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di Michele Paris
Dopo settimane di polemiche e tensioni diplomatiche, ai dipendenti di alcune ONG finanziate dal governo americano, finiti sotto processo in Egitto, è stato finalmente permesso giovedì di lasciare il paese nord-africano. Il rimpatrio degli attivisti è avvenuto dietro pagamento di una cauzione di oltre 4 milioni di dollari ed è stato seguito da uno strascico di polemiche tra i vertici del regime egiziano e dalle proteste di una popolazione tra cui il sentimento anti-americano continua ad essere ampiamente diffuso.
Secondo quanto riportato dalla Reuters, i dipendenti delle ONG rilasciati sarebbero 15, di cui 8 americani, 3 serbi, 2 tedeschi, un norvegese e un palestinese. Alcuni di loro erano detenuti in carcere, mentre altri si erano rifugiati presso l’ambasciata americana al Cairo. Agli attivisti che hanno lasciato il paese è stata fatta firmare una dichiarazione nella quale si impegnano a tornare in Egitto in occasione del processo a loro carico, anche se, com’è ovvio, nessuno di loro è intenzionato a farlo. Un cittadino americano indagato, in ogni caso, avrebbe deciso di rimanere al Cairo per difendersi dalle accuse in un’aula di tribunale.
Per giungere alla liberazione, l’amministrazione Obama ha fatto ricorso alla minaccia di bloccare sia un prestito in fase di erogazione al governo egiziano da parte del Fondo Monetario Internazionale sia lo stanziamento degli aiuti americani al Cairo, pari a circa 1,3 miliardi di dollari all’anno. Fondamentale per la buona riuscita dell’accordo, di fronte all’impopolarità delle organizzazioni statunitensi, viste come mezzo dell’interferenza di Washington nelle vicende locali, è stato l’intervento dei Fratelli Musulmani e del loro braccio politico (Partito Libertà e Giustizia) che dopo le recenti elezioni detiene la maggioranza nel Parlamento egiziano.
Come ha scritto il New York Times, non è stato però possibile individuare alcun esponente politico, militare o del sistema giudiziario egiziano che abbia dato il proprio assenso all’evacuazione degli attivisti indagati. Quello che viene descritto dal quotidiano newyorchese è un vero e proprio scaricabarile, nel quale accuse reciproche vengono scambiate tra politici e giudici egiziani, nessuno dei quali appare disponibile ad accollarsi la responsabilità dell’accordo con gli USA e a scatenare su di sé l’ira della popolazione. A questo scopo, gli stessi Fratelli Musulmani si sono resi protagonisti di un’operazione di facciata, chiedendo in Parlamento l’apertura di un’indagine ufficiale per stabilire con certezza chi abbia concesso agli attivisti l’autorizzazione ad uscire dal paese.
La contesa era iniziata più di un mese fa con l’emissione da parte dell’autorità giudiziaria egiziana del divieto di lasciare il paese per alcuni attivisti stranieri in seguito all’apertura di un procedimento legale contro organizzazioni no-profit, come le americane NDI (Istituto Nazionale Democratico) e IRI (Istituto Internazionale Repubblicano), entrambe legate alle leadership dei due principali partiti al Congresso USA.
Tra le 43 persone coinvolte nel caso c’era anche Sam LaHood, figlio del ministro dei Trasporti statunitense Ray LaHood e membro dell’IRI. Per costoro l’accusa era di aver violato le leggi locali, risalenti al regime di Mubarak, che richiedono alle ONG straniere di ottenere una speciale licenza delle forze di sicurezza egiziane per poter operare nel paese, così come un’autorizzazione ufficiale per ricevere finanziamenti dall’estero.
Le restrizioni poste alle ONG, per anni con Mubarak al potere non sono state rispettate da queste organizzazioni. Tuttavia, in un clima di forte anti-americanismo dopo la rivoluzione dello scorso anno, le loro attività sono state viste sempre più come un’indebita ingerenza nelle questioni interne di un paese sovrano, così da orientare la transizione egiziana verso un esito favorevole agli interessi di Stati Uniti e Israele.
