di Michele Paris

L’amministrazione Obama, qualche giorno fa, ha annunciato ufficialmente che i cinque detenuti a Guantanamo accusati di aver orchestrato la strage dell’11 settembre saranno processati in un tribunale militare speciale presso la base americana sull’isola di Cuba. Il presunto principale ideatore degli attacchi alle Torri Gemelle, Khalid Sheikh Mohammed, e gli altri quattro accusati dovranno fronteggiare accuse che prevedono la pena capitale in un procedimento nel quale saranno esclusi gran parte dei diritti basilari garantiti agli imputati in un normale processo civile.

Oltre al kuwaitiano Mohammed, davanti alla commissione militare appariranno anche gli yemeniti Walid bin Attash - accusato di aver reclutato e addestrato alcuni dirottatori - e Ramzi bin al-Shibh, uno degli architetti dell’11 settembre e membro della cosiddetta “cellula di Amburgo” che non ottenne tuttavia il visto per entrare negli Stati Uniti nel 2001; il pakistano Ali Abdul Aziz Ali (Ammar al-Baluchi), nipote di Mohammed, e il saudita Mustafa Ahmed al-Hawsawi, entrambi responsabili del trasferimento di denaro ai dirottatori dagli Emirati Arabi.

Tutti e cinque gli imputati sono stati arrestati in Pakistan tra il 2002 e il 2003, detenuti e torturati in prigioni segrete della CIA e trasferiti nel lager di Guantanamo nel settembre 2006. Khalid Sheikh Mohammed, in particolare, pare sia stato sottoposto per ben 183 volte a waterboarding, o annegamento simulato, così come ad altre forme di tortura per mano dei servizi segreti statunitensi prima di confessare le proprie responsabilità nei fatti dell’11 settembre e in svariati altri crimini reali o presunti.

La decisione presa questa settimana dal Pentagono è il risultato dell’inversione di rotta del presidente Obama e del suo ministro della Giustizia, Eric Holder, sul precedente impegno di processare i fautori degli attentati in un tribunale civile a New York. La scelta di un tribunale militare a Guantanamo permetterà così al governo americano di evitare qualsiasi controversia pubblica sulle detenzioni illegali e i metodi di tortura messi regolarmente in atto nella “guerra al terrore”, ma anche l’emergere di rivelazioni scomode relative ad eventuali responsabilità dei servizi segreti USA.

Il processo prenderà il via il mese prossimo e sarà soggetto al rigido controllo delle autorità militari. Come ha svelato un recente articolo del Miami Herald, ad esempio, le fasi del procedimento che verranno trasmesse in video ai famigliari delle vittime dell’11 settembre avranno un ritardo di 40 secondi, in modo da poter bloccare la diffusione di informazioni riservate.

I cinque imputati, inoltre, saranno sottoposti ad un unico processo collettivo e tutti rischiano concretamente la pena di morte nonostante i crimini di cui sono accusati siano molto diversi tra loro. Ali Abdul Aziz Ali, come ha denunciato il suo legale, è accusato soltanto di aver trasferito del denaro, un reato ovviamente non perseguibile con la pena capitale in un tribunale federale americano.

Le commissioni militari speciali erano state istituite dall’amministrazione Bush con il Military Commission Act del 2006 per poi essere sospese temporaneamente dopo l’elezione di Obama, il quale aveva promesso di eliminare questa sorta di giustizia a doppio binario e di chiudere il carcere di Guantanamo.

Nel febbraio del 2008, i cinque imputati in questione erano stati formalmente accusati di aver pianificato e messo in atto gli attacchi dell’11 settembre a New York, Washington e Shanksville, in Pennsylvania, risultanti nell’uccisione di 2.976 persone e per aver commesso altri crimini di terrorismo, dirottamento, cospirazione e omicidi in violazione del diritto di guerra.

Il procedimento era stato successivamente congelato dal nuovo inquilino della Casa Bianca, secondo il quale tutti i detenuti a Guantanamo avrebbero dovuto perciò essere liberati o processati in tribunali civili in territorio americano. Questa svolta ha però incontrato la ferma resistenza dei repubblicani e di buona parte dei democratici al Congresso che hanno ben presto approvato alcune misure per bloccare il trasferimento dei detenuti dalla giustizia miliare a quella civile. Obama ha alla fine ceduto e, nel marzo dello scorso anno, oltre ad ammettere l’impossibilità di chiudere il famigerato carcere di Guantanamo in tempi brevi, ha resuscitato i tribunali militari, sia pure introducendo qualche debole garanzia in più per gli imputati.

Allo stesso tempo, il presidente democratico, eletto nel 2008 grazie alla mobilitazione di gran parte della popolazione americana desiderosa di chiudere una delle pagine più nere della storia del proprio paese, ha firmato un decreto per consentire la detenzione indefinita e senza accuse formali né processo dei presunti terroristi a Guantanamo. Esattamente un anno fa, poi, il ministro Holder, anche se in maniera “riluttante”, ha ufficialmente rinunciato a portare Mohammed e gli altri quattro imputati di fronte ad una corte federale di New York, riconoscendo l’inevitabilità di processarli in un tribunale militare secondo il Military Commission Act.

