel Mediterraneo. Per gettare acqua sul fuoco, la Siria aveva subito dichiarato che l’incidente non rappresenta un attacco contro la Turchia, bensì “un atto in difesa della nostra sovranità”.
Da Ankara, subito dopo l’abbattimento, era giunta l’ammissione di un possibile sorvolo “accidentale” dello spazio aereo siriano durante una ricognizione di routine, mentre i due paesi si erano subito impegnati congiuntamente con squadre di soccorso alla ricerca dei resti del velivolo e dei membri dell’equipaggio.
Domenica, invece, Ankara ha optato per una linea più dura nei confronti di Damasco, sostenendo che l’aereo da guerra è stato abbattuto mentre sorvolava acque internazionali a 21 chilometri dalla costa siriana. Il Phantom dell’aeronautica turca era entrato brevemente nello spazio aereo siriano ma è stato preso di mira e neutralizzato svariati minuti dopo esserne uscito. Per Ankara, inoltre, le autorità siriane sapevano che l’aereo era turco e non avrebbero fatto nulla per mettersi in contatto con l’equipaggio.
Il ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu, ha così fatto sapere di aver chiesto una riunione di urgenza della NATO secondo il dettato dell’Articolo 4 del Trattato, che prevede consultazioni tra i 28 paesi membri quando uno di questi ultimi ritiene che sia minacciata la sua integrità territoriale, la sua indipendenza politica o la sua sicurezza. Com’è evidente, nessuna di queste minacce incombe sulla Turchia dopo i fatti di venerdì. Davutoglu, peraltro, ha evitato alcun riferimento diretto all’Articolo 5, secondo il quale è previsto un intervento armato dell’Alleanza quando viene attaccato un paese membro.
Come hanno dimostrato numerosi resoconti giornalistici in questi mesi, a ben vedere, l’ospitalità fornita dalla Turchia ai gruppi “ribelli” anti-Assad e il traffico di armi verso il confine meridionale grazie al finanziamento di Arabia Saudita e Qatar con la supervisione americana, appare se mai Ankara a rappresentare una chiara minaccia alla sicurezza e all’integrità territoriale siriana.
C’è da chiedersi, inoltre, quali sarebbero state le reazioni dell’Occidente e dello stesso governo Erdogan a parti invertite, cioè se un aereo da guerra siriano avesse invaso lo spazio aereo turco o di un altro paese della regione alleato degli Stati Uniti. In ogni caso, non è emersa finora alcuna evidenza del fatto che i turchi abbiano informato i siriani, come sarebbe stato opportuno, nel caso quella in corso venerdì sulle acque del mediterraneo sia stata effettivamente un’esercitazione, come sostiene Ankara. Una mancanza grave e foriera di conseguenze alla luce della profonda crisi che caratterizza i rapporti tra i due paesi vicini fin dall’esplosione del conflitto in Siria.
Ciononostante, dopo l’incontro di domenica con Davutoglu, il segretario di Stato USA, Hillary Clinton, ha emesso un comunicato ufficiale con il quale Washington ha condannato fermamente quello che è stato definito un “atto inaccettabile”. Sulla stessa linea d’onda è apparso anche il ministro degli Esteri britannico, William Hague, per il quale l’abbattimento del velivolo turco è stato un gesto “oltraggioso”. L’Unione Europea, a sua volta, ha condannato l’episodio e, nella giornata di lunedì, ha approvato una serie di nuove sanzioni contro Damasco nel corso di un vertice in Lussemburgo.
Anche se l’occasione è stata immediatamente sfruttata da alcuni governi per una nuova escalation dei toni contro il regime di Assad, la risposta di molti paesi è stata relativamente contenuta e si è risolta finora in un appello ad Ankara per mantenere la calma. Il meeting NATO di oggi contribuirà comunque a fare maggiore chiarezza su come i paesi membri intenderanno sfruttare l’incidente di venerdì per aumentare le pressioni su Damasco.
L’episodio del Phantom turco, secondo alcuni, potrebbe segnare una tappa importante nella crisi siriana e costituirebbe anche un messaggio esplicito lanciato alla Turchia, il cui governo islamista moderato è passato da poco più di un anno da una stretta partnership con Damasco - nell’ottica della cosiddetta politica di “zero problemi con i paesi vicini”, elaborata dallo stesso Davutoglu - alla dura condanna del regime di Assad.
Come ha scritto, ad esempio, la testata on-line Asia Times lunedì, l’abbattimento dell’aereo al largo di Latakia può mandare svariati segnali da Damasco verso la Turchia e i suoi alleati occidentali, tra cui quello che il sistema di difesa anti-aereo siriano è efficiente e letale, nel caso fosse nelle previsioni un’azione militare simile a quella riservata alla Libia lo scorso anno, e che Ankara sarà chiamata a pagare un prezzo se intende continuare a interferire negli affari della Siria.
A questo proposito, piuttosto esplicito è stato sabato il portavoce del ministero degli Esteri siriano, Jihad Makdissi, il quale, dopo aver smentito che il suo paese intende cercare un’escalation con il vicino settentrionale, ha affermato chiaramente che Damasco “vorrebbe che la Turchia cambiasse la propria posizione riguardo la Siria”.
Infine, l’azione della contraerea siriana di venerdì potrebbe essere stata sia una sommessa prova di forza da parte del regime di Assad, così da evidenziare i limiti della superiorità militare di Ankara, sia la dimostrazione di come la crisi in corso da oltre un anno in Siria potrebbe facilmente innescare un rovinoso conflitto regionale, con conseguenze pesanti per tutti i paesi vicini, a cominciare proprio dalla stabilità della Turchia.