Quest’ultimo obiettivo, peraltro, è precisamente quello che perseguono sia la giunta militare al potere fin dalla deposizione di Mubarak sia i Fratelli Musulmani e gli altri partiti borghesi nati dopo la rivolta dello scorso anno. Di fronte ad un orientamento di segno totalmente opposto tra la maggioranza della popolazione, per calmare gli animi la nuova classe dirigente egiziana ha cercato così di sfruttare la persecuzione delle ONG americane ed europee, innescando con Washington un conflitto limitato e in gran parte artificioso. Il caso ha però sollevato la prevedibile reazione della Casa Bianca che ha finito per produrre il vergognoso voltafaccia di giovedì delle autorità egiziane e la liberazione degli attivisti sotto accusa.
Secondo un anonimo esponente del governo americano citato dal New York Times, la svolta nelle trattative sarebbe arrivata una decina di giorni fa, quando i Fratelli Musulmani dichiararono pubblicamente il loro appoggio alle ONG straniere, a loro dire fondamentali nella rivelazione delle atrocità commesse dal regime di Mubarak. Successivamente, inoltre, lo stesso partito islamista si è mosso in Parlamento per far approvare una legge che elimini al più presto ogni restrizione sulle attività di queste organizzazioni in Egitto.
A spingere le due parti verso una soluzione positiva della vicenda potrebbe essere stata anche la recente visita al Cairo di alcuni autorevoli senatori statunitensi, tra cui lo stesso presidente dell’Istituto Internazionale Repubblicano, John McCain. L’ex candidato repubblicano alla Casa Bianca in quell’occasione ha espresso parole di elogio per i Fratelli Musulmani, mostrando come tutte le sue perplessità - così come quelle del governo americano - nutrite nel recente passato per il più antico movimento islamista siano ormai fugate dopo che quest’ultimo, dietro la maschera della rivoluzione democratica, si è mostrato ben disposto ad assicurare il mantenimento degli interessi statunitensi in Egitto, a cominciare dal rispetto del fondamentale trattato di Camp David del 1979 con Israele.
Nonostante un accordo sulla liberazione degli attivisti stranieri fosse dunque a portata di mano, nello scorso fine settimana la situazione sembrava essersi complicata nuovamente quando, all’apertura del processo, il giudice che presiede il caso ha deciso di aggiornare l’udienza alla fine di aprile.
Con il rischio concreto che i dipendenti delle ONG potessero rimanere sotto custodia delle autorità egiziane, quanto meno per parecchie altre settimane, gli Stati Uniti hanno forzato la mano e la minaccia di congelare miliardi di dollari di aiuti ad un’economia in affanno ha finito per sbloccare definitivamente la situazione.
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di Mario Braconi
Mentre Wikileaks si sta disgregando, soprattutto a causa del suo carattere e della sua incapacità di leadership, Assange tenta un colpo per ritornare sulla cresta dell’onda. Gliene offre l’opportunità il saccheggio di ben cinque milioni di e-mail sottratte ad un numero imprecisato di impiegati della società di intelligence privata Stratfor (Strategic Forecast) di Austin, Texas.
Benché Assange non abbia rivelato la fonte delle informazioni riservate, lo scorso Natale la Stratfor è stata oggetto di un attacco informatico da parte del collettivo anarchico Anonymous, che, una volta penetrati nei suoi sistemi, hanno sottratto oltre 200 giga di scambi epistolari elettronici non criptati. Uno più uno: Anonymous duetta con Wikileaks ed Assange.
Ed è così che lunedì mattina l’associazione giornalistica Frontline Club, nel quartiere di Paddington a Londra, diventa la vetrina di Assange che, abbandonato il completo scuro, sfoggia uno stile casual chic (jeans e giubbotto di pelle indossato sopra una camicia sportiva). La candida zazzera simpaticamente incontrollata sulla consueta espressione tra l’enigmatico e lo strafottente, il quarantenne australiano annuncia al mondo la pubblicazione delle e-mail riservate scambiate tra la Stratfor e i suoi clienti. Più che la trasparenza in sé e per sé, sembra che egli abbia a cuore le sorti di Wikileaks: non a caso sostiene che la Stratfor abbia preso di mira, oltre che la sua persona, la sua organizzazione.