Dopo il voltafaccia dell’amministrazione Obama, nel giugno 2011 le stesse accuse relativamente ai fatti dell’11 settembre sono state nuovamente formulate contro i cinque sospettati. Mercoledì scorso, infine, il vice ammiraglio in pensione Bruce MacDonald del Dipartimento della Difesa, cioè l’ufficiale con l’incarico di supervisionare la commissione militare, ha autorizzato l’apertura del processo a Guantanamo.

La decisione presa dall’amministrazione Obama ha suscitato le dure proteste delle associazioni a difesa dei diritti civili. L’American Civil Liberties Union (ACLU) in una dichiarazione ufficiale ha affermato che il presidente “sta facendo un terribile errore sottoponendo il più importante processo di terrorismo dei nostri tempi ad un sistema giudiziario di seconda classe”.

Le commissioni militari, secondo l’ACLU, “sono state istituite per ottenere facili condanne e nascondere la realtà delle torture, non per assicurare un giusto processo”. Inoltre, qualsiasi verdetto emesso risulterà “macchiato”, mentre il ricorso ai tribunali militari “significa che, agli occhi della nostra nazione e del resto del mondo, giustizia non sarà mai realmente fatta”.

Più che un “errore”, in realtà, la decisione rappresenta la logica conseguenza di una politica perseguita da Obama in materia di anti-terrorismo che è spesso andata ben oltre le aberrazioni legali di cui si era macchiato il suo predecessore.

Alcune delle tappe fondamentali del processo di smantellamento dei diritti democratici negli Stati Uniti sono giunte proprio in questi ultimi mesi. Lo scorso 31 dicembre, il presidente ha posto la propria firma su un provvedimento che legalizza la detenzione indefinita presso l’autorità militare, anche senza prove né processo, di chiunque sia sospettato di legami con gruppi terroristici. Ai primi di marzo, invece, lo stesso Holder ha esposto la giustificazione pseudo-legale attribuita al presidente di ordinare l’uccisione di presunti accusati di terrorismo, cittadini americani compresi, in qualunque angolo del pianeta.

Ben lontano dal rendere giustizia per un orrendo crimine che è costato la vita a quasi 3 mila persone, il processo che si prepara a Guantanamo contro Khalid Sheikh Mohammed e i suoi complici è un atto che svilisce il diritto e calpesta le garanzie costituzionali degli imputati, creato appositamente per ottenere un verdetto già scritto e per seppellire una volta per tutte le ombre che tuttora avvolgono i fatti dell’11 settembre 2001.

di Michele Paris

A pochi giorni dal voto in Myanmar che ha segnato l’ingresso in Parlamento di Aung San Suu Kyi e del suo partito (LND), gli Stati Uniti hanno prontamente annunciato iniziative per rimuovere alcune delle sanzioni economiche che pesano sul paese del sud-est asiatico. La mossa di Washington si accompagna ad una serie di misure già implementate dal regime o in fase di adozione, volte a modernizzare il proprio sistema finanziario per favorire l’afflusso di capitali esteri.

Il Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, mercoledì ha reso noto che la Casa Bianca ha iniziato il processo di “allentamento mirato” delle restrizioni, a cominciare dal divieto alle compagnie statunitensi di esportare servizi finanziari e di investire in Myanmar. Come già anticipato a gennaio, per la prima volta dal 1990, gli Stati Uniti sono anche ad un passo dal nominare un ambasciatore in questo paese.

Secondo Hillary, la quale lo scorso dicembre era stata protagonista di una storica visita nella ex Birmania, l’amministrazione Obama dovrebbe poi tornare a consentire l’ingresso negli USA dei membri del regime, così come riaprire in Myanmar un ufficio dell’agenzia americana per lo Sviluppo Internazionale, che servirà a veicolare gli aiuti economici provenienti da donatori stranieri. Inoltre, verranno cancellate le restrizioni sull’attività in Myanmar delle organizzazioni non governative operanti negli ambiti sanitario, ambientale e dell’educazione.

La maggior parte delle sanzioni americane, tuttavia, sono il risultato di leggi approvate dopo la repressione seguita alle elezioni del 1990 vinte dalla Lega Nazionale per la Democrazia di Aung San Suu Kyi, così che per rimuoverle definitivamente sarà necessario un voto del Congresso. L’amministrazione Obama ha però affermato che farà quanto le è consentito per eliminare alcuni di questi ostacoli. Il Dipartimento del Tesoro, ad esempio, ha facoltà di rilasciare licenze speciali per coloro che, sotto stretto controllo governativo, intendono investire in Myanmar.

Il gesto di distensione di Washington era ampiamente atteso ed è la risposta diretta alle “riforme” democratiche di facciata messe in atto dopo le elezioni del 2010 dal regime nominalmente civile con a capo il presidente Thein Sein, ex primo ministro e già membro della giunta militare al potere da oltre due decenni.