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di Michele Paris
Nel conflitto siriano, gli Stati Uniti sono impegnati a livello ufficiale soltanto fornendo aiuti di natura umanitaria ai “ribelli” armati che da oltre un anno si battono per il rovesciamento del regime di Bashar al-Assad. Gli sforzi sul campo da parte di Washington, tuttavia, appaiono ben più significativi e, come ha rivelato un recente articolo del New York Times, comprendono il dispiegamento di operativi CIA con il compito di facilitare il trasferimento di ingenti quantità di armi all’opposizione, alimentando la violenza in un paese ormai piombato nella guerra civile.
Il pezzo pubblicato giovedì dal quotidiano newyorchese si basa sulle rivelazioni di anonimi esponenti dell’intelligence americana e di alcuni paesi arabi, i quali descrivono come nel sud della Turchia, al confine con la Siria, siano attivi da qualche settimana svariati agenti della CIA, incaricati appunto di coordinare il traffico di equipaggiamenti militari destinati ai guerriglieri anti-Assad.
Come è risaputo da tempo, i finanziamenti per l’acquisto e la fornitura di armi - tra cui fucili automatici, granate e missili anti-carro - provengono principalmente dalla Turchia e, soprattutto, da Arabia Saudita e Qatar, cioè dai due regimi che si stanno maggiormente adoperando per rimuovere Assad per ragioni geo-strategiche.
Le fonti statunitensi del Times sostengono che il compito degli agenti della CIA sarebbe in particolare quello di evitare che le armi dirette in Siria finiscano nelle mani di gruppi integralisti o legati ad Al-Qaeda che negli ultimi mesi si sono già resi protagonisti di sanguinosi attentati nel paese.
In realtà, nonostante il sostegno pubblico al piano di pace promosso da Kofi Annan, fin dall’inizio della crisi l’amministrazione Obama ha cercato in tutti i modi di rafforzare militarmente i ribelli siriani, senza curarsi delle conseguenze in termini di violenza, e perciò il ricorso ai servizi della principale agenzia di intelligence a stelle e strisce appare come un modo più affidabile per assicurare l’afflusso di armi all’opposizione tramite i più fedeli alleati di Washington nella regione.
Quella rivelata giovedì dal New York Times è probabilmente una delle più importanti prove pubblicate finora da una testata “mainstream” del crescente impegno USA in Siria e conferma come gli americani intendano muoversi verso una qualche forma di intervento armato esterno per risolvere il conflitto.
Al di là delle dichiarazioni pubbliche, infatti, l’assistenza ai ribelli siriani da parte statunitense risulta sempre maggiore. Nello stesso articolo del Times, ad esempio, i membri dell’intelligence intervistati hanno aggiunto che la Casa Bianca sta valutando anche la fornitura ai ribelli di immagini satellitari e altre informazioni sulle posizioni e i movimenti delle forze di sicurezza di Damasco, nonché l’appoggio per creare un “rudimentale servizio di intelligence”.
Tali progetti dimostrano, se mai fosse necessario, come gli Stati Uniti abbiano da tempo preso le parti dell’opposizione in un conflitto che poco o nulla ha ormai a che vedere con la lotta per la democrazia in Siria e che appare invece sempre più uno scontro di natura settaria, sfruttato dalle potenze regionali e mondiali per avanzare i propri interessi strategici in Medio Oriente.L’impegno degli USA in Siria, oltretutto, contraddice anche quanto sostengono gli ambienti delle Nazioni Unite responsabili della missione degli osservatori, sospesa qualche giorno fa proprio a causa dell’aggravarsi delle violenze. Annan, l’attuale segretario generale, Ban Ki-moon, e i vertici della missione in Siria si appellano infatti puntualmente a entrambe le parti del conflitto per porre fine alle violenze. Washington, invece, continua ad accusare unicamente Damasco per il deteriorarsi della situazione nel paese, dipingendo tutta l’opposizione al regime come civili disarmati sottoposti ad una spietata repressione.
L’articolo del Times che rivela la presenza della CIA in Turchia è apparso inoltre pochi giorni dopo la polemica sollevata dal Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, con il governo russo, accusato senza fondamento di fornire nuovi elicotteri da combattimento ad Assad. Le pressioni su Mosca sono proseguite anche questa settimana dopo l’incontro di lunedì tra Obama e Putin a Los Cabos a margine del fallimentare G20 messicano. Qui, il vice consigliere per la sicurezza nazionale, Benjamin Rhodes, ha infatti ribadito che gli USA “vogliono che la vendita di armi al regime di Assad abbia termine”, con un evidente riferimento alla Russia.
Dichiarazioni simili intendono alimentare una campagna mediatica volta ad isolare il Cremlino e indicarlo come il principale ostacolo alla risoluzione della crisi siriana. Nel frattempo, però, dietro le quinte gli Stati Uniti e i loro alleati continuano a fare in modo che i ribelli anti-Assad siano ben armati e intensifichino le loro operazioni, contribuendo così in maniera determinante a gettare il paese nel caos.
D’altra parte, a differenza di quanto riportato quotidianamente dai principali media occidentali, l’aumentato livello delle violenze in Siria da qualche mese a questa parte non è dovuto alla repressione da parte del regime di un movimento democratico dirompente, bensì appare la diretta conseguenza della maggiore intraprendenza dei gruppi di opposizione grazie alla disponibilità di armamenti letali, ottenuti con le modalità descritte ieri dal New York Times.
Che le cose stiano in questo modo lo confermano ormai apertamente anche gli stessi membri dell’opposizione, come ad esempio quelli del Consiglio Nazionale Siriano, alcuni dei quali hanno affermato allo stesso giornale americano che “i sempre più intensi assalti aerei e con l’artiglieria da parte del governo sono dovuti alla necessità di contrastare i progressi fatti dalle forze di opposizione in termini di coordinamento, tattica e disponibilità di armamenti”.