Sarebbero infatti ben 4.000 le e-mail hackerate correlate all’uno o all’altra. Il resto della filippica è tutto destinato alle malefatte della Stratfor, rappresentata quale essa è in realtà: ovvero una società privata con rapporti intensi e ramificati con il mondo dei media (dalla Reuters alla Gazzetta di Kiev) e con quelli dell’intelligence militare, che si serve di metodi non sempre ortodossi per ottenere le informazioni che vende ai suoi clienti. Nel comunicato stampa si accenna ad un giro di carte prepagate emesse da banche svizzere da utilizzarsi come corrispettivo delle “soffiate”.
I rapporti tra Stratfor e il mondo delle banche d’affari sono certamente molto stretti: in particolare quelli con Goldman Sachs, molti dei cui dipendenti erano destinatari della newsletter pubblicata da Stratfor, come si è appreso quando Anonymous ha messo online tutti gli indirizzi e-mail delle mailing list della società. Tanto è vero che l’amministratore delegato della banca d’affari americana avrebbe investito una bella cifretta (oltre 4 miloni di dollari) in un tale fondo StratCap, il cui scopo sociale sarebbe stato sfruttare le informazioni di Stratfor per ottimizzare i propri investimenti finanziari in titoli di stato e divise.
Non sorprende particolarmente il fatto che una società americana - il cui direttore dell’Intelligence (Fred Burton) viene dritto dritto dai Servizi Segreti del Dipartimento di Stato - abbia obiettivi strategici “allineati a quelli del governo americano”. Tutto sembra tranne che una rivelazione. Inoltre, secondo Assange, la Stratfor passerebbe “dritte” agli agenti del Mossad e sarebbe perfino coinvolta in un misterioso passaggio di documenti di Wikileaks dal Guardian ad Haaretz, avvenuto con la complicità di David Leigh, un giornalista della testata britannica con cui Julian ha litigato. Insomma, come spesso accade quando c’è di mezzo Assange, “molto rumore per nulla”. Cui fa da indigesto complemento un pizzico di antisemitismo strisciante (non è la prima volta che il canuto australiano ne dà prova).
Anche se la versione ufficiale rimasticata normalmente dalla stampa è che la Stratfor sia, se non una Spectre da film di James Bond, certamente una CIA in miniatura, le cose non stanno esattamente così. La reputazione della Stratfor e del suo fondatore e deus ex machina George Friedman sono, e non da oggi, molto discusse. Con una battuta assai efficace Max Fischer, vicecaporedattore del periodico americano The Atlantic, equipara la lettura dei report della società texana a quella del The Economist, solo fatta una settimana più tardi e dopo aver sborsato una cifra astronomica (in effetti, secondo il listino del 2001, un abbonamento alla newsletter costerebbe fino 40.000 dollari all’anno - anche se c’è da scommettere che, una volta che il mondo conoscerà la profondità delle analisi degli impiegati di Friedman, le tariffe crolleranno).
Secondo Fischer, che sostiene di aver ricevuto qualche numero della newsletter come spam, i contenuti tanto preziosi non sarebbero altro che un “pastone” di informazioni di dominio pubblico e di analisi non proprio di primissima mano, dato che spesso assonano con quelle rappresentate il giorno prima sul New York Times. Fischer riporta inoltre la testimonianza via Twitter di una volontaria di un’organizzazione non governativa attiva in Egitto, che sostiene di aver conosciuto personalmente un “agente” della Stratfor: una persona alla sua esperienza in Egitto (pare non sapesse nemmeno raggiungere da solo piazza Tahir) che tra l’altro non parlava una parola di arabo! Se questo è il livello professionale delle risorse sul campo, si può immaginare quanto siano illuminanti le sue analisi strategiche sulla primavera egiziana.
Qualche stralcio dei report di Stratofor è illuminante sul livello di profondità del lavoro degli agenti della società. Prendiamo le “analisi” sull’Italia: “I partiti italiani tendono a cambiare in ogni momento, ma è di fondamentale importanza capire se Berlusconi sia in grado di mantenere il controllo sul paese a dispetto della sua popolarità calante”. Oppure: “Se la recessione picchierà duro, dobbiamo aspettarci una recrudescenza del movimento d’indipendenza dei Lombardi [sic]”; sul nord del Paese: a dispetto della sua evidente disfunzionalità, il nord Italia è in realtà la regione europea più ricca”.