La presunta svolta del Myanmar è dettata principalmente da ragioni strategiche. L’obiettivo del governo è cioè quello di allentare i legami con Pechino per riavvicinarsi all’Occidente e, in particolare, agli Stati Uniti, a loro volta nel pieno di uno storico riorientamento della propria politica estera con al centro dell’attenzione l’estremo oriente in funzione di contenimento dell’espansionismo cinese.

Il Myanmar rimane comunque uno dei paesi più poveri e arretrati del sud-est asiatico e, dopo vent’anni di sanzioni dispone di un sistema finanziario totalmente inadeguato. Ciononostante, la ex Birmania vanta ingenti risorse naturali tuttora inesplorate e offre una vasta manodopera che le multinazionali potranno sfruttare a costi irrisori.

Alcune delle iniziative che il regime sta intraprendendo per facilitare l’ingresso dei capitali esteri nel paese sono state descritte dal vice governatore della Banca Centrale birmana, Maung Maung Win, in un’intervista rilasciata questa settimana al Wall Street Journal.

l governo starebbe appunto cercando di riformare il sistema finanziario con l’adozione di un regime meno restrittivo della conversione della valuta locale, nuovi piani per il rilancio della Borsa, maggiore indipendenza per la Banca Centrale e l’introduzione di carte di debito locali. Inoltre, il regime sta valutando l’ipotesi di permettere alle banche estere di operare nel paese, anche se ciò causerebbe notevoli problemi per quelle locali ancora impreparate a sostenere la concorrenza.

Ufficialmente, gli Stati Uniti e gli altri governi occidentali si dicono ancora preoccupati per le continue violazioni dei diritti umani nel paese e invitano il regime a fare di più in questo senso. In realtà, simili scrupoli servono solo per confortare l’opinione pubblica, mentre le vere apprensioni sembrano essere legate alla creazione di un ambiente sicuro per le compagnie private che a breve si precipiteranno a fare affari in Myanmar.

Le opportunità di profitto e la corsa che si sta preparando negli ambienti finanziari e imprenditoriali occidentali e non solo, sono d’altra parte ben note. Il Fondo Monetario Internazionale, ad esempio, ha recentemente pubblicato uno studio che mette in risalto “l’elevato potenziale di crescita” di un paese che “potrebbe diventare la prossima frontiera economica in Asia”. Il rapporto sosteneva che il provvedimento più urgente era mettere fine al tasso parallelo di cambio del kyat birmano, cosa che il regime ha prontamente fatto pochi giorni prima del voto di domenica scorsa.

L’evoluzione dei rapporti tra Occidente ed ex Birmania, in ogni caso, non ha praticamente nulla a che fare con la promozione della libertà e della democrazia in quest’ultimo paese. Le “riforme” del sistema economico e finanziario in senso liberista che il regime sta mettendo in atto, nonostante vengano puntualmente associate dai governi e dai media occidentali a quelle politiche, porteranno infatti benefici solo per la ristretta oligarchia che controlla il potere in Myanmar e, tutt’al più, per la borghesia birmana filo-occidentale rappresentata dall’LND di Aung San Suu Kyi.

Le misure per attirare investimenti dall’estero provocheranno, per cominciare, un rapido aumento del livello di inflazione che andrà a colpire in maniera pesante la maggior parte della popolazione impoverita del Myanmar. Le altre “riforme” che si stanno preparando sono allo stesso modo intese a favorire i grandi interessi esteri e le élite locali, come l’esenzione fiscale per almeno cinque anni per gli investitori stranieri, le garanzie contro eventuali progetti di nazionalizzazione e l’eliminazione dell’obbligo di avere partner birmani per coloro che intendono fare affari in Myanmar. Il piano di privatizzazione delle compagnie pubbliche, infine, causerà la perdita di migliaia di posti di lavoro e, con ogni probabilità, un abbassamento delle retribuzioni.

Per consentire al regime di portare a termine questo processo che causerà un aggravamento delle disuguaglianze sociali, giocheranno un ruolo fondamentale Aung San Suu Kyi e il suo partito, reintegrati nella politica birmana appositamente per mediare il riavvicinamento con l’Occidente e, in prospettiva futura, per contenere il malcontento e le tensioni sociali che inevitabilmente esploderanno nel paese.

di Michele Paris

Con le tre vittorie conquistate martedì in altrettante primarie, Mitt Romney appare sempre più vicino alla nomination repubblicana. In quella che a tutti gli effetti è apparsa come una giornata decisiva per la corsa alla Casa Bianca, il miliardario mormone ha superato i propri rivali in Wisconsin, nel Maryland e nel Distretto federale di Columbia, a Washington.

La sfida più importante ed equilibrata era quella del Wisconsin, dove Romney ha ottenuto risultati convincenti anche tra quei votanti - conservatori, evangelici, aderenti ai Tea Party ed elettori meno istruiti e con redditi inferiori ai 50 mila dollari - che spesso nelle precedenti primarie gli avevano preferito Rick Santorum.

In Wisconsin, la composizione dell’elettorato repubblicano ha comunque consentito all’ex senatore ultraconservatore della Pennsylvania di rimanere in qualche modo competitivo. Qui, Romney ha raccolto il 42,5% dei consensi, staccando di quasi 5 punti Santorum (37,6%). Più indietro, e ormai fuori dai giochi, sono giunti il deputato libertario del Texas, Ron Paul (11,7%), e l’ex speaker della Camera, Newt Gingrich (6,1%).

Nelle altre due primarie di martedì, Romney ha vinto invece con un margine decisamente superiore, grazie alla prevalenza di elettori della media e alta borghesia suburbana che si sono recati alle urne. Nel Maryland, il 49,1% dei votanti si è espresso per il “front-runner” repubblicano e il 28,9% per Santorum. Nel District of Columbia, Romney ha addirittura sfondato la soglia del 70%, davanti a Paul (12%) e a Gingrich (10,7%), mentre Santorum non era nemmeno sulle schede elettorali. Le tre competizioni mettevano il palio un totale di 98 delegati, conquistati in gran parte da Mitt Romney.

Un nuovo rovescio decisivo per le residue velleità di nomination di Santorum è dunque arrivato ancora una volta da uno stato del Midwest, a testimonianza della sua incapacità non solo di eguagliare Romney sul piano finanziario, ma anche e soprattutto di allargare il suo appeal agli elettori di orientamento più moderato. Fino a qualche settimana fa, Santorum era dato in vantaggio in Wisconsin ma è stato progressivamente scalzato dal suo rivale, come era puntualmente accaduto in Ohio e in Michigan. La traiettoria calante di Santorum nel Midwest era peraltro già stata annunciata dalle più recenti primarie dell’Illinois, dove Romney si era imposto con un margine ben più consistente.

L’esito del voto in Wisconsin era guardato con particolare attenzione anche perché questo stato viene considerato in equilibrio tra repubblicani e democratici in vista di novembre. Nelle presidenziali, in realtà, l’ultimo candidato repubblicano ad aggiudicarselo è stato Ronald Reagan nel 1980, ma la rapida perdita di consensi di Obama a livello nazionale dopo la sua elezione nel 2008 ha determinato un risveglio della destra repubblicana, la quale sotto la spinta dei Tea Party nel 2010 ha messo le mani su entrambi i rami del parlamento locale e sulla carica di governatore.

Proprio il governatore del Wisconsin, Scott Walker, all’indomani del suo insediamento aveva proposto, e successivamente fatto approvare, una serie di impopolari misure anti-sindacali e fortemente penalizzanti per i dipendenti pubblici. Queste politiche hanno scatenato proteste e tensioni sociali senza precedenti in America negli ultimi tre decenni, dando vita ad un movimento di opposizione che misurerà la propria forza in una speciale elezione per rimuovere lo stesso governatore Walker il prossimo mese di giugno.

Le difficoltà che Santorum sta incontrando nel mese di aprile erano in ogni caso già state messe in preventivo dal suo team. Dopo il voto di martedì, il calendario repubblicano prevede per il giorno 24 le primarie di Connecticut, Delaware, New York, Rhode Island e Pennsylvania, tutte tranne l’ultima nettamente favorevoli a Romney. L’obiettivo di Santorum è così quello di limitare i danni in queste settimane per poi affrontare competizioni più agevoli a maggio in stati del sud e dell’ovest degli Stati Uniti, come North Carolina e, soprattutto, Texas.

Le ripetute affermazioni di Mitt Romney, tuttavia, lo stanno posizionando sempre più come inevitabile favorito per la nomination, così che nelle prossime settimane le pressioni su Santorum per abbandonare la corsa aumenteranno inevitabilmente. Se Santorum dovesse poi uscire sconfitto dalle primarie nel suo stato, la Pennsylvania, le chances di poter riprendere fiato a maggio, a quel punto, diventerebbero per lui pressoché inesistenti.

Secondo i più recenti sondaggi, Santorum conserva attualmente circa 6 punti percentuali di vantaggio su Romney nello stato che ha rappresentato al Senato per 16 anni, anche se l’ex governatore del Massachusetts ha da poco iniziato un’aggressiva campagna per ribaltare gli equilibri della sfida. Va ricordato comunque che le speranze di Santorum non sono legate alla possibilità di ottenere il numero di delegati necessari per assicurarsi la nomination, bensì unicamente al tentativo di impedire a Romney di raggiungere questo obiettivo al termine delle primarie e di giocarsi il tutto per tutto durante la convention del partito ad agosto.

D’altra parte, il vantaggio nel numero di delegati finora accumulati da Mitt Romney appare incolmabile per i suoi sfidanti. Secondo il conteggio non ufficiale della Associated Press aggiornato a mercoledì, Romney avrebbe un totale di 655 delegati, Santorum 278, Gingrich 135 e Paul 51. Per conquistare automaticamente la nomination repubblicana sono necessari 1.144 delegati.