Vediamo anche qualcosa sul Medio Oriente: in una delle e-mail intercettate, Chris Farnham, senior officer della Stratfor, spiega che di un eventuale attacco di Israele all’Iran beneficerebbero soprattutto Russia ed Arabia Saudita (a causa del conseguente aumento dei prezzi del petrolio), sottolineando che il conflitto sarebbe spinto da motivazioni esclusivamente economiche, dal momento che le azioni degli agenti israeliani in Iran avrebbero già castrato le velleità atomiche della Repubblica islamica.
Insomma, sembra proprio che l’intelligence tanto sbandierata dagli uffici marketing della Stratfor nei fatti si riduca a ben poca cosa: informazioni banali, rimasticate da Google, superficiali quando non proprio errate, raccolte da persone con competenze del tutto inadeguate, che mantengono a portata di hacker milioni di e-mail “riservate” ma non crittografate. Perché mai, allora, dare tanta attenzione alla Stratfor?
Prima di tutto perché è stato un bersaglio facile. Inoltre, anche in questo caso pare condivisibile l’analisi di Fischer, che cita una combinazione di “ingenuità e disperazione”. Anonymous è un gruppo di cani sciolti senza una vera agenda politica e alla continua ricerca di un’occasione di visibilità, mentre Assange, dopo l’iniziale colpo giornalistico messo a segno con la pubblicazione del video dell’attacco ai civili messo a segno da un elicottero militare americano in Iraq, ha commesso talmente tanti gravi errori da perdere ogni credibilità e da riuscire a distruggere la sua creatura. Comprensibile da un punto di vista umano il suo tentativo di uscire dall’angolo in cui è stato confinato da una assai discutibile iniziativa giudiziaria originata in Svezia. Resta però l’impressione che si trasformi in un boomerang.
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di Alessandro Iacuelli
La notizia è di quelle degne di fare la storia. L'agenzia di stampa ufficiale nordcoreana, la KCNA, annuncia lo stop ai test nucleari, al lancio di missili a lungo raggio e all'arricchimento dell'uranio nell’impianto di Yongbyon. La notizia era stata anticipata da fonti statunitensi. Pyongyang, riferisce la KCNA, darà poi accesso agli ispettori dell'Aiea per monitorare la moratoria. Secondo l’agenzia, la decisione di Pyongyang è da collegarsi ad una richiesta degli Stati Uniti e "per mantenere un'atmosfera positiva" in quelli che vengono descritti come colloqui bilaterali "di alto-livello" con Washington. Gli americani, aggiunge l'agenzia ufficiale, hanno promesso di fornire 240.000 tonnellate di "aiuti alimentari".
Una decisione che fa ben sperare la comunità internazionale e soprattutto gli Stati Uniti. Di sicuro non è affatto casuale che l'annuncio giunge a pochi mesi dal cambiamento di leadership, dopo che il giovane Kim Jong-Un ha assunto la guida del paese alla morte del padre Kim Jong-Il in dicembre.
"Un primo passo nella direzione giusta - ha commentato Hillary Clinton - dopo la morte di Kim Jong-Il avevo detto che il nostro desiderio era quello di vedere i nuovi dirigenti scegliere di portare il loro Paese sul cammino della pace». Soddisfazione anche da parte della Corea del Sud e dell'Aiea, con la speranza che la moratoria porti alla ripresa del dialogo a sei sul programma nucleare nordcoreano, che coinvolge le due Coree, Cina, Giappone e Stati Uniti.
La corsa agli armamenti di distruzione di massa da parte dell'isolato regime comunista parte nel 1980, con la costruzione del centro di arricchimento di Yongbyon, a 100 chilometri dalla capitale. Il 9 ottobre del 2006 Pyongyang conduce il suo primo test nucleare diventando così l'ottava potenza atomica al mondo. Solo quattro mesi dopo, nel febbraio del 2007, accetta in cambio di aiuti di cominciare a smantellare il reattore di Yongbyon e permettere di nuovo l'ingresso nel Paese agli ispettori Aiea.
Il 25 maggio del 2009 Pyongyang annuncia di aver condotto il suo secondo, e fino a oggi ultimo, test nucleare. Il complesso di Yongbyon è considerato la "capitale" del programma nucleare nordcoreano. Si tratta di un reattore da 5 megawatt, un impianto per la produzione di combustibile e di uno per il riprocessamento del plutonio dalle barre di uranio, cui si va ad aggiungere un secondo reattore da 50 megawatt, la cui costruzione fu sospesa nel 1994 e poi ripresa.