Un altro segnale che sembra confermare la direzione ormai irreversibile presa dalla competizione repubblicana è il primo scambio di accuse a distanza tra Romney e il presidente Obama in previsione della campagna vera e propria che porterà all’election day del 6 novembre.

Nella giornata di martedì, il presidente democratico ha per la prima volta criticato Romney citandolo per nome nell’ambito di un attacco alla recente proposta di bilancio presentata dai repubblicani alla Camera e fatta di tagli devastanti alla spesa pubblica. Romney, a sua volta, nel discorso tenuto a Milwaukee dopo la diffusione dei primi risultati del voto in Wisconsin, ha preso di mira Obama per la sua incapacità a risolvere i problemi del paese senza fare alcun riferimento ai rivali repubblicani.

La sicurezza crescente del team di Romney è testimoniata anche dall’annuncio dell’avvio della raccolta di fondi destinati alla campagna elettorale per le presidenziali e dell’imminente coordinamento delle strategie finanziarie con l’organizzazione nazionale del Partito Repubblicano.

La sempre più marcata aggressività dello staff che lavora alla rielezione di Obama, infine, sta convincendo i vertici repubblicani della necessità di chiudere al più presto la sfida interna per la nomination, così da concentrarsi sull’inquilino democratico della Casa Bianca in vista di novembre. Tanto più che i sondaggi indicano un allargamento del vantaggio di Obama su Romney, come quello più recente della CNN, secondo il quale il presidente avrebbe un margine di 11 punti sul rivale repubblicano (54% a 43%) a livello nazionale e di 9 punti (51% a 42%) nei dodici stati considerati in bilico tra i due candidati.

Nelle prossime settimane, sono prevedibili perciò nuovi inviti a Santorum per fare un passo indietro e, nonostante le perplessità della destra del partito, un ulteriore compattamento dei ranghi in casa repubblicana attorno a Mitt Romney. Nei giorni che hanno preceduto il voto di martedì, questa evoluzione è stata confermata anche dall’appoggio ufficiale incassato dal favorito per la nomination di autorevoli membri del partito come l’ex governatore della Florida, Jeb Bush, ma anche del Senatore di quest’ultimo stato, Marco Rubio, e dell’influente presidente della commissione Bilancio della Camera, Paul Ryan, entrambi conservatori di ferro e, non a caso, considerati tra i più probabili candidati alla vice-presidenza in un’ipotetica amministrazione Romney.

di Michele Paris

Le elezioni speciali andate in scena domenica scorsa in Myanmar per l’assegnazione di alcune decine di seggi parlamentari, secondo i dati non ufficiali hanno premiato largamente la Lega Nazionale per la Democrazia (LND) di Aung San Suu Kyi. La stessa icona della lotta democratica nella ex Birmania avrà la possibilità di entrare nella Camera bassa dell’Assemblea legislativa a fianco dei rappresentanti di una giunta militare contro cui, fino a pochi mesi fa, ha combattuto strenuamente e che l’ha privata della libertà per la maggior parte degli ultimi due decenni.

Anche se per i risultati definitivi sarà necessario attendere ancora qualche giorno, già poco dopo la chiusura delle urne la stessa LND aveva annunciato il successo in almeno 43 dei 44 seggi per i quali aveva presentato propri candidati. Lunedì, poi, anche i media del regime hanno confermato sostanzialmente questi dati, assegnando 40 seggi all’LND, mentre negli altri cinque i risultati sarebbero ancora incerti.

Nelle elezioni suppletive di domenica erano in palio 45 seggi, vale a dire circa il 7% dei 664 totali che compongono i due rami del parlamento birmano. I candidati della Lega Nazionale per la Democrazia avrebbero prevalso anche in quattro distretti della capitale, Naypyidaw, dove vivono soprattutto militari e impiegati ministeriali. Aung San Suu Kyi ha trionfato invece nel distretto rurale di Kawhmu a sud della città principale, Yangon, e per lei ora si parla addirittura di un possibile incarico ministeriale.

Per la prima volta dal 1990, quando l’LND vinse a valanga le elezioni ma i militari impedirono a San Suu Kyi di formare un governo, in questi giorni migliaia di persone sono scese nelle strade per festeggiare l’esito di un voto, mostrando a tutto il mondo il fortissimo desiderio di cambiamento diffuso nel paese dopo cinque decenni di dittatura.

Il voto è stato seguito dai commenti positivi dei governi occidentali. Una nota ufficiale della Casa Bianca, ad esempio, ha definito la tornata elettorale “un passo importante nella trasformazione democratica della Birmania”. La numero uno della diplomazia europea, Catherine Ashton si è a sua volta congratulata con il governo e il popolo del Myanmar per le modalità con cui si sono svolte le elezioni.

Alla vigilia del voto, San Suu Kyi e i portavoce del suo partito avevano denunciato intimidazioni ai danni dei loro sostenitori, mentre domenica sono stati segnalate alcune decine di brogli. Queste pratiche, tuttavia, risultano insignificanti per gli standard del Myanmar e non sono state coordinate con i vertici del regime, poiché è stato proprio quest’ultimo a volere l’ingresso del premio Nobel per la Pace birmano e dell’LND nella vita politica del paese in risposta alle richieste dell’Occidente per aprire un percorso di riconciliazione. Per la prima volta, così, il voto è stato monitorato da varie delegazioni di osservatori stranieri, tra cui quelle inviate dall’ASEAN (Associazione delle Nazioni dell’Asia Sud-Orientale), dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea.

Secondo la tesi sostenuta dai principali media occidentali, il voto di tre giorni fa in Myanmar e la partecipazione dell’LND sono solo le più recenti di una serie di riforme intraprese dal regime per allentare il controllo totalitario sulla vita politica e l’economia del paese. Il processo di transizione era iniziato con le elezioni farsa del 2010 - boicottate dall’LND che fu perciò costretta a sciogliersi - in seguito alle quali la giunta militare ha ceduto il potere ad un governo nominalmente civile.

Sotto la guida del nuovo presidente, nonché ex primo ministro, generale Thein Sein, sono stati poi liberati centinaia di prigionieri politici, eliminate alcune restrizioni alla libertà di stampa e, soprattutto, adottate misure per aprire il paese del sud-est asiatico alla penetrazione del capitale estero. Come ha ricordato il Wall Street Journal, solo pochi giorni fa il governo birmano si era mosso per liberalizzare il cambio della valuta nazionale (kyat), in precedenza tenuta ad un livello artificialmente alto. Il provvedimento contribuirà ad attrarre maggiori investimenti esteri da compagnie impazienti di fare affari in un paese autoritario dove sarà disponibile una vasta manodopera a basso costo.

Le cosiddette riforme democratiche in corso in Myanmar, a ben vedere, rispondono piuttosto ad un disegno del regime per svincolarsi dalla dipendenza pressoché esclusiva dalla Cina, soprattutto in ambito economico, riequilibrando la propria politica estera grazie ad un certo riavvicinamento all’Occidente.

La Cina, oltre ad avere preso frequentemente le parti della giunta militare in ambito internazionale, ha investito massicciamente in progetti di sviluppo nella ex Birmania, così da assicurarsi un rapporto privilegiato con un paese che dispone di importanti risorse naturali e che, soprattutto, è situato in una posizione strategica per gli interessi di Pechino. Affacciato sull’Oceano Indiano, il Myanmar costituisce infatti un punto di transito fondamentale per le importazioni energetiche cinesi dal Medio Oriente, consentendo di evitare la rotta obbligata che passa attraverso lo Stretto di Malacca, potenzialmente a rischio di blocco da parte dei militari statunitensi di stanza nell’area in caso di crisi.

La possibilità di limitare l’espansione dell’influenza cinese nella regione, assieme alla prospettiva di aprire un nuovo mercato per il proprio business, ha convinto l’Occidente a raccogliere i segnali di disponibilità provenienti dal Myanmar. Prima di aprire un qualche dialogo era però necessario ottenere qualcosa in cambio per convincere l’opinione pubblica internazionale della serietà del processo di trasformazione democratica intrapreso dal regime.

In quest’ottica è stata fondamentale la riabilitazione di Aung San Suu Kyi la quale, rappresentando quei settori filo-occidentali della borghesia birmana emarginati dal regime militare e desiderosi di beneficiare dell’apertura del paese agli investimenti esteri, si è dimostrata pronta a raccogliere l’invito del nuovo governo e a partecipare alla competizione elettorale di domenica scorsa.

Dopo le prime “riforme” di questi mesi, il dibattito in Occidente sul Myanmar si sposterà con ogni probabilità nelle prossime settimana sull’opportunità di eliminare le sanzioni economiche e commerciali che vari paesi (USA, UE, Australia e Canada) hanno applicato negli anni scorsi a causa delle regolari violazioni dei diritti umani da parte della giunta militare.

L’Unione Europea, secondo fonti citate lunedì dal Wall Street Journal, dovrebbe discutere delle sanzioni in un meeting in programma il 23 aprile. All’ordine del giorno potrebbe esserci la soppressione di alcune limitazioni minori agli scambi commerciali con il Myanmar, mentre ancora lontana rimane la cancellazione di tutte le sanzioni, così come dell’embargo sulla vendita di armi.

Il risultato del voto di domenica, secondo alcuni commentatori, avrebbe generato un certo panico tra i vertici del regime in vista del voto per il rinnovo dell’intero Parlamento nel 2015. In realtà, il regime è ben consapevole del malcontento che pervade la popolazione e si aspettava un voto molto positivo per il partito di Aung San Suu Kyi. Le divisioni all’interno dell’élite di potere circa la direzione intrapresa dal governo, in ogni caso, è probabile che esistano, anche se sembrano riguardare più che altro l’opportunità di sganciarsi da una Cina che continuerà comunque ad avere un ruolo di spicco nella vita del paese per scommettere sul riavvicinamento agli Stati Uniti e ai loro alleati.