Secondo gli esperti, il complesso è in grado di produrre materiale per una bomba atomica l'anno. Avrebbe dovuto essere smantellato in base all'accordo raggiunto nei colloqui a sei del 2007, ma im Jong-Il non lo ha rispettato. Stando alle più recenti informazioni raccolte dai servizi segreti di Stati Uniti e Corea del Sud, l'arsenale balistico nordcoreano sarebbe composto da oltre mille missili di varia gittata.
La Casa Bianca considera la moratoria nucleare nordcoreana come "un primo positivo passo", davvero benvenuto ma che "deve essere seguito da azioni concrete". "Si tratta certamente di uno sviluppo notevole, ma abbiamo bisogno di concentrarci su azioni, come pure gli accordi", ha affermato il portavoce Jay Carney, aggiungendo che Washington continuerà la sua politica a riguardo "con in mente quest'approccio".
E' il primo segno di disgelo dopo la morte del dittatore Kim Jong-il. Il patto, frutto di una serie di intensi negoziati guidati dal segretario di stato americano Hillary Clinton, rappresenta una piccola vittoria diplomatica per il presidente Obama ad appena 9 mesi dalle elezioni presidenziali.
In cambio gli Stati Uniti invieranno 240.000 tonnellate di aiuti alimentari a una nazione dove la popolazione è malnutrita e sull'orlo della fame. Le forniture potrebbero consolidare il potere del nuovo inesperto leader, il 29enne Kim Jong-un, desideroso di migliorare le condizioni di vita della popolazione nell'anno che segna il centenario del nonno Kim Il-sung, il fondatore della nazione.
E' proprio sulle intenzioni del giovane Kim Jong-un, completamente sconosciuto alla diplomazia internazionale, che resta ancora qualche dubbio politico: il patto con gli Stati Uniti sarà valido infatti solo se "i negoziati procederanno in modo positivo". Non sarebbe la prima volta inoltre che Pyongyang viene meno a un accordo stretto con gli Usa, esigendo concessioni aggiuntive o accusando Washington di non rispettare i patti.
Ecco quindi perché il Dipartimento di Stato ha ribadito di restare preoccupato per l'atteggiamento della Corea del Nord in molti campi, ma gli sforzi diplomatici americani, culminati due settimane fa con un terzo vertice bilaterale nel giro di sei mesi a Pechino, getta le basi per riaprire il dialogo a sei sul disarmo, sospeso nel 2009 dopo il lancio sperimentale di una testata nucleare e l'espulsione degli ispettori dell'Aiea.
Il dialogo tra le due Coree, il Giappone, la Cina, la Russia e gli Stati Uniti è secondo Washington il presupposto per poter raggiungere una risoluzione pacifica della crisi nella penisola coreana, e l'America ha ventilato la possibilità di sospendere le sanzioni contro la Corea del Nord se i negoziati dovessero riprendere. Le tensioni tra le due Coree sono pericolosamente salite negli ultimi anni dopo la sospensione degli aiuti umanitari diretti a Pyongyang nel 2008 e l'attacco nordcoreano nel 2010 contro una nave da guerra sudcoreana in cui sono morti 50 marinai.
Ieri la Casa Bianca ha evitato con prudenza di definire quest'ultimo accordo una vittoria per il presidente Obama. Ma indubbiamente da oggi il presidente potrà meglio difendersi dalle critiche della destra repubblicana sui mancati progressi della sua politica estera, specie nei confronti delle nazioni nemiche. Obama si recherà nella Corea del Sud a fine marzo.
Anche Pechino si è aggregata al coro ottimista dei commenti, salutando positivamente la mossa nordcoreana: "La Cina desidera lavorare con le parti per continuare a spingere in avanti il processo del dialogo a sei", ha dichiarato il portavoce del capo della Diplomazia cinese, Hong Lei.