Un dilemma simile travaglia d’altra parte le classi dirigenti di quasi tutti i paesi del sud-est asiatico, i quali si trovano a fare i conti con una dipendenza economica sempre più marcata con Pechino e le pressioni o i legami politici e militari tradizionalmente coltivati con Washington in un frangente storico che vede il ritorno prepotente degli USA in Estremo Oriente in funzione anti-cinese.

Per quanto riguarda il Myanmar, infine, nonostante sia innegabile una certa apertura del paese, i cambiamenti di questi mesi sono in gran parte di facciata. Il partito politico espressione della ex giunta militare (Partito Unione Solidarietà e Sviluppo, USDP), infatti, detiene tuttora il monopolio del potere, così che il ruolo dell’LND di San Suu Kyi sarà tutt’al più quello di mediare tra il regime e l’Occidente. Repressione e violazioni dei diritti umani continuano inoltre ad essere documentate quotidianamente, soprattutto nelle regioni settentrionali popolate da inquiete minoranze etniche che da decenni si battono contro il governo centrale.

di Michele Paris

Il secondo summit dei cosiddetti “Amici della Siria” è andato in scena domenica scorsa a Istanbul, dove, sotto la guida degli Stati Uniti, si sono riuniti i rappresentanti di oltre 70 paesi per intensificare l’opera di destabilizzazione ai danni del regime di Bashar al-Assad. Il vertice, dopo quello organizzato a febbraio in Tunisia, è giunto a pochi giorni dall’accettazione anche da parte di Damasco del piano di pace dell’ex segretario generale dell’ONU, Kofi Annan, apparso proprio ieri di fronte al Consiglio di Sicurezza per fare il punto della situazione nel paese mediorientale.

Il piano di Annan era stato approvato da Russia e Cina dopo lo stralcio della richiesta esplicita delle dimissioni di Assad e l’inclusione di un appello rivolto anche ai “ribelli” armati a fermare le ostilità. Per Mosca e Pechino, l’appoggio alla missione sponsorizzata dall’ONU e dalla Lega Araba appare come il tentativo di risolvere la crisi in Siria con mezzi diplomatici, così da tenere in vita un alleato fondamentale per i loro interessi nella regione.

Come ha chiarito la stessa conferenza di Istanbul, tuttavia, gli Stati Uniti, i governi europei, la Turchia e le monarchie assolute del Golfo Persico intendono utilizzare il piano Annan come hanno già fatto con le precedenti iniziative diplomatiche, a cominciare dalla missione degli osservatori della Lega Araba fatta naufragare da Arabia Saudita e Qatar, cioè unicamente come arma per esercitare ulteriori pressioni sul regime fino alla sua caduta.

In quest’ottica, qualsiasi gesto o apertura da parte del presidente siriano non sarà comunque sufficiente, poiché l’obiettivo unico degli USA e dei loro alleati rimane il cambio di regime a Damasco, senza nessuno scrupolo per le possibili conseguenze di un intervento militare esterno, per l’appoggio dato ad un’opposizione dalla dubbia popolarità nel paese o per l’esplosione delle violenze settarie che si stanno pericolosamente alimentando nel paese.

A conferma di ciò, le dichiarazioni uscite dal vertice di Istanbul sono state puntualmente all’insegna delle minacce. Il premier turco, Recep Tayyp Erdogan, ha ad esempio affermato che “se il regime siriano non collaborerà con Annan, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU dovrà adempiere alle proprie responsabilità per mettere fine al massacro”. Per il padrone di casa della conferenza, inoltre, “se il Consiglio di Sicurezza dovesse nuovamente sfuggire a questa responsabilità storica, la comunità internazionale non avrà altra scelta che appoggiare il diritto all’auto-difesa del popolo siriano”.

Mentre tutte le delegazioni presenti domenica in Turchia non hanno esitato a puntare ancora una volta il dito contro Assad per non aver implementato il piano Annan, nessuno ha ritenuto opportuno ricordare come la stessa proposta di pace preveda lo stop alle violenze anche per l’opposizione armata. Per Damasco, la cessazione unilaterale delle operazioni militari nel paese senza una simile iniziativa dei “ribelli” rappresenterebbe infatti un vero e proprio suicidio.

Per il Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, “dopo quasi una settimana, dobbiamo concludere che il regime ha fatto una nuova aggiunta alla sua lunga lista di promesse non mantenute”. Per questo, secondo la ex first lady, “il mondo deve giudicare Assad per le sue azioni e non per le sue parole”.

Quest’ultima frase di Hillary esprime alla perfezione tutta l’ipocrisia che avvolge la politica estera statunitense, dal momento che parole simili potrebbero essere applicate precisamente ai crimini commessi dall’imperialismo americano nel mondo e nascosti dietro la retorica della democrazia e dell’intervento “umanitario”.