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di Michele Paris
Il ritorno alla vittoria di Mitt Romney martedì in Michigan e in Arizona ha permesso al miliardario mormone di fermare la rimonta del suo principale rivale per la nomination repubblicana, l’ex senatore della Pennsylvania Rick Santorum, e di riconquistare un certo slancio in vista dei prossimi appuntamenti elettorali. Pur senza fugare i dubbi che in molti nel partito continuano a nutrire nei suoi confronti, Romney sembra comunque poter guardare ora all’imminente Supermartedì con una certa fiducia, nonostante una serie di primarie e caucus sulla carta tutt’altro che agevoli.
Il Michigan, in particolare, era visto come un test cruciale per il candidato repubblicano con i maggiori mezzi finanziari a disposizione. Qui, infatti, Romney è nato e cresciuto, mentre il padre ha ricoperto la carica di governatore negli anni Sessanta. La sua opposizione al salvataggio di General Motors e Chrysler da parte dell’amministrazione Obama nel 2009 e le accuse di elitismo lanciategli dagli avversari dopo alcune gaffes sulla sua ricchezza in uno degli stati più colpiti dal tracollo dell’economia americana, avevano tuttavia ridotto sensibilmente il margine di vantaggio che vantava su Santorum fino ad un paio di settimane fa.
In alcuni recenti sondaggi, quest’ultimo appariva addirittura in vantaggio, anche grazie ad un certo successo del suo appello populista tra i settori della working-class più disorientati dalla crisi economica. A rimettere in piedi un Romney che godeva dell’appoggio di tutto l’establishment repubblicano del Michigan, è stata più che altro una nuova ondata di messaggi elettorali finanziati da una campagna milionaria e, in definitiva, gli stessi limiti di Santorum nell’allargare la propria base elettorale al di là degli ambienti più conservatori.
I risultati definitivi in Michigan hanno in ogni caso consegnato a Romney una vittoria di misura, con il 41,1% dei consensi contro il 37,9% per Santorum. Al terzo posto è giunto il deputato libertario del Texas, Ron Paul (11,6%), davanti all’ex speaker della Camera, Newt Gingrich (6,5%), il quale non aveva praticamente fatto campagna elettorale nello stato. In termini di delegati conquistati, tuttavia, il successo di Romney è stato neutralizzato dalla prestazione di Santorum. Il Michigan assegna infatti i delegati in palio (30) in base ai risultati ottenuti dai candidati in ogni singolo distretto elettorale, così che i primi due classificati finiranno per spartirsi un numero pressoché uguale di delegati.
Al vincitore delle primarie dell’Arizona, invece, sono stati attribuiti tutti e 29 i delegati in palio. Nello stato del sud-ovest degli Stati Uniti, un Romney sostenuto sia dalla governatrice, Jan Brewer, che dal senatore John McCain, ha inflitto un distacco di oltre 20 punti a Santorum (47,3% a 26,6%), penalizzato anche da una performance poco convincente in un dibattito televisivo andato in scena settima scorsa nella città di Mesa. Ancora più staccati sono stati Gingrich e Paul, attestati rispettivamente al 16,2% e all’8,4%.
Al termine dei primi due mesi di primarie repubblicane, Mitt Romney ha conquistato sei stati (New Hampshire, Florida, Maine, Nevada, Arizona e Michigan), quattro sono andati a Rick Santorum (Iowa, Colorado, Minnesota e Missouri) e uno a Newt Gingrich (Carolina del Sud).
Anche se Mitt Romney è dunque riuscito a risollevarsi dopo le sconfitte per mano di Santorum tre settimana fa in Colorado, Minnesota e Missouri, le perplessità nei suoi confronti dell’ala più reazionaria del Partito Repubblicano rimangono molti forti. Tanto più che l’elettorato repubblicano in queste primarie appare spostato sempre più a destra, come hanno confermato gli exit poll in Michigan.
Qui il 40% dei votanti si è definito cristiano evangelico e il 30% di fede cattolica, come Santorum. Romney continua ad essere visto con sospetto dalla destra evangelica e dagli aderenti ai Tea Party, sia per le sue precedenti posizioni relativamente liberal sui temi sociali sia per la firma che ha posto sulla legge relativa alla copertura sanitaria in Massachusetts che pare essere servita da modello alla riforma di Obama.
Il fondamentalismo cristiano di Rick Santorum sta trovando così terreno fertile tra le frange più retrograde dei votanti in queste primarie repubblicane. Non a caso, il voto di martedì è stato preceduto da una serie di inquietanti interventi pubblici di stampo ultra-conservatore dell’ex senatore della Pennsylvania, ad esempio contro i metodi contraccettivi, l’interruzione di gravidanza, l’emancipazione femminile, l’accesso al college o la separazione tra stato e chiesa.
Posizioni estreme, queste ultime, che hanno verosimilmente allontanato una parte degli elettori in Michigan e messo i brividi ai vertici del partito e ai commentatori conservatori, preoccupati che l’eventuale nomination di Santorum possa portare ad una sicura sconfitta repubblicana contro Obama il prossimo novembre. Addirittura, alcuni giornali nei giorni scorsi erano giunti ad avanzare l’ipotesi che l’eventuale emergere di Santorum come “front-runner” avrebbe potuto spingere un nuovo autorevole candidato repubblicano a entrare in corsa per la nomination a primarie già in corso.
Particolarmente allarmanti, anche per la loro natura profondamente anti-democratica, sono state le parole dello stesso Santorum in un’apparizione settimana scorsa nel programma della ABC “This Week”. Parlando di una sua precedente osservazione circa John F. Kennedy, Santorum ha ribadito la sua totale disapprovazione per l’allora candidato democratico alla presidenza quando, in un discorso tenuto di fronte ad una convention di ministri di fede battista nel 1960, riaffermò il principio costituzionale di separazione tra stato e chiesa.
Santorum ha affermato di non credere “in un’America dove la separazione tra Stato e Chiesa è assoluta” e che “l’idea che la Chiesa non possa avere alcuna influenza sulla vita dello Stato è del tutto antitetica alla natura e agli obiettivi del nostro paese”. La posizione sostenuta da Santorum, peraltro ben poco sorprendente alla luce delle opinioni da lui espresse in questi mesi, contiene una grave minaccia alle fondamenta stesse del secolarismo su cui sono stati fondati gli Stati Uniti.
Santorum e gli estremisti cristiani che lo appoggiano sembrano infatti avere una visione quasi pre-illuminista dei rapporti tra Stato e Chiesa e auspicano una pericolosa interferenza della religione nelle politiche dello stato per influenzare la legislazione in ogni ambito, dall’interruzione di gravidanza all’educazione.
In risposta a questa deriva, Romney da parte sua non ha proposto un’alternativa moderata, bensì ha evitato di sollevare i temi sociali più scottanti ed ha attaccato da destra Santorum sulle questioni economiche, di gran lunga in cima alla lista delle preoccupazioni di tutti gli elettori americani.
La chiave per il successo finale di Romney in queste primarie risiede appunto nella sua eventuale capacità di affermarsi come il candidato più idoneo a far ripartire l’economia americana, facendo passare in secondo piano le questioni sociali che, allo stesso tempo, risultano però al centro dell’attenzione di buona parte degli elettori che dovrà conquistarsi per centrare la nomination.
Le chances di Romney verranno severamente messe alla prova il 6 marzo prossimo, quando nel tradizionale Supermartedì sarà in palio complessivamente circa il 40% dei delegati necessari per assicurarsi la nomination repubblicana. In questa tornata saranno chiamati al voto alcuni stati nel sud del paese e del mid-west (Tennessee, Oklahoma, Georgia, Ohio), nei quali Romney potrebbe faticare a raccogliere consensi, mentre dovrebbero essere più favorevoli a Santorum o a Gingrich. Questi ultimi non appariranno però sulle schede in un importante stato come la Virginia, dove non hanno raccolto abbastanza firme per presentare la loro candidatura, lasciando perciò la strada spianata a Romney.
Se, come previsto, dal Supermartedì non uscirà un chiaro favorito, ci saranno tutte le condizioni per una corsa prolungata e dispendiosa nella quale a risultare decisive saranno le risorse finanziarie a disposizione dei vari candidati e delle SuperPAC che li sostengono. Le sorti delle campagne elettorali dei contendenti repubblicani sono infatti in gran parte determinate dalla generosità di un ristretto numero di facoltosi donatori, in grado di iniettare decine di milioni di dollari in una competizione caratterizzata dalla generale indifferenza della maggior parte degli americani.