Proprio per aprire la strada ad un intervento esterno era stato creato il gruppo degli “Amici della Siria”, in modo da scavalcare il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, dove nei mesi scorsi risoluzioni anti-Assad erano state bloccate dal veto di Russia e Cina per evitare il ripetersi della vicenda libica.

I governi di Mosca e Pechino, vale a dire i principali alleati di Damasco, erano entrambi assenti dal vertice di Istanbul. Nella metropoli turca erano invece presenti i rappresentanti del Consiglio Nazionale Siriano (CNS), il cui numero uno, Burhan Ghalioun, prima dell’apertura dei lavori ha invitato i governi presenti ad aumentare il loro impegno per armare il Libero Esercito della Siria e aprire al più presto corridoi “umanitari” nel paese, sostanzialmente una copertura per un intervento militare esterno.

Gli “Amici della Siria” si sono ancora una volta dimostrati poco interessati alle profonde divisioni interne al Consiglio Nazionale Siriano o alle recenti accuse di crimini guerra rivolte da Amnesty International ai gruppi armati che da esso dovrebbero dipendere. Il CNS è infatti stato riconosciuto domenica come “legittimo rappresentante di tutti i siriani”, anche se per il momento non l’unico.

La promozione del CNS e del Libero Esercito della Siria è proseguita con la conferma da parte di Hillary Clinton dell’impegno americano a fornire equipaggiamenti “non letali” all’opposizione, come aveva anticipato settimana scorsa a Seoul il presidente Obama in un faccia a faccia con Erdogan a margine di un summit sul nucleare tenuto nella capitale sudcoreana.

Il materiale promesso consisterebbe soprattutto in sofisticati sistemi di comunicazione per permettere un più efficace coordinamento non solo nella progettazione di attacchi contro le forze e le installazioni del regime, ma anche in vista di un eventuale intervento militare esterno.

A Istanbul si è discussa poi la creazione di un fondo a favore del CNS, anche se non è stato raggiunto un accordo sull’impiego del denaro da raccogliere. Paesi come Arabia Saudita, Emirati Arabi e Qatar, sebbene lo facciano già da tempo in maniera non ufficiale, spingono per fornire armi ai “ribelli”, mentre Washington, Ankara e l’Europa sembrano nutrire ancora qualche riserva.

Secondo le cifre fornite dai rappresentanti del CNS, starebbero per essere stanziati 176 milioni di dollari per assistenza “umanitaria” e 100 milioni per pagare direttamente i salari dei membri dell’opposizione armata. Questi ultimi diventeranno così a tutti gli effetti veri e propri mercenari al servizio delle potenze imperialiste occidentali per rovesciare un regime sgradito.

Nella dichiarazione finale degli “Amici” è stata inclusa la richiesta a Kofi Annan di stabilire una scadenza oltre la quale dovranno essere decisi i prossimi passi da fare per risolvere la crisi siriana. Lunedì al Consiglio di Sicurezza ONU, l’ex segretario generale ha così annunciato il prossimo 10 aprile come data concordata con Damasco per l’inizio dell’implementazione del piano. L’ambasciatore siriano al Palazzo di Vetro, Bashar Jafari, ha confermato l’impegno, vincolato però al rispetto del cessate il fuoco anche da parte dell’opposizione.

Sempre a Istanbul, i delegati dei governi hanno inoltre deciso di istituire un gruppo di lavoro per monitorare quei paesi che continuano a fornire armi o altro supporto al governo Assad. Questi movimenti, peraltro, sono ratificati da contratti legali stipulati con un governo legittimo, a differenza dei traffici illegali che dal Golfo vanno ad alimentare le violenze in Siria.

Infine, è stato raggiunto un accordo per facilitare la raccolta di prove che documentino la repressione del regime in vista di futuri processi per crimini di guerra contro Assad e la sua cerchia di potere. Questo sforzo, com’è ovvio, non comprende le prove di torture, rapimenti e uccisioni arbitrarie, anche a danno di civili, di cui si stanno macchiando i “ribelli”.

Il summit di Istanbul è stato duramente condannato dalla Russia che lo ha definito una distrazione dalla missione diplomatica di Annan e un nuovo tentativo di destabilizzare la Siria per aprire la strada ad un intervento militare. Il livello di impegno per la risoluzione pacifica della crisi da parte degli “Amici della Siria” è risultato d’altra parte evidente dall’esclusione dalla conferenza di quei gruppi dell’opposizione che hanno mostrato una certa disponibilità ad aprire un dialogo con il regime.

È il caso, questo, del Comitato di Coordinamento Nazionale Siriano, che, come ha scritto sabato Bloomberg News, dovrebbe incontrare il ministro degli Esteri russo Lavrov a Mosca tra un paio di settimane per discutere proprio quel piano Annan che, a differenza del CNS, i suoi vertici hanno approvato e che potrebbe però essere ben presto superato dai fatti.


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