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di Carlo Musilli
Domenica prossima Vladimir Putin sarà eletto ancora una volta Presidente della Federazione Russa. L'ennesimo trionfo dello Zar è già inciso sulla pietra, ma il voto rappresenterà comunque un giro di boa importante per l'intero Paese. Il futuro della Russia è appeso al filo di due interrogativi: l'ex numero uno dei servizi segreti vincerà subito o al secondo turno? Dopo la sua rielezione, come si comporteranno la polizia e l'esercito nei confronti del movimento di protesta anti-regime?
Partiamo dal secondo punto. Da oltre due mesi le strade di Mosca e di molte altre città sono intasate regolarmente da gigantesche manifestazioni contro il dispotismo di Putin. L'ultima in ordine di tempo è quella che ieri ha portato decine di migliaia di persone a tenersi per mano intorno all'anello dei giardini, nel cuore della capitale. Una catena umana lunga la bellezza di 16 chilometri. Anche stavolta gli attivisti sono stati attentissimi a non infrangere le regole - o quantomeno a farlo il meno possibile - per non dare alcun alibi alla repressione della polizia.
In realtà negli ultimi tempi le forze dell'ordine al soldo di re Vladimir hanno abbassato di molto gli standard d'illegalità a cui i civili russi erano abituati. Non per buon cuore, ma per evidente calcolo elettorale del loro capo, che cerca in tutti i modi di assicurare una parvenza di credibilità all'ormai prossima vittoria. Il movimento di protesta è nato infatti dopo le consultazioni parlamentari dello scorso 4 dicembre, che a suon di brogli hanno dato la vittoria - ma stavolta non la maggioranza assoluta nella Duma - al partito dello Zar, Russia Unita.
Quando però dalle urne uscirà l'ennesimo verdetto inverosimile, cosa accadrà? E' molto probabile che l'intera Federazione sarà percorsa da rivolte e contestazioni molto meno pacifiche di quelle registrate nelle ultime settimane. A preoccupare sono soprattutto quelle regioni al di là degli Urali dove la divisione non si gioca solo sul campo della politica, ma anche su quello della religione e dell'etnia.
A quel punto il Presidente - a campagna elettorale ormai archiviata - si porrà seriamente il problema di tenere sotto controllo lo sterminato territorio su cui domina. E verosimilmente lo farà usando lo strumento che gli è più congeniale: la repressione poliziesca indiscriminata. Magari con una spruzzata d'esercito qua e là. Nella peggiore delle ipotesi si apriranno nuovi fronti di guerra civile. Altrimenti torneranno semplicemente ad aumentare le ormai tradizionali violazioni dei diritti, umani e civili.
Tutto questo scenario è strettamente collegato al modo in cui Putin sceglierà di vincere. Il controllo che ha sugli scrutini - per quanto i brogli siano spesso rozzi e più che evidenti - è talmente esteso che gli consente di determinare con una certa serenità se arrivare o meno al ballottaggio.
L'eventuale secondo turno porterebbe con sé un indubbio surplus di credibilità: più la vittoria sembrerà sudata, meno legittime appariranno le contestazioni. Un vantaggio che al Cremlino farebbe sicuramente comodo.
D'altra parte, qualunque strada alternativa all'affermazione indiscussa intaccherebbe la reputazione dello Zar, la sua immagine di leader carismatico, virile e invincibile. Difficile ipotizzare che Vladimir possa rinunciare a tutto questo. E non parliamo solo del suo potere sulla mostruosa macchina piramidale dello Stato russo, ma dello stesso rapporto che ha (o crede di avere) con i cittadini. Putin di politica non parla mai.
Il cuore della sua ultima campagna elettorale non ha nulla a che vedere con quello di cui la Russia avrebbe bisogno dal punto di vista sociale, economico o delle relazioni internazionali.
Il vero strumento della propaganda putiniana - almeno dal punto di vista mediatico - sono le donne a seno nudo. Bellissimi corpi femminili esibiti mentre dichiarano il proprio amore incondizionato per il super macho Vladimir. E lui ci mette del suo facendosi ritrarre in situazioni alla Rambo, come la lotta a mani nude con gli orsi o la caccia alle tigri. Uno degli spot più agghiaccianti fra quelli andati in onda si chiude con un riferimento sessuale esplicito: "Putin, la prima volta è solo per amore". Peccato che il suo regime duri ormai da dodici anni.